di Franco Pilloni
Dico prima che non sono dell'idea del poeta per il quale nascere è di per sé una sventura. Aggiungo subito che essere nato sardo per me è stata fonte di disagio. Preciso che sono contento di essere nato sardo; ringrazio e sono grato per questo al buon Dio, alla sorte e al caso. Confesso che non sono capace di immaginarmi diverso, ossia non sardo, vale a dire privo delle peculiarità positive e negative che mi caratterizzano talmente da rendermi riconoscibile, spesso al primo impatto, da chi incontro o frequento. Non mi preoccupa il fatto che, non soltanto sono nato sardo, ma lo divento ogni giorno di più.
E allora, giustamente mi si può chiedere, che c’entra il disagio?
C’entra sì, come una sorta di malessere, di sottilissima sofferenza intima che ti coglie, anzi che mi ha colto più e più volte durante la mia vita nelle più svariate occasioni, ma soprattutto a scuola. Ecco, credo che lì sia cominciato, forse con le sbrigative parole della maestra, quel “dimentica tutto e parla in italiano”, con i riferimenti a fatti, racconti, storie, poesie che mai sfioravano, mai avevano sfiorato il sardo e la Sardegna, neppure quella lontana del Capo di Sopra o della Maurreddina che nella mia infanzia, nella mia fantasia, non erano più vicine delle Americhe di Cristoforo Colombo.
A scuola, al massimo, sono diventato italiano, perché sardo lo sono diventato per strada, seduto a ridosso dei portali per prendere il fresco nelle notti d’estate, a sentire is contus dei vecchi. Lo sono diventato ancor più da giovane, chiamato alla leva militare, dove ho confrontato la mia identità, ormai acquisita, di italiano di Sardegna con quelle degli altri italiani d’altrove. Sempre con quel sottile malessere di cui ho parlato, ma del quale ancora non avevo ben inteso l'origine.
Poi sono tornato a scuola, questa volta come insegnante. Dico che non c’è scienza psicologica o pedagogica che valga se il maestro non trova la collocazione appropriata per se stesso di fronte ai suoi alunni che, a mio avviso (più che modesto), è il rispetto: rispetto per quello che sono i bambini, rispetto per le aspettative delle famiglie, rispetto per la collettività che ti ha assegnato un ruolo così importante per il suo stesso futuro.
Non dico che questi concetti li abbia avuti chiari sin dal primo giorno, li ho maturati nel tempo quando, ricordando il mio disagio di bambino, ho pensato che in qualche modo bisognava saldare una frattura identitaria fra quello che significa nascere sardo e quello che comporta diventare italiano. Ma cosa può fare un povero maestro di scuola di fronte a un problema così grosso?
Può farci nulla, o poco, o tanto. O forse tutto.
Io m’inventai delle storie insieme a loro, i miei alunni, dove i protagonisti si chiamavano Braxa, Antoneddu, Lionora o anche in altri modi strani; il loro territorio era Barumini, la Giara, il golfo degli Angeli (ci avranno invaso pure questi, come i Fenici?); gli antagonisti si chiamavano Romulus, Mustafà e via inventando. C’è sempre un processo di identificazione con qualche personaggio delle storie o dei film, chi tifa per il Settimo Cavalleggeri chi per Nuvola Rossa: per chi pensate che facevano il tifo i miei alunni? Credete che si sia verificata una saldatura fra l'essere nato sardo e il sentirsi sardo? Che si sia affievolito un sottile malessere, se pure l'avessero inconsciamente avvertito?
Ecco perché non mi sento sardo-italiano né sardo-spagnolo e tanto meno sardo-romano e ancor di meno sardo-fenicio. Nella mia ingenuità mi sono sempre figurato i fenici come degli antichi vucumprà, molto più furbi, molto più rapaci. Lo so che sbaglio, ma l'ansia, il disagio mi viene dal vuoto di storia che non mi fu raccontata, che non viene raccontata ancora oggi, che volutamente viene ignorata, non ricercata, nascosta se viene a galla, trafugata, manipolata. Questo deficit di conoscenza è il virus che crea il mio disagio ancora oggi. Vorrei sapere da dove vengo, per sapere dove vado.
In fondo non mi pare di chiedere molto, per uno che intende vivere una volta sola.
2 commenti:
Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit?
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent;
panzae namque meae quando ventralia penso,
non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam.
Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam,
dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos.
Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes,
albergum quarum, regio, propiusque terenus
clauditur in quodam mundi cantone remosso,
quem spagnolorum nondum garavella catavit.
Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur,
quam smisurato si quis paragonat Olympo
collinam potius quam montem dicat Olympum.
Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi,
non solpharinos spudans mons Aetna brusores,
Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas,
quas pirlare vides blavam masinante molino:
at nos de tenero, de duro, deque mezano
formaio factas illinc passavimus Alpes.
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.
Non tantum menas, lacus o de Garda, bagordum,
quando cridant venti circum casamenta Catulli.
Sunt ibi costerae freschi, tenerique botiri
in quibus ad nubes fumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant Nymphae super alti montis aguzzum,
formaiumque tridant gratarolibus usque foratis.
Sollicitant altrae teneros componere gnoccos,
qui per formaium rigolant infrotta tridatum,
seque revoltantes de zuffo montis abassum
deventant veluti grosso ventramine buttae.
O quantum largas opus est slargare ganassas,
quando velis tanto ventronem pascere gnocco!
Squarzantes aliae pastam, cinquanta lavezzos
pampardis videas, grassisque implere lasagnis.
Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella,
stizzones dabanda tirant, sofiantque dedentrum,
namque fogo multo saltat brodus extra pignattam.
Tandem quaeque suam tendunt compire menestram,
unde videre datur fumantes mille caminos,
milleque barbottant caldaria picca cadenis.
Hic macaronescam pescavi primior artem,
hic me pancificum fecit Mafelina poëtam.
Se l'astio contro le lingue minoritarie è storicamente attribuibile all'area di una certa sinistra è solo dovuto al fatto che le controparti politiche non avevano consistenza culturale ne' consapevolezza ideologica dell'argomento.
Novelli apparteneva a quella schiera politico sindacale che riteneva che l'italiano fosse la lingua dello sviluppo economico e sociale ed i dialetti retaggio del passato, paradigma di povertà e sottosviluppo da relegare all'ambito folkloristico in attesa che il tempo ne cancellasse la memoria.
Il messaggio ha avuto successo, il sardo si sta estinguendo, l'autocolonialismo vive stagioni d'eccellenza, lo sviluppo economico ha lasciato solo cattedrali nel deserto, si prospetta lo sfregio paesaggistico, si acuisce lo spregio identitario, ci si accontenta dei successi canori di Sanremo.
La storia racconta però altre vicende.
Quella del Veneto, ad esempio.
L'unico miracolo economico, successivo a quello fisiologico del dopoguerra, ha parlato in dialetto veneto.
Il 90% delle persone, di tutte le apparteneze sociali culturali e professionali, parla normalmente il veneto, lo parla dappertutto, negli uffici pubblici (sarebbe vietato, vero?), nelle scuole, nelle chiese, nelle istituzioni. L'italiano è ignorato, si parla solo se serve,è lingua appresa e male appresa, non è funzionale allo sviluppo delle aziende (servono ben altre competenze) e non veicola sentimenti identitari.
Parlano in veneto padroni e dipendenti, imprenditori e amministratori, insegnanti ed estracomunitari, studenti e figli dei marocchini.
Quando il neo governatore Zaia dice che introdurrà lo studio della Lengua nelle scuole non proclama al vento ma interpreta la realtà.
Nell'ambito delle sue competenze, farà in pochi mesi quelle leggi a protezione della lingua che i politici sardi non sono riusciti a fare in più di 60 anni di autocelebrata autonomia.
Forse il tempo per i sardi è già scaduto, ma se provassero almeno a copiare?
o forse i veneti sono geneticamente diversi...e
dimostrano di possedere quegli attributi che i sardi si accontentano di chiamare in modo diverso?
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