martedì 31 gennaio 2012

La stele di Nora domani a Cagliari


Domani alle 16.45, presso la Società operaia in via XX settembre 80, a Cagliari, il glottologo Salvatore Dedola ha organizzato la presentazione, traduzione e commento della Stele di Nora. “Si tratta – scrive Dedola – dell'atto di nascita della lingua sarda, è scritto in lingua sarda pre-romana (o nuragica) con l'alfabeto usato in quell'era in tutto il Mediterraneo”.

domenica 29 gennaio 2012

In memoria di "Sardegna 24"


Quando chiude un quotidiano – e oggi lo ha fatto Sardegna24 – c'è sempre una confessione di impotenza. Ed è un fatto drammatico sia per chi ci lavorava, sia per il gruppo che lo ha edito, sia per chi lo ha accompagnato nella vita illudendosi che fosse forte di lettori e sostenitori. Accomiatandosi, il direttore Giommaria Bellu ha assicurato che si tratterà di una breve assenza dalle edicole e sinceramente sarei contento se così fosse, anche se a me Sardegna24 non piaceva. Né, temo, piacerà se risorgendo continuerà ad essere un giornale fazioso teso a formare più che a informare.
Del resto, il fallimento del quotidiano, perché di questo al momento si tratta, mi pare strettamente legato al suo essere replica settaria di un altro quotidiano legato al centrosinistra, La Nuova Sardegna. Ha affollato un'area politica e culturale che, evidentemente, non è in grado di fornire tanti lettori e sostenitori quanti sono necessari a far vivere due quotidiani, simili nell'ispirazione ideale e diversi quanto a tradizione, radicamento e target, borghese moderato l'uno, intellettuale e agitato l'altro.
Gli scrittori di sinistra, i registi di sinistra, gli artisti di sinistra, gli intellettuali di sinistra si sono raccolti oggi intorno al giornale che chiude per piangere la dipartita di un caro di casa. Uno sforzo finanziario pari a quello retorico avrebbe credo – basta leggerne i nomi – assicurato lunga vita al quotidiano. E, chi sa?, potrebbe contribuire alla rinascita. Tutto sta nel vedere se esiste, in Sardegna, un pubblico di lettori disposto a metter da parte le capacità di riflessione ed accontentarsi di quelle agitatorie. Comunque sia, buona fortuna alla redazione e alla direzione di Sardegna24. Un quotidiano fazioso vivo è sempre meglio di un quotidiano settario morto.

venerdì 27 gennaio 2012

Quando Bonaparte ci mette la coda


Come il diavolo spesso si nasconde nei dettagli, così la battaglia contro “i costi della politica” nasconde a volte la piaga dello statalismo accentratore. Da ormai vecchio sardista, personalmente sono stato sempre contrario alle province in quanto sede di prefetture, di occhi e orecchie, cioè, del centralismo bonapartista. La loro abolizione sarebbe salutare sia per dare alla Repubblica un assetto più rispettoso delle autonomie, per non parlare del federalismo sia per risparmiare denari pubblici. Avete mai letto o sentito gli abolitori delle province parlare di abolizione delle prefetture?
Eppure anche queste costano. Un prefetto (dati del 2009) guadagna da 10 mila a 11 mila e cinquecento euro al mese, quanto o più di un presidente di Regione; un viceprefetto porta a casa da 83 mila a 94 mila euro all'anno, molto più di un consigliere regionale dell'Emilia Romagna; e poi ci sono i viceprefetti aggiunti, i consiglieri, i funzionari. Chi sa quanto risparmierebbe lo Stato rinunciando alle sue nostalgie napoleoniche? Ecco perché provo un gran senso di nausea quando leggo le indignate invocazioni alla abolizione delle province (che comunque rappresentano un momento della vita democratica) e sento silenzio assoluto sull'abolizione delle prefetture che tutto potranno essere, tranne un momento di democrazia ed espressione di autonomia.
È lo stesso fastidio che provo spesso leggendo le sparate “anti-casta” dei professionisti della caccia alla Casta, quali sono Rizzo e Stella, pur riconoscendo ai due giornalisti il merito di aver sollevato lo scandalo degli iperemolumenti e dei privilegi dei ceti politici. Oggi un articolo di Sergio Rizzo ha per titolo “Stipendi record: la giungla delle regioni”. Ecco che la lingua batte sul dolor di denti. La giungla delle regioni. Chi sa se scriverebbe mai un articolo sulla “giungla degli stati Usa” per esempio, dove esistono stati che comminano la pena di morte e altri no, dove la polizia di uno stato non può violare il proprio confine. Eppure, uno stato come il New Hampshire (un milione e trecento mila abitanti) mica è più importante della Sardegna solo perché quello è uno stato e la nostra una regione speciale. È la parola Stato che fa genuflettere, o che altro?
Solo una irresistibile voglia di accentramento può far pensare ad un livellamento (a quale altezza poi?) degli stipendi di governatori e parlamentari regionali per iniziativa esterna alle regioni. “Ha senso che un consigliere regionale dell'Emilia Romagna abbia un appannaggio pari alla metà di quello del consigliere della Sardegna?” si chiede l'indignato. Ed è implicita la risposta. Che, immagino, non sarà: “No, non ha senso: il consigliere emiliano deve guadagnare quanto il sardo”. Scherzo. Ma Rizzo non scherza, quando scrive che “nelle Regioni italiane, l'autonomia ha avuto risvolti insensati, dando vita ad una giungla di privilegi e retribuzioni nella quale sarebbe opportuno mettere finalmente un po' d'ordine”.
Ah i vecchi, bei tempi brezneviani, quando gli stati del Patto di Varsavia godevano di autonomia ma, vivaddio, limitata e responsabile. Quella è l'autonomia sognata. Certo, soprattutto in tempi di magra come quelli che viviamo, sarebbe “opportuno” che si tendesse a risparmiare, abolendo le prefetture, per esempio, e diminuendo gli emolumenti dei parlamentari, regionali e statali. Ma il giorno che sapessimo che il Governo o il Parlamento italiani volessero metter becco nelle questioni del Governo e del Parlamento sardi, non ci sarebbe da mettersi sa berrita a tortu?

giovedì 26 gennaio 2012

La resistenza degli Iliesi: qualche risposta ai commenti


di Giovanni Ugas

Nel rispondere a coloro che sono intervenuti per commentare la mia nota sugli scavi di Sirilò di Orgosolo, debbo precisare che, nel portare la mia attenzione sulla questione, mi sono limitato a rimarcare il fatto che, stando alle fonti storiche, le aree montane interne della Sardegna restarono indipendenti sino al II secolo d.C., e non ho affatto toccato il tema ben più ampio e complesso della costante resistenziale.
Inoltre, non posso fare a meno di premettere, a scanso di equivoci, che né la mia persona né le mie ricerche sono condizionate da preconcetti di alcun genere, poiché non ho mai cercato di sedermi su uno scanno per guardare gli altri dall’alto verso il basso, ma neanche penso di tenere il capo chino; per dirla in breve la diplomazia non è il mio forte e sono per l’uguaglianza dei diritti e dei doveri e non per le gerarchie umane che portano alla fame, non solo culturale, e alla schiavitù di tanti esseri umani. Per di più preferisco ricercare e imparare più che insegnare, anche se talora è doveroso farlo e lo impongono le necessità della vita e il caso come affermava Jacques Monod. Ovviamente nel mio lavoro posso sbagliare, come del resto può errare chi ha voluto leggere la mia nota, ma non accetto giudizi pretestuosi da parte di nessuno. [sighi a lèghere

mercoledì 25 gennaio 2012

E voi che ne dite? Quale destino per Alcoa?


Il blog di Vito Biolchini chiede da un paio di settimane ai propri lettori quale destino riserverebbero, potendo decide, allo stabilimento dell'Alcoa. Decisamente interessanti le risposte: per il 25 per cento andrebbe trovato un nuovo acquirente per lo stabilimento (e pare che trattative in questo senso siano in corso); il 13 per cento vorrebbe fosse nazionalizzato e secondo il 63 per cento, l'Alcoa dovrebbe esser lasciata chiudere e bisognerebbe cominciare a bonificare.
Ripropongo le stesse domande, qui accanto, ai lettori di questo blog. Che ne dite voi?

martedì 24 gennaio 2012

Cara, mi son perso la Sardegna


Metà Sardegna è di nuovo furibonda per colpa di altre omissioni italiane: uno dei quotidiani più importanti della Repubblica, Il Sole-24 ore, si è dimenticato di allegare l'isola alla penisola.
In una cartina geografica, l'organo della Confindustria ha confuso la considerazione che l'Italia ha della sua Matrice, che è notoriamente nulla, con la realtà delle cose: la Sardegna appartiene – purtroppo – all'Italia. Come, del resto, ha confermato qualche ora fa il Governo Monti che ha bocciato, rinviandola alla Corte costituzionale, una legge regionale.
È quella cosiddetta del “Piano casa” che, secondo le vestali che in quei ministeri allignano, avrebbe diversi profili di incostituzionalità. A me non piace molto, quella legge e, probabilmente, se ci fosse in Sardegna una battaglia politica (non ideologica e isterica come quella scatenata nei mesi scorsi) per abolirla o cambiarla, sarei della partita. Ma un conto è combatterla qui, con argomenti che coinvolgono noi sardi, altro conto è riconoscere ad un governo sempre più straniero il diritto di ledere quel po' di autonomia che abbiamo e di comportarsi peggio della Germania con l'Italia.
Quel che temo è che gli oppositori ideologici e isterici brinderanno, magari con cannonau e nuragus, in onore del Governo italiano e della Consulta per aver affossato una legge dell'odiato nemico interno. E poi, naturalmente, si uniranno a tutti gli altri sardi nella protesta contro la cartina geografica del Sole-24 ore, il quale ha dimenticato l'esistenza della Sardegna.

lunedì 23 gennaio 2012

L'Alcoa non deve chiudere. Certo, e poi?

Abbiamo credo tutti la propensione ad emozionarci ai drammi collettivi e molto meno a quelli individuali, alle tragedie dei grandi e non dei piccoli numeri. La minaccia di 500 licenziamenti è un dramma, quella della chiusura di una minuscola attività un triste affare personale. Non è giusto, ma temo che così continueranno ad andare le cose. La capacità di coinvolgere media e gente che conta accresce poi la sensazione di vivere una tragedia sociale. Gli operari e i quadri sindacali della Alcoa di Portovesme sono riusciti a far parlare giornali e telegiornali della loro vicenda (la minacciata chiusura della fabbrica). Ed hanno ottenuto pubblica solidarietà da calciatori e cronisti sportivi e milioni di persone hanno, quindi, saputo che esiste l'Alcoa di Portovesme con il suo carico di drammi.
Non molto tempo fa, l'isola dell'Asinara occupata dai cassa integrati della Vinyls divenne famosa in Europa, e non solo, come sede della lunga protesta operaia. Ancora oggi esiste e funziona il sito che porta il nome della iniziativa ed un molto letto raccontatore delle battaglie sindacali in tutto lo Stato. Mediaticamente efficace, politicamente funzionale a far crescere le simpatie per l'opposizione e anche per la maggioranza regionale che si mossero l'una e l'altra nei confronti del governo Berlusconi.
Di Alcoa, insomma si parla, non è più solo un argomento sindacale, come lo sono, per esempio, la vertenza per il calzificio macomerese Queen e le altre decine che hanno puntellato questi anni di desertificazione industriale della Sardegna. Se ne parla come si è parlato della Vinyls di Portotorres e dell'occupazione dell'Asinara. Operai e sindacati chiedono che l'Alcoa non chiuda, che la multinazionale americana – si è letto anche questo – non pensi solo all'economia ma anche all'etica. Chiedono alla politica di agire, di muoversi per scongiurare la fine della produzione di alluminio in Sardegna. Questa politica di mangiamangia, di membri della Casta, di ladri e fannulloni è, per un attimo, utile, insomma.
Certo non è compito degli operai e dei loro quadri sindacali dire come superare la crisi che comporta la chiusura dell'Alcoa, né lo è dei sindacati che, però, una certa complicità l'hanno con la scelta sciagurata di impiantare in un'isola fabbriche inquinanti e divoratrici di energia. E da quando lo Stato non è più imprenditore, neppure esso può essere invocato come risolutore della crisi. Non può, insomma, sostituirsi alla multinazionale americana per tenere aperta la fabbrica, come, invece, pare suggerire – se non ho capito male – chi dice che l'Alcoa può anche andarsene dalla Sardegna, purché qui rimanga la produzione.
Quale potrebbe dunque essere il ruolo della politica in questa e in altre vicende simili? Il ruolo che fino ad ora non ha esercitato: creare le condizioni, attraverso la zona franca per esempio, per un modello di civiltà nuovo per la nostra isola. Un modello che prenda atto della fine della vecchia industrializzazione e che, se industria ha da essere, sia fondato sulle risorse materiale e umane della Sardegna. Nell'accompagnare l'affermarsi di questo modello, ci sarà bisogno di una grande quantità di lavoratori per riparare i disastri ambientali e ripristinare l'ambiente la cui bellezza dovrò tornare ad essere la caratteristica prima dell'isola.
Un sogno, un'utopia? Forse, ma certo non più sogno ed utopia dell'immaginare una multinazionale statunitense che metta l'etica fra i criteri produttivi.

domenica 22 gennaio 2012

Scrittura dell'età del Bronzo e I Ferro. La microscrittura (pittografica e non) arte straordinaria degli scribi nuragici

di Gigi Sanna

La scrittura nuragica dal punto di vista formale, ovvero quello della composizione e del riporto dei significanti sul supporto, può essere divisa in quattro grandi aspetti o tipi:
1) quello della scrittura monumentale o macroscrittura.
2) quello della scrittura media che potremmo chiamare anche 'normale'.
3) quello della scrittura assai minuscola o microscrittura.
4) quello della scrittura a grandi caratteri riportata, prevalentemente, nei monumenti (nuraghi, tombe di giganti e pozzi sacri)
'Testi' del primo tipo danno le Tombe di Giganti e i Nuraghi (1); del secondo tipo, ad esempio, il coccio di Orani, il ciondolo di Pranu Antas di Allai (2), il coccio del Nuraghe Alvu di Pozzomaggiore (3), la 'rotella' o disco di Palmavera di Alghero (4) e la Stele di Nora (5); del terzo tipo offrono, soprattutto, non pochi oggetti in bronzo e ceramica di cui si dirà più avanti; del quarto offrono infine il nuraghe Aiga di Abbasanta, il masso della capanna di Perdu Pes di Paulilatino, il masso del nuraghe Pitzinnu di Abbasanta, il masso di Losa di Abbasanta e il concio del Nuraghe Nurdole di Orani (6).
Dunque, come si nota facilmente dalla suddetta classificazione, i nuragici passavano consapevolmente, nella realizzazione della scrittura, dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo, con quel gusto della 'variatio' dei significanti, di cui abbiamo detto tante volte; 'variatio' che comprendeva quindi non solo la tipologia alfabetica, di cui tante volte si è parlato anche in questo Blog, ma anche la misura o l'estensione dei segni riportati. Naturalmente non mancano scritte in mix, cioè con caratteri molto grandi mescolati a quelli molto piccoli, come ad es. accade nel concio di Nurdole di Orani (7). [sighi a lèghere]

sabato 21 gennaio 2012

La resistenza degli Iliesi: un evento storico che l’archeologia non smentisce

di Giovanni Ugas

Il nuraghe Sirilò alle porte di Orgosolo
e lontano dal Supramonte
La scoperta archeologica di Sirilò: un’interpretazione - L’amica e collega Maria Ausilia Fadda, autrice di tante e importanti indagini archeologiche, ha effettuato un’interessante scoperta nel sito di Sirilò in agro di Orgosolo a oltre 1000 metri di altezza. Si tratta di un abitato persistito dall’età del Bronzo sino ai tempi del dominio romano nell’isola. A giudizio dell’articolista dell’Unione Sarda Piera Serusi, che in data 18 Gennaio 2012 richiama le considerazioni della Fadda, l’interesse del ritrovamento consisterebbe nel fatto che il mito della Barbagia mai domata è infondato e lo proverebbero i manufatti archeologici. Alle stesse conclusioni indurrebbero le suppellettili emerse dagli scavi nell’antico villaggio di Sant’Efis di Orune. Nella sostanza, con parole forti e decise, nell’articolo si afferma “qui finisce la mistica dell’identità. Qui si sgretola il campionario folk della Barbagia isolata e mai conquistata… un mito infondato che è stato ampiamente strumentalizzato e enfatizzato”.
Occorre attendere una pubblicazione esaustiva degli scavi per avere un quadro più dettagliato e un’analisi più precisa, soprattutto per quanto attiene le diverse sequenze e i contesti stratigrafici, tuttavia, a giudicare dalle notizie sugli elementi della cultura materiale venuti alla luce in tali siti è possibile trarre già alcune considerazioni che, dico subito e in modo non meno deciso, non sono affatto in linea con quanto sostenuto nell’articolo. [sighi a lèghere

venerdì 20 gennaio 2012

Amici che scrivono

di Francu Pilloni


Gianfranco scrive per schietta indignazione; Gigi per scrupoloso insegnamento; Aba con puntiglioso ingegno; Micheli per instancabile precisione; Elio per incorruttibile passione; Giuseppe con ampio respiro; … Grazia per amorevole nostalgia; Rina perché le scoppia dentro.
Io scrivo per noia.
Sì, per noia; e non potrebbe essere altrimenti. Guardo al domani senza emozioni, non ho paura e non ho speranza; so già cosa mi riserva, cosa ci riserva, non per una sorta di prescienza, ma in virtù dell’esperienza, per aver vissuto, nel mio piccolo, più e più volte non gli accadimenti possibili, che sono in numero importante, ma quelli probabili che da noi si ripetono con monotona cadenza.
È come se i corsi e i ricorsi della storia, di cui parlava il Giamba Vico due secoli fa, abbiano subito un’accelerazione impressionante come quegli altri cicli, diventati in fretta bicicli e poi motocicli con velocità che solo il signor Rossi e pochi altri sanno dominare.
Per stare coi piedi nella solidità della cronaca attuale, quanti pensano, e forse trepidano o temono, che il signor Monti riesca a portare a termine il suo programma di governo? A me non vengono i brividi e tantomeno la febbre al pensiero di dipanare il dilemma, perché già so come andrà a finire: Monti farà tanto e farà poco, più di quanto molti lo accreditano, meno di quanto sarebbe servito. Perché? Perché questa è l’Italia, così ha sempre fatto, così sempre sarà. Con la differenza che, un tempo, ogni singolo ciclo storico si sviluppava in vari decenni, aveva bisogno della partecipazione attiva (a volte sofferta) di numerose generazioni di nostri concittadini, mentre al giorno d’oggi un ciclo viene bruciato in qualche mese soltanto.
Ciò che va considerato è che gli Italiani, rispetto all’accelerazione della storia, c’entrano quasi nulla, piuttosto la subiscono, la più parte senza comprenderla. E parlo di Italiani non solamente riferendomi ai singoli cittadini, i poveri cristi di Di Pietro, ma anche alle organizzazioni che hanno montato senza badare a spese Centri Studi di tutto rispetto, allo scopo di investigare e capire in anteprima come gira il mondo. Mi riferisco con tutta evidenza ai partiti politici, ai sindacati dei lavoratori e degli imprenditori e a quante altre forme di associazionismo economico e culturale in cui si articola la società.
Non si creda che alcuno fra gli italiani non abbia compreso per tempo dove sarebbe evoluto il sistema mondiale: fra chi sapeva però, molti hanno taciuto; e chi ha parlato, lo ha fatto nel deserto mediatico.
Un’eccezione c’è, come è sempre lecito supporre: la Chiesa. Abituata da secoli non a contare solamente, ma a valutare i cicli storici dell’intera umanità, in fondo vi è stata costretta dal comportamento del suo Padre-Padrone che, per qualità connaturate, è perfettamente a conoscenza di quanto è prossimo venturo. Pe questo motivo, posso dire che, nel suo immenso, il Padre-Padrone mi assomiglia: è assalito dal tedio.
La ragione della sua noia sta nel modo in cui il mondo va: da tempo ha smesso di buttare l’occhio sul teatro multicentrico in cui uomini e nazioni, mutando gesti, costumi di scena e linguaggio, recitano da sempre lo stesso dramma.
Esiste però, e c’era da supporlo, una non lieve differenza fra la mia noia e la Sua: se è vero che da essa ambedue siamo spinti a scrivere, è altresì storicamente accertato che Egli ha prodotto le Tavole della Legge e le ha imposte al mondo, mentre io elaboro solo idiozie.
E scusa se è poco, Signore, ma in qualche modo dovevo pur distinguermi!

E noi faremo come la Scozia... Noi chi?

Il sito di Renato Soru Sardegna democratica e il quotidiano a lui vicino Sardegna24 hanno pubblicato ieri un articolo dell'ex assessore nel governo Soru, Massimo Dadea, la cui lettura consiglio. E', come vedrete, un appello a fare come in Catalogna e in Scozia. Ma un appello a chi? Al suo partito, a tutto il centrosinistra, a tutto il popolo sardo? O si tratta di uno uno sfogo personale, apprezzabile ma pur sempre effusione fine a se stessa? Mario Carboni ha scritto il commento che segue.


di Mario Carboni

Massimo Dadea, il postcomunista sardo, folgorato dalle dichiarazioni di Sean Connery s'interroga pensoso e Sardegna24 titola il suo articolo "Facciamo come in Scozia".Da ultimo arrivato, ma è sempre meglio di nulla, sembrerebbe un convinto indipendentista, anzi il più avanzato ed irriducibile separatista che ha orrore della contrattazione con lo Stato centrale.
Con un salto della quaglia tipico della cultura della terza internazionale comunista, scavalca i combattuti indipendentisti per poi poterli annettere al grande partito, magari alle prossime elezioni. 
Peccato che invece sia un passo del gambero, tanto all'indietro quanto basta per concludere il ragionamento proclama: "In questo quadro appare quanto mai anacronistico attardarsi a rivendicare per la nostra isola un nuovo Statuto, un nuovo patto costituzionale con lo Stato italiano che riconosca alla Sardegna una più corposa sovranità."
Impossibilitato ad esprimere i contenuti della Sovranità, che comunque, Statuto contrattato come deciso passo in avanti o Costituzione sarda unilaterale che siano, vanno pur espressi in un articolato.
Del resto anche il gruppo che vorrebbe autoeleggersi in Assemblea Costituente non esprime uno straccio di contenuto e il tempo passa. 
Rimane la nostra proposta di Carta de Logu noa ma che si fa finta non esista per non confrontarsi opponendosi, emendandola, aderendo oppure scrivendone un'altra
Dadea allora, di fronte al vuoto pneumatico sull'argomento di settori indipendentisti organizzati e che ripetono Indipendenza come un Mantra senza contenuti né per transizione né per spallata indipendentista, preferisce per corteggiarli meglio il salto con l'asta a parole e la conferma del presente status quo coloniale.
Comunque, fatta salva la buona fede... parliamone..

giovedì 19 gennaio 2012

La costante resistenziale secondo Norace

di Efisio Loi

Leggevo i commenti a Bolognesi e barbaricini e mi mordevo la lingua, o meglio i polpastrelli. Mi dicevo: “Sarà mai che impari a farti i fatti tuoi? Che bisogno c’era di ventilare articoli sulla ‘costante resistenziale’ dei Sardi? È già stato detto tutto e tu ne sai meno dell’ultimo. Ses che turra in culixonis.” Era buio già da un po’ e, stanco per una giornata di caccia (qualcuno avrà da ridire) ai piedi del Gennargentu, me ne andai a letto e mi addormentai quasi subito. Non vi dico i sogni agitati, pieni, di volta in volta, di cachinni e sghignazzi per la mia ‘resistenzialità’ d’accatto. Era una turba di indemoniati che mi volteggiava attorno.
Spiriti della notte addobbati nelle più diverse fogge, dalle pelli di cervo e di cinghiale, alle lane e lini multicolori, dal grezzo cotone al pesante orbace. Non mancavano i pepli eterei, le bianche toghe con sul bordo la greca di rossa porpora; ma c’erano anche pantalonis de arroda con sperra trodhius di ordinanza, gunnedhas, gipponis e camisas de arranda. C’era di tutto, perfino qualche redingote nei diversi stili, per non parlare delle cacarras con tutto l’armamentario dei mamuthones, maschera compresa. Alcuni volteggiavano in mises di alta scuola e in dolci gabbane, alcune su tacchi da “dodici”. Si andava, insomma, dal paleolitico fino al governo Monti, che poi la cosa ha assunto un tono di serietà, di austerità, finalmente.
Finché comparve lui, Norace, più radioso e sfolgorante che mai. Con cenno imperioso impose il silenzio e con qualche parolina, brebus mi son sembrati, fece sparire la reula infernale. Con un sorrisetto da piglianculo si avvicinò ai piedi del letto, sussurrandomi: “Non ti preoccupare per quelli là, erano tutte comparse. Ma, come la mettiamo con l’articoletto?” Io, che già sudavo per la strizza, peggio mi sentii. E lui: “Te lo dirò io come stanno le cose su chi ha resistito, chi resiste e chi ci gioca.” E cominciò.
Alla caduta dell’impero romano il mondo antico si disfaceva e nel buio di secoli tormentati fermentava una spiritualità nuova. La nostra Isola era ancora lì al centro delle rote che collegavano l’est con l’ovest, il sud con il nord dell’intero ecumene. Bisanzio se ne impadronì, i Vandali per un po’ di tempo gliela strapparono, i Bizantini se la ripresero e la tennero per più di 200 anni.
L’economia aveva ripreso a girare con le regole di sempre: scambi, traffici, accordi, crisi e imbrogli. Genti nuove venute dal nord avevano rimpiazzato Roma. A Roma una strana potestà si stava affermando ed era riuscita a fermare la discesa di Attila e dei suoi Unni.
Fatto sta che, preso l’Esarcato d’Africa, presa Cartagine, presa la Spagna e le Baleari da parte dei saraceni, il Mediterraneo smise di essere ‘ mare nostrum’ e noi finimmo per essere abbandonati. Non è che gli Arabi non ci tentarono a più riprese, facendoci vedere i sorci verdi oltreché la loro bandiera di ugual colore, ma, com’è come non è, non diventammo un loro califfato. O non ci cagavano più di tanto, o riuscimmo a tenerli lontani”. A un mio moto di sconcerto, quasi di sdegno, per la prima ipotesi, accentuò il sorrisetto di prima e riprese: “Se ben ti conosco, propendi senz’altro per la seconda possibilità. Ma, a prescindere, in quei frangenti ci venne a mancare la ragion d’essere del resistere.
La nostra “costante resistenziale” perse di continuità e per un po’ di tempo non sapevamo con chi prendercela. Ci toccò perfino metter su uno stato sardo e dal momento che uno sembrava poco, ne tirammo su quattro, chiamandoli Giudicati. Ci fossimo fermati a uno solo chi sa come sarebbe andata. La Storia però, – e dagli col sorrisetto – come ben sai, non si fa con i se e con i ma. Eravamo anche bravini nel campo del diritto e dell’amministrazione della cosa pubblica con soluzioni d'avanguardia che i Continentali manco si sognavano. Per farti un esempio, prendiamo le curatorie e confrontiamole con le attuali otto provincie.
Uno dei meccanismi con cui si bilanciavano i poteri, riguardava proprio l’estensione delle curatorie che non era fissa e immutabile nel tempo ma variava al variare del numero degli abitanti delle stesse. I confini si allargavano, inglobando uno o più paesi limitrofi, al diminuire della popolazione e si restringevano cedendo centri abitati in caso contrario.
Non dico che fosse un meccanismo senza controindicazioni, però vi dovrebbe far riflettere sullo spopolamento della Sardegna centrale e sul divario economico e sociale fra le zone costiere e quelle interne. Di conseguenza, un pensierino lo farei anche sulla inutilità delle provincie in una Regione come la Sardegna. S’acua currit a mari, così come la gente va verso le coste dove un po' di economia gira e va la gente che piace. Qualche bacino di raccolta, però, lo si è fatto nelle zone interne con beneficio indubbio anche per chi si abbronza sulle spiagge dorate. Un qualche sbarramento appetibile e gradito lo si potrebbe pensare anche per i flussi migratori attratti dai miraggi rutilanti e, perlopiù, ingannevoli.
Per non uscire dal seminato, te ne potrò parlare un’altra volta, torniamo alla “costante resistenziale”. La festa dell’autonomia durò poco. Saraceni o no il Mediterraneo riprese la sua funzione non di barriera ma di via di comunicazione. Genova, Pisa, Barcellona ripresero a scorrerlo con le loro navi. Per avere un ricordo di nostre flotte bisogna riportaci agli Shardana, popolo del mare, modestamente”. Non fosse stato per il sorrisetto che mi lasciava spiazzato gli avrei detto di ammainare qualche vela. Come se niente fosse continuò.
Cento navi ci sarebbero bastate per non stare alla carità di questo o di quello, all’alleanza di questo o di quell’altro per metterla nel didietro al nostro vicino. L’Infante di Catalogna, in arrivo dalla Sicilia, l’avremmo fermato in mare e invece ci mazziarono nelle dolci colline di Sanluri, in una domenica mattina assolata, a fine giugno del 1409.” E meno male che la Storia non si fa con i se e con i ma, pensavo io. “Cento e anche di più, a dir la verità, le avevamo, però erano concas e berritas. – Continuava lui –
Comunque riuscimmo a riprendere il nostro percorso di resistenti e ancora lo pratichiamo con profitto, tanto da rifuggire ogni tentazione di un vero Statuto per non doverci ritrovare all'autogoverno, in quest'ultimo periodo soprattutto in cui di agenzie di rating si muore. E poi, diciamoci la verità, di fronte all’Italia che è nata dalla Resistenza e fa un figurone, con  appena centocinquant’anni di esistenza, poterne vantare secoli e secoli, di spirito resistenziale, ti pare poco?”
Così parlò Norace ma il tempo, tiranno come sempre, già me lo portava via per l’incipiente aurora. Ebbe solo il tempo di gridare, prima di sparire, con voce che si confondeva col vento che lo trascinava lontano: “Non ho finito, ritornerò.” Mi svegliai di soprassalto, incredulo, preoccupato e indeciso sull’articolo.

martedì 17 gennaio 2012

Cappellacci dietro la lavagna

di Torchitorio


Fra 18 presidenti di regione (non sono conteggiati quello della Valle d'Aosta e del Trentino-Sud Tirolo) il presidente sardo è l'ultimo nel sondaggio ordinato da Il sole-24 ore. Un posto cui è affezionato, visto che ci finisce da quando è stato eletto, tre anni fa. Lo hanno deciso, è chiaro, elettori sardi selezionati a campione dall'istituto demoscopico, l'Ipr Marketing, per il quotidiano della Confindustria. Un giudizio fatto tutto fra le mura domestiche che da conto del nostro ipercriticismo, non solo, come potrebbe essere ovvio, di un cambiamento di opinione degli elettori che fecero presidente Ugo Cappellacci, preferendolo a Renato Soru.
Che ci sia di meglio del nostro presidente è assolutamente possibile, ma è possibile che non ci sia, dalle Alpi alla Sicilia, qualche governatore meno affidabile? Possibilissimo e anzi certo, risponderebbero gli oppositori che, secondo tradizione, definiscono Cappellacci il più nocivo dei presidenti sardi, così come fecero gli avversari con Renato Soru, a sua volta definito il peggio del peggio. Antropologicamente parlando, è noto che i sardi abbiamo uno sviluppatissimo senso critico, spesso ipercritico con propensione alla disistima. Saranno davvero eccezionali i presidenti del Veneto, della Toscana e della Sicilia (i primi tre in classifica) o nella promozione del leghista Zaia, del democratico Rossi e dell'autonomista Lombardo gioca un ruolo il senso di sé che si ha in quelle regioni?
Ci sarebbe anche un'altra spiegazione, questa volta più politica. Né i leghisti, né i democratici, né gli autonomisti siciliani si vergognano di aver votato i loro campioni. Pare che, invece, disagio provino coloro che hanno votato per il centro-destra berlusconiano, disagio per lo più indotto da chi li considererebbe mandria. Nella mia gioventù, era difficilissimo trovare qualcuno che dicesse di aver votato democristiano. Eppure, chi sa com'è, la Dc vinceva le elezioni.

lunedì 16 gennaio 2012

L'accademia svolta? Vedremo

Sul blog "giovanni" e Gigi Sanna, in lettere personali altri amiche e amici, si chiedono se per caso non ci sia l'inizio di una svolta nel rapporto tra una parte dell'accademia e la questione della scrittura nuragica. E da Udine un altro accademico mi chiede che cosa stia succedendo in merito. La svolta starebbe in una frase, fatta scivolare da Paolo Maninchedda in un articolo che con la faccenda ha nulla a che fare. La frase è: "Per il prossimo numero proporrò a Giovanni e al Comitato scientifico di chiedere a Momo Zucca di scrivere un corposo articolo su quanto sta scrivendo in questi anni sulle epigrafi preistoriche, perché delle due l’una: o Sanna ha ragione e allora deve finire l’ostracismo accademico che lo colpisce; o ha torto e allora bisogna fare onestamente chiarezza. Ma far finta di niente è sbagliato."
Il Giovanni che il consigliere regionale sardista nomina è Giovanni Lupinu che insieme a lui dirige il "Bollettino di studi sardi" e che fu dallo stesso Maninchedda elogiato per il richiamo fatto in un articolo "agli accademici a non prestarsi alle mode: ce n’è veramente abbastanza di linguisti improvvisati che scoprono etimologie a sentimento e parentele con la lingua degli abitanti di Atlantide, di Sodoma e Gomorra, dei nipoti di Ulisse e dei cugini di Iolao, dei parenti di Davide e del custode delle miniere di re Salomone. Sta tornando in voga, nell’età delle patacche televisive, la generazione dei patacconi: siamo sommersi da libri di esperti domestici di filologia semitica, di editori di testi nuragici, di rimasticatori dei libri altrui, di gente che ancora oggi cita Carta Raspi e sodali."
Così come non è detto che l'archeologo Momo Zucca accetti di scrivere un corposo articolo sull'argomento, altrettanto non è scontato che i due direttori del periodico, Lupinu e Maninchedda, si aspettino da Zucca una conferma a quel che l'uno pensa dei "pattaconi" e l'altro condivide. Può anche darsi che il consigliere regionale e studioso abbia avuto un ripensamento, magari su suggerimento di alcuni compagni di partito che - a quel che si sa - hanno vissuto con imbarazzo le uscite di Paolo Maninchedda sia sulla questione della scrittura nuragica sia sull'insegnamento veicolare della lingua sarda e delle alloglotte nell'Università di Sassari.
Momo Zucca, per quel che lo conosco, è un professionista serio, oltre che uomo di profonda cultura, a cui devo una delle migliori presentazioni, a Bauladu, del mio Sa losa de Osana. A che io abbia letto, però non ha sulla faccenda della scrittura nuragica una posizione almeno possibilista. Ma forse hanno ragione gli amici che trovano, in quella piccola frase di Maninchedda, un'apertura. Su che cosa, naturalmente, è tutto da vedere.
PS - Francamente più interessante ho trovato l'articolo con cui Roberto Bolognesi pone alcune domande a Gigi Sanna.

sabato 14 gennaio 2012

Bolognesi e barbaricini

In una lunga serie di articoli sul suo blog, l'amico Roberto Bolognesi tende a contestare con grande forza l'idea di una “costante resistenziale” nelle Terre interne della Sardegna, in particolare la Barbagia, e, soprattutto, a condannare senza appello – definendolo razzista – quanto sul tema della resistenza anti-romana ha scritto Max Leopold Wagner. Il tutto nasce dall'interesse suscitato da un articolo dell'archeologa Maria Ausilia Fadda sulla rivista “Archeologia viva”, articolo che – più nel titolo che nell'argomentazione – se la prende con il mito della impenetrabilità della Barbagia alle armate romane.
Mettere in contrasto la purezza resistenziale di una parte della Sardegna con il collaborazionismo di altre parti, la montagna con la pianura, il mondo pastorale con il mondo contadino, è una corbelleria colossale. Così come, del resto, è una sciocchezza dividere la lingua sarda in logudorese e campidanese come identità non immediatamente intercomunicanti e – anche questo si è detto – espressione di due nazioni distinte, la campidanese, appunto, e la logudorese. Contro questa tesi aberrante, del resto, Bolognesi ha scritto delle cose fondamentali. Questo per dire che, se mai avesse ragione nel subodorare del sub razzismo nel mito della Barbagia resistenziale, io sarei con l'amico Roberto nel prenderne le distanze.
Ma è davvero così? Davvero chi parla della resistenza opposta sui monti – e dove se no? In pianura? - ai romani fa una gerarchia di valori? Qui i puri, lì gli spuri? O, come capita a me quando ne parlo, si suppone che i montanari, anche quelli scappati dalle pianure e qui rifugiatisi, abbiano avuto più possibilità di contrastare l'avanzata dei romani? Che questo constrasto ci sia stato è indubbio. Dubbio è che ad alimentarlo sia stata una specie particolare di sardi, quelli del Gennargentu invece di quelli dei Sette fratelli o del Limbara. “Barbaricini” non è il nome collettivo di genti particolari, ma semplicemente l'appellativo dato dai romani ai “barbari”; la divisione nominalistica in Barbagia di Ollolai, Barbagia di Seulo, Barbagia di Belvì è cosa successiva e non vi capiterà mai di sentire un gavoese dire “Io sono un barbaricino” anziché “sono gavoese”.
Amsicora e Yosto hanno opposto resistenza all'esercito di Roma non sui monti, ma sui monti il vecchio era andato a reclutare combattenti. Segno che si sapeva dei dispiaceri che i montanari ancora allora davano ai conquistatori. In definitiva, sono d'accordo con Bolognesi nel suo tentativo di cacciare dalla porta – e poi anche eventualmente dalla finestra – il sub razzismo che potrebbe nascondersi nell'esaltazione dei barbaricini resistenti e nella presa di distanza dagli altri sardi. Ma suggerirei prudenza nel negare che resistenti ci siano stati. Come spiegare, altrimenti, che tre secoli dopo la conquista della Sardegna, i discendenti dell'impero romano avessero a che fare ancora con una forte enclave resistente guidata da Ospitone?
“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, ha scritto Roberto Bolognesi ripendendo B. Brecht. È vero, ma è anche vero che di popoli beati non ne conosco alcuno. Non si può pretendere – lo dico non a lui, ma alla lunga teoria di intellettuali sardo-metropolitani – che ne faccia a meno un popolo cui si continua a negare la storia, con il pretesto che si tratta di miti.

venerdì 13 gennaio 2012

Alcoa, ci risiamo

Non è facile scrivere, su quanto sta succedendo ai dipendenti dell'Alcoa e a quelli della Queen. qualcosa di più di una cronaca. I lavoratori della fabbrica sulcitana di alluminio e quelli del calzificio di Macomer sono sull'orlo della disperazione per il lavoro che tra breve cesserà di esistere. Intorno alla vicenda della Queen c'è un quasi silenzio rotto qua e là da qualche strillo formale, dietro il quale si legge rassegnazione. La stessa, in fondo, con cui è stata accolta la ingloriosa fine dell'industria tessile in Sardegna, frutto di una sciagurata scelta fatta nel passato da partiti e sindacati che promisero, spero sapendo di mentire, un prospero futuro di lavoro a migliaia di persone.
I dipendenti dell'Alcoa, a quel che si legge e si sente, hanno qualche speranza in più, legata ad impegni assunti nel passato dal governo italiano e dalla multinazionale americana, dopo la grande e unitaria mobilitazione della Sardegna dell'anno scorso. Un'altra protesta unitaria potrebbe forse indurre il governo italiano a insistere sull'Alcoa perché non chiuda subito la fabbrica sarda. Ripetendo, insomma, quel che successe sei mesi fa. È da incoscienti pensare, però, che si possa risolvere in Sardegna, con i costi dell'energia esistenti, la crisi mondiale dell'alluminio, una delle industrie più energivore esistenti.
Della questione, questo blog si è occupato fin da tre anni fa (L'industrializzazione è alla frutta. Politica e sindacato anche), quando cominciò a diffondersi la notizia della prossima chiusura, e poi con un articolo di Mario Carboni sulla storia di una morte annunciata, uno di Efisio Loi, immaginifico come sempre (a proposito, ben tornato, Efis), e infine con la denuncia della vana corsa a tappare buco dopo buco. Forse in diciotto mesi, quanti ne sono passati dall'ultima crisi, non si poteva realizzare una strategia di uscita dalla disastrosa politica industriale realizzata in Sardegna, ma neppure si è cominciato a intravederla. Nella illusione, davvero sciagurata, che l'Alcoa avrebbe avuto davanti a sé un futuro luminoso.
A ben vedere, sta proprio in questa miopia la colpa più grave che va addebitata alla politica e ai sindacati sardi.

mercoledì 11 gennaio 2012

Lo scemo del Villaggio

C'è mezza Sardegna in rivolta contro il comico Paolo Villaggio che ieri, in una trasmissione di Rai 3, ha detto a proposito della bassa natalità nell'Isola: “In Sardegna nascono pochi bimbi perché i sardi s'accoppiano con le pecore. Così mi hanno detto”. Una cretinata, di cui, poi, lo stesso attore si è scusato. C'è stata una caterva di reazioni che vanno da quelle di un gruppo di pastori intenzionato a fare causa a quelle del mondo della cultura e della politica. Inserisco fra queste ultime anche quella del senatore dipietrista Federisco Palomba che, in acuta crisi di astinenza, riesce ad evocare Berlusconi anche in questa circostanza. Dio mio che pena.
Tutti sono indignati per la battuttaccia di Villaggio; chi evoca un razzismo antisardo chi un odio antropologico contro i pastori chi se la prende con l'imprudenza della Rai e chi è più soft. Ma in questo coro c'è una voce altamente stonata, quella di Gavino Ledda che dopo aver dato del coglione al comico e averlo definito “non gente” e non uomo, sentenzia che “non si possono sostenere certe cose di un popolo”. Giustissimo, accidenti e da condividere. Se – forse dettaglio da poco – non fosse stato proprio lui, l'autore di “Padre padrone”, a mettere in giro il pettegolezzo (ben dettagliato, per di più) poi raccolto e diffuso dal padre di Fantozzi.
È pur vero che l'episodio dell'accoppiamento umano con la pecora, è stato enfatizzato nel film omonimo dei fratelli Taviani. Ma lo aveva raccontato Gavino Ledda nel suo romanzo. Un minimo di buon senso avrebbe consigliato Ledda a esimersi dalla feroce condanna di Villaggio: un bue non può dare del cornuto ad un asino.

martedì 10 gennaio 2012

La micrografia di Gianni Atzori e l'inizio della storia. Microcronaca

Gianni Atzori

di Gigi Sanna

Caro Gianfranco,
stavo per completare un mio articolo (che nei prossimi giorni riceverai) sulla 'microscrittura' adoperata dai nuragici su supporto in bronzo e in ceramica, quando mi sono imbattuto in un piccolissimo taccuino (abbandonato, non so come, in un cassetto) appartenente al compianto Gianni Atzori. Ho riletto con fatica lo scritto di quelle poche paginette che, pur non essendo datate, mi hanno permesso comunque di risalire al giorno preciso in cui quegli appunti, 'pro memoria', furono stesi: il 19 giugno del 1998. Una giornata certamente importante, ma non allora: solo per come 'poi' sarebbero andate le cose di cui oggi trattiamo. Si può dire quasi senza soluzione di continuità.
Era il giorno in cui l'agricoltore Andrea Porcu di Cabras consegnò la nota tavoletta bronzea di Tzricotu al dott. Raimondo Zucca perché a sua volta la consegnasse alla Sovrintendenza di Cagliari. Ed era anche il giorno della Conferenza stampa circa il ritrovamento dell'oggetto (dichiarato da alcuni archeologi un 'falso lapideo') durante la quale il documento fu illustrato al pubblico e ai giornalisti nella sala dell'Associazione per lo Sport e la Cultura 'G. Pirina' di Oristano.
Ti mando, per associazione di idee, lo scritto con grafia così minuscola (era il modo abituale, 'nuragico' si direbbe oggi, di scrivere di Gianni) perché mi sembra di una qualche importanza, almeno per la curiosità di coloro che ormai, in questo Blog, ci seguono da tanto tempo: in essi si troverà l'inizio (con l'argomentazione 'in nuce') di quella 'storia' che in fondo continua ancora ai nostri giorni. L'annuncio della scoperta documentaria della scrittura nuragica: con i significanti e i significati spiegati (naturalmente per quanto allora era possibile) in quell'occasione rispettivamente da Gianni Atzori e dal sottoscritto. [sighi a lèghere]

lunedì 9 gennaio 2012

Tra retorica unitarista e federalismo

di Francesco Casula

C’è da augurarsi che l’orgia patriottarda e la retorica italiota siano state consegnate definitivamente al 2011 ormai trascorso e che si possa finalmente ragionare dell’Unità d’Italia serenamente. Ma anche criticamente. Senza che ciò comporti l’accusa di bossismo. O peggio, come capitò all’inizio degli anni ’70, ad alcuni intellettuali neomeridionalisti – fra cui Nicola Zitara, Anton Carlo e Carlo Capecelatro – che furono tacciati dall’Unità, allora organo del PCI, di essere filoborboni e reazionari. Avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento e dello Stato unitario. Cui invece essi attribuivano il colonialismo interno e il sottosviluppo del Meridione.
Insieme alla critica occorrerà ristabilire, con un minimo di decenza storica, alcuni  fatti: l’Unità si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della penisola e fu realizzata dalla Casa savoia, dai suoi ministri – da Cavour in primis – e dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud, il blocco storico gramsciano, contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord, contro gli interessi del popolo, segnatamente di quello contadino e del Sud, contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a vantaggio dell’industria.
Scrive a questo proposito, nel suo capolavoro “Paese d’Ombre” lo scrittore di Villacidro Giuseppe Dessì: Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo”. E l’Italia era “divisa come prima e più di prima, giacché l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati”. E conclude: ”L’unità vera, quella per la quale tanti uomini si erano sacrificati, si sarebbe potuta ottenere soltanto con una federazione degli stati italiani”. Altro che persistere con l’ubriacatura unitarista: con buona pace di Napolitano, questa ancora oggi è la soluzione!

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 9-1-2012

sabato 7 gennaio 2012

I pashdaran dell'ambientalismo in guerra contro i cacciatori

Non sono pregiudizialmente favorevole né contrario alla caccia, prendo atto che c'è chi la pratica e chi la avversa. Ma è dura mandare giù i pashdaran cosiddetti ambientalisti, i loro ukase, la catena di loro ricorsi presso chiunque offra un qualche possibile scacco dei loro nemici cacciatori, il loro disprezzo nei confronti dell'autogoverno, quello della Sardegna compreso. Questa aveva, prima che lo Stato italiano la cedesse all'Ue senza neppure chiederne l'accordo, competenza primaria sulla caccia. Adesso è l'Unione europea a dettare norme in materia e a queste si deve conformare la Regione sarda (ma anche lo Stato) con ristretti margini di autonomia.
Per modesta che sia, anche questa piccola autonomia residua è inconciliabile con il fondamentalismo di chi pensa di aver ragione sempre e comunque per investitura divina. E allora capita che la decisione di allungare di tre giornate la caccia al tordo, assunta nel rispetto del norme europee che per altro – dicono i cacciatori – avrebbero consentito ancora di più, è occasione di altri ricorsi. Questa volta direttamente alla magistratura penale e a quella contabile per – quando si dice l'enfasi – uccisione di animali, furto venatorio e abuso d'ufficio. Anche i cacciatori sono scontenti, per ragioni opposte, ma lasciano in pace magistrati, Commissione europea e Nazioni unite. Quando possono mettono in campo la politica e le proprie lobbies.
Spesso gli atteggiamenti totalizzanti hanno raggiunto gli scopi che le lobbies ambientaliste si erano prefisse, come con i Sic (siti di interesse comunitario), strumenti di tutela ambientale giusti in alcuni ambiti e distruttori di economie in altri. A volte, come nel caso del Parco del Gennargentu, è stato il loro integralismo a convincere le comunità ad opporsi con tutte le loro forze a un progetto di per sé non cattivo. Volevano tutto: comandare nell'ente di gestione al posto dei sindaci e dei consigli comunali, esautorare questi, far sì che fosse la burocrazia ministeriale romana a governare i territori che da millenni fanno parte delle identità comunitarie, etc. Hanno tirato la corda fino a quando si è spezzata. Oggi nel Gennargentu e nelle sue propaggini la stessa parola “parco” evoca espropriazioni e statalizzazione delle terre.
Anche sulla caccia stanno tirando troppo la corda.  

giovedì 5 gennaio 2012

Barbagia, una categoria dello spirito

Tempio del nuraghe di Sirilò

Un articolo di Maria Ausilia Fadda su “Archeologia viva” ha solleticato la curiosità di un giornalista della Adnkronos e, a catena, quella di frequentatori di Facebook. La soprintendente – secondo l'agenzia di stampa – ha sfatato il “mito” della impenetrabilità della Barbagia alle armate romane. Alcuni dei commentatori su Facebook, come si può leggere da qui, si sono inquietati, a buona ragione dicendo che la dottoressa Fadda, scoperta l'acqua calda la fa passare per acqua pesante.
Non ho ancora letto le dieci pagine faddiane su “Archeologia viva”, ma dal riassunto – debbo supporre fedele – della Adnkronos, si ricava che l'irritazione degli amici di Fb è più che fondata. È un testo di poche righe, che già dal titolo fa capire dove va a parare: “Archeologia: i Romani arrivarono in Barbagia, scavi riscrivono storia della Sardegna”.
Vi si dice che “i Romani riuscirono a penetrare nel cuore della Barbagia, piu' precisamente nell'insospettabile Supramonte di Orgosolo, dove nuove scoperte costringono a riscrivere un importante pezzo di storia. In localita' Sirilo', un immenso altopiano calcareo a oltre mille metri di altitudine, ore di cammino a piedi ancora oggi per raggiungere il centro di Orgosolo...”. Sirilò non ha niente a che spartire col Supramonte e per arrivarci dal paese non ci vogliono affatto ore di cammino. Al più ci vorrebbe un'ora. Maria Ausilia Fadda conosce benissimo il sito nuragico di Sirilò, visto che l'ha scavato negli anni scorsi.
Resisto alla maligna tentazione di dubitare che sia lei a parlare di Supramonte e di ore di cammino pur di rafforzare la tesi secondo la quale non ci furono enclave di resistenza neppure nelle cime del Gennargentu. Che i romani avessero una mansio a Sorabile, un chilometro circa da Fonni e che frequentassero l'emporio di Santo Efisio vicino ad Orune è cosa nota. Ed è anche noto che alcuni colleghi della signora Fadda hanno investito e investono intelligenza e risorse non tanto per studiare quel lontano passato quanto per “sfatare il mito della impenetrabilità della Barbagia”. C'è, in questo sforzo, una sorta di revanscismo speculare a quello di sardi che favoleggiano di villaggi inespugnabili come quelli dei galli Asterix e Obelix. In ciò credendo alle cose che dei barbaricini hanno scritto archeologi del passato e studiosi come M. L. Wagner. Operazione idologica quest'ultima, operazione ideologica quella dei “distruttori di miti”.
La faccenda, spogliata di opposti revanscismi, è tutto sommato molto semplice: la Barbagia – a dire dei romani – fu la terra non romanizzata e nel momento stesso in cui fu romanizzata smise di essere Barbagia. O no? Ricordo di aver sentito alla radio italiana, moltissimi anni fa, quando la Sardegna era in preda a una catena di sequestri di persona, un cronista dire “qui a Bonorva, nel cuore della Barbagia”. Una idiozia, va da sé. Ma da il senso di come per alcuni la Barbagia sia una categoria dello spirito e non una zona, per di più non ben definita.

mercoledì 4 gennaio 2012

Annu noeddu miu (a modu miu)

de Francu Pilloni

Annu Noeddu miu,
has fattu prim’ ammostu
in su mari asiau
e t’indi ses assustrau
a biri su logu nostu:
seu in bena de donai
ma no tengiu coraggiu
sa manu de ammostai
poita seu ostaggiu
de su chi nat sa genti,
no m’hia a bolli fai
de atiri differenti,
ma a su tempus presenti
bastat su necessariu
su chi serbit de ordinariu
po morri o po campai.

A mei chi portu in ogus
cantu sprecu in dinai
po cinciddas e fogus:
prus de cos’ ‘e pappai
forzis po un’annu e mesu
in regimi ordinariu
pipiu de logu attesu,
a diversu calendariu
anca sa dì est longa
cand’esti chene pani,
sa vida che unu cani
s’hiat a bolli passai.

Po no mi presentai
de is aturus differenti
no lessisti nienti
chena de mi donai:
finzas su chi no serbit,
imboddiccau in paperi
de oru e de argentu,
donnia spezi’ ‘e unguentu
po sa peddi allisai
e lamparas asullas
po mi dd’accotobiai;
no scarescias ampullas
de binus e licoris ;
e de medas coloris
camisas e crobattas;
a domu no imbattas
chene bittiri froris
cun prenda de amoris
tebidus o buddius
de candu fuaus pipius
a pantalonis cruzzus ;
cadenittas de bruzzus
cun pindallius de oru
po donai decoru
a s’arrelogiu ‘e marca;
streppu chi portu in barca
elettricu portatili
chi m’indittit sa bia
po arribbai a Baratili
partendu de ‘omu mia
poita de sa cranaccia
no bollu perdi traccia.

No bollu perdi arrastu
de su chi fui nendu,
annu chi ses intrendu
po medas ses nefastu,
si mi ponis in menti
ti nau privadamenti:
Bai, torra a furriai!
A nosu lassasì stai
teneus de spapparottai
is ous in pacchitteddus
a Pasca Mann’ arricius
fattus a pilloneddus
chi funti giai impinnius.

Annu miu Noeddu,
innoi has allichidiu,
manteni su fueddu:
bai de cuddu pipiu
e si no t’est abarrau
mancu pani tostau
po culliunai sa brenti,
arzia is ogus a celu
fai finta de nienti,
chistiona a bellabellu
e contaddi una faba:
Ch’ andat in paradisu!
Però, Noeddu, allaba
chi no ti scappit s’arrisu.