lunedì 30 giugno 2008

Sardi=Shardana: intervista con Giovanni Ugas (1)

A destra: la famosa immagine del tempio egiziano di Medinet Habu, in cui compaiono i guerrieri shardana



Ma i sardi del periodo nuragico erano davvero i famosi e temibili Shardana? Il professor Giovanni Ugas, archeologo e insegnante di archeologia nell'Università di Cagliari è convinto di sì. E alle vicende dell'antico popolo di Sardegna dedica da tempo la sua attenzione, lavorando alla scrittura di un testo che, senza dubbio, farà molto rumore. Con il professor Ugas ho avuto una intervista di cui oggi pubblico la prima parte. Nella seconda parte, domani, si parlerà di scrittura ai tempi degli shardana e di lingua sarda.

D. Fra quanti e sono sempre più numerosi, si interessano di archeologia c'è molta attesa per il suo libro sugli Shardana. A che punto è?

Il lavoro è da qualche tempo in dirittura d’arrivo e mi spiace che per varie ragioni non sia ancora uscito dalle stampe. Spero (e che sia la volta buona) che il libro veda la luce entro i primi mesi del prossimo anno.

D. Mano a mano che procede lo studio, e la sua traduzione in iscritto, trova punti deboli o punti che rafforzano la sua convinzione che Shardana e Sardi fossero, in un certo lungo momento della storia, lo stesso popolo?

A mio avviso, le più recenti investigazioni archeologiche, storiche ed epigrafiche consentono una più chiara lettura della problematica relativa ai Popoli del mare, benché non siano pochi i nodi ancora da sciogliere. I miei studi, già dai primi anni novanta, mi hanno indotto a ritenere che non debbano esserci dubbi sul fatto che gli Egizi del Nuovo Regno, così come più tardi i Fenici, abbiano impiegato la grafia Shrdn per indicare gli abitanti della Sardegna.


D. Si è fatta un'idea del perché ci sia resistenza ad accettare quel che per lei è una certezza?

Negli anni settanta, anch’io avevo diverse perplessità riguardo all’identificazione degli Shardana. Ora, pur essendo io ben saldo nelle mie convinzioni, è comprensibile che altri siano di parere diverso. Ciò dipende sia dalla formazione delle persone, sia dalla conoscenza della problematica. Dunque, capisco chi non la pensa come me. D’altronde, l’incertezza che regna sull’argomento in Sardegna è più o meno la stessa che si riscontra fuori dall’isola. Attualmente, vi sono studiosi stranieri molto quotati che ritengono che gli Shardana non provenissero dalla Sardegna, ma nel contempo per altri studiosi stranieri, non meno credibili, dicono che gli stessi guerrieri del Verde Grande vanno riconosciuti nei Sardi costruttori dei nuraghi. Ancora prevalgono i sostenitori del “no”, cioè dell’ipotesi che gli Shardana non fossero originari della Sardegna. Spero di poter convincere i lettori del contrario, ma non ho la pretesa di pensare che tutti gli studiosi che si occupano della questione interpretino allo stesso modo gli elementi che io considero prove.
In ogni caso, ciò che non è giustificabile è l’utilizzo strumentale di questo interessante mistero della storia. C’è chi, nella nostra isola, addita i sostenitori dell’identificazione degli Shardana con i Sardi come individui afflitti patologicamente di un inguaribile sardismo. D’altra parte, coloro che negano tale identità sono talora accusati di essere estranei ai valori sociali dell’isola e schiavi della politica romana. E’ un atteggiamento del tutto inaccettabile. Infatti occorrerebbe concludere allo stesso modo che gli studiosi extrainsulari identificano i Sardi con gli Shardana perchè fautori dell’indipendenza della Sardegna!
Se i Sardi vogliono rivendicare l’autodeterminazione non hanno bisogno di richiamarsi agli Shardana come gli Israeliti al Vecchio Testamento.
Parimenti è un’assurdità pensare che coloro i quali negano l’equazione Sardi = Shardana siano spinti a questa conclusione perché avversi al sardismo. In effetti, chi pensa che i Sardi debbano dipendere politicamente da Roma può farlo anche nel caso del riconoscimento dei Sardi con gli Shardana.
Sentirsi Sardo e non Italiano, Italiano e non Sardo, oppure Sardo e Italiano ad un tempo, è un atto di consapevolezza personale che non ha bisogno di un sostegno storico archeologico a posteriori. La questione sul ruolo dei Sardi nell’età dei nuraghi è ben altra cosa rispetto alla disputa se sia giusto rivendicare la piena autonomia e la stessa indipendenza della Sardegna o sostenere la totale o parziale dipendenza dei Sardi dalla politica di Roma.

D. La società che in Sardegna si era prodotta con la civiltà nuragica doveva essere ben diversa da quella descritta da chi immagina i Sardi di allora poco meno che genti in costante "guerra civile", le une contro le altre, costrette ad asserragliarsi nei nuraghi per difendere i propri beni. Una immagine smentita dalle sue ricerche?

Il cammino che porta alla conoscenza della società protosarda al tempo dei nuraghi è tutt’altro che concluso, come emerge dagli studi sull’archeologia dell’ultimo quarantennio. Nel mio lavoro L’alba dei nuraghi ho cercato di spiegare le ragioni della straordinaria, inconsueta, moltiplicazione dei nuraghi (circa 7/8000) e villaggi (2500/3000) intorno al 1200-1150 a. C. L’esistenza di residenze fortificate di capi (i nuraghi) con guarnigioni più o meno grandi di guerrieri, non implica necessariamente una situazione di conflittualità permanente. Le condizioni di equilibrio erano fondate su una struttura politica i cui ruoli erano definiti da una gerarchia dinastica fondata su invalicabili vincoli parentelari matrilineari. Anzi, il mantenimento della stessa struttura politica, per oltre 600 anni dal 1600 al 1000 a. c., e il progressivo accrescimento demografico, sino a raggiungere il culmine di circa 500-750 mila abitanti, sono segni inequivocabili di condizioni di stabilità politica e di relativo benessere economico, derivanti dalla presenza di comunità prevalentemente pacifiche.
Certo, non è escluso che vi siano stati scontri tribali soprattutto ai confini tra i tre principali popoli dell’isola, gli Iliesi, i Balari e i Corsi, ma i guerrieri avevano il compito primario di garantire la signoria del capo nei confronti degli abitanti del suo distretto cantonale o di quello tribale, più che di ampliarne i confini territoriali. Non è certo un caso che i villaggi del Bronzo recente e finale siano sistematicamente privi di difese murarie. Peraltro proprio i villaggi per primi, in caso di guerra, avrebbero dovuto subire le devastazioni, ma ciò non appare affatto allo stato attuale delle ricerche. Solo negli ultimi tempi del Bronzo finale, il rifascio dei bastioni dei nuraghi e la sopraelevazione dell’ingresso, come avviene nel sito di su Nuraxi a Barumini, segnalano l’avvento di tempi difficili anche per le possenti residenze palaziali protosarde.
Una grave crisi politico-sociale ed economica interna produsse la sistematica distruzione delle cinte antemurali delle sedi tribali e cantonali che troverà l’epilogo nell’avvento di una nuova struttura politica imperniata sui governi aristocratici a struttura federale (ancora cantonale e tribale?), intorno al 900 a. C, che vide nascere la proprietà privata .
Il clima prevalentemente pacifico dell’età dei nuraghi non poteva che favorire le relazioni delle comunità sarde con altri popoli, documentate ampiamente dallo straordinario sviluppo dell’architettura e dagli scambi commerciali soprattutto col mondo egeo, e peraltro suggerite anche dai racconti dell’antica letteratura greca (viaggi in Sardegna di eroi greci come Aristeo, Iolao e Dedalo; gli assedi dei Sardi a Creta; la presenza di figure femminili come Sardoa e Medusa, nelle dinastie regali di Micene e Tirinto).

D. Quei sardi viaggiavano molto, insomma. A proposito, che ci facevano a El Ahwat, nell'attuale Israele, dove lei e Adam Zertal avete scavato qualcosa che aveva a che fare con i nuraghi?

La questione di El Ahwat, un sito collinare non lontano da Hadera e da Megiddo, indagato da Adam Zertal, per alcuni anni anche con la collaborazione dell’Università di Cagliari, è molto più complessa di quanto non appaia nei giornali. Sulla questione ho espresso il mio punto di vista in un articolo di un volume di studi archeologici in stampa in Israele. E’ verosimile che Shardana e altre genti occidentali siano stati impiegati nella guarnigione della cittadella di El Ahwat tra le truppe d’occupazione egiziane stanziate nel Vicino oriente, nel periodo che corre tra la fine del regno di Ramesse II e il regno di Ramesse III. A giudicare da alcune caratteristiche dell’architettura della cittadella e da alcuni manufatti ivi rinvenuti, gli Shardana possono aver contribuito alla costruzione e poi alla difesa delle mura per un cinquantennio (circa 1230- 1170 a.C.).
Peraltro, l’amico e collega Zertal propende a credere che gli Shardana di El Ahwat ben presto si siano resi autonomi dagli Egiziani e che el Ahwat fosse la capitale del regno degli Shardana quando, insieme agli altri Popoli del mare, e segnatamente i Filistei (gli attuali Palestinesi), essi si stanziarono nel Vicino Oriente.
Gli Shardana, almeno dalla prima metà del XIV secolo, furono al servizio come guerrieri mercenari dei re egiziani a Ugarit a Biblo e nel delta del Nilo, e poi nel XII secolo si insediarono autonomamente in una regione a Nord dei Filistei. Le tracce da essi lasciate dovrebbero essere consistenti in tutte le regioni costiere del Medio Oriente, oltre che in Egitto stesso, specie nelle opere di architettura e in altri elementi della cultura materiale, ma sinora sono tutt’altro che palesi. È indispensabile, dunque, far sviluppare la ricerca; non va dimenticato il fatto che soltanto dagli anni ottanta si è cominciato ad accertare la presenza di oggetti sardi dell’età del bronzo fuori dall’isola, in Sicilia, Creta e Grecia Continentale. Ovviamente, considerato il raggio d’azione dei movimenti degli Shardana e la posizione dell’isola al centro del Mediterraneo, se essi, come penso, sono i Sardi, questi necessariamente percorrevano con le loro imbarcazioni l’intero perimetro del grande mare fin dal Bronzo medio e recente.

domenica 29 giugno 2008

"Prima di tutto, mi parli in italiano"

L'apo mandadu a A su diretore de s’Asl de Nùgoro, a s’Ufìtziu de sa limba sarda, a Diariulimba e Tempus nostru, custa punta de billete.


“Prima di tutto, mi parli in italiano”. Est s’imposta chi a un’òmine l’at torradu, custu 28 de làmpadas, a sas tres e mesu de bortaedie, un’infermiera de su repartu radiologia de s’ispidale de Nùgoro. S’òmine ischit s’italianu che a s’infermiera, ma diferentemente dae custa, ischit chi est deretu suo faveddare in sardu.
S’artìculu 9 de sa leze 482/99 narat chi “in sos ufìtzios de sas aministratziones pùblicas, est cussentidu s’impreu orale e iscritu de sa limba amìtida a tutela”, che a sa sarda. Cussa infermiera est duncas foras de sa leze, cando cheret imperare s’impreu de una limba a unu suzetu de s’amparu prevìdidu dae sa leze de s’Istadu.
So cumbintu chi s’aministratzione de s’Asl de Nùgoro imparet a s’infermiera – no l’at a èssere traballosu de ischire chi est – chi una leze cheret respetada a gana o a mala gana e l’imparet puru a respetare sas pessones. Finas si impreant una limba chi no l’aggradat.

Glozel: intervista con Herbert Sauren

Le iscrizioni di Glozel (piccolo villaggio francese al centro di una ormai secolare disputa archeologica) hanno, come già sanno i lettori di questo blog, una nuova traslitterazione e traduzione. E' opera dell'epigrafista tedesco (da anni residente in Portogallo), Herbert Sauren, autorità in materia di lingue semitiche. L'ho intervistato.

Le iscrizioni di Glozel l’hanno convinta che la o le lingue usate dai glozeliani sono semitiche. Le sa bene che altri studiosi sono piuttosto dell’idea che si tratti di un’antica lingua greca. E allora?

C’è anche chi pensa a lingue celtiche o galliche. Una lingua può essere rilevata dalla morfologia. Per esempio, l’articolo nelle lingue romanze: o (portoghese), el (spagnolo), le (francese), il (italiano) e così via. Con le translitterazioni e traduzioni, ho preparato un vocabolario e una epigrafia. Sto ora controllando il vocabolario che è stato annotato testo per testo. La prego di pazientare ancora una settimana.
Così mi esprimo nella introduzione: “Molti lessemi sono attestati nelle iscrizioni in scrittura iberica, e sono registrati in un vocabolario più vasto. L’attestazione è segnatala da (Ib.). I parallelismi, le antinomie e il contesto di molte iscrizioni approvano la lettura. Oltre a questi dati e ai lessemi, indicati dai dizionari, si possono richiamare la grammatica delle lingue semitiche, gli elementi morfologici e la sintassi.
E, ancora, i disegni con legenda, di cui a Glozel c’è gran copia, sono bilingui perfetti e se lo stesso dizionario funziona per le 240 iscrizioni con soluzioni comprensibili, io credo che si abbiano così delle prove sufficienti.

Si può leggere in molti studi su Glozel che le tavolette di argilla sono, al più tardi, del VI secolo aC. Nel borgo di Glozel si usavano lingue semitiche ancora nel VI-V secolo o sono le datazioni ad essere erronee?

Sono le datazioni a essere errate, a parere mio. Naturalmente, una datazione certa dovrebbe esser fatta attraverso dati archeologici che, disgraziatamente, mancano nel sito di Glozel. Ciò che resta è l’evoluzione della scrittura e, nel caso delle iscrizioni di Glozel, la presenza di lettere ebraiche, arabe, greche, latine e, in più, alcune lettere arcaiche come nelle iscrizioni del II millennio, molte lettere, che appaiono nelle iscrizioni trovate in Spagna, Portogallo, Sud della Francia, ciò che io chiamo scrittura iberica.
La popolazione di Glozel e anche di altri siti non era quella omogenea di un solo popolo e di una sola lingua. Le genti sono arrivate da diverse regioni del Vicino Oriente, avevano contatti con gli indigeni, i romani, i greci, etc.

Secondo il suo studio, iscrizioni con caratteri simili a quelli di Glozel sono state trovate in Portogallo. È così?

Glozel e le pietre di Alvão (Portogallo, ndr) si trovano pressappoco allo stesso livello di evoluzione della scrittura e sempre nei gruppi semiti della famiglia delle lingue del sud-ovest, affine all’arabo. Mi piacerebbe conoscere tutte le iscrizioni delle pietre di Alvão, ma fino ad ora, il museo di Vila Real, che mi aveva inviato un testo, non risponde più per inviare il resto. Una persona di Briteiron mi aveva inviato un testo, gli ho fornito la traduzione e non ha avuto neppure la cortesia di dirmi se l’ha ricevuta.

Nella traduzione che lei fa di iscrizioni capita di trovarci di fronte a testi poetici, per così dire. È il caso della pietra che dice: “Il denaro circola. Me ne rallegro. Ma noi pensiamo che raccogliere e trattenere è una disgrazia. E la grande disgrazia è la fame. È grave. Una disgrazia è il denaro. Il denaro è una disgrazia. È rubare, la disgrazia totale è là. E no. Niente rimane in mano per noi. È un crimine, il crimine è il denaro”. Che società era la glozeliana per esprimere simili concetti?

L’amministrazione di Glozel conosceva un capo chiamato “Potente”, c’era un percettore di decime, un “terzo”, magistrati per l’emissione del denaro, c’erano giudici e dunque anche un tribunale; un testo parla della corte reale, probabilmente un reuccio. C’erano cacciatori, agricoltori, ricchi e poveri. Mancano curiosamente testi della gerarchia religiosa.
Quanto agli aspetti “poetici”, spero che non sia il traduttore a esserne colpevole. Gli scriba utilizzano spesso dei sinonimi per farsi capire e per evitare incomprensioni provocate dall’assenza della vocalizzazione e delle semi-vocali, per indicare le radici deboli dei verbi. Ma se c’è della poesia, anche questo è una prova della lingua.

sabato 28 giugno 2008

Macchè etruschi d'Egitto...

di Massimo Pittau

Caro Franco Laner ed Egregi Amici,
debbo confessare che io non sono riuscito a seguire completamente ed esattamente l’ampio e vicace dibattito che è stato fatto in queste ultimi mesi su iscrizioni, autentiche o false, trovate in Sardegna; non ci sono riuscito perché trovo molto difficile maneggiare a dovere questo strumento diabolico che è il computer e il connesso servizio internet. Ed è proprio per questo che non sono finora intervenuto sull’argomento, anche se, come molti sanno, ho una certa esperienza in fatto di studio di epigrafi antiche. Però, dato che il mio silenzio potrebbe essere interpretato male, intervengo sull’argomento, sia pure limitatamente a quanto mi è riuscito di vedere e di controllare.
Sono riuscito a vedere le fotografie – fatte bene – dei ciottoli che sarebbero stati trovati nel greto di un fiume dell’Oristanese e che portano i segni della scrittura etrusca. Ebbene, anche io ritengo che non si tratta d’altro che di “falsi”. Il falsario ha inciso quei ciottoli ricopiandovi vocaboli etruschi che ha preso da qualche pubblicazione che è in commercio, vocaboli che noi etruscologi conosciamo bene e da tempo. Però, dato che il falsario non conosce quasi nulla dell’alfabeto e della lingua etrusca, ha equivocato su certe lettere, scrivendole male.
D’altronde anche le circostanze in cui sarebbero stati rinvenuti quei ciottoli incisi spingevano a pensare immediatamente al “falso”: i ciottoli trovati tutti assieme e tutti da un solo rinvenitore….
Di certo il falsario appartiene alla categoria – purtroppo ancora molto numerosa – di individui che ritengono che “la lingua etrusca sia tutta un mistero”, mentre già io, modestamente, ho pubblicato anche l’opera La Lingua Etrusca – grammatica e lessico e addiritura il Dizionario della Lingua Etrusca (nel mio sito www.pittau.it si possono leggere le Prefazioni delle due opere).
Qualche anno fa una lettrice bolognese del mio sito mi mandò un fascicolo di una decina di pagine, le quali riportavano il testo di una supposta nuova e lunga iscrizione etrusca, che sarebbe stata incisa - niente di meno! - su lamine d’oro (quindi esattamente come quelle famose di Pirgi) e che sarebbe entrata nel patrimonio di un importante museo straniero. Controllai le prime pagine di quel fascicolo solamente per alcuni giorni, ma mi interruppi subito e scrissi alla mia lettrice che eravamo di fronte ad un grosso e ridicolo “falso”. Tutti i vocaboli che comparivano in quelle pagine erano effettivamente etruschi, ma erano stati presi da altri testi ampiamente conosciuti e poi messi insieme a casaccio…
Se effettivamente qualche Museo straniero ha comprato quelle lamine – chissà a quale altissimo prezzo! – i suoi dirigenti sono stati autentici gonzi.
Sempre dall’Oristanese mi è arrivata pure la fotografia di un’altra iscrizione etrusca che sarebbe incisa nella parete di una tomba. Purtroppo la fotografia era fatta molto male; però il primo vocabolo sono riuscito a leggerlo e anche a interpretarlo. È quindi probabile che questa iscrizione sia autentica, proprio come lo era quella che era stata rinvenuta ad Allai e che è ritornata alla ribalta in una breve ma vivace polemichetta di qualche giorno fa.
Cordiali saluti

Poscritti:
1) Anche io ritengo che Gigi Sanna abbia azzeccato bene la lettura e la interpretazione che ha fatto di una iscrizione che si trova sull’ingresso laterale della chiesetta di Santo Stefano di Oschiri. Rallegramenti all’Amico!
2) Non si tralasci di considerare quanti e quali meriti nei confronti della Sardegna si stia conquistando il “continentale” Franco Laner con la sua attività di promozione culturale e di raccordo operativo fra i cultori di cose sarde! Altro che certi “mostri sacri” che se ne stanno muti come santoni nelle loro nicchie!

Nella foto il "Dischetto di Crocores", una delle scritte cui si riferisce l'articolo.

venerdì 27 giugno 2008

Fenicio? E chi le ha detto che è fenicio?

di Giorgio Cannas

Durante il recentissimo convegno di Cagliari sulla scrittura semitica nord–Occidentale in ambito mediterraneo e in Sardegna, pubblicizzato ampliamente anche dalla stampa, a parte gli studenti (che godevano del “premio di partecipazione”) non c’era proprio nessuno. C’ero io, un signore con una barbetta bianca, Stiglitz, Blasco Ferrer, direttore del Convegno e la relatrice Maria Giulia Amadasi nota epigrafista dell’Università la Sapienza di Roma.
Dopo la relazione, ovviamente molto interessante, sulla diffusione del fenicio e le interpretazioni correnti su alcuni documenti (ad esempio la Stele di Nora), il signore con la barbetta ha fatto alcune domande tra le quali c’era quella se la professoressa fosse al corrente dei recenti studi e dei libri pubblicati dal prof. Gigi Sanna. È intervenuto subito il direttore, dicendo che l’autore citato non era conosciuto (ma forse voleva dire “riconosciuto”) in ambito scientifico perché le sue teorie non lo erano in quanto, come quelle di Giovanni Semerano, basate su assunti poco credibili.
Io so, per averlo frequentato non da poco tempo, che professor Sanna non ama Semerano ed il suo vocabolario, per il semplice motivo che a lui va di parlare solo di documenti scritti. Solo su di essi si incentra la sua attenzione, come dimostrano Sardoa Grammata (scrittura nuragica), I segni del Lossia Cacciatore (scrittura pitica o delfica greca) e, assai di recente, il suo apprezzato, perché risolutivo, intervento sulla lapide di Donna-i Masala di Oschiri.
Il Ferrer ha affrettatamente concluso dicendo che il “convegno c’era proprio per quello”, per dimostrare la fallacia e non scientificità di certe ipotesi “unanimemente” respinte dagli studiosi specialisti. Naturalmente di questa fallacia e non scientificità delle ipotesi non approvate, né degli studiosi oppositori, non si è detto nulla se non quel poco scaturito dietro una domanda innocente e divenuta, senza volerlo, quasi provocatoria.
Ma il bello è stato che la prof. Amadasi ha preso la parola per replicare che lei Gigi Sanna lo conosceva (e lo conosce) molto bene. Non si è certo dilungata nel dire il perché, ma ha aggiunto che su alcune cose era d’accordo con lui su altre no, come ad esempio sulla natura di certi segni che potrebbero essere non fonetici ma simbolici. Ma si è ben guardata dal dire che nelle tavolette fossero assenti i segni di scrittura e che tutti i documenti studiati da Gigi Sanna come nuragici fossero ridicoli o spunti per “barzellette” (così l’esimio professore nelle pagine dell’Unione Sarda di qualche anno fa).
Ecco la differenza di stile scientifico tra l’una e l’altro. La prima discute, stimola, incoraggia, promuove incontri o li accetta, ammette l’accordo su “alcune” cose (che poi, da quel che so, sono molto rilevanti al fine del riconoscimento dell’esistenza della scrittura nuragica), l’altro sta fermo, usa il silenzio assoluto, parla in “suspu”, non fa nomi, non ammette proprio nulla e nulla ha fatto per far sì che la professoressa Amadasi potesse pronunciarsi sulle nuove iscrizioni scoperte in Sardegna. E si è, soprattutto, guardato bene dal chiederle perché una studiosa nota e seria come lei avesse agevolato con tanto impegno (soprattutto in termini di spedizione di libri rari ed introvabili sulla scrittura) la ricerca assolutamente non “scientifica”, a dire del moderatore (di che?), culminata poi nel volume del professore oristanese.
Forse sperava in una sconfessione di una studiosa che, oltre che essere brava, è intellettualmente onesta. E sperava forse in quel presuntuoso dello Stiglitz (una volta, in una sua Conferenza tenuta a Milis l’ho sentito affermare, tra l’imbarazzo generale, che lui gli scavi de s’Uraki o di altri siti li conduceva mica alla carlona come Giovanni Lilliu!). La professoressa Amadasi non mi ricordava ma io, dopo la conferenza, mi sono avvicinato e le ho fatto presente che c’eravamo conosciuti a casa di Gigi Sanna in Oristano (presente anche Sergio Frau).
Quindi le ho consegnato in fotografia la scritta di Perdu Pes di Paulilatino al rovescio, così come compare nel masso della capanna. Lei la ha subito girata (non come i nostri sapientoni che non conoscono i grafemi e parlano di lettere romane) nel verso giusto esclamando: “ma questi non sono segni fenici!”. Io le ho risposto: “Ma io non le ho detto che sono fenici!”.
Così ci siamo lasciati, con i saluti cari dell’amico Gigi. Torno velocemente al Convegno. Quattro gatti davvero, una vergogna per i soldi pubblici e per gli studenti che solo con sistemi coercitivi si costringe a partecipare. Ben diverso il Seminario di Studi promosso nella Facoltà di Medicina di Sassari di due anni fa dalla prof. Maria Rita Piras, con tema “La scrittura nel Mediterraneo”; seminario dove gli studenti), gli studiosi e i comuni cittadini hanno potuto assistere all’altissimo dibattito (sulla traduzione di alcuni documenti di Glozel tremendamente difficili ) tra Remo Mugnaioni dell’Università francese di Lyon (assiriologo di fama mondiale) e il “piccolo” professorucolo di provincia.
In quell’occasione, davanti a tutti, il prof. Mugnaioni ha invitato Gigi Sanna ad una Conferenza a Lyon da tenersi quest’anno o l’anno venturo. Credo di sapere che non sia per raccontare barzellette.

Non è la prima volta che il professor Blasco Ferrer definisce Carneadi coloro che, non appartenendo alla Società degli accademici, pretendono di dire cose che solo a quella Società è consentito dire. Anche a me è capitato, durante un incontro con studenti a Jerzu. Contestavo la sua affermazione, legittima per carità ma secondo me sbagliata, secondo cui in Sardegna esistono due lingue, non varietà, proprio lingue: il cosiddetto logudorese e il cosiddetto campidanese. La tua, disse più o meno, è una posizione politica. La scienza dice altro. Va da sé, come avrebbe detto un certo sovrano, la science c'est moi. Un po' modestia non guasterebbe. In campo archeologico, anche tal Heinrich Schliemann, pareva un Carneade. E di lui, invece la storia si ricorda. Di altri non direi. (gfp)

giovedì 26 giugno 2008

E Glozel è sempre meno misterioso


Una delle scoperte archeologiche più importanti del secolo appena trascorso, quella delle tavolette iscritte di Glozel, si arricchisce di una nuova autorevole conferma di autenticità. E, di più, di una altrettanto autorevole traslitterazione / traduzione delle scritte trovate a partire dal 1924. Conferma di autenticità e decifrazione sono di Herbert Sauren, professore emerito dell'Università di Louvain in Belgio. La fatica di Sauren va ad aggiungersi ad altri tentativi, fra i quali è quello fatto da Gigi Sanna, anche esso accolto nell'ormai imponente archivio del Museo di Glozel.
Per chi l'avesse persa di vista, la scoperta del giacimento archeologico di Glozel, villaggio francese nei pressi di Vichy, è stata contestata per molti decenni dalla Sacra corona unita dei poltroni, dei baroni dell'archeologia francese e non solo, dei pregiudiziali denunciatori di falsi e, persino, di chi pur di svillaneggiare il ritrovamento di una "cosa non possibile", di chi non si peritò di nascondere un oggetto dichiaratamente falso come mela marcia capace di far marcire tutto.
Herbert Sauren, studioso di lingue orientali in Germania, ha insegnato le lingue scritte in cuneiforme, sumerico, babilonese, assiro, hittita anatolico e ugaritico. Il suo curriculum di studioso di lingue del Medio Oriente non consente di mettere in dubbio la sua autorevolezza che ha conservato da professore emerito in Portogallo, dove ha scelto di installarsi.
E dunque, Glozel. Secondo lo studio di Sauren (che è possibile scaricare dal sito del Museo di Glozel), nelle iscrizioni di Glozel (due delle quali, su un osso di renna e su terracotta, sono qui pubblicate) si identificano una scrittura semitica. Ha impiegato circa sei mesi per operare, sulla base di questa identificazione, la traslitterazione e la traduzione complete del Corpus des inscriptions, opera del medico e appassionato di archeologia Antonin Morlet.

Chi volesse può vedere un servizio televisivo di France3 su Glozel cliccando qui.

mercoledì 25 giugno 2008

Quelle curiose somiglianze con i Reti

di Sergio Satta

In genere leggo le discussioni nei blog e non intervengo. Ma, dopo aver letto l'ennesimo attacco agli appassionati e agli studiosi della storia Sarda e soprattutto a coloro che "osano" scrivere qualcosa sulla storia e soprattutto sulla preistoria sarda, non posso fare a meno di dire qualcosa anch'io. Premetto, non sono un Archeologo e non intendo esserlo senza avere prima le dovute competenze. Sono un sociologo e come tale compio i miei studi sulla storia e preistoria sarda, seguendo il metodo scientifico della sociologia.
Le civiltà si studiano, non solo facendo scavi ed esaminando reperti fisici, ma facendo appunto indagini sociologiche che comprendono soprattutto la comparazioni tra società vissute prima, dopo e soprattutto nello stesso periodo; le credenze religiose e non, l'interazione dei popoli tra loro sia in periodo di pace che in guerra, lo scambio ed il commercio, l'intrecciarsi delle culture sino a fondersi tra loro per completarsi e trasmettersi ai posteri quasi come se fosse la stessa, ed altro ancora.
Il reperto mette alla luce un aspetto del vivere quotidiano. Ancora su chi può dire qualcosa sui popoli, sardi e non: Astronomi, sull'orientamento dei nuraghi nel nostro caso; degli Architetti e degli Ingegneri sulle caratteristiche strutturali e non solo, delle opere che ci sono state tramandate; dei Chimici sulla composizione chimica dei manufatti, e tanti altri studiosi non Archeologi.
Come si può notare, per chi a buon senso, la Storia e la Preistoria non è sono ad appannaggio di un singolo studioso: l'Archeologo è esperto solo di una quantità limitata di tasselli che compongono il grande mosaico.
Io sono un grande appassionato della Preistoria Sarda e come sociologo mi occupo di studiare vari Popoli del periodo pre-nuragico, nuragico e post-nuragico, comparando le loro culture per tentare di capire da dove arrivavano sino a dove sono arrivati, naturalmente solo dal punto di vista sociologico. Non intendo fare l'archeologo, ma vorrei tanto che gli Archeologi non si improvvisassero Sociologi, Architetti, Astronomi, ecc.. Ad ognuno il suo compito, senza demonizzare nessuno perché c'è bisogno di tutti senza pretendere d’essere depositari di una ed unica verità.
Un'ultima cosa a proposito dell'altare rupestre di S.Stefano ad Oschiri: andiamo a studiare un pochino il Popolo dei Reti, la sua religione, la dea Reitia e soprattutto le sue vesti. Io l'ho fatto da parecchi anni, ancor prima di conoscere e vedere l'altare rupestre di S.Stefano ed ho riscontrato alcune similitudini, "coincidenze casuali"?
Si verrà a conoscenza di qualcosa di “strano” per chi si limita a spolverare ed ad incollare cocci, banali coincidenze per altri che non daranno mai una motivazione valida a supporto di tali affermazioni, ma continueranno a sostenere che tutto ciò che non è stato tenuto a battesimo dall’Archeologia sono bufale.
Il mio invito è di collaborare tutti insieme, titolati e non titolati, senza demonizzare nessuno e se un’intuizione, un’ipotesi è fatta da chi che sia, compreso il semplice appassionato, è compito di chi ha i mezzi di farla propria e verificarne l’autenticità e la sostanza altrimenti continueremo ad essere "chentu concas e chentu berritas" inconcludenti ed incomplete, a far proliferare eventuali fantasie e a difendere la propria "verità".

Nel disegno, la ricostruzione di una abitazione retia o venetica.

martedì 24 giugno 2008

Peccato che donna-i Masala non fosse ellenica

di Roberto Carta

La “volgarizzazione” dell’epigrafe/architrave di uno dei due ingressi della chiesetta di Santo Stefano in agro di Oschiri ha testimoniato come non a caso il percorso millenario della traduzione parta dall’elementare significato dell’originario hermeneuein: termine che pone fin dall’inizio il binomio impegnativo di tradurre / interpretare.
Tra gli ermeneuti contemporanei Martin Heidegger è quello che con più forza ha indicato al mondo che «…hermeneuein è quell'esporre che reca un annuncio, in quanto è in grado di ascoltare un messaggio. (...) Da tutto ciò risulta chiaro che hermeneuein non significa primariamente interpretare ma, prima di questo, portare messaggio ed annunzio» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1988, p. 104).
Interpretazione messaggio annuncio sono stati regalati agli oschiresi e agli appassionati di questioni antiche dal prof. Gigi Sanna in una tiepida serata di metà giugno durante una conferenza organizzata dalla Associazione Su Furrighesu, tenutasi presso i locali della Fondazione Giovanna Sanna e presentata/moderata dalla dott.ssa Giovanna Marielli.
Parlare di semplice decifrazione equivarrebbe a sminuire un approccio ermeneutico misuratosi con un iscrizione ai limiti della leggibilità, un’iconografia storicamente mal tradotta, lettere molto ben agglutinate da un allora esperto scribano, neologismi sardo tardo-medievali fino ad oggi non rinvenuti, il valore ierofanico di un luogo ancora lontano da essere compiutamente rivelato.
Secondo il prof. Sanna il significato dell’iscrizione latina sarebbe che “nell’anno del signore 1492, essendo Allodu maiore (della villa di Oschiri), donna Masala fonda la chiesetta in onore di Santo Stefano”. A parte la prima coincidenza con la scoperta dell’America l’altra ancora più interessante è che uno dei toponomastici della zona circostante la chiesa è proprio Masala, cognome poi persosi durante i secoli e ormai non più presente in senso originario nella comunità oschirese. Sempre di donna Masala è il volto della figura femminile intimamente legato all’architrave come appare nella foto di sotto e non l’Astarte Fenicia come alcuni, secondo Sanna a sproposito, avrebbero asserito.
Altro elemento storico da approfondire è il ruolo di maiore di tale Allodu (o Alodu) che nella sua veste presumibilmente dovrebbe aver acconsentito alla costruzione dell’edificio religioso. Ma il sapore della traduzione si intreccia con il sapore della lingua nella scoperta di un deittico inatteso, quello di DONNA-I, di cui in precedenza a quanto pare non erano mai state trovate tracce in documento alcuno. Un uso linguistico inusuale che si associa ad un altro uso d’oggi altrettanto singolare: Oschiri (con Berchidda e Pattada) è la patria linguistica del passato remoto (eo andei -tue andesi -isse andedi -nois andemus -bois andezis -issos andeni), coniugazione verbale del sardo completamente assente in altri territori e nelle altre varianti, nemmeno nella tanto presunta pura Barbagia e nel tanto osannato barbaricino.
Rimane in piedi il mistero nel mistero. È possibile che le istituzioni competenti fino ad oggi abbiano sonoramente snobbato un sito da «ascoltare» come quello di Santo Stefano. Si, in Sardegna questo è possibile. Per via di un’archeologia ufficiale che richiama ad un ermetismo di comodo. Proprio per il fatto di aver costantemente affermato un desiderio di unità, l'ermetismo fu chiamato a essere una risorsa in quei momenti di transizione della storia delle idee durante i quali l'uomo ricercò un nuovo orientamento verso una speranza di salvezza e di rigenerazione spirituale che non passasse attraverso chiese costituite o sistemi di conoscenze riconosciuti.
È proprio in questa parte finale che il corpus archeologico sardo non si rispecchia, che al contrario parrebbe volere unità e rigenerazione a partire dall’osservanza di dogmi inossidabili. Che forse l’unico modo per risvegliare interesse verso Santo Stefano sarebbe annunciare che anziché donna-i Masala il volto che compare sulla lapide è quello di Ermete Trismegisto (Hermes il tre volte grande) fondatore della scuola ermetica ellenista e protettore simbolico e subliminale dell’accademia archeo-sarda?
Verso tutti questi discorsi siamo stati «traghettati» dal prof. Sanna, lui traghettatore/traduttore che sa bene che nell'«attraversamento» il traduttore paradossalmente non dispone più di alcuna lingua certa, in questa sospensione la traduzione diviene ascolto: capire non tanto e non prima il senso, quanto percepire l'organismo vivente del testo. Il sapore della lingua.

Vedi sull'argomento anche "Non più 'forse', ma 'è'. Bravo Sanna" di Franco Laner

lunedì 23 giugno 2008

Sciogliere il Parlamento sardo per punire Soru. Ma scherziamo?

Verrebbe in testa a qualcuno di chiedere lo scioglimento del Parlamento italiano, se una sua legge viene bocciata dalla Corte costituzionale? E' capitata non poche volte una simile bocciatura e, al più, gli oppositori di turno possono aver chiesto le dimissioni del governo che ha proposto quella legge. Ed è naturale che così sia. Una opposizione, svolgendo il suo ruolo, lo deve fare. Così come può capitare che, in un impeto di particolare enfasi, si sia chiesto il ritorno alle urne. Ma chiedere lo scioglimento del Parlamento, va al di là della più feroce avversità.
In Sardegna, invece, capita anche questo. La Corte costituzionale ha bocciato la, per la verità, peregrina legge finanziaria che metteva in bilancio soldi al di là da venire. Non è una delle abbastanza consuete lesioni dell'autonomia speciale: semplicemente la riparazione di una lesione di norme che riguardano dal più piccolo comune fino allo Stato. Cosa grave, senza dubbio.
Ma tre oppositori del governo Soru, responsabile di quella legge, tre parlamentari di An, non si sono limitati - come era, starei per dire, loro obbligo - a chiedere le dimissioni di Soru e del suo governo. Hanno proposto al Presidente del consiglio di proporre a quello della Repubblica lo scioglimento del Consiglio regionale per violazione della Costituzione. Vero è che nell'attuale Statuto regionale è previsto che ciò possa accadere. Ma quella previsione dovrebbe essere abolita non invocata.
La nostra piccola autonomia è già di per sé sotto tutela e non ha alcun bisogno di super-tutele. Né è tollerabile che, in nome di una pur legittima opposizione al governo Soru, si chieda addirittura lo scioglimento del Parlamento dei sardi. Una corretta concezione dell'autonomia non dovrebbe permettere neppure di pensarlo.

giovedì 19 giugno 2008

Oschiri: non più “forse è”, ma “è”. Bravo Sanna

di Franco Laner

Complimenti vivissimi al prof. Gigi Sanna.
Diversi archeologi conoscono il sito di S. Stefano ad Oschiri e se ne sono tangenzialmente occupati. La locale associazione Su Furrighesu ha raccolto tutto quanto è stato fin’ora scritto sul luogo ed in particolare sull’ “altare” o “lavagna” retrostante la chiesetta e su altre pietre geometricamente incise.
La soprintendenza archeologica ha farfugliato qualcosa di incomprensibile: molto più interessanti le ipotesi degli outsider, dilettanti dell’archeologia. Nulla gli archeologi hanno detto sulla scritta nella chiesetta ed il nostro presidente – anch’io, veneto, appartengo a Su Furrighesu – si è dato non poco da fare per avere spiegazione. Ed ecco che Gigi Sanna ne viene facilmente a capo.
Cominciamo allora ad applicare un minimo di logica: è più facile che dica qualcosa di interessante ed attendibile chi dimostra di capire una scritta – seppur medioevale – indecifrabile dagli archeologi o chi non dice mai nulla su ogni argomento epigrafico appena inusuale?
Penso che chi possegga logica e strumenti di epigrafia forse possa estenderli alla paleografia. Eppure nel dibattito intercorso sul blog di Pintore, l’unico bersaglio sembra essere chi dimostra legittimità nei fatti. L’errore che hai fatto – caro Gigi – è la pretesa di discutere sui massimi sistemi con chi non ha ancora approcciato i minimi. Il problema è che i presuntuosi non vogliono nemmeno farsi prendere per mano e condurre fuori (educare), straparlano e tu ti amareggi.
Soprattutto mi fa piacere questo tuo esercizio epigrafico perché Giorgio Pala, quando condurrà turisti e studiosi a visitare il sito e prenderà uno stelo di asfodelo per indicare alcune lettere della targa, quelle chiare ed evidenti, non dirà più che la scritta potrebbe essere, bensì dirà cos’è e leggerà che donna Masala ha voluto l’edificazione di quest’aula dedicata e -aggiungo io- proprio su di un luogo già sacro, sacralizzato molto prima del cristianesimo.
S. Stefano è luogo ierofanico per eccellenza, il sacro si manifesta ed è tutt’ora palpabile, non solo per l’altare, per le coppelle diffuse, per le Domus, ma per le rocce stesse che il tempo ha modellato, per la pace che si respira e l’aura di mistero che aleggia… Ora c’è un motivo in più per visitarlo, perché Gigi ha dato voce ad una pietra. Ad altre gliela ha già data Giorgio Pala. Ma, stranamente, ognuno dei visitatori ritrova, nella propria voce, un poco del canto di questo straordinario luogo.

mercoledì 18 giugno 2008

Astarte? Macché, solo Donna Masala

di Gigi Sanna

Caro Zua',
sono stato ieri ad Oschiri, invitato dall’Associazione Su Furrighesu per la “decifrazione” e per un breve commento sulla lapide in trachite che si trova, a mo” di architrave, al di sopra di uno dei due ingressi della nota chiesetta campestre di S. Stefano.
Dal momento che l’iscrizione è stata pubblicizzata nel tuo Blog, per un po’ ho temuto il peggio e che il responsabile nazionale isolano della BIDIA (Banca Isolana Dati Iscrizioni Autentiche), noto “enfant prodige” de Arbaree, venisse, magari travestito e con barba e baffi, per suscitarmi una caciara, una delle sue, sulla non autenticità ('ipotizzata” come… certa'!) della pietra. Qualche circostanza fortuita però deve avermi salvato e ho potuto svolgere così, senza urla da 'abbassisti', il mio compito di modestissimo epigrafista.
Di ragionamento in ragionamento si è appurato che la pietra di S.Stefano non è più un mistero. In essa c’è un’iscrizione (certo assai singolare nei segni e per questo molto ostica) in caratteri tardo medioevali o umanistici che dice che nell’anno del Signore 1492, essendo un certo tale “Maiore” (della villa di Oschiri), una certa pia nobildonna fondò la chiesetta in onore di Santo Stefano. Una cosa semplice, come si vede, anzi semplicissima.
Solo che nessuno (testimoni tutti gli Oschiresi, compresi quelli presenti alla Conferenza) era riuscito a “dipanare” (così nella locandina dell’invito diffuso) il mistero. Perché Gigi Sanna sì? (diciamo ormai “sì” anche perché la mia ipotesi di “decifrazione” è stata, come è mio costume, fatta vedere prima a notissimi epigrafisti sardi che l’hanno approvata). Forse perché sono un guru della decifrazione? Un supergenio indagatore de 'sos sinnos', così come il Direttore della BIDIA? Oppure l’incarnazione dello spirito scrittorio degli antenati? No.
Semplicemente perché molti, moltissimi ben più preparati ed esperti del sottoscritto, si sono infastiditi troppo presto della lapide birichina e hanno lasciato perdere. Il sottoscritto no, ha tenuto duro. “Rispettando” il più possibile il testo ed il contesto è partito da una semplice osservazione: che al di sopra della pietra insisteva scolpito, sempre in trachite, il viso di una donna. Perché? Gli epigrafisti sanno, soprattutto gli Etruscologi, come ad es. M. Pittau che ne parla diffusamente, che spesso la 'decifrazione' e la traduzione di un documento anche se non la si ha, la si può ottenere “in qualche modo” da ciò che subito esso comunica dal punto di vista iconografico e dall’esame stesso di 'dove' si trova.
E' noto ad esempio che molti dei documenti 'funerari' etruschi sono stati 'decifrati' e capiti in questo modo. Ora,se qualcuno si prende la briga di visionare i Siti Internet o di compulsare il poco della letteratura ermeneutica in proposito, troverà, tra le altre amenità, che l’ipotesi più accreditata era che il viso della donna fosse quello della dea Astarte (la Grande madre fenicia, NdR). Davvero incredibile.
Guardate un po’ a che cosa conduce la feniciomania. Che bel rispetto per il documento. E nella lapide il fenicio dove sta? Mah, avranno pensato, forse è un tipo di fenicio sconosciuto. La lettura epigrafica e paleografica (e se si vuole anche “paleologica”, tanto per accontentare il neologista Direttore della Banca Dati) ha dato ben altro responso. Tanto che la figura femminile, approfittando dell'occasione e non resistendo all'ultima ingiuria pare che, con volto ancora più cupo, abbia esclamato: Assumancu fessit istada Diana, ca azumai fut santa. Ohi, ohi. jeo Astarte? Duos corros de parte in parte... Nono, solu Donna Masala. Umile devota de Sant'Istevene'. Anzi per la precisione 'DONNAI' MASALA, con una perla linguistica del sardo che giro velocissimamente agli esperti e agli specialisti di linguistica (con quel “micidiale” e inaspettato deittico che oggi si conosce, da quanto so, solo nei noti Baba –i e Mama –i).
La discussione si è fatta via via interessante anche perché la lapide ha molte delle lettere che risultano chiaramente agglutinate (o legate o accorpate); cosa questa - come si sa - normalissima in tutta la storia della scrittura (egiziana, protosinaitica, protocananea, greca della “lineare” A e B, Greca arcaica pitica, greca arcaica, etrusca, ecc. ecc.): anche nuragica, come dimostrano i documenti di Paulilatino (Perdu Pes), di Abbasanta (Nuraghe Pitzinnu), di Cabras (tavolette di Tzricotu), di Arzachena (nuraghe La Prisgiona) e anche quello del nuraghe abbasantese ormai ribattezzato 'indovina indovinello'.
Naturalmente la 'chiacchierata' è diventata ancora più interessante quando si è parlato di quello che più sta a cuore agli Oschiresi: sapere dell'altro grandissimo 'mistero', quello che si trova a due passi, ma proprio due, dalla chiesetta di S.Stefano ovvero del cosiddetto “altare rupestre” e di tutto ciò che questo, con una miriade di 'segni', circonda. Io per l'occasione ho detto ed altri hanno detto. Si è parlato di aritmetica, di geometria, di chiesetta sfregio o monumento 'tuppone'(tappo) e anche di Gregorio Magno che non amava, com'è noto, le 'pietre' dei Sardi. Ma non aggiungo altro. Anche per fare un dispetto a chi della nota Nomenclatura, solo per mero dispetto o per altro, ha finto di preferire il mare gelido ed inaffidabile di questo Giugno, anch'esso dispettoso.
Ma sappiano che anche gli Oschiresi, quelli che amano la dialettica ed il sano confronto delle idee (e che se ne fregano delle medaglie), si sono molto indispettiti. Anzi erano visibilmente incazzati per un certo comportamento. Loro che sono così ospitali.

martedì 17 giugno 2008

Esercito come polizia: una tentazione bipartisan

Un lettore dalla memoria lunga mi ricorda gli articoli che nel 1992 scrissi contro l'invio dell'esercito in Sardegna. E chiede se io non veda un segno di "fascismo strisciante" nella decisione del governo Berlusconi di impiegare l'esercito con funzioni di ordine pubblico. Mi verrebbe di rispondere: se questo è "strisciante" che fascismo fu quello del governo Amato che decise di mandare in Sardegna cinquemila soldati - disse il ministro della Difesa Andò - "per contibuire a scovare i sequestratori di Faruk Kassam", rapito sei mesi prima?. Altro che funzioni di ordine pubblico, allora si trattava di pure e semplici funzioni di polizia.
Quando uno stato sente il bisogno di usare l'esercito al suo interno, le cose sono messe male per la democrazia. E lo sono sia che, come in questo caso, il provvedimento l'abbia preso un governo di centro destra sia che, come nell'altro, sia il parto di un governo di centro sinistra. Voglio dire che la fedeltà a uno schieramento non è mai una buona chiave di interpretazione della realtà e tanto meno aiuta a farsi un'opinione libera.
Detto questo, a me pare che l'inaccettabile decisione dell'attuale governo non è paragonabile con quella del governo Amato. Oggi, a quel che si legge, si tratta di mandare tremila soldati a fare la ronda nelle strade di alcune città; allora si trattava di presidiare in armi un territorio della Repubblica. Le critiche aspre al provvedimento di Salvo Andò, costrinsero quel ministro a cambiare in fretta e in furia l'obiettivo di "contribuire a scovare" i rapitori del piccolo Faruk Kassam e a derubricare la "Operazione Forza Paris" in normale esercitazione. Ciò che non cambia è la gravità dell'idea originale.
Un esperto di cose militari, Giovanni Marizza, nel suo sito “Analisi difesa” scrisse allora che il nome di operazione militare “non dovrà avere misteri e dovrà, nella sua semplicità, contenere un messaggio che arrivi immediatamente ai destinatari; come nel caso di “Testuggine” (sorveglianza e prevenzione di traffici illeciti alla nostra frontiera nordorientale dal 1993 al 1995) o come nei casi delle operazioni “Vespri Siciliani”, “Forza Paris”, “Salento” e “Riace” per il contrasto alla criminalità organizzata” e aggiunse che il motivo di Forza paris era la “ricerca del piccolo Faruk Kassam rapito dall’anonima sequestri sarda. Ufficialmente viene definita non operazione ma esercitazione".
Se qualcuno ha interesse a rivivere quei momenti, lo può fare scorrendo "Lula: trentanni di viaggio per un tempo che esiste" un saggio che scrissi nel 2005 per il Comune di Lula, insieme a Natalino Piras e Giulio Angioni. Una cosa mi pare assodata: la tentazione di usare l'esercito in funzione, più o meno mascherata, di polizia non ha colore. Ciò non toglie che sia una tentazione inaccettabile.

lunedì 16 giugno 2008

Le sciocchezze di Brunetta

Ci risiamo. Eccone un altro che vuole abolire la specialità di cinque regioni della Repubblica italiana. Questa volta è il ministro di centrodestra Renato Brunetta, ma prima di lui ci sono passati molti altri. L'ultimo che ricordo, nella passata legislatura è un ex deputato liberale. Brunetta, a quel che leggo, è un po' meno becero di altri che volevano abolire la specialità perché "costa".
Brunetta dice che le ragioni della specialità andranno a morire mano a mano che si affermerà il federalismo fiscale: tutte le regioni ricaveranno le tasse da quanto in quel territorio si produce e si tassa. Meno becero, ma anche lui malato di economicismo come un vetero-comunista, lui che si dichiara liberista. Per decenni, abbiamo dovuto sopportare l'idea (di matrice socialista e comunista) che la Sardegna era stata riconosciuta "speciale" per via della differenza di sviluppo fra la nostra terra e l'Italia e non per il fatto che fossimo una nazione diversa da quella italiana, al pari della Val d'Aosta, del Sud Tirolo, del Friuli. Il fatto che tutte queste nazionalità facciano parte della Repubblica italiana non cambia certo questo status.
La nostra specialità non è (o non è solo) un dato economico e geografico: è un dato prima di tutto linguistico (come lo è per vadostani, friulani, sudtirolesi), storico, culturale. Il federalismo fiscale potrà (personalmente ne sono sicuro) renderci più prosperi e creare le condizioni perché diventiamo una regione europea economicamente e socialmente progredita. Ma questo non renderà meno speciale la nostra lingua e la nostra cultura, la nostra storia e quella concezione della vita che ci è propria.
Perché, periodicamente, qualcuno si alza e si abbandona a sciocchezze come quelle dette da Brunetta? C'è, evidentemente, un deficit di cultura storica. E c'è, purtroppo, una deficienza strutturale delle nostre classi dirigenti, quella politica in primis. Se ci fosse, nelle nostre classi dirigenti, la capacità autonomista di affermare le ragioni della nostra specialità e unicità, certo non si potrebbe impedire ad alcuno di dire sciocchezze. Ma non ci sarebbe da preoccuparsene: ora sì. Ci sarà sempre qualcuno disposto a dar ragione a Brunetta.

sabato 14 giugno 2008

W l'Irlanda? No, e però...

Io avrei votato come la maggioranza degli irlandesi, no al Trattato di Lisbona, anche se con motivi opposti ai loro. Gli irlandesi lo hanno fatto, sostanzialmente, per la paura che l'Europa che ne sarebbe risultata mortificasse il loro Stato-nazione; io per cercare di combattere un'idea di Europa proprietà degli stati-nazione. Essi non vogliono un'Europa federale, io la vorrei. Vorrei, cioè, un'Europa in cui tutti i popoli-nazione, anche quelli, come il sardo, che non hanno un proprio stato, abbiano la stessa dignità di quelli che si sono costituiti in stato.

IL TRATTATO DI LISBONA, al pari di quello per la Costituzione europea bocciato da francesi e olandesi (anche in quel caso per motivazioni simili a quelle irlandesi) è fondato sul non riconoscimento delle nazioni senza stato e della loro identità. In particolare sul disconoscimento della lingua, fondamento, si sa, dell'essere una nazione. Le lingue europee, nel Trattato di Lisbona (come nella fallita Costituzione europea), sono solo quelle degli stati, ufficiali non perché diffuse, colte, parlate da grandi comunità, ma solo ed esclusivamente perché lingue di stato.
Così è lingua ufficiale europea il maltese, parlato da 400 mila persone, ma non il sardo, seconda lingua più diffusa nella Repubblica italiana, non il catalano, parlato da sei milioni di persone. Esser riconosciuta lingua ufficiale non è una coccarda da mettersi sulla giacca: è una opportunità economica e politica che è concessa solo in virtù di ottocenteschi parametri statalisti.

IL FIGLIO DI UN maltese, tanto per dirne una, può aspirare a diventare traduttore simultaneo o interprete europeo da e nella propria lingua. Mio figlio, di lingua madre sarda, laureando in lingue europee ed extraeuropee, no. Se lo vuol fare deve passare attraverso l'italiano. Uno dei cardini del Trattato è che "L'Unione si fonda sui valori del rispetto ... dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze". Ma non contempla, fra le discriminazioni messe al bando, quella fondata sulla lingua parlata. Afferma che l'Unione rispetta "la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica", ma si tratta di una "diversità" di lingue ufficiali: il cittadino europeo ha "il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua". Solo, dunque, in una lingua ufficiale. Uno dei quattrocento mila maltesi sì, uno dei sei milioni di catalani no.

IL NO IRLANDESE, naturalmente, non tiene conto di questi aspetti gravissimi, se non altro per il fatto che anche la piccola Irlanda, al pari di Malta, ha una lingua riconosciuta fra quelle ufficiali. Ma, al di là dei motivi del no, il risultato è che i popoli-nazione senza stato, e in quanto tali discriminati, hanno più tempo per farsi valere. Non sarebbe male se il Parlamento sardo, incredibilmente assente nel dibattito europeo, quasi che i sardi non avessero interessi culturali e linguistici da difendere, si desse una mossa.

venerdì 13 giugno 2008

Perché dello Stato?

Credo tutti sappiamo che la tutela del patrimonio culturale, archeologico, artistico, paesaggistico, presente nella Repubblica italiana fu assegnata dalla Costituente allo Stato. E questo indipendentemente dal fatto che vere padrone siano le comunità (nel caso della Sardegna e di altri territori, le nazioni). Colpa di questa condizione è anche, nel nostro caso soprattutto, il fatto che i nostri costituenti non rivendicarono, insieme ad altre competenze, quella del patrimonio culturale. Una vicenda non edificante del senso di autonomia delle nostre classi dirigenti passate che si "dimenticarono" anche di governare un'isola in cui si parla una antichissima e originale lingua.
Tutti sappiamo, anche, che la tutela dello Stato si esercita attraverso le soprintendenze, organismi che rispondono, al pari delle prefetture, ad una concezione centralistica napoleonica e a logiche spesso indifferenti alle esigenze e alle culture dei territori sottordinati e, comunque, sempre esterne. Tant'è che il governo centrale nomina e sposta soprintendenti e prefetti senza neppure chiedere il gradimento, nel nostro caso, del capo del governo sardo.
Le logiche esterne di cui dicevo fanno sì che, per esempio, a decidere che cosa fare e che cosa non fare nel campo della tutela del patrimonio artistico e archeologico sia una struttura centralistica, non i governanti della Sardegna. E' questa struttura a decidere quali siano le priorità, non la convenienza economica e culturale della Sardegna. Per questo, per fare un esempio, si decide di ripavimentare un manufatto romano di Nora, piuttosto che continuare a scavare le tombe dei giganti di Madau e restituirci un complesso archeologico di straordinaria bellezza.
Non è per sollevare piagnistei, ma perché tutto si tiene in una logica accentratrice: tra il restituire ai contemporanei le grandezza del passato barbaro dei sardi e rafforzare l'idea della grandezza patria italiana attraverso lo studio dell'etruscologia, non c'è dubbio quale sia la scelta. Non è per cattiveria, ma perché nella storia patria le vicende autonome dell'Isola barbara ci stanno strette.
Però, si dirà, le cose stanno così e così restano se in un sussulto di autocoscienza e autostima, i sardi non riescono a far abolire questi organismi di controllo centralistico ed ad assumere in proprio la tutela del proprio patrimonio. Abbiamo le competenze, le risorse umane e quelle economiche per farlo.
Anche perché, pur mettendo da parte per un attimo le ragioni di principio, lo Stato non è che onora il suo compito di tutela. Credo di sapere che, ad esempio, la Soprintendenza alle belle arti, per l'intera provincia di Nuoro, ha a disposizione 16 mila euro.

giovedì 12 giugno 2008

Altro che restauro esemplare

di Mirko Zaru

Carissimo sig. Laner.
Le mie erano solo domande, e per giunta, non volevano essere offensive, volevo capire il perchè del suo scritto. Devo ammettere, rileggendo il mio, che poteva essere interpretato male, ma le assicuro che non volevo sminuire nessuno. Quando lei dice che nel mio sito ci sono delle pubblicità , non riesco a capire dove lei le veda, dice una brutta cosa!
Il mio sito è completamente gratuito ed è NOPROFIT al 100% , benchè qualcuno abbia provato a volermi pagare per metterci la pubblicità dentro!
Quindi niente 300 EUR(I) , tantomeno 30 e niente ricerca di popolarità, solo voglia incontrollata di ricerca e divulgazione!
Con i soldi che ho speso per la ricerca mi sarei pagato tranquillamente un mutuo altro che guadagni! Tutti i siti che vede linkati, fanno parte della community archeologica.
Ma sorvoliamo su questo discorso e sul mio sito che non interessa a nessuno e veniamo al sodo.
Come dice lei, probabilmente mi sono spiegato male, quindi cercherò di spiegarmi meglio!
Il concio "A" tagliato dall'asse verticale "Z" forma un segmento "ab" pari al segmento "b1a1" dove "a" e "b1" sono i punti su cui grava la spinta verso il basso distribuendosi sul punto "X" al centro della diagonale e riducendo la leva sul concio stesso.
Il triangolo "a,b,X" quindi è compensato dal "b1,a1,X" e "X" diventa il punto di forza al centro della diagonale "b1b" dimezzando la spinta verso l'interno.
All'aumentare di "ab" in modo direttamente proporzionale si ha "b1a1".
Spero di essere stato più chiaro...forse però è più complicato!
Comunque, per quanto riguarda la sacralità dell'acqua, non sò dove lei abbia letto da parte mia una tale affermazione! Non ho mai sostenuto che non fosse ritenuta sacra, lo era eccome per parecchie ragioni su cui non mi soffermerò!
Le mie considerazioni sul panorama nuragico e post-nuragico (periodo del ferro) avrà occasione di leggerle tra non molto in una mia pubblicazione amatoriale, quindi nessun saggio storico (e non ne parliamo più, giusto per farle capire che quello che trova sul sito riguarda lo stato odierno degli studi di altri autori)(questo della distribuzione sulla X è roba mia).
Al quarto punto le rispondo dicendole che nel 2004 non avevo letto la pubblicazione che ho acquistato solo quest'anno, ecco il motivo del mio ritardo. Il mio sembrare presuntuoso, è dato dal fatto che non riesco a star zitto su quello che non mi torna all'occhio e al cervello.
Non entro in merito al suo rapporto con altri autori, buoni o cattivi, presenti nel mio sito, e comunque sia sappia che sono un organismo autosufficiente e pensante con il proprio cervello.La gara per la maglia rosa non esiste da parte mia e la sua metafora non sta in piedi, ma per rifarmi alla sua, mi batterò perchè si continui a correrla in bici senza motore e preparazione!
Se mi permette, per come la penso io, un restauro "esemplare", come lei lo definisce, dovrebbe ricostruire al meglio lo stato originale delle strutture, basandosi, possibilmente, su altre strutture simili se esistenti. In campo archeologico, ciò che non è interpretabile o ricostruibile, dopo un minuzioso e lungo studio del monumento dal punto di vista comparativo e culturale, và lasciato invariato nella speranza che la ricerca fornisca in futuro elementi che ne consentano un restauro perlomeno verosimile.
Quello di Santa Cristina si può definire un bel lavoro architettonico (anche se non si è riusciti ad ottenere lo stesso effetto della parte originale), ma con reinterpretazioni inverosimili, e l'emozione la dà la parte originale del monumento (quella che si vede nella foto del suo articolo) e non quella del vano scala ricostruito.
Le mostro, con un unica immagine, come doveva essere originariamente il tratto vestibolare del pozzo sacro paragonandolo al pozzo sacro di Predio Canopolo nell'abitato di Perfugas, già conosciuto al momento del restauro ma ignorato completamente! Noterà come la scalinata di Santa Cristina sia troppo lunga e di come la parte vestibolare sia completamente inverosimile!

mercoledì 11 giugno 2008

Ebbene sì: S. Cristina m'emoziona. Zaru meno

di Franco Laner


Rispondo mal volentieri alle sollecitazioni del sig. Mirko Zaru, per i seguenti motivi:
1. Il tono delle richieste non è sicuramente quello di chi vuol capire, bensì quello di provocare ed offendere. Il riferimento al pallone gonfiato non mi si addice, poiché, conoscendo la gravità, so bene che se si dovesse bucare, mi farei male cadendo in terra. Anche per questa ragione non sono così presuntuoso come cerca di dipingermi
2. Non la conosco, perciò non so come parlarle. Generalmente cerco -per deviazione professionale- di mettermi al livello del mio interlocutore. Ho cliccato su "Mirko Zaru" e ne è venuto fuori un sito molto articolato. Si va dalla pubblicità che assicura un guadagno di 300,00 euro/giorno (ritengo questa affermazione amorale, in un momento in cui è difficile guadagnarne 30) alla descrizione dei monumenti nuragici. Non ho trovato nemmeno una riga originale (confesso però di non essere riuscito a leggere più di due pagine), ma ripetizioni acritiche di quanto altri hanno già detto. Legittimo, ma inutile.
3. Non mi sono fermato più di tanto, proprio per difficoltà di lessico impiegato. Cosa significa ad esempio, proprio a proposito del pozzo di S. Cristina le frasi che scrive: "Gli elementi litici che compongono il monumento isodomo, grazie alla loro inclinazione, sono posti in modo tale da formare dei filari concentrici aggettanti, che rispettano le leggi della distribuzione del peso applicata al triangolo. Nel basamento cilindrico, dove poggia la tholos, ogni elemento rientra rispetto al precedente della stessa distanza che sporge dall'asse..."
Di quale distribuzione di peso parla rispetto a quale triangolo? Deduco che per lei la statica sia un optional. A quale asse si riferisce? Forse alla perpendicolare? Ma nemmeno la geometria, allora, è il suo forte.
Ma perché dunque dovrei rispondere ad uno che scrive -per non dir niente o risulta incomprensibile e che sostiene che la sacralità dell'acqua deriva dal fatto che è fondamentale, utile, per l'uomo del nuragico? Non c'era problema d'acqua e non confonda sacralità con utilità.
4. Infine ho difficoltà a capire come mai abbia aspettato 4 anni (la guida è uscita nel 2004) a rivolgermi le domande: ho sempre risposto a chi mi ha chiesto spiegazione o mi ha rivolto critiche. Ho cambiato visione su molte cose, perché mi piace capire, perché so che non esistono verità assolute, perché mi piace ascoltare ed imparare. Purtroppo mi irrigidisco coi presuntuosi.
Vengo alle risposte. A lungo ho parlato col prof. Atzeni sul restauro da lui diretto. Nessun concio è stato aggiunto. Quelli segnati li ha riposizionati. Stimo -e l'ho scritto- quello del pozzo un restauro esemplare. Se qualche concio non fosse al suo posto, se la "vera" del pozzo è stata reinterpretata, così come la doppia muretta che delimita ed avvolge la scalinata, il pozzo è capace di restituire, o rinnovare, forte emozione. Ho scritto che se quand'anche fosse falso, l'emozione che suscita è totale. E se un monumento emoziona, dona già moltissimo. Contrariamente e pesantemente ho criticato invece il restauro di Su tempiesu.
Nella Guida sul pozzo, che non ha la pretesa di una pubblicazione scientifica, indugio su alcune suggestioni -dichiarate- che derivano dalla mia cultura, sensibilità e conoscenza. Nessuna pretesa di condivisione, ma pretesa di dar la mia ragione ad un'opera di architettura. L'intento ultimo dello scritto è quello di tentare una valorizzazione alta, che facesse leva sull'indubbia sacralità e simbolicità del monumento.
Scriva lei perché questo straordinario monumento valga la visita. Giuro che sarei contento di imparare qualcosa. In questi quattro anni studiosi di varie discipline mi hanno indicato altre suggestioni, particolari, osservazioni: li ringrazio.
Ringrazio anche lei, che nonostante tutto, ha fatto pubblicità al mio scritto, dettato non solo da impegno architettonico, culturale e storico, ma soprattutto dettato dal tentativo di valorizzare un'altra Sardegna. Non quella dei chierichetti (per usare la definizione di Frau). Ma anche e soprattutto senza l'obiettivo della maglia rosa, che lascio tranquillamente indossare sia a lei, sia a qualche suo compagno che appare nel suo sito.

Archeologia: se ne può discutere anche serenamente

di Giorgio Cannas

Vedo che Gigi Sanna l’aveva previsto. In notevole anticipo, direi. E ora capisco perché, nonostante le insistenze mie e di altri amici, suoi tifosi (ma con prudenza 'critica', sempre nei limiti della decenza e senza servilismi), lui non gradisse per niente un’entrata nella discussione e perché per anni e anni (credo dieci), nonostante le punzecchiature, abbia taciuto.
Ho notato che lo ha scritto diverse volte anche a Gianfranco Pintore, come questi puntualmente riferisce. Era prevedibile infatti che ci sarebbe stata sempre una 'risposta della risposta', una sterile e persino becera contrapposizione, un eccesso di parole che, nella foga, avrebbe potuto degenerare, con esiti solo giudiziari. Se qualcuno lo avesse dimenticato si rilegga lo scritto sul sito del direttore del Blog. E così puntualmente è avvenuto. Lo Stiglitz, che pretende solo a parole la concretezza, dovrebbe ammetterlo per primo. E non fare lui il moralista, come se gli altri non leggano e non ricordino.
Ora io non so se coloro che hanno rinvenuto il documento (il notissimo avvocato Paolo Meloni di Norbello) e lo studioso (Gigi Sanna che lo ha visionato e fotografato per primo davanti al detto avvocato e a non pochi testimoni, compresi i proprietari della tanca) vorranno procedere nei confronti di chi li calunnia e diffama. Due reati, come si sa, gravissimi. Se lo facessero (anche il direttore del Blog ha capito e si è prontamente tutelato di fronte alla gravità delle affermazioni: documenti ‘trattati’, scalfitture apposite,’forse fatte con chiavi’ e via diffamando) qualche ‘bambinone’ impertinente (e, ahimè, sempre orribilmente sgrammaticato) se lo meriterebbe, perché ‘is cropus de manu a is nadias no abbastant: ci 'oit sa pettia o sa zirogna’ Tanto più gliele danno le sculacciate e tanto più costui pensa d’essere ‘balente’.
Già il dott. Usai aveva rischiato grosso, a motivo della sua evidente incapacità di tenere a freno i morsi al veleno (vedasi la giusta e scontata reazione del prof. Pittau!), parlando di ‘reato di falso’ per le tavolette. Tanto che nella risposta successiva si è prontamente rimangiato tutto e, forse per consiglio saggio di qualcuno, ha preferito orientarsi su ‘autentiche’ fibbie di cinturoni medioevali'. Ma ancor di più ho capito Gigi Sanna quando ha partecipato, domenica scorsa (8 giugno), al Convegno sulla scrittura nuragica promossa dal Comune di Tortoli e dalla Provincia dell’Ogliastra. Il bellissimo convegno, partecipatissimo (con tanto di mostra fotografica di scrittura nuragica annessa), ha avuto un tale gradimento che le persone sono rimaste inchiodate alle loro poltrone quasi sino alle 21 (l'orario d'inizio era alle 16,30).
In tantissimi sono intervenuti e da numerosi luoghi dell’Ogliastra. Ho capito il nobile silenzio del prof. Sanna perché solo in un Convegno, in un luogo pubblico aperto alla discussione, con i tempi dovuti, ci si può fare una certa idea della scrittura nuragica. Anche perché il ‘casino delle curve’, come lo chiama ironicamente lui, non era ammesso nel teatro di Tortolì. E tanto meno erano ammessi i provocatori. Lì si pretendevano solo argomentazioni, esposizioni garbate e civili, con un noto giornalista a far da moderatore, da sottoporre al giudizio di tutti.
Nel detto convegno parlavano la prof. Maria Rita Piras dell’Università di Sassari, Pier Guy Vansis Stephanopoulos e Pasquale Zucca, tutti noti e serissimi studiosi. Chi erano però gli assenti? Gli archeologi e la Sovrintendenza che hanno declinato l'invito. Quegli archeologi e quella sovrintendenza che non hanno capito nulla del documento e che, irresponsabilmente, hanno lasciato per decenni e decenni al ludibrio degli uomini e del tempo una pietra nuragica sacra, ‘buttata’, quasi con disprezzo, su un marciapiede di Santa Maria Navarrese. Non solo non hanno capito i segni e i simboli del manufatto ma non hanno capito e visto la scrittura lineare, due lettere incise profondamente, della stessa età delle coppelle, con il nome della divinità (E attenti alla 'somiglianza' con le lettere! Come ci è stato ben spiegato da Sanna, non ci sono scritte le iniziali di Italo Carta o di Carcangiu Ignazio e nemmeno il numerale CI etrusco!).
Ora quella pietra, grazie a qualcuno che ha messo più di una pulce nell'orecchio, sarà studiata ancora di più e, nel frattempo, custodita. Parola del sindaco di Baunei. Anche don Pietro, il parroco, ha tifato per l'altare antichissimo che sta fuori della chiesetta di Santa Maria perché il ’sacro' va sempre e comunque tutelato. Perché dunque erano assenti quelli che per primi sarebbero dovuti intervenire? Per il semplice motivo, a mio parere (ma anche per opinione generale) che non avrebbero potuto replicare a certe accuse. Questa pietra, che ho fotografato, la invio come mio ulteriore contributo per la discussione. Ci sono le coppelle in forma di ellisse uguali a quella dell’altare (anche per me è un altare) di Pitzinnu di Abbasanta, c’è la consueta simbologia numerica nuragica, ci sono soprattutto due incisioni fatte (una purtroppo è quasi scomparsa), con ogni probabilità nel XIII o XII secolo a.C., dato il medesimo tipo di segni alfabetici consonantici che si trovano attestati in Tzricotu di Cabras, nel sigillo di S. Imbenia di Alghero, nella pietra della chiesetta di S. Prisca di Pau, nelle stesse statue stele di Laconi e in diversi documenti ancora.
Mi scuso 'po sa lareddia’, ma permettetemi ancora due parole. Non vorrei, dato il ‘casino delle curve’, che qualcuno cogliesse l’occasione per far precipitare nel dimenticatoio la mia circostanziata richiesta di sapere dove si trova il coccio nuragico con scrittura cuneiforme (quello, ripeto, di cui parla il prof. Pettinato dell’Università di Roma), trovato a Villanovafranca e, ancora, dove si trova il cosiddetto brassard di Is Loccis Santus di San Giovanni Suergiu. Noto che in questo blog si è pronti a rispondere a tutto, anche al troppo e al vano. Perché non alla mia 'semplice' richiesta?

martedì 10 giugno 2008

Quel nuraghe lo conosco io, sig. Sanna

di Mirko Zaru

Abusando della pazienza e delle spazio divulgativo del sig. Pintore, mi trovo, necessariamente e doverosamente, in obbligo di ri-intervenire sul’ultimo “articolo” di Sanna, dando un po’ più di informazioni sulla “sua eccezionale scoperta”, che poi tanto sua non è e nemmeno tanto eccezionale, per “ipotizzarne” (ne sono praticamente certo) la non autenticità!
Molti diranno: ”Questo Zaru è un guastafeste o comunque sia non gli sta mai bene niente, neanche quando la scrittura risulta facilmente riconoscibile”, però purtroppo questa volta non mi riferisco al tipo di scrittura ma all’autenticità della stessa. Premettendo che non mi sembra giusto non divulgare la collocazione della stessa, lo farò io, che il nuraghe in questione lo conosco decisamente bene, annunciando il fatto che trattasi del Nuraghe Aiga di Abbasanta!
L’architrave in questione si trova nell’accesso della camera del primo piano, visibile appena entrati dal finestrone dal quale è possibile accedere, tramite il vano scala, anche al secondo piano (non pervenutoci ma c’era e quindi nessun raggio solstiziale dall’ogiva) e al piano terra, ancora intatto e soggetto a ripetuti scavi clandestini.
Nel 2006 il sottoscritto, scattava delle foto all’iscrizione in questione, notando che erano state incise di recente (come si vede nella foto), tanto che l’oggetto usato per inciderla aveva lasciato ancora i segni del suo sfregamento.
Mi lascia piuttosto perplesso, soprattutto perché il nuraghe ha testimonianze del passaggio di diverse popolazioni, tra cui, dopo quella nuragica, è quella dei romani, con il rinvenimento all’interno dello stesso di monete d’oro, e a breve distanza di sepolture a incinerazione, nonché di lastre con incisioni latine, il fatto che ci si è limitati ad osservare unicamente quelle fasulle, tralasciando i dati attendibili, attribuendo poi al nuragico l’iscrizione, in un contesto dove il passaggio di altre popolazioni padroni della scrittura è più che evidente!
Al tempo stesso avrei altre iscrizioni da proporle sempre all’interno del monumento, delle quali sarei lieto qualcuno si esponga!
Se vuole sig. Sanna possiamo andare insieme a vedere le scritte latine autentiche, tralasciando quelle fatte da idioti rovinando la storia della Sardegna!
Devo dire, comunque, che non riesco a capire come mai un ragazzo di 29 anni appassionato come me e non esperto di epigrafia o paleologia , si accorga che si tratta di un falso, mentre un esperto del settore sbagli, forse preso dall’entusiasmo della ricerca di quello che vuole trovare.
Inoltre nel territorio sardo sono a conoscenza di molte altre di queste iscrizioni, delle quali posso dare foto del prima e del dopo l’incisione stessa in quanto mi occupo di tenere sotto controllo i monumenti sardi. Gli “esperti”, quindi stiano molto attenti perciò nel definire qualcosa di “straordinario” o, perlomeno, di “interessante” incredibili e facilmente riconoscibili “falsi storici”.
Metto a sua disposizione quindi un'altra immagine di iscrizione all’interno del nuraghe che potrebbero risultarme più o meno attendibili come autenticità, mostrando alla Sardegna tutta com’è problematica la gestione da parte della regione di tutto il patrimonio culturale in quando incredibilmente vasto, cosa che si potrebbe migliorare notevolmente se ci fossero tante altre persone come me che vigilassero sui monumenti!

lunedì 9 giugno 2008

Caro Pittau: rispondiamo ad Usai? Caro Laner: sì.

L'architetto veneziano Franco Laner, ordinario di tecnologia dell'architettura presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, e il linguista e glottologo sardo Massimo Pittau, inviano questo scambio di mail per la pubblicazione. Chi segue questo blog sa che qui la censura non è di casa.


di Franco Laner e Massimo Pittau

Franco Laner - Carissimo Massimo, ho letto questo blog e ho pensato che l'archeologo Usai non si sia dimenticato della batosta che si è presa quando tu sei intervento a Paulilatino, spiegandogli perché i nuraghi non possono essere fortezze. Ricordo anche che davanti ad una platea di 300 persone, voleva spiegarci i massimi sistemi dell’archeologia. Anche se non era stato invitato – che sbadati - era venuto con un cd già confezionato.
Devi cliccare su questo sito http://gianfrancopintore.blogspot.com dove c'è uno scritto appunto di Usai.
La frase che ho letto è la seguente: “Chi vuole documentarsi su un falso accertato e di dominio pubblico consulti nel volume 9 (tomo 2) della serie "L'Africa Romana" (Sassari 1992) gli interventi di Massimo Pittau (pp. 637-644) e di Lidio Gasperini (pp. 645-649): il primo dilettante di lingua ed epigrafia etrusca, il secondo specialista della materia. Buon divertimento”.

Massimo Pittau - Carissimo Franco, In sole quattro righe guardate che cosa è riuscito ad infilare questo ameno personaggio:
1) L’Usai dice una falsità quando parla di un «falso accertato e di dominio pubblico». Quella mia relazione su una iscrizione trovata ad Allai io l’ho presentata subito dopo nel Sodalizio Glottologico Milanese – uno dei più autorevoli di tutta Europa - ed è entrata pacificamente nei suoi Atti ufficiali (vol. XXXIII-XXXIV, 1992 e 1993, Milano 1994, pagg. 200-210).
2) L’Usai dice un’altra falsità quando sostiene che Lidio Gasperini è uno “specialista di lingua etrusca”, mentre in realtà egli è uno “specialista di lingua latina”, che di lingua etrusca non si è mai interessato a livello scientifico.
3) L’Usai non ha nemmeno saputo leggere il testo che ha citato. Infatti, nella diatriba sorta fra me e il Gasperini circa l’autenticità di quella iscrizione, l’ultima battuta del Gasperini è questa: «Agli specialisti di epigrafia etrusca di pronunziarsi!». Con la quale frase il Gasperini ha implicitamente riconosciuto di essersi intromesso nella questione senza una effettiva “competenza specialista nella materia” e quindi arrendendosi e gettando le armi di fronte al contendente.
4) Ma se non aveva alcun diritto di intervenire sulla autenticità di una iscrizione etrusca l’”epigrafista latino” Lidio Gasperini, a molto maggior ragione non ha alcun diritto di intromettersi nella questione l’Usai, dato che egli è un “archeologo” e tra l’archeologia da una parte e l’epigrafia e la connessa glottologia dall’altra esiste un oceano di differenze! Quando pertanto egli definisce me dilettante di lingua ed epigrafia etrusca, non solamente formula questo grave giudizio da “totale incompetente”, ma lo fa anche con molto dubbio senso dell’onestà umana.
5) Potrei anche elencare i meriti che ho acquisito sulla “lingua etrusca, con la pubblicazione di ben 7 (sette) libri su di essa, fra cui il primo e finora unico esistente Dizionario della Lingua Etrusca (di 525 pagine), le conferenze che sono stato chiamato a tenere in varie località della Toscana e del Lazio e le numerose interviste giornalistiche, radiofoniche e televisive che mi sono state fatte; ma se lo facessi dimostrerei di dare importanza e peso al pittoresco personaggio Usai.
6) Perché l’Usai se l’è presa con me ex abrupto, cioè senza alcuna mia provocazione? Probabilmente per questo episodio. In un convegno di cultori e amanti della civiltà nuragica svoltosi a Paulilatino circa un anno fa, in un suo intervento che doveva essere breve come tutti gli altri, egli si è presentato al pubblico dicendo che avrebbe tenuto una lezione su che cosa sia l’”Archeologia”. Ovviamente egli si è attirato la immediata e forte reazione del pubblico presente, che alla fine non lo ha lasciato neppure parlare. In un mio successivo intervento di risposta alle obiezioni che anche lui aveva fatto alla mia precedente relazione, in cui è arrivato anche ad ironizzare sulla mia “vecchiaia” (ho infatti 87 anni), ho avuto modo di affermare che il pesante giudizio di “incompetenza archeologica” con cui egli aveva bollato tutti i presenti in effetti non toccava me, che sono un linguista e non un archeologo. Però ho stigmatizzato quel giudizio fortemente negativo che l’Usai aveva pronunziato anche rispetto a numerosi presenti, i quali invece avevano ampiamento dimostrato coi loro studi e coi loro scritti di saper esprimere giudizi autorevoli in tema di civiltà nuragica. Ma se è certo che in quella occasione l’Usai ha fatto una figura molto meschina di fronte ad un numeroso ed autorevole pubblico, non se la doveva prendere con me, ma doveva fare il mea culpa per il modo in cui si era infilato nel convegno illudendosi di recitare il ruolo del “maestro”.

Franco Laner - Che bella risposta. Suona come una legnata sui denti, ma fa molto più male.
Non voglio entrare nel merito, perché farei l'errore di "pisciare fuori dal vaso" come dicono a Venezia. Continuamente l'Usai dice che lui lavora anche il sabato e la domenica: nessuno gli hai mai rinfacciato il tempo e perciò sa molto di excusatio non petita. Ma se da tanto tempo dedicato allo studio vien fuori con queste portate, è meglio che passeggi.
Il guaio di molti archeologi, non solo sardi, è che hanno "potere", ovviamente non quello culturale, quanto quello di veto su molte questioni territoriali et similia. Perciò sono coccolati ed adulati. La maggior parte di loro fa il mestiere senza passione. In questi ultimi 50 anni di archeologia nuragica, non hanno partorito nemmeno un topolino e le novità sono per la maggior parte dovute a studiosi di altre discipline, a cominciare dal formidabile apporto di un linguista del tuo calibro.
Caro Massimo, io direi che è ora di smetterla col buonismo: mettiamo in rete questo nostro scambio di pareri e vediamo se gli amici di Usai lo lasciano solo o non ricorreranno ad una sottoscrizione di firme, di recente memoria!

Trascrizione interessante. Ma perché nuragica?

di Alfonso Stiglitz

Caro Gianfranco,
finalmente Gigi Sanna ci dà una trascrizione interessante, anche se avrei avuto piacere di vedere anche la foto, sebbene non dubiti della correttezza del disegno; ben diverso dalla fantasiosa trascrizione [di cui non conosco l’autore, così come non so chi abbia identificato la pietra con un improbabile “altare sacrificale nuragico” perché di forma quadrata] dell’altra iscrizione, come si può ben notare, nel tuo sito, dal confronto tra disegno (piuttosto grossolano) e foto; ancora per inciso, serpentelli, alberelli ecc. sono perfettamente compatibili con le chiare lettere latine, essendo dei segni presenti in ambito tardoromano e tardoantico (periodo interessantissimo della nostra storia).
Ma veniamo alla trascrizione che è molto interessante per me misero archeologo orientalista, specialista (evidentemente immeritatamente) in Fenici e sul cui rapporto con il mondo nuragico mi sto da anni occupando. Mi colpisce, intanto, permettimi di dirlo, che su 49 righe dell’intervento solo sei siano dedicate all’analisi e ben 43 alle accuse, recriminazioni, allusioni, alcune delle quali francamente mi sfuggono.
Indubbiamente la trascrizione ci dà lettere fenicie, vicine a quelle di Nora, sebbene per la prima lettera sia portato a vedere più un Pe che non un Lamed, stando appunto alle tavole di Garbini, nel suo testo del 2006, e alla trascrizione del frammento di Nora data dall’Amadasi. Ed è indubbiamente interessante lo He piegato a destra invece che a sinistra. Ma questo penso sarà definito dagli epigrafisti, così come l’eventuale apporto protocananaico, su cui Garbini non mi sembra molto entusiasta.
Purtroppo il problema cronologico rimane più complesso e, se non capisco male, pare sia da risolvere solo con metodologie paleografiche, ancora molto lontane dalla capacità di definire basi certe, in tal senso il drastico giudizio, sebbene in toni pacati, che ne dà Garbini mi sembra indicativo: “Molto meno soddisfacente è invece la situazione degli studi paleografici”, criticando, nel 2006, i più importanti (decisamente pochi) studi sull’argomento.
Qualcosa di più potrebbe venirci dalla documentazione completa, comprensiva cioè del supporto sul quale è posta l’iscrizione, stante il mal vezzo degli epigrafisti (parlo della quasi totalità di loro) di isolare lo scritto dal supporto. E ancor di più sarebbe importante analizzare il contesto storico e geografico del rinvenimento; la base del metodo storico è quello che per ogni fonte deve essere accertato se è vera o falsa e, se vera, ne va verificata l’attendibilità; ciò significa inserirla nel suo contesto. Il che, evidentemente, è un processo non rapido.
Nell’oristanese sta emergendo un complesso sistema di rapporti, veicolato tra mare e monti, nel quale i nuragici del Bronzo finale e dell’Età del Ferro (tra XII-VIII sec. a.C.) e i levantini della costa siro-palestinese, Fenici ma non solo, si incontrano determinando reciproche influenze. Purtroppo molti dei dati che ci servono per analizzare questi fatti sono fuori contesto o perché vecchi rinvenimenti o perché rinvenuti da appassionati (nel migliore dei casi) senza alcuna attenzione appunto alle condizioni di giacitura. I rinvenimenti da scavo o da prospezioni, fortunatamente, anche se ovviamente in modo lento (sono i tempi della ricerca, non eludibili se si è ricercatori corretti) ci stanno permettendo di inserire quei reperti in contesti più concreti. E questo grazie anche al certosino e faticoso lavoro dei colleghi della Soprintendenza come Alessandro Usai e altri, per i quali è raro l'interesse sui giornali.
Da questo punto di vista mi interesserebbe capire perché l’iscrizione che è palesemente fenicia venga definita nuragica. Qualche dato sarebbe gradito.
Per cui l’invito è quello appunto di documentare più dettagliatamente i rinvenimenti e dedicare qualche riga in meno alle recriminazioni e qualcuna di più alla dimostrazione e ai confronti e, poi, presentarlo al mondo scientifico sottoponendosi al vaglio e alle critiche dello stesso, come facciamo tutti quelli che ci muoviamo in quello ambito.
Così come mi auguro che tutti i ritrovamenti, tutti egualmente interessanti, come anche nel caso (importantissimo) delle tavolette altomedievali di Tziricottu (perché ci ostiniamo a cancellare questo periodo della nostra storia al quale tanto dobbiamo?) siano assicurati alla tutela e alla conservazione, per noi stessi e, soprattutto, per chi verrà dopo di noi.

P.S. - A proposito di Atlantide. Quando parlo di Tzunami mi viene detto che la parte veramente importante è quella dello spostamento delle Colonne d’Ercole (dato peraltro vecchio di qualche decennio), quando parlo di Colonne mi vengono contestati i dati dello Tzunami. Decidetevi. Comunque è Frau stesso a insistere sullo Tzunami come parte centrale della sua tesi, tanto che i finanziamenti li sta cercando per quello e non per le Colonne: infatti lo spostamento delle Colonne è funzionale a dimostrare che Atlantide è la Sardegna. Comunque di Colonne ne esistevano tante e se accetterai il mio invito te le farò vedere; comprese quelle più importanti in Occidente, oltre Gibilterra e presso i fondali fangosi. Parola di archeologo.