Andrea Lai sta suscitando su un suo articolo un interessante dibattito intorno alle questioni dell’identità che spero non sia sfuggito ai lettori di questo blog. I termini della questione non sono nuovi, risalgono almeno all’affermazione dei giacobini e alla sconfitta dei girondini durante la Rivoluzione francese.
Da un lato l’accentramento, la negazione assoluta della pluralità delle culture e delle identità all’interno dello Stato, la titolarità di diritti in capo ai cittadini e la inesistenza di popoli diversi dal francese. Dall’altra parte apertura a qualcosa di simile al moderno federalismo, con tutto ciò che essa comporta.
Credo che di ciò Lai sia consapevole e dunque passiamo ad altro. Penso che Lai abbia ragione a prendersela con “l’identità” immobile, autoriproducentesi e quindi chiusa. Ma, salvo alcuni nostalgici del bel tempo passato, gli altri hanno in mente una identità dinamica, fatta di meticciati, di reciproche acculturazioni cominciate nel paleolitico e ancora in corso. Anche per questo, personalmente ho in forte sospetto l’etnicismo e sono convinto sostenitore, invece, del nazionalismo sardo, frutto, appunto, non di purezze identitarie e/o etniche. Se si esaminano le cose senza i paraocchi imposti dalla filosofia del dominio, le cose diventano più chiare. Il dominio ha inventato gli stati-nazione, confondendo stato con nazione, per rendere buona la nazione statuale e pessimo il nazionalismo di popoli diversi dal maggioritario.
L’identità nazionale è, così, ben diversa dalla identità etnica: questa, in virtù della pretesa purezza, può produrre guerre. Le cosiddette guerre nazionali sono in realtà guerre fra stati che pretendono di essere nazioni. Non è stata la nazione italiana a invadere l’Abissinia, è stato lo Stato italiano. Le nazioni, dal Kosovo alla Croazia a Timor Leste, non hanno scatenato guerre, le hanno subite. Il loro progetto non è stato espansionista, questo è il marchio dello Stato. È vero anche che sono le etnie represse ad entrare in conflitto, spesso armato, con gli stati di riferimento.
Parliamo quindi di identità nazionali che, ha ragione Andrea Lai, non sono una identità solo ma diverse identità. Ma sono identità sarde. Se a un abitante di Firenze chiedi che cosa è ti dirà “Sono fiorentino”, quasi mai “Sono toscano”. Se la stessa cosa chiedi a uno di noi si sentirà rispondere “Sono sardo”, più raramente “Sono olianese”. Qualcosa vorrà pur dire. Vuol dire, a mio parere, che il senso di appartenenza a una comunità nazionale è più forte del senso di appartenenza ad una comunità etnica o, come diceva Michelangelo Pira, ad una delle trecentosettanta “microetnie” che popolano la Sardegna.
Certo, anch’io, come tutti sono “io”, ho una identità personale, ma mi sento più sicuro sapendo e pensando che insieme ad una identità personale possiedo una identità collettiva, l’unica capace di resistere a chi desidererebbe tanto che i sardi fossero chentu concas e chentu berritas individualiste, invece che individuali.
17 commenti:
Caro ZFP,
ogni volta che sentivo parlare d'identità, mi veniva l'acqualina in bocca. Poi un giorno, in una conferenza, Bachisio Bandino affermò che, contrariamente a quanto si crede normalmente, noi sardi abbiamo un'identità debole.
Ci rimasi così male che non ricordo neppure come argomentò questa sua affermazione. Ho vissuto dieci anni rimuginado un "Eppur ce l'ho!" come Galileo diceva "Eppur si muove" per la Terra, naturalmente con meno prove scientifiche di quante ne possedeva l'astronomo.
Finché mi è passato per le mani un libro, che non è neppure facile da leggere, intitolato "Contro l'identità" di Francesco Remotti.
Solo allora ho capito cosa forse avesse voluto dire Bandino e fra me e me mi sono consolato del fatto che, per fortuna, noi sardi non abbiamo una forte identità. Come popolo, s'intende.
Perché "identità" vuol dire un sacco di cose, si presta ad equivoci tremendi, un po' come la lettera J in sardo, nel sardo creativo voglio dire, dato che c'è chi in logudorese storicamente la legge come la X campidanese (cioè alla francese come in jour), chi la legge solamente come I (e non si capisce a cosa serva) e chi infine la legge all'inglese, come Jara (Giara), janas (domus de gianas).
Ecco, lasciando perdere l'identità individuale, che qui non entra in ballo, in genere si parla di identità del popolo sardo, da salvaguardare, da rafforzare e non so cos'altro ancora, specialmente in campagna elettorale.
Le comunità che possiedono una forte identità comunitaria, non solo sono chiuse, cioè hanno un deficit di comunicazione-comprensione col mondo, ma sono anche pericolose per gli stessi membri della comunità e per chi non ne fa parte.
Nel mio piccolo, ne ho descritto i meccanismi in un romanzo (Ogus citius) ambientato nel mio paese d'origine, una piccola comunità della Marmilla, campanilista, identitaria, fortemente antagonista nei confronti delle altre piccole comunità.
Chi vorrebbe rafforzare ancora una identità di tal fatta?
Diverso il caso in cui si voglia intendere quella forte omogeneità della millenaria cultura sarda, delle tradizioni, dei costumi, tutte quelle cose che ci avvicinano e non ci dividono, come il rispetto per la natura, per l'acqua, per le donne e per i bambini...
Ecco, io credo che la lingua sarda esprime al meglio ed è profondamente legata alle conoscenze specifiche della nostra cultura che è alta, anche se profondamente contadina e pastorale, dal momento che ci permette di regolare la vita, i rapporti interpesonali in maniera pacifica. E quando così non è (e purtroppo sta avvenendo sempre più spesso), non si tratta solo di una ferita alla legalità: io vivo questi fatti come episodi di inciviltà e di incultura, nel senso che mi offendono più come sardo che come cittadino italiano.
Spero che sia chiaro, ma qui mi fermo, ché mi sono dilungato anche troppo.
Francu Pilloni
ZFPintore, Francu Pilloni, Andrea Lai, frades caros,
se per assurdo l’identità collettiva dei Sardi non fosse mai esistita avremmo adesso, subito la necessità di delinearla in qualche modo. Forse gioca la paura che si voglia far indossare a tutti la mastruca in questo rifiuto categorico dell’identità, il che è ridicolo, non c’è nessuno che lo voglia, se non forse proprio chi vuole impedire ai sardi di costruirsi una loro identità e cristallizzare immagini negative di miseria e arretratezza. Un sardo che intenda riprendere possesso della propria storia, senza mitizzarla, non può non opporsi al saccheggio e alla demolizione della nostra identità collettiva di Popolo. La nostra storia per ora la leggiamo nelle ricostruzioni dei nostri detrattori, di chi ci ha sempre guardato con sufficienza e puzza al naso. L'immagine della Sardegna chiusa fa parte di questa malevola propaganda, di cui ci avvertiva Maurice Le Lannou sgridandoci per il nostro atteggiamento passivo. In realtà la chiusura, in passato dovuta anche alle misere condizioni economiche, ci è in vari modi largamente imposta. Occorre, lo diceva una decina d'anni fa Gian Giacomo Ortu, restituire alla Sardegna il suo passato europeo. Non è affatto vero che l'isola nei secoli passati era fuori dal mondo. Questa fandonia mi pare se la siano bevuta in troppi.
L'identità collettiva, come quella della singola persona è in divenire e dobbiamo gestirla e guidarla in positivo. In altri termini dobbiamo rigettare l’identità negativa. La negazione della propria identità è come tagliarsi gli attributi.. Per assumere poi un'identità cosmopolita di maniera? Personalmente, da genitore e insegnante, sto incoraggiando i giovani a uscire per gli studi universitari, perché ritengo poveri gli stimoli culturali in Sardegna e perché devono contrariamente a noi imparare più lingue. Ma vorrei tanto che uscissero coscienti di essere sardi, ossia che imparino la storia dell'isola e la lingua dei loro nonni, per essere forti e pronti ad ogni confronto e sfida.
In certi discorsi trovo tracce di un internazionalismo datato di matrice comunista. Lo vogliamo o non lo vogliamo accettare il fatto evidente che a nostro danno dal fascismo ad oggi si sta perpetrando un genocidio culturale? Se penso che nonostante mio padre venerasse la figura della madre morta prematuramente e al tempo stesso, con metodo, rifiutava di insegnarci la sua lingua materna e poi associo questa riflessione alle posizioni che leggo, di puro provincialismo, mi arrabbio sul serio. Custu bos deppio narrer frades sardos, mancari isateros non mi bidies comente frade.
Atzori frade meu,
ma lèghidos bene los as sos artìculos meos e de Francu Pilloni?
No est chi ti leat sa gana de criticare sos chi che a tie crìticant su giacobinismu e s'internatzionalismu de sa Tertzia internatzionale?
Mi paret chi semus, nessi deo lu so, de acordu a pitzos de s'identidade de sos sardos. E tando pro ite pònnere totu in sa matessi faschina?
Questo dibattito è davvero piacevole e istruttivo. Per parte mia, mi ponevo soprattutto il problema della lingua in relazione all'identità (ma poi, forse, ho debordato).
Più ampiamente, penso che questo concetto di identità collettiva debba essere usato, tutt'al più, in chiave descrittiva (come sono le cose), non prescrittiva (come si vorrebbe che le cose fossero). Voglio dire, ad es., che se qualcuno sostiene che la lingua sarda è, deve essere, un elemento costitutivo dell'identità dei Sardi, allora taglia fuori chi il sardo non lo parla (per qualunque motivo: anche perché non vuole parlarlo) e ciononostante si sente sardo a pieno titolo.
Salute, Andrea
ja dd'isco ZFPintore ca ses gherrande de meda po s'isula nostra. Unu duos meses a oe dd'apo lezia sa littera tua in su Corriere della Sera, iscritta po ammentare a sos italianos chi esistidi sa natzione sarda.
Ma mi paret arribada s'ora de leare in manu su destinu nostru e tenzo unu pagu 'e presse. Iscusae totu su modu pagu gentile cun su cale bos apo apostrofaos. Semus incominzande a biére su disastru mannu de un'economia fallimentare de politicantes e non si podet abbarrare mudos e chietos leande cropos. Po esempiu, ti pregunto: ma a tie bene andat chi non podimos eleggere sos rappresentantes nostros in su Consizzu europeu?
Custu argumentu puru mi parrit chi minesciat de essi manixau cun sa lìngua sarda ca creu diaveras chi oi no potzat esisti identidadi nosta sene lìngua nosta. Certu un'identidati unu dda tenit a su pròpiu, calisisiat lìngua fueddit, o nou? Ma chi fuèddat atra lìngua de sa sarda depeus fueddai de identidadi chi mi parrit difìzili a ddi nai sarda. Creu diaveras chi sa lìngua siat su sinnu chi prus de is atrus si permitint de scerai un'identidadi de un'atra: chi intendeus unu chi fuèddat francesu naraus luegus ca est francesu, chi unu fuèddat inglesu naraus ca est inglesu/americanu e aici sighendu. Certu calincunu podit abetiai narendu ca in India (e atrus logus medas) po nai, fuèddant s'inglesu puru sene essi americanus/inglesus, ma innoi su discursu s'iat a troghillai meda (stadus ex colònias/inglesu lìngua franca, etc.). Foras chi no scebereus atru sìmbulu po marcai s'identidadi nosta. Siat a podi sceberai su pabassinu o su unu brunziteddu nuraxinu ca ddi dexit, o mancai una furriadedda de ballu sardu, ma mi parrit ca su pabassinu (o atru druci nodiu) chi si ddu depeus portai avatu e arresisteus a s'arrenguitzu de si ddu papai, dònnia tanti si ndi depeus arregordai de ndi portai un'atru prus friscu ca achinou mancai s'annàrbat e un'identidadi annarbada est de seguru cosa chi no bandàt beni... Su brunzitu est tropu grai po si ddu portai avatu, pensai in s'istadiali, cumenti iaus a fai. Po su ballu sardu, a parti ca est perdendusì cussu puru, s'iaus a depi arregordai de si fai unu furrioteddu dònnia tantu e chi s'agataus in màchina o in atru logu chi no fait a si ddoi furriai custu bessit unu barrancu mannu. Insaras nudda, su pabassinu s'annàrbat, su bruntzitu est tropu grai, su ballu no fait. A parti is brullas nau primu de totu ca seu deacòrdiu in totu su chi nàrat su meri de domu ZUANNEF, sa chistioni mi parrit prus sa de si domandai, ma ita si ndi fadeus de un'identidadi sarda? Ma si serbit a calincuna cosa? O est mellus a essi fillus de su mundu? Chi s'ùrtima est, cumenti parrit, s'arrespusta giusta insaras sigheus a papai e spaciai sceti is cosas de su mundu, lassendu stai stai is cosas nostas ca no ndi ballint. Deu apu sempri pensau ca identidadi/cultura (=lìngua primu de totu) e economia siant che trenus chi biaxant in su pròpiu binàriu. Certu oi totus s'intendeus fillus de Maria de Filippi e pigaus sceti sa mùsica cantada e sonada innì, e s'intendeus totus prus milanesus o vènetus e papaus sceti panetoni e pandoru invècias pani saba e pàrdulas. Seus totus juventinus e milanistas e che min…onis si ndi andaus cun is mallieteddas cun Del Piero fatas in terramanna. S'intendeus totus fillus de una cultura superiori e duncas pigaus e ligeus giai sceti is best sellers de custa cultura superiori (o pensai sceti a is librus de s'editoria scolàstica, no nd'at mancu unu de una domu de imprenta sarda cumenti calincunu artìculu aparèssiu in custu blog at arregordau). S'intendeus fillus de su mundu e duncas comporaus sceti is prodùsius de “cussu” mundu... cussu bellu mundu luxenti chi si benit amostau, su mundu nostu no si bit chi no in cussus programas folklorìsticus, surrogaus de identidadi, anca si podit baddai e cantai sceti in sardu, ma arguai a fueddai in sardu, nanta ca no ddi dexat. Duncas totus: scola, mèdius de comunigadura, giornalis, si nanta ca su de is atrus est cosa mellus, e insarasas nosu bovus ddu credeus e aici cun d-una postura, ategiamentu masochista arribaus a si cunsiderai una làcana, unu furrungoni arrimau, su scarrigadroxu de su mundu de is atrus invècias de su tzentru de su mundu nostu. Custu no bolit nai ca no depeus papai panetoni o ascurtai musica furistera o ligi is librus scritu in atras lìnguas de sa sarda, nc'iat a mancai atru, ma una cosa est a tasti/ascurtai/ligi, e atra cosa est a si ndi fai beni dolori de brenti e de conca finas a arribai a arrefudai sa “cosa” nosta ca est sa prus importanti pròpiu ca est sa nosta. Chi boleus essi tzitadinus berus e cumprius de su mundu ddu depeus fai cun su bagàlliu de sa cultura nosta, de manera chi nci siat una cuncàmbia culturali e no unu arriciri passivu de totu su chi est allenu. Chi no fadeus diaici at a bolli nai a parti is atras cosas: fàmini a chintzu po fillus nostus chi ant a depi andai in continenti a "inforrai panetoni" chi bolint traballai. E insaras incapas si cumbenit a provai a poni nos etotu a su tzentru de su mundu nostu e sa lìngua (e stòria sarda) est s’ùnica aina chi potzat serbiri po arribai a custu arresurtau.
Cun is mellus saludus
Pàulu Pisu
Salve a tutti! Per Andrea: La lingua è uno degli elementi costitutivi di una Nazione ma da se non fa la Nazione. Parlare italiano non esclude la propria identità, nè ci assimila necessariamente ad un'altra. Se, come dicevo nell'altro intervento, è necessario il criterio della coscienza per plasmare il calderone degli elementi costitutivi di una Nazione, probabilmente in Sardegna sono mancati una serie di elementi che ci portano a maturare quel tipo di coscienza: Collanti sociali come i mass-media e l'istruzione. E sono dei collanti che la politica identitaria (indipendentismo/Sardismo) avrebbero dovuto promuovere, ma alcuni di essi hanno persino timore di definirsi nazionalisti, perché hanno subito in pieno la proiezione socio-culturale della storia italiana del '900. In altre realtà, ad esempio in Libano, conosco persone che pur parlando il francese (retaggio coloniale) si sentono comunque parte dell'identità araba e Libanese. Un'identità aperta ma che fattori vari hanno contribuito a saldare e promuovere, non necessariamente la religione ma appunto la politica (nazionale). - Bomboi Adriano
Fradis seus totus in custu mundu, o assumancu fradilis, ca su DNA de donniunu est gualis po su 99,999 a cussu de calisisiat atera criatura nascia de femina umana.
E chi totus seus alliongiaus impari asuba de sa Terra, dd'hiat intuìu nannai miu puru, chi fut analfabeta, no globalizzau, no castiat e no scurtàt sa radiu e sa televisioni, menu che mai Maria Defilippi.
Detto questo, ripeto che per fortuna il popolo sardo non ha una forte identità, comunque minore per esempio di quella dei siciliani. Chi ha fatto il militare ha sperimentato come i siciliani si cercassero, uscissero insieme in gruppi, mentre i sardi, per la mia esperienza, facevano amicizia con tutti o quasi, facevano gruppo con chi stava più vicino prima di tutto, indipendentemente dalla loro identità (?) regionale. Si aveva difficoltà a mettersi in mezzo ai siciliani, invece.
A volte, prima di giudicare le persone, bisognerebbe conoscerle. Perché se è vero e cosa lodevole che p.atzori insegnante consiglia ai suoi studenti di andare in giro per l'Europa a studiare e a formarsi, io che ero insegnante, già negli anni Ottanta del secolo scorso, prima della legge 26, senza incentivi, facendomi scudo solo delle garanzie della libertà d'insegnamento, grazie alla quale l'insegnante può scegliere i "mezzi" per ottenere il fine stabilito dalla legge, ho insegnato lingua e cultura sarda nelle mie classi elementari, ho invitato in classe poeti sardi che ci parlassero della loro esperienza e della loro infanzia, un mondo contadino che in città si percepiva poco o niente anche trent'anni fa. E non lo facevo di nascosto, ma alla luce del sole e parallelamente alla lingua e alla cultura italiana.
Poi qualcuno afferma con decisione che la lingua è importante per conservare la nostra cultura?
Stia attento alle spallate che dà, perché le porte sono tutte aperte e sta facendo irruzione in un colosseo!
Ci sono anche questioni di "coscienza nazionale" e sono vere. Se individualmente, specialmente quando mi trovo in contensti nazionali, la mia "diversità" di sardo la misuro a palmi (e ne sono orgoglioso), è carente la coscienza nazionalitaria, nel senso che l'avvertiamo di essere una nazione, ma non ci crediamo.
Sarà dovuto a una mancanza di leader?
Se è vero che anche il popolo ebreo aspettò un Mosè per decidere di riprendersi la sua autonomia, certo né Soru né altri hanno fatto cose mirabili per guadagnarsi la stima e la simpatia.
Ma è stato sempre così?
Aspetto un'analisi di ZFP, anche se credo che sia stato sempre così, negli ultimi tre o quattro secoli, da Mannu che non vedeva l'ora di fondere la Sardegna col Piemonte, a Lussu (e se volete a Cossiga), passando per Sulis e gli altri bollenti spiriti della rivoluzione del 1793 che, tornati i Piemontesi, furono "calmati" con posti di direzione nella pubblica amministrazioe.
Insomma, più che leaders, canis de strexu, avrebbe detto Cicito Masala.
Un'ultima cosa: l'identità (individuale) di sardo è uguale in chi parla sardo e italiano e in chi il sardo non lo parla affatto?
Medaglia d'oro a chi dice di sì. E lo dimostri, naturalmente.
Francu Pilloni
Caro Franco, custa medàllia circu de ndi dd’aciapai deu.
A mio parere ci sono persone che decidono di recuperare la propria lingua anche se non la parlano, ed altre che all’idea di doversi accollare lo sforzo (che sembra enorme e non lo è), si sentono tagliati fuori dal gruppo di chi ci prova, finendo per causare una lacerazione al proprio interno che li porta a maturare una sorta di aggressività quando si tocca quel tasto e, infine, a negare il proprio sentimento identitario fino al punto di avversarlo negli altri (è un meccanismo psicologico noto).
Il sentimento identitario è lo stesso, ciò che fa la differenza è la volontà.
Duncas, de diora fintzas a bintixinc’annus a imoi, a mei mi faiat tremi is venas e mi preniat is ogus de làgrimas totu cussu chi pertocàt a sa terra mia e a is àterus sardus, ma - scolarizada in italianu - fueddamu e scriemu in italianu, contendi custu sentidu de sardidadi e de apartenéntzia forti a unu pópulu aici comenti borta a borta mi nd’artziàt a pillu de sa cusciéntzia.
Apustis, sa sorti at bófiu chi cumentzessit a praticai s’ambienti de is poetas: apu cumpréndiu, spantada, chi podemu pentzai e fintzas bisai in sardu!
De cussu momentu, ligendi e ascurtendi, apu ricuberau sa língua mia, passu passu. Prima in su scritu, apustis - bebechendi e achichiendi - fintzas in sa fueddada.
Po dd’acabbai: s’identidadi mia de insandus, de sardu fueddanti italianu, fiat aguali aguali a s’identidadi mia de imoi, fueddanti e scrienti bilíngue. Sceti chi imoi dda potzu cantai in sa língua mia bella, ca ddi dexit i est prus cumpriu a ddu fai deaici. Est chistioni de scioberu e de voluntadi e no est aici difícili comenti si podit pentzai: ddu nau po totu cussus chi, comenti a mei unu tempus, s’intendint sardus mancai no tengant in bértula àtera aina che s’italianu, s’ingresu e, fortzis luegus, su cinesu.
Binta dd’apu?
Sa “sfida” cun mei e totu, no sa medàllia.
E sa medàllia?
Secondo me, Pilloni la risposta e la dimostrazione se la dà da solo. L'identità (individuale) non potrà mai essere uguale: se è individuale, vuol dire che sono uguale a me stesso. Un tantino più simile, certo, a quelli che giocano a bocce come me, questo è ovvio.
Quello che davvero non capisco, è come si possa parlare di lacerazioni, per gli altri, tutti gli altri che non parlano sardo, anche per quelli che non si conoscono, invocando "meccanismi psicologici noti".
Il passo successivo quale sarebbe? Imporre il sardo a scuola per evitare alle nuove generazioni queste supposte lacerazioni?
Questo è ciò che temevo quando parlavo di uso della lingua per costruire l'identità.
Salute, Andrea
Ma a mei no mi dd'at impostu nisciunus... est s'amori chi movit certas cosas...
Po Andrea.
Mi parrit ca in scola oi is pipius/piciocheddus s'agàtant in s'òràriu curriculari totu is disciprinas: italianu, s'inglesu, francesu, mùsica, religioni (po cussa si podit nai ca no ma in pagus diaveras ddu fainti), s'informàtica e aici sighendu e nemus si chèsciat o dda bivit che un'impositzioni. De s'inglesu e s'informàtica cumenti si faint oi, a assumancu in is iscolas elementaris medas si nd'iat a podi fai de mancu, de s'ora ca est gia totu gasosa. Custu ddu nau po esperièntzia personali). In scola si fait e si stùdiat duncas dònnia stocada de matèria foras che lìngua e cultura sarda, (no podeus abetai sa bolontariedadi de maistus/professoris che Pilloni ca funt tropu pagus). Nosu sardus in su mundu no esisteus, s'anti cuau su chi seus, provaus a domandai a unu piciocheddu de tertza mèdia ita ndi scit de s'edadi giudicali, o chi connoscit a Lobina o Màsala o Montanaru po nd'arremonai sceti che una pariga de is prus connotus. Candu calincuna borta, gràtzias a progeteddus si fait stòria de sa sàrdìnnia su prus de is bortas si fait sena de cuscièntzia. Ma bius ddus eis is librus de scola cumenti funti? Una de is provas de su chi nau est ca su 99% de is bias funt intituladas a personàgius chi cun nosu no tenint ita biri, totus stràngius (o giai). Is sardus duncas sighint a no minesci un'arregordu, no ballint nudda!
Candu invècias si fuèddat de poni su sardu, lìngua de domu sua labai, in scola de domu sua, calincunu de càriga fini strocit su bruncu, incumìntzat a nai ita si ndi fadeus, fuèddat de impositzioni, violèntzia e est giai calincuna cosa chi no nàrat de bolli arrecurri a Amnesty International. Fabrizio De Andrè, grandu cantautori, candu annus meda primu de oi iat presentau una cantzoni in gadduresu iat nau ca su po fatu de bivi in Sardìnnia no iat pòtziu fai de mancu de nd'imparai sa lìngua. Custu dd'iat nau cun bantu. Dd'iat nau issu ca fut genovesu e de seguru narendu aici iat amostau de teni meda prus cuscièntzia de is istràngius de domu nosta. Certu ca sa lìngua serbit po afortiai s'identidadi, no mi parrit chi siat unu segretu po nemus.
Pàulu Pisu
Per Andrea.
La categoria dei “lacerati” non esaurisce tutti i sardi che non parlano sardo, ma solo quelli per i quali questo è un problema. Senza problema non c’è lacerazione.
Io ne parlo in quei termini, poi, perché l’ho sofferta e l’ho voluta studiare. Meccanismi psicologici noti…a me per prima, dunque.
Quella per la lingua l’ho superata, ca seu tosturruda, ma ne ho altre. Per esempio odio la lobby di chi balla il ballo sardo, perché io no! A me questa cosa rode. Ma è davvero solo un problema mio.
So che altri né si suicidano né si arrovellano intorno a ciò. Vuol dire che per loro il problema non si pone. Ma se si pone, delle due l’una: o si risolve se risolvibile o se ne accetta la natura a volte lacerante, con tutte le conseguenze.
Se uno non percepisse la lingua come un tassello importante della sua identità sarebbe probabilmente molto tiepido riguardo ad ogni tentativo di introdurne l’insegnamento in orario curricolare. Se si risente, è segno chi ddi funt tochendi pisci ‘e cadinu.
Quando uno gli strumenti per dissodare la terra della sua identità non ce li ha per grazia materna ricevuta, se li procura. Ma se non ha la terra… Dunque non è la lingua che può costruire l’identità, così come una vanga non ci fa proprietari terrieri.
Il giorno che deciderò di comporre positivamente la “lacerazione” intorno al ballo sardo, la mia identità di cittadina del mondo non ne sarà diminuita. Anzi. Se non vado per il mondo con il bagaglio preparato a casa mia, è come andassi povera in canna, portandomi appresso solo le catene.
Non si vuole costruire l’identità con la lingua, ma - per quanto mi riguarda - prendere coscienza che l’identità è fatta di tante cose preziose - tra cui la lingua, che ne veicola altre - che se ne stanno scorrendo a mare in mille rivoli alimentati dalla mia scarsa autostima (non ci riesco, nondum matura est, ma candu mai, ma secondo te...) e anche di tante altre che posso dare una mano a costruire, serena che nessuno mi caccerà via, anche se, al momento, non so dire cíxiri. Se amo la mia nazione ed il mio popolo, e non voglio andare a mani vuote per il mondo, è ora di rimboccarmi le maniche. Credo che l’identità solo in parte è data: il resto è in andera (in progress). Questo e solo questo è ri-negoziabile in qualsiasi momento, ca no seus múmias imbartzimadas. Ma quella parte data, godiamocela e abbiamone rispetto: è un tesoro che riceviamo gratis e senza merito.
Paola Alcioni hat bintu sa medalla de sa simpatia.
Dice infatti che la sua identità non è cambiata, quando ha imparato a leggere, scrivere, parlare e pensare in sardo.
Se così fosse, o Paola, non ti sarebbe servito a nulla e qui faremo solo esercizi di stile.
La verità è che chi ha come prima lingua il sardo, cioè ha imparato a parlare dicendo le parole sarde, ha formato strutture intellettuali sensibilmente diverse da chi lo ha fatto in italiano o in qualsiasi altra lingua. Questo è certo. Diverse, ma non per questo migliori o peggiori.
La cultura di una comunità s'introita con la lingua, anche inconsapevolmente, perché il complesso linguistico contiene in sé anche un sistema di valori, etici, estetici, esperienziali.
E questo è vero e importante quanto più la cultura (la civiltà) ha radici antiche come quella nostra.
Ti sei mai chiesta perché in italiano diciamo "Bianco come la neve" mentre in sardo diciamo "Fridu che sa ni"?
Per noi sardi bianco è il latte, non la neve.
Questo è solo un esempio banale, ma istruttivo. Ecco perché l'identità di chi parla il sardo non può essere che diversa da chi parla l'italiano. Chiaramente mi riferisco a quella degli individui che sono differenti comunque per tanti caratteri psicosomatici, ma vicini e contigui per opera della medesima cultura. Se poi quella sarda che ci mette insieme, che ci fa sentire diversi dagli altri italiani (a me anche migliore) la vogliamo chiamare identità, si faccia pure. Basta che sappiamo di cosa parliamo.
Francu Pilloni
Medàllia de consolatzioni, apu cumpréndiu… ma dd’agradessu aici e totu.
Per me è più complicata, la faccenda. O forse più semplice. Provo a dire.
Se io non avessi posseduto già in nuce quell’identità, con quelle strutture intellettuali particolari, quei valori estetici (poi da dove mi sia venuta, non so. Dal latte materno? Dalla memoria collettiva? Dalla lingua sarda che si parlava in famiglia ma che non fui incoraggiata ad usare perché tutti mi si rivolgevano in italiano? Cominciava l’era della televisione, ed io ero la più piccola della famiglia) non avrei mai sentito, io credo, il desiderio di leggere poesie in lingua sarda né di apprendere compiutamente la lingua. Così come tutt’ora non sento quello di apprendere l’inglese.
Se l’identità che mi sono ritrovata in dote non è cambiata con l’utilizzo del sardo, è segno che la riappropriazione della lingua non mi è servita a nulla? Non direi. Vuol dire che era un’identità che mancava solo di uno strumento di comunicazione, di interazione e di crescita. E se lo è procurato. Aveva cose da dire, ed ora le può dire. Quando si parla attraverso un megafono, non è la voce che cambia e cresce, è lo strumento che la amplifica e la rende fruibile per ulteriori scopi.
Il terreno della mia identità “data” è sempre un fazzoletto di terra, ma ora lo posso dissodare e domani seminare. Forse darà frutti. Ma sono frutti che l’identità non dà senza l’impegno. Bisóngiat a cuberai ainas e a trabballai po fai cresci sa sienda. Dico questo per incoraggiare coloro che vorrebbero vivere di rendita sulla loro identità, senza dissodarla ogni giorno (la ri-negoziazione di cui parla Andrea) per renderla una cosa al passo coi tempi, ricchezza che possiamo portare nel mondo.
Discussioni come queste aiutano ad avere meno certezze, dunque sono salutari. A proposito di certezze, prendete quello che scrive Pilloni:
"La verità è che chi ha come prima lingua il sardo, cioè ha imparato a parlare dicendo le parole sarde, ha formato strutture intellettuali sensibilmente diverse da chi lo ha fatto in italiano o in qualsiasi altra lingua. Questo è certo."
Non è certo, anzi è molto dubbio. Si tratta della cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf, nella quale si fondono il determinismo linguistico (la lingua determina il modo in cui pensiamo) e il relativismo linguistico (ogni lingua codifica delle distinzioni che non si ritrovano nelle altre lingue). Oggi questa teoria è stata respinta in larga misura, anche sulla base dei moderni studi di psicolinguistica.
Il fatto che una lingua abbia un vocabolario dei colori o della parentela più povero di quello di un'altra, non significa che i suoi parlanti pensino in modo diverso, né che abbiano strutture intellettuali diverse (si può vedere la voce relativismo linguistico nel Dizionario di linguistica di Beccaria).
Salute, Andrea
Caro Andrea,
per me Sapir-Worf poteva essere anche la marca di uno strumento musicale e comunque ogni ipotesi nuova contraddice quella imperante, salvo a rivelarsi inadeguata rispetto a una riformulazione di quella che aveva sostituito.
Evidentemente non stiamo parlando di scienze esatte e le ipotesi più suggestive seguono spesso e non precedono i cambiamenti sociali.
Più modestamente parlavo della mia esperienza con i bambini delle elementari e mi dispiace deluderti.
Ma chiunque si è trovato di fronte a un bambino che parlava solo sardo, ha registrato la sua fatica nel seguire un discorso in italiano, anche se aveva la conoscenza di ciascuno dei vocaboli usati.
E non è qualcosa di passeggero neppure.
Alcuni dei miei libri li ho scritti in sardo e in italiano; quando erano scritti in sardo, per portare in italiano alcune situazioni ho dovuto inventarmele non eguali perché impossibile, ma simili, parallele, equivalenti, perché quelle situazioni rese con parole italiane non erano più "vere" come quelle espresse in sardo.
Ecco a cosa alludevo.
Non tanto dunque alla quantità di vocabolario (fra l'altro, chi ne possiede di meno è più schiavo della sua lingua perché è costretto a fare riferimento a parole e concetti che egli non esprime chiaramente, ma chiama l'interlocutore a supplire al suo deficit), ma al substrato culturale che accomuna i parlanti quella determinata lingua.
Tutto terra terra, giusto per capirci.
Saluti
Francu Pilloni
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