giovedì 30 settembre 2010

L'indigesta cassata alla Siciliana

Tutti, o quasi, i media visti o letti titolano i loro articoli sulla fiducia al governo sul fatto che i finiani sono stati decisivi. Le cose non stanno così e sono gli stessi giornali a dare i numeri che mostrano che così non è stato. La maggioranza necessaria ad ottenere la fiducia era 309, pdl e lega avevano 307 voti e con il Movimento per le autonomie 311. Risicatissima, ma la maggioranza c'era anche senza i 31 finiani e i 13 della macedonia. La cosa, insomma, è evidente. Interessante è allora capire perché tutti i giornali, in Sardegna come in Italia, l'hanno nascosta.
Una chiave per capire (che però è la chiave, la voce dal sen fuggita), è che l'Mpa “risponde a logiche siciliane”, è un movimento regionale. Ha contrattato il suo appoggio chiedendo e pretendendo cose a favore della Sicilia e del Meridione in genere. Ha fatto, cioè, quel che normalmente hanno fatto e fanno i nazionalisti baschi e catalani: contrattano l'appoggio ai governi spagnoli non rispondendo a un “sentimento nazionale” spagnolo che non sentono, ma agli interessi delle rispettive nazioni, basca e catalana. È capitato, per esempio, il centrodestra catalano, CiU, abbia indifferentemente appoggiato il socialista Gonzales e il popolare Aznar.
C'è fra questi casi, è vero, una differenza: baschi e catalani hanno contrattato il loro appoggio per una legislatura, i siciliani ora che il governo è in gravi difficoltà, dalle quali – ma questo è un discorso poco interessante – non è certo uscito con un temporaneo voto di fiducia. Quel che mi sembra interessante, anche per l'esempio che la Sardegna potrebbe utilmente cogliere, è che accordi e alleanze potranno essere d'ora in poi fatti fra un governo dello Stato da una parte e partiti regionali e nazionali dall'altro. È già capitato altre volte che la Sicilia si sia fatta valere in quanto tale, con una unità di intenti che i siciliani mostrano davanti a questioni importanti e che noi sardi raramente, e solo su episodi, riusciamo ad avere. Siamo troppo intenti, normalmente, a combatterci fra di noi inquadrati negli eserciti dei prìncipi che si scannano per questioni di cui ai sardi non potrebbe fregare di meno.
È una piccola svolta (piccola per i numeri, intendiamoci) quella alla cui costruzione sta lavorando il Mpa, in sintonia con una visione federalista che non può essere quella del “federalismo solidade”, una sorta di ossimoro inventato dai gattopardi per cambiare in modo che tutto resti com'è. Le entità federate non sono e non possono essere dame di San Vincenzo e, soprattutto, dovranno mettere da parte la retorica della “coesione nazionale” per mirare, se non ad una coesione europea a una coesione repubblicana. All'interno della quale cercare la prosperità dei propri cittadini facendo loro dimenticare l'assistenzialismo e, soprattutto, la certezza che si possa sprecare, godere delle ricadute del clientelismo, perché tanto c'è la “solidarietà nazionale” a ripianare tutto. Ci sarà sempre un Bertolaso che con la sua struttura risolverà la catastrofe dei rifiuti a Napoli e ci sarà sempre una Regione sarda che, in nome del solidarismo, correrà in aiuto alla sua politicamente omologa Regione Campania.
La lezione siciliana, che dovremmo imparare più svelti che possiamo, è che nel federalismo futuro, e anche in questo incerto del presente, non esistono governi dello Stato amici. Ma solo governi con cui si tratta e con cui gli accordi si fanno sulla base del rispetto degli interessi dei popoli o delle popolazioni che si rappresentano. Il resto, temo, sia retorica e ideologia.

mercoledì 29 settembre 2010

Storicizzate, per Diana, e non portate vasi a Samo. Norace dixit

di Efisio Loi

Pensavo, prima di prender sonno, al “resto di un vaso cultuale nuragico” di Gigi Sanna, al dibattito che ne è sorto e a un ‘commento’ di un mio amico che ne lamenta l’assenza fra gli altri ‘cumentarios’, e mi addormentai turbato e indeciso fra Quel Gran Barbuto col braccio proteso, quasi a toccare, col suo, il dito di Adamo che da Lui sembra promanare, e il YHWH mezzo maschio e mezzo femmina, venerato dai nostri antichi padri, a quel che dicono Gigi e Aba.
In questo groviglio di riflessioni mistico-religiose, al mio nuragico non avevo rivolto neanche un pensierino. Quand’ecco, sempre sul far dell’alba, con una ‘mise’ più dimessa, questa volta tutta sul verde, ‘ton sur ton’ (quanto vorrei che Aba non conoscesse il francese… ma non ci spero), mi venne incontro, proprio lui, Norace.
Senza preamboli e senza neanche un saluto se non un rapido cenno con la mano sinistra, che subito portò ad accarezzarsi il mento, mentre la destra la teneva sul manico del pugnale appeso al petto, cominciò ad andare su e giù per la stanza a passo lento e meditato. Non avevo notato fino a quel momento, o se la stava costruendo da poco, una rada e ben curata barbetta, di colore tendente al ramato, che gli incorniciava le guance.
Come se stesse continuando un discorso lasciato sospeso con chi sa chi, prese a dire con fare assorto e distaccato, tanto da lasciarmi insicuro se ce l’avesse con me: “Quel che appare strano, in un’epoca di relativismo spinto, è la poca voglia di storicizzare. Eppure è uno dei più pressanti inviti che vi rivolgete a vicenda e di cui garantite, continuamente, per voi stessi. Non arriverete mai ad ammettere, nello studio del passato, di non riuscire ad applicare ai fenomeni trascorsi questo basilare principio: per comprendere un fatto di ieri, bisogna guardarlo con gli occhi di ieri.
Per avere quello sguardo, non basta sapere, anche alla perfezione, se fosse possibile, l’esatto svolgimento dei fatti e avere a disposizione tutti i relativi documenti, proprio tutti, nessuno escluso. Cosa evidentemente impossibile. Dovreste spogliarvi di tutta l’arroganza e la supponenza che il vostro ‘sapere di più’ vi mette come lente deformante davanti agli occhi.
Siete così convinti di esservi liberati da ogni scoria deleteria del passato, da ogni catena e superstizione, che impedivano la libera visione, tanto che la Verità vi risplende d’avanti. Roba da matti, quando, contemporaneamente, dite che la Verità non esiste, che ad esistere sono ‘le verità’, escludendo che si possa fare una graduatoria di merito o, meglio, che non sia corretto farlo.
Se ci pensate bene, è la peggior forma di doppiezza e di malanimo, dal momento che tale correttezza, non vi impedisce di considerarvi i migliori, anzi, proprio perché vi ritenete i migliori vi potete permettere tanta magnanimità da abbassarvi al livello di chi non è come voi. È la quintessenza del razzismo.        
Tutto questo vale, sia nel piano del tempo: l’uomo di oggi è meglio dell’uomo di ieri, sia sul terreno delle civiltà oggi operanti sulla Terra: non ce n’è una che possa dirsi migliore delle altre; lo dite, però, toccandovi di gomito.
Siete così corretti che una “Commissario Europeo” rampogna aspramente Sarkozy, in nome dei Diritti Universali, per aver cacciato i Rom, quando lei, i Rom, non sa manco chi siano, dal momento che, il suo Paese, il Lussemburgo, i Rom, li tiene lontani dalle frontiere.
Mi dirai – si fermò e guardò verso di me; meno male, non ce l’aveva con chi sa chi – ma perché mi fai questo pistolotto? È stato l’ingresso indiretto di Nicolino De Pasquale nel blog di Gianfranco Pintore e la diatriba che ne è conseguita che mi hanno spinto a venirti a trovare.    
Ci ho visto chiaramente i segni della prospettiva distorta con cui analizzate i fatti del passato, anche quando affettate umiltà e vi dichiarate pieni di dubbi. Tanto, vale, e mi dispiace dirlo, sia per i “negazionisti” (le virgolette sono le mie), sia per chi riconosce in noi, del passato, doti e capacità a lungo negate.   
Ci sarà da farsi quattro risate se per caso le teorie di De Pasquale trovassero conferma. Questa eventualità, però, mi sembra fare il paio con il disvelamento della verità a proposito di una certa casa di Montecarlo. (Diavolo di un nuragico trilobato, sì perché aveva in capo un una specie di tricorno con uno zuccotto prominente al centro, mi dicevo, stai a vedere che si interessa anche di gossip e di dossieraggi, con tutto quel suo parlare forbito). Non perché sia impossibile arrivarci, alla conferma, quanto piuttosto perché sarà avvolta in un polverone di obbiezioni e di distinguo da parte di chi, in tali cose è abituato a menare il can per l’aia, per conservare la nicchia di potere in cui si è acquartierato.
Volevo dire, non ‘menare il can per l’aia” ma “portare i vasi a Samo” che andava più di moda ai miei tempi ma ho avuto paura di ingolfarmi in un conflitto di interessi per via del vostro ‘illiricheddu’.”
Giusto a questo punto il gallo proruppe col suo chicchirichì più sonoro. E Norace dileguò con le sue verdi tonalità che si sciolsero nel violetto e nel rosato che si profilavano a oriente.
Ma guarda un po’! Non riesco a fargli mai le domande che contano: “Ma, Nicolino De Pasquale ha visto giusto o no?”. Dovrò chiedergli di anticipare gli orari di visita, per tenerci a distanza dal canto del gallo, o di ritardare la partenza. Non mi è sembrato un vampiro, per aver paura della luce. Poi dovrò riuscire a vincere lo stato di apprensione commossa che mi prende al suo cospetto e a interrompere il suo soliloquio con qualche domanda.
Giudicate voi! Un reperto così non è da tutti trovarselo per le mani e l’emozione è tanta. 

martedì 28 settembre 2010

La crisi dello Stato nazione non è un maldipancia passeggero

Non ostante i tentativi di imbarbarimento della politica in Sardegna, anche con scandali di riporto, quello sardo non è ceto politico tanto decomposto quanto quello dell'Italia continentale. E anzi si avverte qua e là un desiderio di prenderne le distanze e, in alcuni protagonisti, la coscienza che lo Stato-nazionale è vicino al capolinea. Da qui la prova, assolutamente bypartisan, di sganciamento da questo Stato, vuoi attraverso l'indipendenza statuale, vuoi attraverso processi di acquisizione di sovranità “al limite dell'indipendenza”, vuoi attraverso un ambizioso progetto di ridisegnare dal basso un nuovo Stato italiano che prenda atto della sua natura plurinazionale.
Un'altra parte della società sarda (anche questa bypartisan come la prima) preferisce illudersi che si tratti di una crisi passeggera, una malattia che può essere curata con dosi massicce di retorica patriottarda e di richiami alla “unità d'Italia” robusta e stabile, solo minata da quattro matti da rinchiudere e comunque da isolare o da irridere. Eppure, la coscienza che la crisi dello Stato-nazione sia profonda è molto diffusa, come mostra l'irrompere nel dibattito politico e culturale di concetti come “sentimento nazionale” e “unità nazionale”. Proprio la frequenza ossessiva del richiamo all'uno e all'altro è lì a dimostrare che la loro tenuta è in crisi. Chi si sente italiano, parte cioè della nazione italiana, non rivendica ad ogni momento la propria appartenenza, la dà per scontata.
L'appellarsi, come fanno editorialisti, intellettuali e politici, alla necessità di una “coesione nazionale” in difficoltà è sintomo che qualcosa di profondo sta succedendo. C'è, in editorialisti e intellettuali, la tentazione di confondere causa ed effetto: si addebita, cioè, questa crisi, più avvertita naturalmente nella periferia che nel centro del potere, a fenomeni come il leghismo, l'indipendentismo sardo, il sicilianismo, l'affermarsi delle questioni linguistiche. Sarebbero questi, insomma, all'origine della crisi dello Stato nazione e non il contrario.
Il fatto è che, centocinquanta anni dopo la sua proclamazione, l'unità d'Italia sta mostrando la fragilità estrema delle sue basi anche a chi è convinto che l'unità della Repubblica sia un valore da preservare. Figurarsi negli altri. La formazione della nazione italiana che avrebbe dovuto, secondo D'Azeglio, fare seguito alla trasformazione dello stato sardo in stato italiano, non è riuscita. Il salto dell'Italia da “espressione geografica” a nazione è solo una mozione degli affetti e una ripetizione di slogan enfatici e retorici, incapaci di trasformare il sentimento nazionale proclamato in sentimento nazionale condiviso anche da chi italiano non era.
Le nazioni esistenti prima delle annessioni e che coincidevano con gli stati di allora, spesso a loro volte plurinazionali (come il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie), continuano ad esistere oggi, malgrado la grande mistificazione lessical-politica di Stato=Nazione. Per diversi mesi, gran parte della penisola italiana e la Sicilia fu sarda dopo la sua annessione al Regno di Sardegna, ma certo i napoletani, i siciliani, i parmensi, i toscani non si sentirono Nazione sarda. Come si può pensare che nel giro di poche ore, il 17 marzo 1861, tutti questi popoli furono trasformati d'incanto in “nazionali italiani”? La vulgata patriottarda lo afferma ma non è la realtà. O meglio è una realtà che ha lo stesso peso e valore dell'enfasi europeista: chi dei sardi, dei padani, dei sudtitolesi, degli italiani non si sente europeo? Detto questo, poi ognuno continua ad essere sardo, padano, sudtirolese, italiano.
Come i consiglieri regionali sardi tradurranno queste considerazioni banali in un progetto che stabilisca un rapporto nuovo fra la nazione sarda e le altre nazioni della Repubblica italiana è in mente Dei. Da quel che si capisce leggendo i giornali, il problema non se lo porranno e, come spesso capita in chi ha difficoltà a scegliere, i partiti troveranno forse un accordo non sul che cosa fare ma su come fare. Se questo “come” dovrà essere una commissione, una convenzione, o vattelappesca. Forse è il massimo che si può chiedere alla politica sarda oggi. Importante sarebbe che nel loro documento finale, i deputati sardi avvertissero che i loro elettori sono e si sentono parte di un popolo dotato di diritti internazionali che permangono, quale che sia la coscienza e il coraggio dei loro rappresentanti.

Le foto di Bentzon a Cagliari

A Danish glance at traditional Sardinian culture”, Uno sguardo danese sulla cultura
originaria della Sardegna, è il titolo della mostra che si inaugura oggi e che continuerà sino al 21 novembre nel T Hotel di Cagliari. Si tratta di oltre 80 immagini, commissionate dal Museo Nazionale di Danimarca e realizzate dal fotoreporter danese Andreas Fridolin Weis Bentzon; raccontano il mondo dei suonatori di Launeddas, le danze, le maschere e gli aspetti della vita quotidiana nella Sardegna del secondo dopoguerra.
Durante l'inaugurazione della mostra (oggi alle 19) da parte del fotoreporter Uliano Lucas e di
Dante Olianas, coordinatore dell’Associazione Iscandula, suoneranno Bruno Camedda alla Fisarmonica e Orlando Mascia alle Launeddas.

lunedì 27 settembre 2010

Miracolo: ecco a voi il bronzetto vegetale

Questo reperto è un pezzo vegetale. Parola di un responsabile di museo archeologico a cui, speranzoso, un cittadino del Cagliaritano aveva consegnato il bronzo. Già, perché di bronzo si tratta e anche decisamente antico, a stare al contesto in cui fu trovato sedici anni fa. Gli fu restituito, dopo uno sguardo neppure curioso, come oggetto di nessun interesse: ne facesse quel che voleva.
E il cittadino, sconcertato ma tignoso, ha fatto fare a sue spese l'analisi del reperto da un laboratorio esperto in assistenza e consulenza chimico analitica. Il “referto” è chiaro, il metallo consegnato è composto per il 65 per cento di rame, per il 18 per cento di zinco, per il 5,5% di argento, per il 3,4% di silicio, per il 2,1% di piombo, per l'1,1% di stagno. Seguono in quantità minori altri metalli. Insomma tutto quel che ci vuole per fare il bronzo, come si può leggere a pag. 32 (nota 116) di “Sculture della Sardegna nuragica” di Giovanni Lilliu (anche nella Libreria digitale della Regione).
L'infastidita superficialità del funzionario museale poteva indurre il cittadino a gettare il “vegetale” nel sacchetto dell'umido della spazzatura e invece l'ha conservato e ci ha fatto anche un piccolo video. Un caso isolato di ordinaria supponenza? Mica tanto isolato: non risulta che gli organi preposti alla tutela e alla conservazione abbiano ritirato e protetto reperti come quelli di cui spesso ha parlato in questo blog Gigi Sanna, né che lo stesso abbiano fatto con quelli segnalati da Francu Pilloni.
Massimo Pittau nel suo “Ulisse e Nausica in Sardegna” denunciò nel 1994 che la Soprintendenza, pur informata, non volle saperne di una stele etrusca trovata ad Allai (la “sequestrò” solo un paio di anni or sono nella retata fatta nel Comune del piccolo centro, insieme alle altre iscrizioni etrusche di cui spesso ci siamo occupati).
Il bronzetto vegetale
In un suo commento, l'amico Giandaniele Castangia, obietta: “Basterebbe che il nostro oscuro e zelante personaggio prima la documentasse, fotografasse e ne facesse quello che gli pare con la foto, e poi consegnasse il pezzo ai carabinieri. Se qualcuno lo ha trovato per terra non c`è nulla di più facile e soprattutto nulla da temere. Tenendo il pezzo conservato in casa e non potendolo mostrare se non in foto, cosa cambia? al massimo che tanti non si potranno mai fidare veramente...”. Non c'è dubbio che così dovrebbe accadere e non solo in punta di legge. Ma tale e tanto fondata è la sfiducia nei confronti di chi se ne sbatte della nostra storia, inseguendo le ben protette sue certezze, che viene male fare del moralismo su chi trova qualcosa e preferisce non gettarlo all'ammasso nei magazzini chiusi. Lo so, la legge è legge e va rispettata. E se cominciassero le Soprintendenze a rispettarla, magari dando conto ai contribuenti del perché un loro funzionario definisce un “vegetale” quel che ha tutta l'aria, invece, di un bronzetto? Tanto per instaurare un clima di fiducia.

venerdì 24 settembre 2010

YHWH in 'immagine' pittografica. Prima a Gerusalemme? No, in Sardegna. E con scrittura šardan

di Gigi Sanna

Altri documenti, sia quelli che si vedranno più avanti sia quelli che via via saranno da noi pubblicati a breve, confermeranno il dato sull'aspetto MF del dio nuragico, ma riteniamo che forse nessuno lo possa, con altrettanta chiarezza, come questo che oggi presentiamo. E' stato trovato casualmente da un privato, diverso tempo fa, in una località del centro della Sardegna che qui (per ovvi motivi di prudenza, soprattutto di doverosa tutela del sito) si preferisce non nominare. Si tratta di un coccio (verosimilmente il resto di un manico di un vaso cultuale nuragico) in pasta rossastra di non grandi dimensioni (meno di 7 cm di altezza x 5 cm circa di larghezza.) che reca incisa, con solchi abbastanza profondi, una 'scritta' realizzata in parte in stile pittografico e in parte solo con segni schematici 'lineari'.
La parte pittografica, che procede dalla parte alta del manico, presenta manifestamente un intero 'corpo' umano, ma realizzato per 'dettagli' significativi o pregnanti; in modo tale cioè da suggerire nella parte superiore un "aspetto" femminile, nella parte inferiore un "aspetto" (almeno apparentemente) solo maschile. Nella parte superiore si nota infatti un viso a 'bambolina', reso attraverso un disegno con linee morbide e 'rotondeggianti' che riguardano le guance, ma anche le sopracciglia e la bocca. L'occhio è tracciato solo con un puntino alludente alla pupilla, ben visibile sotto l'arcata sopraccigliare sinistra (a destra di chi guarda la figura), meno visibile sotto quella destra, visibile quest'ultima solo per metà. Al di sopra della fronte una linea non molto marcata denuncia forse l'inizio del disegno della capigliatura, ormai andato perduto, a causa della frattura del manico del vaso,
Il viso è seguito, all'altezza delle guance, da due corte 'braccine' senza il busto (quella a destra leggermente più staccata dal 'corpo') e, all'altezza del mento, da un 'corpo' ('piriforme' o, grosso modo, a triangolo con vertice verso l'alto) la cui femminilità è resa, e direi particolarmente sottolineata dall'ombelico dilatato e dal grembo ampio e 'maternamente' rilassato (per infiniti parti) dalle pieghe (questo verosimilmente il probabile significato delle due grandi linee che lo solcano, leggermente curve e opposte. Concava la superiore e convessa la sottostante)...


Caro Gigi, ci hai fatto aspettare, ma ne valeva la pena. Quel gingillo che ci presenti è, più che straordinario, commovente. Commovente, va da sé, per chi vuol vedere, capire, studiare, interessarsi, anche emozionarsi, pensare a che cosa c'è dietro, a sos mannos nostros che ce l'hanno lasciato in eredità. Per chi, insomma, sente che non tutto lo scibile in materia archeologica ed epigrafica è nella testa di chi proclama pubblicamente (e testualmente): "Prima del primo Millennio aC e addirittura nel IX non si trovano tracce di scritti, fino all'VIII. Eravamo un popolo di muti in quel periodo". O anche per quanti, con altrettanta sicumera e tautologia, afferma che i nostri antichi non scrivevano... perché non scrivevano. Temo - ma non scoraggiamoci perché "ci sarà pure un giudice a Berlino" - che questo coccio farà la fine della barchetta nuragica, del coccio "ugaritico", di quello di Pozzomaggiore e di chi sa quanti altri reperti aspettano nei magazzini delle Soprintendenze che qualcuno, ammettendo di non sapere di epigrafia, si rivolga a chi ne sa. Se proprio il giudice a Berlino non c'è, se ne troverà qualcuno in giro per la Sardegna e l'Italia? Magari qualcuno che sia deciso a chieder conto, nell'interesse dei contribuenti, di questa ormai insopportabile arroganza? [zfp]

giovedì 23 settembre 2010

E finalmente iRS parlò: questo processo ci interessa

Mentre i nostri deputati regionali si annusano per vedere se, alla fine di questa sessione del Parlamento sardo sul Nuovo Statuto, sarà possibile uscirne con una buona proposta unitaria, vale la pena che noi annusiamo che cosa ci sia di nuovo fuori di quell'aula. Una novità che a me sembra importante è che il fondatore di iRS, Gavino Sale, ha rotto il silenzio in cui quel movimento ha avvolto la questione dello Statuto sardo. Ne parlano, militanti e simpatizzanti, nel loro forum, quasi sempre con l'atteggiamento sprezzante di vede al di là dei Lumi un'umanità vagolante nel buio, ma nessuno dei loro dirigenti ha detto qualcosa in merito. Non nel dibattito aperto dalla Nuova Sardegna, non i documenti o comunicati recenti. E questo non ostante alcuni frequentatori del forum li abbia ripetutamente sollecitati.
Lo ha fatto ieri, invece, Gavino Sale sentito da un giornalista della Nuova che lo ha visto ascoltare il dibattito nella tribuna del pubblico. “È un momento storico. Finalmente tutte le forze politiche parlano di indipendenza” ha detto, aggiungendo di ritenere praticabile un progetto condiviso, graduale, verso l’affermazione della nazione sarda. Sale è un buon animale politico, è cosciente che la parola d'ordine “indipendenza”, la cui diffusione è frutto anche dell'azione politica e culturale del suo movimento, può affermarsi senza che le persone la mettano in relazione con iRS. In natura come in politica, il vuoto non esiste: c'è sempre qualcosa o qualcuno che lo colma.
Noi siamo solo la punta dell’iceberg. Quello verso l’indipendenza della Sardegna è ormai un processo storico inarrestabile” dice. Magari c'è un sovrappiù di enfasi e di utopia, ma è certo che, comunque sia, il “processo storico” non può non essere “condiviso e graduale”. La condivisione e la gradualità sono merce rara, almeno stando a quel che si legge nel forum di iRS. Eppure, leggendo o ascoltando il dibattito in corso nel nostro Parlamento, ci si accorge che, pur in mezzo ad autentiche sciocchezze improntate al più becero politichese, emergono posizioni grandemente interessanti. E quel che colpisce è che la parola indipendenza, variamente intesa e variamente partecipata, non è di uno schieramento piuttosto che di un altro, così come la fobia è altrettanto bypartisan.
Escluderei che da quell'aula possa uscire una dichiarazione di indipendenza, ma può uscire una buona dichiarazione di autogoverno della nazione sarda che si fondi anche – come si è sentito questa mattina – sulla costituzionalizzazione della lingua sarda, sulla cui inutilità ai fini dell'indipendenza sarda si sono sentite questa estate fin troppe banalità. Autogoverno, sovranità, indipendenza, federalismo, confederalismo sono i concetti chiave del dibattito in Consiglio regionale. Dire che non sono la stessa cosa è naturalmente giusto e corretto, così come scorretto e ingiusto è dileggiare chiunque non parli di indipendenza. Tutti quei termini faranno parte di un processo di autodeterminazione, altra parola chiave (forse non sempre coscientemente intesa) della discussione in atto. Processo nel quale tutti saremo chiamati a sceglierne uno, se ad un referendum di autodeterminazione dovessimo arrivare.
Immagino che Gavino Sale sia ben cosciente che scegliere l'una soluzione o l'altra avrà bisogno di una battaglia culturale non settaria, non a slogan né preconcettualmente schierata con l'uno o l'altro principe che nella Corte di Roma sono in conflitto. 

Trigonometria Nuragico-egizia


di Davide Marras    


Mi permetto di portare alla vostra attenzione, uno studio sulle cose sarde che penso possa catturare la curiosità dei più preparati, nel saper cogliere i dettagli tecnici, nonché degli altri, come me, che non si possono permettere molte esternazioni, se non per  riconoscere in questo, il miglior biglietto da visita per il Nuragico, nel contesto scientifico internazionale.
L’autore dello studio, l’ing. Nicolino De Pasquale, con la sensibilità e la competenza che lo contraddistinguono,  ha saputo esprimere, tutta la complessità delle sue elaborazioni, in semplici forme e rappresentazioni che sono risultate comprensibili anche ai non addetti ai lavori, io ne sono stato un testimone, alquanto privilegiato, perché tra i pochi con cui ha condiviso le sue scoperte.
Il suo discorso in relazione ai numeri, vale molto di più, secondo il mio umile parere, di tante esposizioni stratigrafiche espresse dai nostri studiosi, nonché dell’operato di tante agenzie isolane, impegnate come sono, da sempre, a richiamare l’attenzione dei tour operator nel mondo.
Esaminando i giochi di Imenmes, conservati al Museo  Louvre, è possibile ricostruire le notevoli conoscenze matematiche e trigonometriche degli antichi egizi. In particolare sul prezioso disco in pietra turchese è inciso a scacchiera un potentissimo sistema di rappresentazione polare-esponenziale, dedotto dalla struttura intima di alcuni frutti, che conduce ad una incredibile semplificazione nella rappresentazione di tutte le funzioni. Queste, anche nelle forme meno elaborate, si caricano di profondi significati, riuscendo a descrivere la crescita di tutti gli esseri vegetali, secondo le proprie fillotassi...

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martedì 21 settembre 2010

"L'Unione", o della libertà di disinformare

Si chiama “L'Unione sarda”, è il maggiore quotidiano nell'isola, ma sarebbe l'ora che restituisse quell'aggettivo, sarda, ai legittimi proprietari. Da tempo, il giornale cagliaritano evita come la peste di occuparsi di tutto ciò che abbia a che fare con l'identità-diversità della Sardegna di cui, evidentemente, promuove la stessa Unione che vollero 163 anni un manipolo di sciagurati che, cappello in mano, andarono a Torino per barattare la secolare autonomia stamentaria in cambio di qualche impiego per loro e per i figli.
Si dà il caso, come si sa, che ieri sia cominciata nel nostro Parlamento una sessione che potrebbe portare la Sardegna ad avere un rapporto completamente nuovo con lo Stato italiano, un rapporto fondato sulla sovranità compartita della Regione e dello Stato, ciascuno nell'ambito delle proprie competenze. Fuori di ogni retorica, sessantadue anni dopo la “concessione” dello Statuto vigente, si tratta – o potrebbe trattarsi – di una svolta storica. Testimone, se non altro per mestiere, di questo fatto importantissimo e forse decisivo per le sorti anche dei suoi lettori, quel giornale neppure se ne è accorto.
O meglio, se ne è accorto, ma lo ha ritenuto di scarsissima importanza, tanto da non dedicargli in prima pagina neppure un titolo, accanto a notizie come queste: “Droga, alcol e poco sonno: come “bersi il cervello””, “Addio Sandra Casa Vianello ora è vuota”. Per trovare un risibile articoletto di 307 parole (quaranta in meno di uno sui “carabinieri del Nas a caccia delle cozze infette”) bisogna arrivare a pagina 6. Quel quotidiano ha fama di appoggiare il centrodestra sardo, il quale schieramento ha presentato una mozione mutuata dalla proposta del Comitato per lo Statuto. Ma non c'è niente da fare: le simpatie politiche non vincono l'indistruttibile vocazione ad una nuova perfetta fusione che consiglia il giornale a far finta che nella sua testata compaia la parola “sarda”.
Libertà di stampa, si dirà. E a ragione: un quotidiano è libero di scrivere, ci mancherebbe altro, quel che vuole e come vuole. E finché ci saranno decine di migliaia di persone contente di essere disinformate, manipolate, condotte per mano verso l'oblio del loro essere parte di un popolo, questo passerà il convento.
L'altro quotidiano sardo, La Nuova Sardegna, che continua a pubblicare – anche oggi – interventi nel dibattito aperto sulla nuova autonomia, ha un grande titolo in prima pagina e due articoli sulla discussione in Consiglio regionale.
Chi avesse voglia e interesse a seguire la discussione, può trovarne sotto la testata i link al sito del Consiglio regionale che pubblica i resoconti ancora non ufficiali del dibattito.

lunedì 20 settembre 2010

Rieccolo: e Norace eccepì...

di Efisio Loi

Ci avrei giurato. Appena letto l’articolo di Davide Marras, ho subito capito che sarebbe stata una cosa inevitabile: in nessun modo sarebbero riusciti ad impedirgli di venire a farmi visita. Infatti, puntuale, come ogni volta nel momento del bisogno (sarà mica il mio angelo custode?), mi compare, sul farsi e il non farsi dell’alba, il nuragico Norace.
Bene, mi son detto, chi sa che non riesca a farmi dire qualcosa in proposito di miti falsi e miti veri. Ma subito ho capito che non era aria. Andava avanti e indietro per la stanza a gran passi, gesticolando con le braccia al cielo in un effluvio di parole per me incomprensibili. Me le mettesse almeno per iscritto, le potrei sottoporre ad Aba, così, per levarmi la curiosità sul turpiloquio dei nuragici. Altrimenti è come vedere un film, facciamo americano, con colonna sonora in lingua originale, senza capirne una cicca. La stessa cosa che mi capita con la medesima Aba, quando, nei suoi post, attacca con l’inglese e va avanti per un pezzo. Colpa mia, si intende, da ignorantone che sono.
Meno male che a un certo punto ‘su bisu’ mi si pianta d’avanti e, con fare corrucciato mi apostrofa: “Ma ita seis amachiendusia?” Proprio così, in una variante del campidanese e che, dall’accento, mi è sembrato fosse il dialetto del mio paese; non essendoci, però, né lettere elle rotacizzate né enne col colpo di glottide, non saprei dire di preciso.

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Fuori dalla devastante sindrome del servo

di Gianfranco Scalas

In questi giorni il Consiglio regionale sarà chiamato a discutere di indipendentismo. Un tema importante che certamente non sfocerà nell’immediato in una chiara ed unificante forma di Stato e di governo.
La Sardegna è una nazione senza Stato a cui è stata riconosciuta una specialità che però, lungo la strada dell’autonomismo, non è riuscita a tracciare un percorso significativo in grado di disegnare quella capacità di programmare e decidere dell'utilizzo di risorse insomma una autodeterminazione che tutti, forse, si attendevano.
Non vi è dubbio che la mozione presentata in Consiglio regionale servirà ad interrogarsi su dove siamo arrivati e soprattutto dove intendiamo andare. Tutto ciò in un contesto in cui la gente ha imparato a vivere legata al cordone ombelicale di una Italia unita e ora verso un'Italia federale e in una Europa degli stati e non dei popoli. Sarà certamente un confronto interessante dove verranno sviscerati concetti come autonomismo, autodeterminazione, sardismo, nazionalismo, nazionalitarismo, indipendenza. Tutti concetti che sembrano non rivestire significato oggettivo, ma transitorio e diversamente interpretabile. Concetti che hanno sempre diviso l’intellighenzia sarda marcando ancor di più il solco per il transito di una politica della prima e della (solo teorica) seconda Repubblica che non ha saputo elaborare alcun progetto sociale, economico, giuridico. Una mozione che, però, rischia di apparire lontana dalle immediate e contingenti richieste della gente, preda di una profonda crisi occupazionale.
I movimenti ed i partiti che reclamano legittimamente e giustamente sovranità, non potranno, allora, che rendere tale dibattito orientato verso gli interessi dei sardi, sintetizzando il confronto in un progetto capace di unire per un rilancio economico e sociale della Sardegna. Fortza Paris (di cui sono presidente) ha scelto di guardare al Partito Nazionale Sardo anche passando se necessario per una Federazione Nazionalitaria che parta dalla rivendicazione del diritto di riconoscimento formale della Sardegna come Nazione all’interno di una Italia Federale. Una Sardegna con proprie capacità di governo, legislative e giudiziarie seppure nel riconoscimento formale e sostanziale dell’ordinamento giuridico in vigore. Poteri che dovranno essere della Nazione Sarda, compresa l’autorità tendenzialmente esclusiva nei rapporti con l’Europa. Allo Stato Italiano il compito di mantenere ed organizzare la difesa, la moneta e la politica estera in contesti e situazioni definite.
Il tempo di essere distratti o affascinati dalla devastante “sindrome del servo” e dai personalismi deve passare. Occorre che per prima la politica, il sindacato e la società civile trovino le ragioni dell’unità partendo da ciò che può essere fatto subito e maturando la coscienza su ciò che deve essere rinviato nel medio e poi nel lungo periodo. Ciò deve avvenire nella consapevolezza che nessuno è titolare di verità assolute, ma elemento fondamentale per un confronto democratico e produttivo di risultati.
Noi saremo certamente disposti a superare il freno dell’autonomia senza preconcetti e senza valutazioni ideologiche preconfezionate dagli usi e dai costumi per contribuire a costruire la Seconda Repubblica Italiana pur essendo disposti a non considerarla come unico punto di approdo. Fortza Paris ha scelto di intraprendere un percorso politico chiaro e lineare. Lo ha fatto con sacrifici scegliendo una chiara libertà di pensiero ed azione politica forse anche perdendo rendite di posizione possibili.. Lo ha fatto rinunciando all’apparentamento con il centrosinistra in occasione delle recenti elezioni provinciali di Cagliari, perdendo almeno un consigliere. Del resto Fortza Paris nacque unendo il Partito del Popolo sardo, i Sardistas e l’Unità del Popolo Sardo. Naturalmente, siamo consapevoli che per contribuire al cambiamento occorre stare nelle istituzioni, ma non siamo disposti a farlo a qualunque prezzo. Il destino della Sardegna è prioritario e, le scelte fatte servono a dimostrarlo.
Nel frattempo, la politica deve governare ad ogni livello senza trascurare alcuna realtà, dimostrando con i fatti la capacità di poter essere in grado di gestire le sorti di una Sardegna autodeterminata.

domenica 19 settembre 2010

I fenici? Mai esistiti e anche Bartoloni sotto sotto...

di Mikkelj Tzoroddu

A distanza di poco più di un anno, eccoci tornare sull’argomento che esacerbò fuori ogni misura, animi sia digiuni della materia sia poco propensi a prendere in considerazione il nuovo che, inesorabile, avanza.
Il 4 Giugno 2010, a Sant’Antioco, la libreria Cultura Popular di Roberto Pintus, organizzò la presentazione del nostro secondo libro (“I fenici non sono mai esistiti”), al cospetto di oltre 120 persone.
Alla presentazione fu invitato anche il professore Piero Bartoloni, il quale declinò l’invito.
Come avemmo a sottolineare nella premessa di tale saggio, in vari momenti della ricerca, finalizzata alla sua stesura, avemmo la netta sensazione che quasi tutti i soggetti, i cui testi furono oggetto d’analisi, lanciassero dei messaggi criptati, provando ad interpretare i quali, era chiaramente percepibile come essi sapessero benissimo che i Fenici non siano mai esistiti. Ed, anche, avemmo sentore di come essi si stessero preparando a dircelo di persona, ma facendo calare dall’alto della loro scranna tale dichiarazione, quasi fosse la nuova verità rivelata, sulla quale vivacchiare per molti altri decenni.
Fummo fin troppo facili profeti!
Il 24 Luglio 2010, alle ore 19,30, nell’aula consiliare della stessa cittadina sulcitana, si tenne il Convegno “Sant'Antioco abbraccia il mare”. Ad esso partecipò il Bartoloni.
Per dimostrare come il concetto espresso nel libro abbia già superato la fase di incubazione e stia positivamente agendo nell’esprimersi del sapere locale, il coordinatore del convegno Paolo Balia, introdusse l’argomento fenicio, proprio in questo modo: «Allora professore, i Fenici non sono esistiti!»...

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sabato 18 settembre 2010

'cidenti, mi tocca parteggiare per Renato Soru

Ma guarda un po' che s'ha da fa': mi tocca difendere Renato Soru, ed è già la terza volta, dalla intellighentsia più statalista del suo partito, il Pd. La prima volta fu quando lo sbertucciò per aver voluto la Limba sarda comune, la seconda fu quando, nel febbraio del 2009, la stessa intellighentsia lo costrinse a togliere la lingua sarda dal suo programma elettorale. Adesso che, insieme a un folto gruppo di consiglieri del suo partito ha presentato una mozione – la ottava – sulla riforma dello Statuto sardo è sotto attacco di uno dei maggiori intellettuali democratici, Guido Melis, che oggi lo maltratta su La Nuova Sardegna, quotidiano cui va riconosciuto il merito di aver sottratto la questione dal silenzio cui sembrava destinata.
Tralasciando per un attimo la questione politica del rimbrotto, l'articolo di Melis si segnala per questa affermazione “storica”: “... deprecando la frettolosa rinuncia del 1847 (avete capito bene: proprio del 1847), quando con la fusione perfetta i sardi rinunciarono alla antica autonomia del Regnum Sardiniae per aderire al giovane Stato piemontese”. Da deputato qual è, Melis può anche essere storicamente grossolano, ma si dà il caso che egli sia Professore ordinario di Storia delle Istituzioni politiche. Gli studenti dovrebbero chiederne l'allontanamento dalle aule universitarie, visto che da quelle parlamentari non possono, ricordando al loro professore che gli sciagurati delegati di tre città sarde chiesero (pentendosene subito dopo) la perfetta fusione della Sardegna – non del Regnum Sardiniae, che sciocchezza – con gli stati di terraferma del Regno di Sardegna.
Aderire al giovane Stato piemontese”?. Ma può un docente di storia delle istituzioni, sia pure fatto a deputato, piegare al suo furore ideologico proprio la storia delle istituzioni? Lo Stato fu stato sardo fino al 17 marzo 1861, quando diventò Stato italiano e mai piemontese. Ancora nel 1859 – dodici anni dopo quei fatti – Cavour e Napoleone III fecero un accordo a Plombières tra “Sardegna e Francia”, di cui, senza disturbare i testi di storia, si trovano comode notizie su Wikipedia. Semplicemente (e sciaguratamente) il Regno di Sardegna si trasformò, in quel 1847, da stato federale in stato unitario.
Se le premesse del ragionamento stanno qui, immaginate il resto. Che può essere riassunto in questo alto pensiero, rispettoso di stati come la Lituania e Malta, Cipro e Cechia e altri “staterelli”, repubbliche delle banane: il mondo sta andando sempre più rapidamente verso la globalizzazione e davanti a stati come la Cina o l'India, gli staterelli non contano un piffero. Giusto, accidenti. Si smantelli lo staterello Italia, che vuoi che contino 60 milioni contro il miliardo e mezzo dei cinesi e il miliardo e duecento milioni di indiani? Racconta una barzelletta cinese: “Ci sono gli italiani che protestano contro la Cina” dice uno e l'altro risponde: “In quale albergo sono scesi?”
Ma lasciamo le frivolezze storico-geografico-nazionaliste. Interessante è la piega che hanno preso la mozione Soru e più, quella di Felicetto Contu, Dedoni e Cuccu e quella di Zuncheddu, Uras, Sechi, Massimo Zedda (vedi sul blog Sette mozioni per lo Statuto sardo). Insistono sulla necessità di revocare la perfetta fusione del 1847 e quindi sulla revoca della costituzione, allora, dello Stato unitario sardo poi trasformatosi in Stato unitario italiano. Secondo il diritto costituzionale, come ricorda Francesco Cesare Casula e riprende la mozione del Pdl, “l'attuale Stato italiano non è altro che l'antico Regno di Sardegna, profondamente mutato nella sua struttura politica e non meno mutato nei suoi confini territoriali. Tutte le trasformazioni che si ebbero, dall'antico Regno di Sardegna ad oggi, furono trasformazioni interne...”. Credo che persone sperimentate come i firmatari delle tre mozioni abbiano piena consapevolezza che, revocando la perfetta fusione, l'adesione dunque allo Stato unitario sardo, si revoca l'adesione allo Stato italiano, figlio del primo. E poi si dice che la storia non serve. Serve, serve, tanto è vero che Guido Melis non ha timore di mistificarla.

PS – C'entrano nulla, ma sono notizie in grado di procurare terribili mal di pancia, come stanno facendo, ai santoni del nazionalstatalismo. In Sicilia, il presidente della Regione trova normale – come per decenni è capitato in Catalogna – fare un governo in Sicilia diverso e contrario a quello italiano che pure si appresta ad appoggiare. Il che sta innescando la volontà di un leader siciliano del partito di Berlusconi di costituire un partito siciliano, sempre di centro destra.  

Segni dall'antichità: in Lombardia li studiano tutti, persino gli archeologi

di Stella del mattino e della sera

Un convegno internazionale  sugli “idoli a pagnotta” (Brotlaibidole), se ne sentono davvero di tutti i colori. Non solo, ma dopo il convegno una mostra , lunga come la fame da suddetta pagnotta . Cosa ci sarà mai di tanto avvincente dico io? Poi scopro che se ne sono occupati i maggiori giornali italiani di queste pagnottine, grosse come un cellulare mi si dice (ma di quelli moderni piccoli piccoli). Piene di segni anche. Non c’è che dire, arrivo sempre tardi, ma meglio tardi che mai. Ringrazio il prezioso collega che mi ha segnalato l’evento.
Troppo tardi per andare al congresso, peccato perché la cena sociale al ristorante La Capra mi attirava. Come mi seduce vedere accostati nello stesso programma titoli quali: “Analisi e comparazioni morfologiche tridimensionali applicate alle Tavolette”, “Some ethno-linguistic and paleo-cognitive hypotheses on ‘Enigmatic Tablet'”, ”Computational intelligence applied to enigmatic tablets in search of their hidden origin”, “Quando il codice non diventa scrittura. Virtù e limiti di uno strumento antichissimo di comunicazione europea.” Non balbettano certo questi signori e di fronte all’esistenza di oltre 300 “pagnottine” tavolette enigmatiche coperte di segni, datate tra il 2200 ed il 1400 a.C. , fanno l’unica cosa possibile: le studiano, sfruttando tutte le competenze a disposizione nel III millennio. Poco importa se sono enigmatiche e se in parte lo rimarranno, enigmatico non è sinonimo di mistico o misterico.
C’è un sito, dove trovate anche la rassegna stampa  ed un recente articolo per chi va di fretta . In altri luoghi del mondo si tiene in un cassetto una navicella nuragica incisa con segni alfabetici dell’età del bronzo, si butta nel dimenticatoio per oltre 30 anni un coccio in ugaritico, non ci si chiede neppure cosa ci fa un’iscrizione fenicia del XI-XII secolo a.C. quando di Fenici non c’era l’ombra, non ci si preoccupa di verificare l’ autenticità e l’età di iscrizioni sulle pareti di nuraghi , sulle pietre che sono diventati sedili,  su sigilli microscopici e di bellezza incomparabile . Molto più semplicemente, se ne nega a priori l'esistenza: così si risparmia energia e non si alimentano derive identitarie.

Caro Stella, agli esempi di politica dello struzzo (povera creatura, innocentemente evocata) che lei segnale vorrei aggiungere un altro che - a quanto mi sussurrano - è se possibile "più struzzesco". Ricorda  l'interrogazione al ministro Bondi sui quattro esempi di scrittura antica? Era della fine di giugno e nessuna risposta è ancora arrivata. E se l'interrogante non insisterà, risposta non ce ne sarà. Già, perché - ecco i sussurri - i funzionari del Ministero avrebbero "preso in carico il documento" e, come naturalmente dev'essere, essi hanno chiesto lumi alla "autorità locale" preposta. E questa avrebbe risposto con un sibillino: per l'amor di Dio. In Lombardia, persino il Consiglio regionale ha sponsorizzato il convegno e la mostra di cui lei parla e che hanno interessato gli archeologi. Qui la sola idea che la Regione finanzi ricerche approfondite e costanti sulla preistoria e la protostoria specifica della Sardegna ha sollevato l'indignazione di un bel po' di archeologi e di sponsor mediatici. Il pretesto è l'Isola di Atlante, questione del tutto incidentale nella proposta, che mira ad altro. In Lombardia si possono studiare le trecento tavolette del XXIII secolo, persino mettendo in conto il loro "enigma" (parola aborrita dall'Accademia sarda che tutto ha capito e tutto sistematizato). Ma si sa, lì non si corre il rischio di derive identitarie. Al massimo si può percorrere la strada della secessione sì, ma per questioni economiche e finanziarie e non per derive nazionaliste. Vuoi mettere?  [zfp]


venerdì 17 settembre 2010

La pianificazione territoriale in epoca nuragica

di Giorgio Valdès


Mauro Peppino Zedda, nel suo bel libro “Archeologia del paesaggio nuragico”, espone una serie di fondamentali concetti in materia di archeoastronomia, rilevando tra l’altro, in maniera  puntuale e rigorosa, l’orientamento degli ingressi delle torri nuragiche e l’allineamento solstiziale ed equinoziale delle torri periferiche di diversi nuraghi complessi.
Nello stesso volume si richiamano anche gli studi di Mauro Maxia, riferiti alle “relazioni geometriche e ambientali” e agli allineamenti di alcuni nuraghi dell’Anglona.
La mia indagine ha invece avuto un indirizzo meno settoriale ed ha riguardato l’intero territorio della Sardegna che, come noto, ha una superficie di 24.090 kmq.
A seguito di tale verifica - effettuata su tutti i fogli della Carta Topografica d’Italia IGM (serie 25, scala 1/25.000)- ho potuto appurare come, in linea generale, tutti i nuraghi della Sardegna siano allineati quantomeno a gruppi di tre.
Si tratta di un principio che presenta solo qualche sporadica eccezione, che chiarirò meglio in seguito.
Per essere più esplicito: si può sempre individuare un’ipotetica linea retta, che partendo da un qualsiasi nuraghe ne tocchi almeno altri due.
I nuraghi indicati nella cartografia IGM sono complessivamente 3.122 (salvo ne sia sfuggito qualcuno), con una densità media, rapportata all’intero territorio della Sardegna, di circa 1 nuraghe ogni 7,7  km. quadrati.
La densità maggiore si registra nel foglio IGM di Paulilàtino, in venti fogli è presente un solo nuraghe, mentre in altri trentasette non si rileva alcun nuraghe.

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giovedì 16 settembre 2010

Riprende la corsa a retrodatare i nuraghi?

di Leonardo Melis

Come tutti (quasi tutti) sappiamo, i nuraghi sono stati datati da Babai Lilliu al XVI secolo con una sorta di punto fermo a impedire la corsa che stava portando i nuraghi stessi a date imbarazzanti.
Appena 15 anni fa si sosteneva che i nuraghi erano databili VII-VI sec. a.C., 10 anni fa si andava sul IX secolo; 5 anni fa si arrivava al XII-XI e Lilliu pose un limite al XVI sec. con la famigerata trave di olivastro, fatta datare al C14 da una studiosa danese.
Dimenticavo però di ricordare che lo Spano, il Pais & C. attribuivano i nuraghi ai fenici del del VI sec. Per tornare alla trave, tempo fa ebbi modo di parlare con un incredibile personaggio che mi rivelò essere quella trave non attendibile. Mentre la persona in questione è più attendibile di tutto il resto della questione. Personaggi compresi. Inutile dire che qui non posso rivelarne il nome, per sua espressa richiesta. Egli però mi autorizza a farlo in seguito, in un tempo da lui stabilito. Questo per una importante ragione. Rimane il fatto che, data la serietà e l'attendibilità della persona in questione, saremo costretti a rivedere ancora le datazioni dei nuraghi: la corsa a retrodatare riprenderà?
Il 14 settembre, Radio Rai international ha trasmesso uno speciale, I nuraghi della Sardegna. In studio: Giorgio Murru. archeologo e direttore del complesso su Nuraxi e Leonardo Melis che durante la
trasmissione ha annunciato rivelazioni sulla datazione del Nuraghe di Barumini effettuata con il C14 su una trave di olivastro trovata all'interno del nuraghe.
Chi volesse può ascoltare la trasmissione in differita cliccando qui

Nuraghi per una rivoluzione culturale, da cima a fondo

di Davide Marras (*)

La Nostra è una Società, quella Sarda,  che solo fino a qualche decennio or sono aveva la capacità di reggere la sua sussistenza con quello che la natura gli ha sempre offerto in abbondanza, clima favorevole, ogni tipologia di risorse e voglia di  fare, tutte le arti erano praticate con orgoglio e con maestria, garantendo per i suoi abitanti, alla maniera antica,  una vita confortante, certo, piena di sacrifici, ma alla portata, dove tutti avevano di che vivere e perfino nella disgrazia, c’era l’abitudine di aiutarsi gli uni gli altri, per tutte le fasi importanti della quotidianità. Ne sono testimonianza le consuetudini, nelle occasioni di perdita del raccolto o  delle greggi,  quando veniva volontariamente rinfoltita dagli altri contadini o pastori, contribuendo così al mantenimento della azienda.
Che dire poi del rapporto tra le persone quando gli screzi venivano risolti durante le feste, nella danza de su ballu ‘e ogai, durante il quale venivano invitati al ballo i contendenti, in cerchio nella pubblica adunanza e se uno dei due rifiutava, veniva estromesso dal ballo e allontanato dalla piazza. Sono questi i racconti dei nostri grandi maestri, quelli che ancora riescono a trasmetterci la quotidianità di quei tempi, i loro usi e costumi, laddove persiste il rapporto con la tradizione, quella che ancora oggi raccoglie i resti della cultura millenaria che ci rappresenta, una cultura che oggi viene sempre più minacciata dalla modernità, con i suoi pregi, che non sono pochi, ma anche con i suoi troppi difetti, frutto di una evoluzione della Cultura Occidentale, accelerata in maniera esponenziale, in questi ultimi decenni, i cui danni sono nell’evidenza di tutti, dovunque, nel nostro vicinato e altrove.
 Ma siamo sicuri che di questa modernità siamo obbligati a recepire indistintamente tutto?
Non si direbbe che in Sardegna siamo mai stati bravi in questo. Quando, per esempio, a scuola si obbligavano gli studenti a parlare l’Italiano anziché il Sardo, usato comunemente in Famiglia e nella Società, molti di loro subivano percosse dai loro insegnanti, ebbene alla lunga hanno si, imparato, e come, la grammatica italiana, ma non rinunciando a parlare il Sardo, il risultato è che, ancora oggi, la nostra Lingua ha resistito a quegli attacchi, anzi è risaputo che i Sardi, in Italia, siano tra quelli che, ancora riescono a parlare meglio l’Italiano, soprattutto quelli che parlano bene il Sardo...

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(*) Associazione Culturale Sardegna Corsica

mercoledì 15 settembre 2010

Sette mozioni per lo Statuto sardo

Pare deciso. Il Consiglio regionale comincerà ad affrontare il 21 settembre la questione delle riforme, quella dello Statuto speciale in primo luogo. Si discuterà sulla base di sette mozioni, alcune delle quali rappresentano un serio sforzo di disegnare un quadro istituzionale nuovo ed originale del rapporto fra la Sardegna e lo Stato. C'è anche chi non resiste alla tentazione di trasportare le sue ossessioni politiche in un campo, quello della scrittura di un nuovo patto fra Sardegna e Stato, che ne farebbe volentieri a meno.
Qui si troveranno i link al sito del Consiglio regionale che le raccoglie tutte, a cominciare dalla prima, quella del Psd'azsull’indipendenza della Sardegna”. Le altre mozioni sono quelle:
  • del Gruppo misto su su "sviluppo e riforme" nell'unità del popolo sardo per il progresso civile ed economico della Sardegna;
  • di quattro consiglieri del Gruppo Comunisti, Sinistra sarda e Rosso morisulla riscrittura dello Statuto sardo e sull'apertura, con lo Stato italiano, del processo di sovranità e indipendenza”;
  • del Gruppo del Pdl “ sulla riscrittura dello Statuto di autonomia della Regione autonoma della Sardegna”;
  • di un consigliere Comunista e di tre di Italia dei valori “ sull'attuazione del federalismo”;
  • di tre consigli del Gruppo Comunisti, Sinistra sarda, Rosso mori “ sull'affermazione del diritto di autodeterminazione dei popoli in funzione del più efficace contrasto all'aggressione e progressivo indebolimento dei valori di libertà, di uguaglianza e solidarietà politica, economica e sociale tra le comunità nazionali, linguistiche e culturali in Sardegna, in Italia e in Europa”;
  • di tre consiglieri, rispettivamente di Udc, Riformatori sardi e Partito democratico “sulla formulazione di un ordine del giorno voto al Parlamento per la stipula di un nuovo patto costituzionale (così come previsto dall'articolo 51 dello Statuto sardo).
Poiché, a parte la mozione del Psd'az sull'indipendenza, su cui è in corso sulla Nuova Sardegna un dibattito che va a suo onore aver cominciato, delle altre sei nulla o quasi è stato scritto, credo interessi i lettori del blog conoscerle nella loro integrità. Lieto se vorranno sobbarcarsi l'impegno di leggerle e, se ne hanno voglia, di commentarle. Anche questo è un modo di partecipare, come sollecitava Efisio Loi, alla discussione dal basso intorno al Nuovo statuto della Sardegna.

PS – La idea di Loi è la stessa che ebbero i promotori del Comitato per lo Statuto che, non a caso, si chiama “Firma per la tua Sardegna”. Ecco cosa scrivevamo nello "Appello del Comitato promotore del nuovo Statuto d'autonomia speciale della Sardegna attraverso una legge di iniziativa popolare": "E' necessario dare voce al popolo sardo perché, alla fine di un profondo dibattito, consegni ai Parlamenti della Repubblica e della Regione la sua volontà di acquisire tutti i poteri e tutte le competenze di cui ha bisogno per trasformare la Sardegna in una terra prospera. Il Comitato promotore per la nuova Carta della Sardegna lancia perciò la proposta di iniziativa popolare “Firma per la tua Sardegna” allo scopo di dibatterne in tutti i Comuni, nelle Province, nei luoghi di lavoro, di aggregazione, di studio e di raccogliere conseguentemente le firme per una nuova Carta di autonomia”.

martedì 14 settembre 2010

Indipendenza: mozione sardista e mozione degli affetti

All'avvicinarsi della discussione nel Consiglio regionale della mozione sardista sull'indipendenza, la politica sarda sta prendendo le forme di un riccio. Come quell'animaletto, si rinchiude sperando che l'autotreno in arrivo lo manchi, lasciandolo indenne e libero di attraversare l'asfalto, verso una macchia rassicurante. Va, dunque, a merito di Mario Segni aver ricordato (domenica su La Nuova Sardegna) l'immanenza di quel che egli chiama “proposta sciagurata”. A Segni ha risposto ieri, sullo stesso giornale, Paolo Maninchedda, che della mozione è coautore.
Non è mai inutile discutere, ma certo sarebbe defatigante e forse sterile farlo con chi considera “l'unità italiana” non il risultato di un processo, virtuoso o no qui non importa, ma un valore assoluto e categorico, una variabile indipendente dai processi storici (che infatti sono generalmente mistificati). Lo stesso fa il mio amico Gianfranco Sabattini in Democrazia oggi. Anche per lui, questa unità è una categoria valoriale, alla quale si possono sacrificare le ricerche storiche, se queste comportano l'indebolimento di quel valore categorico e la conseguente “disgregazione del Paese”.
Sia Mario Segni sia l'amico Sabattini sembrano ignorare che la crisi dello Stato-nazione non può essere frenata con una mozione degli affetti, con l'iniezione di dosi massicce di “sentimento nazionale” o, peggio, con azioni autoritarie. Fermo restando che questa crisi non solo è salutare ma, in tempi non prevedibili, irrisolvibile, l'unità della Repubblica italiana potrà, non so per quanto tempo ancora, esser salva proprio attraversa quel che prevede la mozione sardista. Una confederazione di regioni o macro regioni che intendano costituirsi in entità sovrane. Maninchedda le chiama stati, io temo il termine per tutto ciò che esso comporta in termini di seduzioni hobbesiane, illuministe, hegeliane, etc etc. Un inutile salto nel passato in cui nacquero gli stati-nazione che sono in crisi (si pensi al Belgio) o la cui crisi è esplosa a volte tragicamente, si pensi alla Serbia. Ma non è questo, oggi, l'oggetto del contendere.
Personalmente ho avuto, e in parte conservo, dubbi che una mozione sia strumento adatto a porre una questione di tanta rilevanza, ma devo riconoscere che il documento sardista ha avuto il pregio di metterla all'ordine del giorno del Consiglio regionale che potrebbe, da ora, trasformarsi in Parlamento.
La proposta del Psd'az è largamente sovrapponibile a quella fatta (ed articolata in proposta di legge) dal Comitato per lo Statuto. Maninchedda continua – chi sa perché? - ad ignorarla, anche elencando i documenti sul piatto, dopo averla sbertucciata come “traccia culturale, con una patina di catalanismo conservatore spruzzata di cossighismo monarchico”. Misteri della politica o della iper considerazione di sé?
Certo è che, questo messo da parte, mi ritrovo in quanto Maninchedda afferma nel suo articolo, quando dice di non credere che il fondamento dell'indipendenza “sia di tipo etnico, perché qualsiasi etnicismo sfocia inevitabilmente in razzismo”. La confusione (non casuale e mai innocente) fra nazione ed etnia, questa spesso presa come sinonimo eufemizzante della prima, ha comportato la confusione fra nazionalismo ed etnicismo, per non pagare il dazio della comprensione dei movimenti di liberazione che sono nazionali e non etnici. Quando le etnie, che pure esistono e svolgono una funzione vivificatrice delle nazioni, si pongono problemi di prevalenza su altre, succedono le pulizie etniche. Le nazioni, “cose” culturali e politiche in quanto difendono la propria lingua e la propria cultura, non danno luogo a conflitti; i conflitti sono sempre fra stati, anche quando erano, nel Medioevo, Comuni, Ducati o altro.
“L’identità” scrive Maninchedda “non è un fatto naturale ma è una decisione politica maturata nel consenso democratico (le lingue nascono e muoiono, naturalmente; noi, politicamente, vogliamo difendere la nostra)”. A parte qualche approssimazione, frutto forse della necessità di sintesi (che vuol dire che l'identità “ è una decisione politica maturata nel consenso democratico”? Boh), il problema è proprio lì, nella politica attiva per difendere e rendere dinamica l'identità: la difesa della lingua – elemento primo dell'identità, ma anche di una nazione e persino di uno stato, indipendente o confederato che sia – è una decisione politica. Il che ha una validità speculare: il giudicare superflua la lingua, e comportarsi di conseguenza, è una decisione politica.
È davvero un peccato che nella mozione sardista, la lingua sarda compaia solo in quanto soggetta alla “spoliazione culturale derivante da una sistema scolastico monolingue, ostile alla cultura e alla lingua dei sardi”. Su questo c'è un largo accordo fra i sardi. Che cosa fare, dunque, per invertire il processo di spoliazione? Non è, cari amici sardisti, che anche voi volete rinviare il processo inverso alla spoliazione al giorno dopo che sarà sorto il sole luminoso dell'indipendenza?

PS - Anche stamattina, La Nuova Sardegna ospita un intervento nel dibattito sull'indipendenza. E' la volta di Arturo Parisi che non aggiunge molto di nuovo, ma lo fa con garbo e, soprattutto, con rispetto nei confronti del Consiglio regionale alle prese con la questione. Da segnalare che Parisi parla di Nazione sarda senza corsivi né virgolette, strumenti usati per segnalare che si parla di una cosa diversa da quel che le parole dicono. Ma al direttore della Nuova mica lo freghi così facilmente, ed ecco, infatti l'occhiello del titolo dato all'intervento: LA «NAZIONE» SARDA. Nazione tra virgolette, come si conviene quando fra gentiluomini si accenna a cose scovenienti. Che tristezza.

lunedì 13 settembre 2010

La polemica NUR.AT: marketing mitologico al vaglio dell'ideologia

di DedaloNur


La proposta NUR.AT non diventerà mai legge regionale; in essa, gli obiettivi seri sono annullati da pure velleità; ad essa, non fa seguito alcuna controproposta capace di condividerne almeno gli aspetti positivi, ma solo reazioni di scherno e di condanna, con un unico esito possibile: alzarsi dal tavolo e sbattere la porta; fin da adesso è sin troppo facile prevedere come tutto cadrà nel nulla.
Fatto salvo l'accenno ad un generico primato della pura ricerca, nulla di preciso vien detto sull'effettivo esercizio del potere di borsa del NUR.AT. Nella scelta dello scavo da finanziare prevarrà il valore turistico o quello scientifico e chi e come stabilisce l'uno e l'altro? Un ipotetico archeologo dovrebbe garantire prove indiziarie su Atlantide per poter scavare?
Come si possono sommare in un unico ente, competenze concorrenti ai vari assessorati in fatto di: turismo, marketing, archeologia, scuola e formazione?
Le eterogenee materie attribuite al NUR.AT determinerebbero talmente tanti conflitti di competenza da far quasi impallidire persino i problemi sorti dalla riforma dell'art. 117 Cost.
Qualcosa del genere non potrà mai funzionare, anche per questo se ne intravede il fallimento, a meno che, la volontà di creare un carrozzone inutile non risulti talmente tenace da risultare vittoriosa. Sarebbe stato più realistico e semplice una sede di coordinamento tra i vari assessorati, per gestire i finanziamenti destinati alle ricerche archeologiche, senza, oltretutto, nuove poltrone e prebende. Ma in questa vicenda è proprio il realismo a latitare.

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domenica 12 settembre 2010

Il troiano e lo shardana di Medineth Abu

di Giorgio Valdès

Credo che con il contributo di tutti quelli che hanno a cuore la nostra isola e siano soprattutto disposti ad ascoltare i pareri degli altri senza preclusioni mentali di sorta e posizioni preconcette, si riuscirà a completare il complicato puzzle del periodo più glorioso della nostra storia.
Periodo che presenta straordinarie affinità con la civiltà egizia, come confermato, per buona fortuna di noi eretici, anche dal professor Giovanni Ugas.
Con l’Egitto avevamo a quei tempi rapporti altalenanti ed i nostri progenitori, che non erano sicuramente confezionati con la farina per far ostie, a volte svolgevano il compito di guardie scelte del faraone, a volte si alleavano con i suoi nemici. Sta di fatto che la protostoria della Sardegna è intimamente connessa con quella egizia.
Riporto qui a lato l’immagine di un bassorilievo di Medineth Abu, tratto dal libro “I segreti dei Geroglifici” di Hilary Wilson, dove compaiono un troiano ed un shardana, fatti prigionieri dalle truppe di Ramesse III, che regnò in Egitto tra il 1197 ed il 1165 a.C, proprio nel periodo della guerra di Troia.
Che si tratti di un troiano e di un shardana si rileva non solo dai rispettivi copricapi, ma dalle scritte geroglifiche che riportano rispettivamente i nomi di Tjkeary (Teucro) e di Shardana (scritto proprio come si pronuncia).
Propongo questa immagine perché ci sono alcune curiosità da osservare.
Innanzi tutto si può ipotizzare che terminata la guerra di Troia, i due compagni di sventura, prima di proseguire per la Sardegna -come riportato nel mio saggio su Atlantide e Tartesso -, avessero fatto una capatina in Egitto senza sapere a che iattura stavano andando incontro.
Ma l’immagine è anche dimostrativa delle frequentazioni egizie delle nostre antiche popolazioni, e tale circostanza è dimostrata, tra l’altro, dal bastone da lancio (quella specie di boomerang riportato su entrambe le iscrizioni) che in geroglifico si scriveva m3t (pronuncia mat), simbolo delle popolazioni straniere.
Lo stesso bastone che rappresentava l’arma di diversi guerrieri nuragici raffigurati nei “bronzetti”.
Tanto premesso vorrei ricollegarmi ad un altro articolo, pubblicato sul blog, che porta la firma di Giuseppe Mura e si intitola ”Il Giardino delle Esperidi? a Cagliari!”.
Innanzi tutto mi complimento con l’autore per la ricerca minuziosa e le interessantissime intuizioni riportate, ma vorrei anche esprimere la mia soddisfazione per essere entrambi giunti, sebbene per vie diverse, a collocare correttamente Tartesso in Sardegna.
E poco importa che fosse un po’ più a sud o un po’ più a Nord, mentre rileva, in senso assoluto, la sua ubicazione nella nostra isola, specie per le conseguenze storiche (e promozionali) che potrebbero derivarne (credo che al Governo spagnolo, che ha speso e continua a spendere una fortuna per dimostrare che la biblica terra dei metalli si trovava nei pressi di Cadice, presto ronzeranno le orecchie).
Vorrei tuttavia aggiungere un’altra osservazione che ritengo possa rinforzare le teorie proposte da Giuseppe Mura.
Nell’articolo di Antonio Bonifacio, riportato alla fine del mio studio, si parlava di Osiride, “primo degli abitanti della terra d’occidente” e “re eterno nei Campi di Yalu e nella terra del sacro Amenti”.
In realtà i “campi di Yalu”, “la terra del sacro Amenti”, i “Campi Elisi”, “il Giardino delle Esperidi”, rappresentavano tutti, anche se sotto differenti forme, lo stesso regno dei morti; un luogo paradisiaco situato in un’isola posta ad Occidente e comunque legato alle antiche tradizioni egizie ed alla leggenda atlantidea.
Nell’antico Egitto i campi di Yalu (o Yaru) erano la residenza dei defunti e venivano raffigurati, in termini geroglifici nella maniera qui accanto riportata, raffigurazione che si leggeva sekhet iaru, e significava “campi di canne”. Ma ogni ramo che appare dopo il pulcino, è un fonogramma bilittero dal significato di erba, che si scrive “hn” e può leggersi come “han”.
La triplice ripetizione del ramo significa invece grande quantità d’erba, di canne o di piante (cfr. Betrò: “Geroglifici”), si scrive “hnw” e può leggersi “hanw”.
La scritta sopra riportata potrebbe allora ragionevolmente interpretarsi come “campi di hanw” o “campid’anw”.
Non ci ricorda qualcosa?

sabato 11 settembre 2010

Roberto Bolognesi, aspettami. Vengo anche io

Nella sua bella invettiva, Roberto Bolognesi annuncia la sua decisione di gettare la spugna e di non impegnare più le sue risorse intellettuali e professionali nella battaglia per la lingua sarda. Mi andrebbe di dirgli, aspetta vengo anche io. Come lui, sento profonda una disillusione: decenni di battaglie hanno convinto persino il Parlamento italiano a tutelare il sardo insieme ad altre undici lingue sopravvissute alla italianizzazione forzata dei popoli che convivono nella Repubblica italiana. Hanno fatto cambiare idea ai partiti italiani presenti in Sardegna che alla fine hanno dotato i sardi di una legge di tutela e valorizzazione del sardo e delle altre lingue (gallurese, sassarese, catalano d'Alghero e tabarchino) parlate nell'Isola.
Che i partiti italiani siano convinti (al loro interno in maniera profonda) della necessità di rendere normale e ufficiale il sardo non saprei dire. I segnali sono estremamente contraddittori. Il governo sardo di centro destra ha dichiarato la lingua motore dello sviluppo, ma poi non di mettere carburante in questo motore, ma alla prima occasione di tagli richiesti cerca di ridurre alla metà i suoi finanziamenti per la lingua che già prima, ed ecco il paradosso, erano minori di quelli stanziati dallo Stato per lo stesso scopo.
Il senatore Francesco Sanna, del Pd, ci ha informato che i suoi parlamentari hanno tentato, con l'opposizione del Pdl e della Lega, di introdurre l'obbligo per la Rai di fare trasmissioni in sardo nell'Isola e di rispettare, quindi, il dettato della Legge 482 di tutela delle lingue delle minoranze storiche (nazionali, le chiama l'Unione europea). Il partito del senatore Sanna, però, nel programma della sua festa in corso a Cagliari, in nessuno dei dieci giorni prevede qualcosa che si assomigli ad interesse per la lingua sarda.
Dispiace questa insensibilità dei grandi schieramenti italiani, ma è nell'ordine delle cose ed, anzi, è grasso che cola qualsiasi loro apertura alla questione. Nessuno di questi schieramenti ha, se non per loro parti (Psd'az soprattutto), progetti di indipendenza della Sardegna, declinando semmai forme più o meno avanzate di sovranità. Il dramma (che, come dirò, potrebbe preludere alla tragedia) è nella politica dei movimenti che puntano dichiaratamente all'indipendenza. Della bizzarra idea di iRS sulla superfluità della lingua in vista della conquista dello Stato sardo, si è detto molto, pur se non abbastanza. Vale la pena seguire, con partecipazione, gli sforzi che tanti militanti di iRS conducono per convincere i loro dirigenti che la menano con l'Irlanda come esempio di stato fattosi indipendente con l'uso dell'inglese.
Ma guardate la foto del manifesto che convoca una marcia per il “Indipendance day”, cercatevi una parola in sardo e immaginate se un errore del genere possa esser fatto, che so?, in Galizia, in Catalogna o nei Paesi baschi. Quel “Indipendance day” ha il sapore di un conformistica replica dei tanti “Vaff day”, “Aliga day”, “No Berlusconi day”. Un bel “Die de s'indipendèntzia” (leggibile e comprensibile anche da chi non conoscenze il sardo) non avrebbe dato forse l'idea, senza prenderla in prestito necessariamente dalla cultura politica italiana? Ma anche le due parole inglesi, se proprio non se ne può fare a meno, avrebbero potuto essere usate in un contesto sardo o bilingue. Avrebbe dato la sensazione che la lingua sarda è almeno uno degli elementi del progetto che sta dietro la marcia. E invece no.
È invalsa, in questo mondo che sentivo vicino, come credo lo sentisse l'amico Bolognesi, la folle idea che è ben riassunta in commenti (su Facebook) alla questione sollevata da Roberto Bolognesi. La riassumo: gli irlandesi hanno conquistato l'indipendenza parlando in inglese e una volta costruito il loro stato hanno reintrodotto il gaelico. Questa constatazione è presa come modello per la Sardegna dove il sardo è, per fortuna, lingua viva e vitale e presuppone la decisione di lasciar morire la lingua, o comunque non aiutarla a vivere, per poi fare l'operazione di scavo archeologico compiuta in Euskadi e in Corsica. Si può essere più incoscienti? Ho scelto Euskadi e Corsica perché sono significativi del percorso che si immagina per la Sardegna.
Lì – ed ecco la tragedia di cui parlavo – la riconquista dell'euskera e del corsu è avvenuta e sta avvenendo a costo di devastanti terrorismo e lotta armata. Nelle due nazionalità europee ci fu un insieme di politica attiva di genocidio culturale e di correità della maggioranza dei due popoli, affascinata dall'idea di sentirsi spagnoli o francesi. Quando si sono resi conto di aver perso il segno distintivo della loro identità era troppo tardi ed élite, per di più intellettuali, si riproposero di riconquistare la lingua perduta. Alcune con azioni culturali, altre con azioni armate.
Che senso ha, per pura poltronite, disinteressarsi della lingua nazionale e/o rassegnarsi al suo declino, sognando un suo faticoso recupero dopo che sarà spuntato il sole dell'indipendenza?