lunedì 15 settembre 2008

Cagliari capitale linguistica dei sardi

di Alberto Areddu

Nel 1950 usciva a Berna un saggio destinato a minare la civile convivenza dei parlanti sardo, e tale attentato stava inciso già nel suo titolo: ‘La lingua (e non: "dialetti", "parlata") sarda' del benemerito Max Leopold Wagner, che una vita aveva dedicato alla ricerca sul campo in Sardegna. Da quel momento fu o doveva esser ben chiaro a tutti (linguisti e no) che le eventuali istanze di riconoscimento linguistico (e quindi correlatamente politico) per i Sardi avevano un imprimatur indefettibile.
Che il Wagner poco si fosse interessato delle altre forme linguistiche d'Italia (abruzzese, ligure, marchigiano ecc.), che il Wagner avesse avuto dei problemi di reinserimento sociale per l'essere tedesco (e quindi attraversato dal livore di chi non riesce, in epoca postbellica, ad avere una cattedra italiana) poco caleva ai vari gruppi che già prima e poi dopo si erano armati della dialettica politica per esporre rivendicazioni indipentistiche o al meno autonomistiche dal centro romano: il più importante studioso del sardo si era pronunciato: il sardo era una lingua tout court.
Gerald Rohlfs, studioso vissuto molto più a lungo del suo connazionale, mai si avvicinò a pronunciare la parola "lingua" per i dialetti che studiava, anzitutto perché nessuno in quelle regioni emetteva proclami riguardo il suo esser prigioniero di uno stato estero o era interessato al fatto di una separazione, e anche perchè lui capiva che ciò che trovava nelle sue ricerche era lo stadio frammentizio di un'epoca trascorsa, magari gloriosa, marcata da una grecità molto antica (e non moderna o bizantina, se no, volendo, lui o i greci dello stato moderno avrebbero potuto esigere per gran parte del Sud Italia un immediato ricongiungimento alla madre Ellade).
Passano i decenni, le discussioni, gli alterchi, e circa 10 anni fa a S'Ala Birdi si raduna un bel manipolo di linguisti e conoscitori del sardo per sfornare lo schema di quella che sarebbe dovuta esser la lingua ufficiale dei sardi del Terzo Millennio, denominata con l'acronimo LSU (lingua sarda unificata); gran parte degli stessi che a quel documento aveva lavorato (dove esser stata in albergo a cinque stelle per qualche giorno, a spese del contribuente) sottoscrisse poi un altro documento, in cui si dissociava dalla piega presa dal documento ufficiale. Alla LSU hanno lavorato e tuttora lavorano prevalentemente studiosi originari dell' area nuorese e barbaricina (tra i fautori il nostro moderatore).
Circa cinque anni fa evidentemente perché il letto di Procuste della sardità questo doveva esser, nasceva ad Oristano un nuovo movimento autodenominatosi LSM (lingua sarda di "mezzavia"), che reputando il precedente movimento artefatto e sbilanciato verso il Nord logudorese, proponeva e propone una lingua a mezza strada tra le due entità clou del sardo, e non con un dialetto astratto, computeristico e irrealizzabile, bensì con quello genuino del paese di Samugheo (o all'incirca). Entrambe le compagini ricevono fondi regionali (non so in che percentuale rispettivamente) entrambe hanno acquisito giovani fuoriusciti dai masters di linguistica sarda sponsorizzati dalla Regione e dalla Facoltà di Lettere (mercé il suo geniale ex preside, quello che ci erudisce sul wagneriano Geist der Sprache), giovani che in attesa di trovare un posto fisso nell'establishment, vengono messi - mica a realizzare idee nuove - bensì a tradurre pezzi del burocratese italiano in quello isolano.
Basterebbe leggere qualche rivolo di questo "similsardo", zeppo della cianfrusaglia terminologica ed espressiva dell'italiano, presso i nostri cimiteri perché i nostri antenati si rivolterebbero immediatamente nelle tombe: ma glielo risparmio. Non me ne voglia ora il nostro moderatore che crede nel primo progetto, ma io temo che tali operazioni, chiamiamoli esperimenti, non servano molto a generare una lingua davvero moderna. Posto che, come ho instillato, il sardo non ha più atout di quanti ne abbia l'abruzzese (quanti di noi si sono mai sfogliati i 6 enormi tomi del vocabolario abruzzese-molisano del Giammarco?) per rivendicare sulla base linguistica un alcunché di altro e di più, sta di fatto che se i Sardi (e non pochi tra di essi) credono giusto che per ragioni storiche, di "risveglio" umano (tradotto: "siamo sempre stati poca cosa e ora vogliamo dimostrare di farcela coi nostri passi"), di legittimo orgoglio naturale ed economicistico ("perché i nostri soldi e le nostre case vanno a romani e milanesi?"), decidono di avere una lingua moderna, allora la via che si è presa non mi pare quella giusta.
In tutti gli stati normali (o prossimi potenziali stati) o si ha una lingua letteraria data sulla quale lavorare (alcuni ventilarono il cosiddetto logudorese illustre, di fatto un prodotto del gesuitismo sette-ottocentesco) oppure ci si orienta verso il luogo che ha le potenzialità per realizzare questa unificazione (In genere il capoluogo). Come mai dunque Cagliari non è stata mai neppure per un attimo nei propositi degli onomaturghi su detti?
Cagliari ha un bacino di utenza vasto che parla un dialetto non troppo dissimile, ha porto, aeroporto, TV, università, un'economia in ascesa, ha un discreto giornale locale. Come mai dunque non è stata ovviamente selezionata? La risposta o le risposte possono esser le più varie: dall'origine degli studiosi, al fatto che il campidanese è reputato "meno puro" del logudorese, dalla disistima che i logudoresi hanno per il campidanese, per cui si teme ci sarebbe una guerra intestina.
Insomma ciò ed altro, non accorgendosi invece che il cagliaritano potenziale futuro sarebbe ben diverso da quello attuale, proprio perché divenendo da scheletro dialettale a lingua di tutti i sardi ognuno vi apportebbe qualcosa di suo, fugace o duraturo, e sperabilmente sarebbe una lingua moderna, plastica e cittadina, molto dissimile da quegli aborti che i nostri avi aborrirebbero se solo potessero sentire e che a noi invece è dato di sentire.
[P.S: sul progetto mesanista una mia critica a suo tempo]

Il suo, caro Areddu, è un parere assolutamente rispettabile. Meno onorevole (mi permetto di intromettermi, visto che mi chiama in causa) sono la superficialità della ricostruzione storica delle vicende e il malvezzo di sospettare tornaconti personali dietro passioni e idee diverse dalle sue. La prima conferenza, prevista per legge, tenutasi ad Ala Birdi non ha distribuito denari ad alcuno. E prendersela con gli impiegati in sos ufìtzios de sa limba sarda, anche essi frutto di disposizioni di legge, è – mi permetta la franchezza – un po’ mascalzonesco. Essi traducono in sardo il linguaggio della burocrazia italiana perché assunti anche per questo: invece di prendersela con chi per istituto maneggia il linguaggio amministrativo (per questo è nata la Limba sarda comuna), non sarebbe il caso di prendersela con il burocratese? (gfp)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il sardo è un dialetto senza valore, che non serve a niente.

Prof. Mario Pesce