martedì 8 luglio 2008

Lingua sarda e Università. Numeri da spavento

C’è da sempre la sensazione che tra la lingua sarda e le università di Cagliari e Sassari non corra buon sangue. Come per l’inflazione, un conto è, però, la realtà e altro conto è la percezione: questa è normalmente più alta della prima. Con questo di diverso: in quanto ad astio accademico nei confronti della lingua sarda, la percezione è assai più blanda dei numeri, della realtà, insomma. Sono numeri spaventosi, quelli che risultano alla Regione sarda.
Li snocciolo come li conosco. Per i corsi di formazione di insegnanti e funzionari, l’Università di Sassari ha ricevuto dallo Stato (legge 482 di tutela delle lingue delle minoranze) 723.100 euro: ne ha impiegato solo il 25 per cento. Dalla legge per la lingua e la cultura sarde, l’Università di Cagliari ha ricevuto dalla Regione 3.564.000 di euro: ne ha utilizzato solo il 39 per cento.
E come ha speso i soldi? Appena il 10 per cento per l’area linguistica e ben il 90 per le aree non linguistiche. Percentuali che valgono più di qualsiasi commento circa l’interesse dell’Università di Cagliari per la lingua sarda. Ma c’è di peggio: lo 0 per cento è stato utilizzato per insegnare in sardo le materie di studio. Lo zero per cento, avete letto bene.
Un po’ meglio va a Sassari, la cui Università ha impiegato il 26 per cento nelle attività legate alla linguistica. Ma anche qui, proprio nulla, lo zero per cento, è impiegato nell’uso veicolare della lingua sarda, nell’uso, cioè, del sardo per insegnare non solo altre materie ma persino la linguistica sarda.
Mi immagino che cosa direbbe il governo catalano, sapendo che, nelle università catalane, quella lingua ha un trattamento simile a quello riservato al sardo dalle università di Cagliari e Sassari. Credo che la Generalitat non spenderebbe un euro per finanziare atenei siffatti. Bisogna, però, dar atto alla Regione sarda che, già nell’idea di verificare dove vanno a finire i suoi/nostri denari, comprende una possibile svolta futura. E avverte che così non si può andare avanti.
Dicevo del rapporto esistente fra realtà e percezione di essa. La percezione era che l’avversione della gran parte del mondo accademico cagliaritano ad un tentativo di standardizzazione della lingua sarda nascondesse retro-pensieri. La realtà dei numeri (e delle percentuali) contribuisce a svelare questa arrière pensée. Vorrei sbagliarmi (perché fra gli ostili alla Limba sarda comuna, ci sono fior di galantuomini), ma vi intravedo due pulsioni principali.
La prima è che la mancanza di uno standard linguistico (quello esistente o un altro poco conta, ai fini del ragionamento) è utilissimo alla conservazione dello status quo accademico. Non si insegna in sardo (la lingua non è usata, cioè, veicolarmente) perché gli studenti provengono da realtà linguistiche talmente diverse che l’unica lingua franca, compresa da tutti, è l’italiano. Naturalmente questo non è vero. Il professor Giovanni Ugas insegna archeologia nella varietà imparata da bambino a Monastir e la cosa non sconvolge alcuno. Però va riconosciuto che la scusa dei sardofobi è ben studiata.
La seconda è più politica. Nasce dalla finzione che in Sardegna non esiste la lingua sarda, ma due lingue distinte (la “campidanese” e la “logudorese”). Si badi, non due varietà linguistiche ma due lingue e, a volte si dice, due nazioni distinte, una delle quali con mire egemoniche sull’altra. Una posizione politica, questa, che mira a rendere impossibile e comunque impraticabile un disegno di unità nazionale del popolo sardo che, così, è diviso artificialmente fra “campidanesi”, “logudoresi”, “galluresi”, “nuoresi”, “baroniesi”, “sarrabesi”, “ogliastini del nord”, “ogliastrini del sud”, le cui aree sono più evanescenti delle frontiere create in Africa dai colonialismi europei, oltre a sassaresi, tabarchini e algheresi i quali, almeno, hanno confini riconosciuti.
Quest’ultimo artificio, con tutta evidenza, ha una caratura diversa da quella data alla questione da chi osteggia lo standard realizzato (Limba sarda comuna), ma non l’idea di uno standard linguistico. Il meglio è nemico del bene, si sa, e così penso che questa ostilità alla Lsc sia sbagliata. Ma è l’artificio dei frantumatori della nazione sarda ad essere pericoloso: va combattuto con tutte le forze e da tutte le forze (politiche, sociali, culturali) che non si rassegnano a un destino di dipendenza. Vitale per i compradores, esiziale per i sardi.

Pittau: E infine ci sono le false scritture (fine)

di Massimo Pittau

A questo punto intravedo questa ovvia domanda da parte dei miei lettori: «E ciò che sta scrivendo da vari anni sulla “scrittura nuragica” Gigi Sanna»?
Premetto che io ho un alto concetto dell’amico Gigi Sanna come studioso di antichi alfabeti, soprattutto di quelli orientali. È raro incontrare, anche a livello accademico, colleghi che nel detto settore siano all’altezza di Gigi Sanna.
Però ritengo che purtroppo egli sia caduto nei raggiri di qualche falsario ed inoltre si sia fatto fuorviare nelle sue interpretazioni da suggerimenti sbagliati datigli da qualche suo collega molto meno valido di lui in termini scientifici.
Venendo al caso specifico delle cosiddette “Tabelle di Tzricotu, dico che mi ha convinto Paolo Benito Serra, il quale ha sostenuto e dimostrato che quelle Tabelle non sono altro che «matrici in bronzo di tipo bizantino-mediterraneo... utili per la produzione in serie di guarnizioni di finimenti equini e di linguelle e pendenti di cinture multiple da parata, decorate in un caso e nell’altro con motivi ornamentali a punti e a virgole» (nota 8). E mi ha pure convinto Rubens D’Oriano, quando, in un dibattito pubblico tenutosi qualche mese fa a Sassari con Gigi Sanna, ha affermato che i segni delle Tabelle di Tziricotu non possono essere considerati segni di “scrittura”, dato che, dividendo in senso verticale la rispettiva figura, le due parti sono “speculari”, ossia combaciano perfettamente l’una con l’altra. E questo – a mio avviso - non succede né può succedere in nessun alfabeto o scrittura che preveda la corrispondenza della “successione spaziale” delle lettere scritte con la “successione temporale” dei fonemi pronunziati.
Purtroppo anche in Sardegna stanno circolando i falsari di reperti archeologici e stanno pure spuntando come funghi le “scritte” sui nuraghi. Qui mi permetto di suggerire all’amico Gigi Sanna di stare bene in guardia rispetto agli uni e rispetto alle altre.
Del resto è certo che Gigi Sanna non è stato il primo né sarà l’ultimo ad essere ingannato da falsari: qualche decennio or sono fece molto scalpore il fatto che il noto critico d’arte Giulio Carlo Argan avesse dichiarato come opera di Amedeo Modigliani autentica una testa in pietra, che invece due studenti dimostrarono di aver scolpito loro col trapano elettrico…

(nota 8) Negli Atti del XVI convegno di studi, dicembre 2004 «L’Africa Romana», num. 16, vol. II, pag. 1289.

domenica 6 luglio 2008

"Quando i nuragici scrivevano in lettere latine". Pittau (2)

di Massimo Pittau

Alla fine della loro indipendenza e ormai sotto la dominazione dei Romani, i Sardi Nuragici fecero uso anche dell’alfabeto latino per comunicare i loro messaggi in lingua nuragica. Lo dimostra una iscrizione in caratteri latini che si trova nell’architrave del nuraghe di Aidu entos di Bortigali, però purtroppo quasi completamente illeggibile, perché la pietra è stata corrosa dal tempo.
A proposito di questa iscrizione è utile fare una importante premessa. In epigrafia, relativamente ad ogni e qualsiasi lingua scritta, vale questa importante norma metodologica: «una iscrizione è “contestuale” al supporto in cui risulta iscritta, salvo prova contraria». Ciò significa ed implica che un epigrafista ha il dovere e pure l’interesse a ritenere che una iscrizione
I) appartiene realmente al suo supporto,
II) è stata scritta da chi ha costruito od ordinato il supporto.
Su un epigrafista che in un caso specifico nega questa nota della “contestualità” cade l’obbligo di dimostrare le ragioni della sua scelta contraria.

EBBENE, A FAVORE DELLA “contestualità” dell’iscrizione del nuraghe di Aidu entos, cioè del suo appartenere realmente al monumento in cui è stata scritta e da parte di chi lo ha costruito, interviene anche un’altra prova: dei vocaboli dell’iscrizione che risultano ancora leggibili due appartengono sicuramente alla lingua nuragica, NURAC e SESSAR, mentre tutti gli altri sono semplicemente frustoli di vocaboli. Inoltre il vocabolo NURAC dà la conferma e la sicurezza della contestualità della nostra iscrizione col nuraghe in cui risulta scritta. In questo caso si determina una particolare situazione ideale: è come se il nuraghe stesso come monumento scrivesse e parlasse di se stesso.
L’iscrizione dunque non è “allotria”, ossia estranea al monumento nuragico, come si è ritenuto e scritto, ma è connessa e attinente con questo.
Non è affatto legittimo inferire che l’iscrizione è in lingua latina perché è scritta in alfabeto latino e poi procedere ad effettuare la seguente ricostruzione e traduzione ILI(ENSIUM) IUR(A) IN NURAC SESSAR «diritti degli Ilienses sui nuraghi (o sul nuraghe) Sessar». Vi si oppongono quattro importanti e pesanti circostanze:
I) I dati storici da noi ora posseduti localizzano gli Ilienses nei monti della Barbagia e non nel Marghine dove si trova il nostro nuraghe;
II) Col gruppo di lettere ILI si possono ricostruire migliaia di vocaboli latini, nessuno dei quali è possibile privilegiare sugli altri;
III) È del tutto inverosimile che nell’iscrizione sia stato abbreviato, e in misura così ampia, proprio il nome del popolo di cui l’iscrizione avrebbe pubblicizzato i diritti; è come se in un certificato legale risultasse abbreviato il cognome dell’intestatario!
IV) Ammesso ma non concesso che sia esatta la lettura e la ricostruzione del testo, il contenuto concettuale della ricostruzione e traduzione «diritti degli Ilienses sul nuraghe Sessar», cioè su un piccolo nuraghe di irrilevante impegno architettonico e soprattutto di nessun valore funzionale, è francamente risibile (nota 3).

DUNQUE L’ISCRIZIONE INCISA sull’architrave, addirittura sul “fastigio” di un edificio pubblico nuragico, col carattere di “grande iscrizione monumentale” – è stato precisato - e con lettere pur’esse “monumentali”, pur essendo scritta in alfabeto latino, conteneva un messaggio in lingua nuragica.
A questa tesi non si può opporre il fatto che i caratteri latini dell’iscrizione riportano all’età dell’Impero, per il fatto che è un altro “luogo comune” quello secondo cui i Sardi abbiamo finito di costruire i loro nuraghi già con l’arrivo dei Cartaginesi in Sardegna. Io ho avuto modo di scrivere – senza essere mai contestato – che i Sardi hanno continuato a costruire i nuraghi anche in epoca romana, come dimostra il fatto che in tutti i nuraghi scientificamente scavati ed esplorati sono stati trovati numerosissimi reperti di età romana; e anche dopo la nascita di Cristo, fino all’arrivo del cristianesimo in Sardegna, come ancora dimostrano reperti cristiani di età bizantina (ad es. croci astili e inoltre lucerne cristiane assieme con le migliaia di lucerne nuragiche, puniche e romane, trovate del nuraghe Lugherras = «lucerne» di Paulilatino) e come dimostrano soprattutto circa 300 nuraghi dedicati al nome di altrettanti santi cristiani (nota 4).
Un discorso analogo va fatto su una navicella nuragica di bronzo, una volta nell’Antiquarium Arborense di Oristano, da cui risulta trafugata, la quale portava la iscrizione in caratteri latini SENP sul fondo e su un fianco. Come si fa ad accettare per buona questa storiella: «oggetto, considerato prezioso, e tramandato di generazione in generazione, in una famiglia, sino a divenire proprietà di un ricco signore provinciale, in eta romana» e prospettare poi la ricostruzione del nome di costui con la formula bimembre di prenome e gentilizio romani? Perché mai ritenere “oggetto prezioso” e tramandare di generazione in generazione quella modestissima navicella nuragica? E perché “rovinare” l’ ”oggetto prezioso” incidendovi sopra il proprio prenome e gentilizio romani, addirittura ripetendo l’incisione sul fondo e sul fianco?

A MIO GIUDIZIO INVECE
, sempre ai sensi della spiegata norma della “contestualità”, la navicella nuragica dell’Antiquarium Arborense riportava una iscrizione nuragica, ma trascritta in alfabeto latino, iscrizione che probabilmente era la sigla di una formula di commiato, che i parenti facevano al caro defunto, formula incisa su un oggetto che indubitabilmente apparteneva alla ideologia funeraria dei Nuragici, come pure dei Greci, degli Etruschi e dei Latini, relativa alla “navicella di Caronte”, quella che traghettava i defunti verso l’aldilà.
E se è un fatto che questa navicella nuragica portava un’iscrizione nuragica ma trascritta in alfabeto latino, ciò dimostra che la “ideologia funeraria delle navicelle nuragiche” durava ancora in epoca romana e precisamente almeno fino all’ ”età tardo repubblicana”.
Un analogo discorso va fatto per i segni in scrittura latina che figuravano sulla stele di una tomba di gigante di Santa Teresa di Gallura, che, secondo una testimonianza scritta ed anche iconografica dei primi dell’Ottocento, portava i segni di lettere dell’alfabeto latino, tomba che purtroppo non è stata ancora ritrovata. Come è possibile accettare l’ipotesi che quelle lettere siano state incise molto più tardi come “iscrizione confinaria” sulla stele di un monumento nuragico che tutti sapevano essere una “tomba”? Come lo sapevano sino ad almeno un cinquantennio fa tutti i Sardi, come dimostrano numerose “tombe di gigante” chiamate tuttora Monumentu, Molimentu, Munimentu?
E la medesima considerazione si deve fare nell’altra ipotesi che invece si trattasse di una iscrizione latina col carattere di “epitafio”. Ma quanto numerosi e quanto gravi delitti ermeneutici o interpretativi si stanno commettendo in Sardegna con l’altra storiella del “riuso delle tombe di giganti per deposizioni funerarie in età romana”! Ma forse che non è esistito e fortissimo presso tutti i popoli e in tutti i tempi il “tabù funerario rispetto ai morti e alle loro tombe?

SARÀ STATA CERTAMENTE una iscrizione funeraria quella incisa in caratteri latini sulla stele della citata tomba di gigante, ma sarà stata una iscrizione in lingua nuragica relativa ad una “tomba collettiva” di un intero villaggio nuragico (nota 5).
Inoltre sono da citare, come esempi di messaggi nuragici scritti però in alfabeto latino, le due tabellae defixionis di piombo, rinvenute nel villaggio nuragico di Linn’arta di Orosei ed ora sistemate nel Museo Archeologico di Nùoro: le lettere sono sicuramente latine, ma dei vocaboli quasi nessuno si può spiegare col lessico latino, mentre almeno uno, ripetuto tre volte, è sicuramente nuragico, NURGO, il quale corrisponde sorprendentemente al toponimo odierno Nurgòe di Irgoli (villaggio confinante) e al mediev. Nurgoi (CSPS 190) (nota 6).
Infine è probabilmente un sesto esempio di iscrizione nuragica scritta in caratteri latini, quella incisa in un masso che si trova nei pressi del piccolo nuraghe che è vicinissino alla chiesa parrocchiale di Suni (OR) (nuovo chiarissimo esempio di sincretismo nuragico-cristiano). Io ho pubblicato in due occasioni la fotografia di questa iscrizione, ma non ne ho mai approfondito lo studio né mi risulta che l’abbia fatto qualche altro studioso (nota 7).
Torno alla mia conclusione ultima ed essenziale, anche per ribadirla: a mio fermo giudizio, non è mai esistita una “scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica”, come del resto non è esistita una “scrittura propriamente ed esclusivamente fenicia o greca od etrusca o romana”. Per trascrivere i loro messaggi in lingua nuragica i Sardi hanno adoperato di volta in volta, col passare dei secoli, l’alfabeto fenicio, quello greco e quello latino.

(nota 3) Questa ricostruzione e traduzione è di Lidio Gasperini, Ricerche epigrafiche in Sardegna, in AA. VV., Sardinia antiqua, Cagliari 1992; è l’epigrafista latino resosi famoso quando, improvvisandosi epigrafista etrusco, prese la grossa cantonata circa l’iscrizione etrusca trovata ad Allai (OR) (cfr. volume 9 (tomo 2) della serie «L'Africa Romana» (Sassari 1992).

(nota 4) Cfr. M. Pittau, La Sardegna Nuragica, II edizione, Cagliari 2006, Edizioni della Torre, §§ 35-38.

(nota 5) La questione di queste tre iscrizioni latine su monumenti nuragici è esposta da Raimondo Zucca, Sufetes Africae et Sardiniae, Roma, Carrocci edit., 2004, pagg. 118-125). Io apprezzo ed ammiro la consueta cura dell’egregio collega, ma contesto alla radice le sue interpretazioni. Inoltre esprimo meraviglia per il fatto che egli abbia ignorato il mio studio L’iscrizione nuragica in lettere latine del nuraghe Aidu Entos, che compare nel mio libro «Ulisse e Nausica in Sardegna», Nùoro 1994, pagg. 189 e segg.

(nota 6) Pubblicate la prima volta da R. Caprara in AA. VV., Sardegna centro-orientale – dal neolitico alla fine del mondo antico, Sassari 1978, pagg. 152-154, tavv. 1 e 2. Purtroppo si deve dubitare alla radice sia della lettura sia delle integrazioni proposte dal Caprara, posto che questi è un archeologo medioevale e non un epigrafista latino. Cfr. M. Pittau, La Lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi, Sassari 1981, pag. 277; A. Mastino e T. Pinna, Negromanzia, divinazione, malefici, ecc., in «Epigrafia romana in Sardegna», Atti del Convegno di S. Antioco del 14 e 15 luglio 2007, pag. 28, figg. 25-26, 27-28.

(nota 7) M. Pittau, Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico, Sassari 1984 (in vendita nella Libreria Koinè di Sassari), II pag. della copertina; M. Pittau, Ulisse e Nausica in Sardegna cit. pag. 205. Di recente ha pubblicato il disegno dell’iscrizione, fatto dal geometra Lello Fadda di Ghilarza, Attilio Mastino, Suni e il suo territorio, Suni 2003, pag. 101, definendola semplicemte “enigmatica”.

sabato 5 luglio 2008

I nuragici scrivevano eccome. E però... (1)

di Massimo Pittau

Sarà perché la mia opera «Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi» è uscita nel 1995 ed è ormai esaurita e l’altra mia opera «Storia dei Sardi Nuragici» è recente, dato che è uscita appena nel 2007 (Selargius, edit. Domus de Janas), sta di fatto che nessuno di coloro che in questi ultimi mesi sono entrati nella vivace discussione sulla eventuale “scrittura nuragica” ha mostrato di conoscere queste mie opere, nelle quali risulta un ampio ed impegnato capitolo sul tema «I Nuragici e la scrittura». Ed allora, per ovviare a questo silenzio, casuale oppure voluto, con questo mio odierno intervento riassumo quanto ho scritto in quel capitolo.
Premetto che intorno alla civiltà nuragica esiste un “luogo comune”, quello secondo cui essa sarebbe stata una "civiltà illetterata o analfabeta". Questo luogo comune, che per me è un autentico “falso storico”, è stato determinato in primo luogo da una implicita, strana ed assurda supposizione e pretesa: che i Nuragici, intesi come un popolo "tutto particolare" da ogni e qualsiasi punto di vista, si fossero dovuti creare un loro alfabeto pur’esso tutto particolare, ossia un loro sistema di scrittura originale e “nazionale”. Senonché non si è considerato che in effetti neppure quei geniali e civili popoli dell'antichità che sono stati i Greci, gli Etruschi ed i Romani, si sono creati ex novo un loro proprio alfabeto nazionale, dato che - come molti sanno - i Greci hanno preso l'alfabeto dai Fenici, gli Etruschi dai Greci ed i Romani dagli Etruschi. Gli stessi Fenici non si sono creati dal nulla il loro alfabeto, ma è del tutto certo che se lo sono creati sul modello di altri alfabeti di popoli del vicino Oriente, Sumeri ed Egizi in testa. Perché mai attendersi e pretendere dunque che i Nuragici si creassero un loro "alfabeto nuragico nazionale", quando in effetti nessun altro popolo antico può vantarsi di essersi creato tutto da sé e dal nulla questo strumento di cultura, il quale di certo costituisce una delle più grandi ed insieme delle più difficili invenzioni dell'umanità? Invenzione molto difficile, a creare la quale hanno contribuito vari popoli antichi e numerose generazioni di uomini.

IN SECONDO LUOGO è un fatto che in Sardegna sono state finora trovate almeno le seguenti iscrizioni: due iscrizioni in alfabeto geroglifico egizio (§ 50; fig. 11; fig. 12), alcune forse in alfabeto minoico incise su due dei noti talenti di rame, numerose in alfabeto fenicio, alcune in alfabeto iberico (fig. 14), alcune in alfabeto greco, quattro in alfabeto etrusco (nota 1); ebbene tutte queste iscrizioni dimostrano in maniera evidente e certa che fra i Sardi Nuragici c'erano individui che le sapevano leggere e molto probabilmente anche scrivere.
D'altronde, in termini generali, è a priori da ritenersi illogico e inverosimile che il popolo nuragico, che era stato per lunghi periodi a contatto immediato con altri popoli che conoscevano e usavano la scrittura, quali i Cretesi, i Ciprioti, gli Egizi, i Fenici, i Greci, i Lidi ed infine gli Etruschi, non conoscesse né usasse per nulla la scrittura. In termini più particolari, è illogico e inverosimile ritenere che in quel torno di secoli, mentre tutti i popoli circostanti avevano l'usanza di incidere sui loro vasi od oggetti d'uso scritte con la denominazione dell'autore o del possessore o dell'offerente o con la dedica ad una divinità oppure con l'indicazione della quantità della merce contenuta nelle anfore, ecc., solamente i Nuragici ignorassero del tutto questa usanza. Sarebbe esattamente come se nell'epoca attuale si supponesse che fra gli stati emergenti del terzo mondo ne esista qualcuno che non conosce ancora né adopera la scrittura!
A mio fermo giudizio, pertanto, non è mai esistita una “scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica”, come d’altronde non è mai esistita una “scrittura propriamente ed esclusivamente fenicia o greca od etrusca o romana”.
Secondo me, i Sardi Nuragici per scrivere i loro messaggi nella loro lingua nuragica hanno scelto e adoperato di volta in volta, col trascorrere del tempo, uno degli alfabeti che adoperavano i popoli coi quali essi avevano più stretti rapporti. E precisamente essi hanno optato e adoperato prima l’alfabeto fenicio, dopo quello greco e infine quello latino.

SEMBRA CHE PROPRIO la Sardegna sia la terra che ha conservato il più alto numero di iscrizioni fenicie o – chiamamole molto meglio - fenicio-puniche, ossia lasciate non dagli originari Fenici che abitavano nella lontana Fenicia, l’odierno Libano, ma dai loro connazionali che si erano trasferiti nella costa dell’Africa centro-settentrionale, dove avevano fondato la grande città di Cartagine (nota 2). Orbene, delle iscrizioni fenicio-puniche rinvenute in Sardegna non è da escludersi che alcune, nonostante la loro scrittura sicuramente fenicia, in realtà portino un messaggio in lingua nuragica. Ad es., siccome la nota iscrizione fenicia di Nora non ha trovato sinora una traduzione neppure lontanamente condivisa dai semitisti, non è inverosimile che questa divergenza di opinioni sia la conseguenza del fatto che l’iscrizione in realtà porti un messaggio in lingua nuragica. A questa supposizione siamo spinti anche dal fatto che nell’iscrizione figura certamente anche il nome della Sardegna o dei Sardi (SHRDN) (fig. 13).
La medesima considerazione è da farsi rispetto ad alcune altre iscrizioni in alfabeto fenicio, per le quali esiste fra gli interpreti forte divergenza di opinioni.
A questo proposito è bene precisare che tutti gli alfabeti costituiscono non un “fatto naturale o connaturale” con la rispettiva lingua, ma sono semplicemente un “fatto artificiale e convenzionale” rispetto ad essa, per cui un alfabeto può divergere o staccarsi dalla rispettiva e originaria lingua. Ad es. in una carta medioevale che si trova a Marsiglia il messaggio che porta è sicuramente sardo medioevale, ma l’alfabeto adoperato è quello greco-bizantino.
Col passare del tempo, nel periodo in cui l’attrito fra i Sardi e i Cartaginesi divenne più forte ed i primi, attorno al 539-534 a. C., inflissero a questi, guidati da Malco, una pesante sconfitta, e durante il quale periodo si stabili un’alleanza fra i Sardi (o Serdaioi) e Sibari, la più potente città della Magna Grecia (come testimonia una iscrizione greca trovata nel 1960 ad Olimpia, purtroppo ignorata o trascurata dagli odierni storici della Sardegna; fig. 7), i Sardi optarono per l’alfabeto greco.

LO DIMOSTRANO ALCUNE iscrizioni che si trovano in due massi esterni e laterali dell’ingresso del nuraghe Rampinu di Onifai/Orosei, costituite quasi certamente da due abbreviazioni o sigle ITSN e TS e da un vocabolo TINHBEI, il quale non è assolutamente spiegabile col lessico della lingua greca (figg. 15, 16). Lo dimostra un’altra sigla, pure in caratteri greci, BE, incisa profondamente in un masso dell’ingresso sopraelevato volto a nord-est del Nuraxi di Barumini; il beta è a serpentina lineare di tipo corinzio-megarico e come tale riporta ai primi tempi della colonizzazione greca nel Tirreno (sec. VIII-VI a. C.) (fig. 17), Ma lo dimostrano soprattutto una quindicina di monete che riportano la leggenda SER(D(AIOI) oppure l’altra SARDOI in caratteri greci (figg. 8, 9). Ed è del tutto evidente e sicuro che si tratta di monete coniate dai Sardi e non certo dai Greci o dai Cartaginesi.

(nota 1) Le figure e le pagine richiamate sono della mia citata opera «Storia dei Sardi Nuragici».

(nota 2) È quasi incredibile che molti non facciano questa facile ma importante distinzione!

giovedì 3 luglio 2008

G. Sanna: caro Sauren e caro Ugas

Ieri, il professor Gigi Sanna ha risposto all’articolo su questo sito del professor Massimo Pittau. Oggi è la volta delle risposte all’intervista con l’epigrafista Herbert Sauren e a quella con l’archeologo Giovanni Ugas.

di Gigi Sanna

Quanto alla traduzione fatta dal prof. Sauren del CDI (Corpus des inscriptions de Glozel, Ndr), compilata dallo scopritore di Glozel, il dottor Morlet sulla scorta dei documenti trovati, io sto agli antipodi. Semitico per lui, greco per me. Consonanti per lui, vocali, tante vocali, per me. Non metterei certo becco sul semitico (e come potrei?) se non notassi molta disinvoltura nel dare i valori fonetici ai grafemi. Su quali basi si fondano detti valori se non quelle soggettive? E con il “soggettivo” e l'arbitrario, con la scienza, si sa, non si fa un millimetro di strada. Nessuno ti fa credito.
È stato questo l’errore di tutti i traduttori; Hitz, Buchanan e Stekel compresi, che pur mostrano, nella loro decifrazione, una dottrina forse pari a quella del prof. Sauren. E le lettere agglutinate dove stanno con sicurezza e come si spiegano? E come si fa a dire, se non con la mantica, che la scrittura è destrorsa o sinistrorsa? Oppure bustrofedica? E gli animali (cavalli, serpenti, cervi, piccoli di animali, animali gravide, lupi, etc. ovvero i pittogrammi acrofonici) che cosa ci stanno a fare nei documenti? E questa strana comunità semitica con una lingua e una scrittura babele, nel cuore della Francia, quando ci è arrivata e perché? Comunque, la prova evidente che il prof. tedesco sia completamente fuori strada è data dal fatto che il documento a p. 69 del CDI da lui viene tradotto, con disinvoltura, basandosi unicamente sui grafemi riportati dal Morlet, i quali risultano clamorosamente sbagliati.
Dal momento che il “mio” greco non era possibile con quella trascrizione, mi sono recato personalmente a Glozel per vedere da vicino il documento “oracolare” e per constatare se recasse, come supponevo, due evidenti errori di trascrizione e la dimenticanza di un segno. Come in effetti era. Il prof. Sauren si è mai recato per una visita autoptica a Glozel?

Per quanto riguarda il prof. Ugas, io non sono d’accordo con lui (o lui non è d’accordo con me) sul nuraghe fortezza e sulla ricostruzione in genere che fa della Sardegna nella tarda età del bronzo. Tra me e lui c’è una differenza metodologica di fondo, che rende tutto o quasi tutto diverso, tanto diverso. Mentre il sottoscritto si basa sui documenti scritti e solo su questi discute (con l'aiuto, dove necessario, dell'archeologia, della linguistica e di altre discipline ancora), il prof. Ugas pare basarsi soprattutto su dati archeologici, che hanno certo gran valore, ma non paragonabile a quello delle fonti scritte.
Lascio a chi legge capire che differenza sostanziale c’è. Con l’uno si parla di preistoria con l’altro di storia. Certo, capisco, capisco. La scrittura non c’è e quindi non c’è la storia. Basta rifiutare con ostinazione, non uno o due, ma in blocco quaranta documenti epigrafici, basta fare un sorrisetto sulla scrittura “con” o “decorativa”, basta una risatina più corposa sulla scrittura monumentale di ispirazione egiziana ed il gioco è fatto. Se poi si fa quadrato tra colleghi ci scappa anche lo scherno e resta a me la magra consolazione di sfogliare le pagine di scherno dei detrattori di Yuri Knorosov sulla scrittura maya.
Io mi affanno, ripetendolo mille volte, nel dire che in Sardegna la scrittura è un fenomeno legato al tempio e alla religione, altri, sviando il discorso, mi parla invece di improbabile scrittura urbana laica e di scrittura da trattati di potenze marinare; mi tormento nel ricostruire in senso diacronico e sincronico, tra centinaia e centinaia di grafemi, l’alfabeto del nuragici “shardana” (Signori Giudici) e altri invece dicono e scrivono che in Sardegna non si sono ancora (!) trovate tre o quattro lettere di fila in un documento epigrafico. Mi impegno nel sostenere che i semitici arrivarono in Sardegna nel Secondo Millennio a.C. portando i loro codici di scrittura ( protosinaitico, protocananeo, gublitico, ugaritico) ed elaborarono un codice particolare per la divinità Yah o Yahwhè, ed altri invece, anche quando vedono, insieme a delle lettere protocananee, l’albero di Yahwhè sul masso di Perdu Pes (il Kaph, quello che subito individua qualsiasi semitista e biblista alle prime armi), fanno spallucce e/o invocano prove di falso oppure il pesce serra di turno.
Anzi parlano, un giorno sì e l'altro pure, di segni ponderali micenei ed egei, di segni semitici no, neanche fossimo ancora con le leggi razziali; mi do da fare per far capire, prove alla mano, che il lessico nuragico dei documenti rispecchia una società di dominanti (semitici) e di dominati (indoeuropei del ramo occidentale) e che la lingua sarda “latina” di oggi, in buona misura, non è romanza ma quella antica nuragica (e che quindi aveva ragione il canonico Angius nell’Ottocento), e rispondono edificando nuovi altari per il Wagner (e la gogna per me che agirei come un Semerano isolano); faccio continui tentativi per sostenere che la stele di Nora è nuragica, porto dei documenti a sostegno (di nuovi ne ho portato assai di recente in una Conferenza a Pula) dove la famosa scritta è “Lui aba Shardan ('Lui Signore Giudice' ovvero Yahwhé)” e non “BI SHARDAN (in Sardegna)”, ma nessuno ne parla.
Anzi tutti sembrano preferire le interpretazioni (neanche le “ traduzioni”) di cinquant’anni fa e così il documento (stele votiva) del dio di Tharros (Tharshosh) e di Cornus (G/CORASH), realizzato dai Norani, resta “fenicio” per la gloria imperitura dei Fenici di Tartesso (mai esistita). Ma non lamentiamoci, altrimenti qualcuno, per romperci le balle, ci parlerà ancora, a ruota libera, di sardismo. Magari insinuando che chi è sardista non sarà mai uno scienziato “vero”. Guarda un po’ cosa ti elabora una certa nostra stravagante “politica ... della scienza”.

mercoledì 2 luglio 2008

Gigi Sanna: "altroché se sono etruschi" (1)

I due ciottoli con iscrizioni di cui parla l'articolo del prof. Gigi Sanna

di Gigi Sanna

Caro Zuà,
mi hai giocato davvero un brutto tiro, durante la mia assenza: tre bordate di fila accademiche con pezzi da novanta. E non può essere solo un caso. E chi può reggere con una “canadian” da lago come la mia che non ha neppure una fiocina in dotazione? Sauren, Pittau, Ugas. Giai est nudda! E io sai cosa faccio? Ti scrivo in fretta solo due misere cosucce e poi me la svigno di nuovo, dove mi attende il mio bel mare, senza navi corsare e senza cannoni, ma con un toponimo davvero intrigante: “sa punta de su gaurru”. Sa punta de su mascu de “sa gaurra” (gabbiano) o sa punta de su gaurru (sacerdote stregone: come dicono le tavolette di Tzricotu)? Mah! Neppure Emidio De Felice, altro mio maestro carissimo, lo ha risolto con il suo saggio; figuriamoci il sottoscritto.
Non mi aspettavo proprio l’intervento di Massimo Pittau, non fosse per altro perché colui che ha trovato (non in un colpo solo -come si dice - ma in un certo tempo) gli oggetti etruschi di Crocores del Lago Omodeo in secca e di Is Narbones di Allai è lo stesso che ha trovato la lapide di Allai (bilingue: latino-etrusco), ritenuta da lui autentica. Vedo che ora sostiene che quello scopritore (o chi per lui) è un falsario da quattro soldi. Ma mi rivolgo direttamente a lui.

Caro Massimo, nonostante l’amicizia ed il rispetto che nutro per uno scienziato come te, devo dirti che per me non è così. Un tuo quasi “alunno” ti dice (ma tu non ci crederai) che quelle lettere, che tu vedi copiate maldestramente, in realtà sono proprio quelle che denunciano la genuinità dei documenti. Per esempio, se tu ti riferisci alla parola CITEN (e non CILEN), devo dirti che è giusta così, con la T e non con la L, in quanto i documenti (naturalmente non per questo solo motivo) spiegano che nel Fegato di Piacenza non si è in presenza di una divinità (CILEN, come sostieni tu) ma di un pronome che proprio un amante e conoscitore del “lessico sardo-etrusco” avrebbe dovuto individuare.
La sequenza delle lettere è sinistrorsa e non destrorsa in quanto, con ogni probabilità, è CITEN(E) la parola pronome-particella con la quale si suggerisce che inizi l’ espressione insita nella raggiera (“Chi mai tu debba soddisfare, etc. etc.”). Se poi prendi il documento in forma di “bastoncino” noterai, oltre alla simbologia numerica (anch’essa del Fegato di Piacenza) che le quadrettature con tre consonanti non sono identiche quanto a numero e contenuto. Il bastoncino di Crocores però è del tutto coerente per forma e contenuti, il Fegato di Piacenza no. Per questo ho sostenuto, tra l’altro, che i documenti di Allai “illuminano” o tendono ad illuminare quelli etruschi.

Io comunque le mie opinioni te le avrei esposte - se solo me lo avessi chiesto - o di persona o portandoti la relazione che ho svolto ad Allai in occasione della consegna dei documenti. D’altro canto non credi che, se davvero fossero stati dei falsi e per di più pasticciati, ci sarebbe già stata una risposta veloce, come la tua, e non si sarebbe ricorsi (come pare) alla consulenza di superesperti, pare in quel di Milano? Sono ormai sei mesi che li si visiona facendo pelo e contropelo! E la raggiera del mattone (che riporta, tra l'altro, delle parole ben diverse da quelle del Fegato piacentino) come la mettiamo, con parte delle sue linee e delle sue lettere al di sotto delle bolle formatesi per azione dell'acqua? Ma ne riparleremo, sono sicuro, quando ci sarà il responso “ufficiale” (il che non vuol dire, certo, definitivo).

Domattina troverai in questo blog la risposta del professor Gigi Sanna alle interviste, sempre su questo blog, con i professori Herbert Sauren e Giovanni Ugas

martedì 1 luglio 2008

Ugas: forse Atlandide era "anche" Sardegna

Nella prima parte della sua intervista, il professor Giovanni Ugas, ricercatore di Preistoria e Protostoria nell'Università di Cagliari, ha spiegato come gli shardana fossero i sardi dell'era nuragica. Erano dei grandi navigatori, oltre che guerrieri. Qui di seguito, la seconda parte dell'intervista.

D. In tutti questi viaggi, pur non essendo gite culturali, gli shardana avranno conosciuto popoli che usavano la scrittura. Possibile che non si siano incuriositi nel "nuovo" mezzo e non lo abbiano introdotto nella loro società?

L’uso della scrittura nell’antichità è funzionale al modello politico. Non tutti scrivevano e non tutti potevano usare la scrittura. La scrittura nell’età del Bronzo è limitata alle regioni dei grandi imperi e dei grandi regni, comprese tra la Mesopotamia, il Medio Oriente, l’Egitto, l’Anatolia e l’Egeo, cioè alle regioni governate da re che avevano un ampio territorio alle loro dipendenze. Solo i potenti della terra potevano farne uso per ragioni di prestigio, cioè per far conoscere le loro gesta e per invocare gli Dei, ma soprattutto per registrare i loro beni negli archivi, per finalità commerciali e per esigenze epistolari tra gli stessi re, principi e generali.
I popoli dell’occidente Mediterraneo cominciano a impiegare la scrittura solo agli inizi del I ferro cioè nel IX-VIII secolo. La cognizione dei segni di scrittura vi giunse però almeno sin dalla prima metà del XX secolo (bronzo antico), come evidenziano i segni sulle ceramiche eoliane studiate dal Bernabò Brea, mentre in Sardegna è documentata almeno a partire dal Tardo bronzo con i segni sui lingotti di rame di matrice egea. Per l’uso della scrittura però non basta la conoscenza, occorre la convenienza e la necessità.
È istruttivo, al riguardo, ciò che avvenne per i Cartaginesi con le emissioni monetarie. Nel V secolo, essi continuavano a usare pesi di rame e argento per pagare i soldati, mentre la gran parte delle città greche ricorrevano alle più agili ma anche più leggere (dunque sostanzialmente meno apprezzate) monete in argento e bronzo Come mai? Perché essi controllavano il mercato del rame e dell’argento e potevano agevolmente avere il sostegno dei soldati mercenari offrendo ad essi un valore effettivo in metallo superiore a quello delle monete. Quando nel IV secolo anche per Cartagine giunsero i momenti della crisi economica, allora la città africana fu obbligata anch’essa a ricorrere alla monetazione.
È verosimile, dunque, che durante l’età del Bronzo i Sardi, esattamente come gli Shardana, non impiegassero la scrittura. Infatti, non sono giunti a noi documenti epistolari degli Shardana né con l’Egitto, né con altri popoli. Ciò non esclude, peraltro che i Sardi possano aver utilizzato singoli segni di scrittura (acquisiti presso i popoli con i quali ebbero i più stretti contatti) per siglare i loro lingotti metallici, in rame e piombo. Questi segni hanno un valore ponderale o di contrassegno del produttore o del committente di tali manufatti.

D. Lei sa che, soprattutto in questi ultimi periodi, qua e là per la Sardegna si sono trovate tracce consistenti di scrittura. Che idea se ne è fatta?

I lingotti in rame che circolano in Sardegna mostrano segni attestati nei sistemi di scrittura minoica, micenea e cipro-minoica. Dunque, per l’ipotetica introduzione della scrittura nella nostra isola nell’età del Bronzo bisognerebbe guardare innanzitutto all’orizzonte geografico e culturale egeo. Al momento non esistono documenti archeologici che dimostrino chiaramente, per l’età del Bronzo, l’impiego nell’isola di un qualsiasi sistema di scrittura, neppure di matrice egea.
Diversamente è anomalo il fatto che intono al VI secolo la Sardegna risulti una delle pochissime regioni dell’Occidente che non usa un qualsiasi sistema di scrittura. Invero, nel primo Ferro in Sardegna è documentata la presenza di marchi di origine alfabetica non solo nei lingotti di piombo ma anche nei recipienti in ceramica (es. a Monte Olladiri di Monastir) e ciò induce a essere ottimisti circa l’introduzione di un sistema di scrittura nell’isola tra il IX e il secolo VIII, dopo l’avvento dei Fenici sulle coste, i movimenti coloniali greci nel Tirreno e, soprattutto, l’avvio delle aristocrazie isolane che presuppongono l’ampliamento dell’utenza commerciale e l’insorgenza di nuove leadership, per le quali la scrittura poteva essere non solo uno status symbol, ma anche un’esigenza di natura economica.
È implicito, per concludere, che le recenti segnalazioni di iscrizioni considerate nuragiche, peraltro documentate fuori contesto e di dubbia pertinenza cronologica, come quelle dell’Oristanese, non possono che lasciare forti dubbi principalmente perché risulterebbero appartenenti a modelli culturali estranei alle esperienze nuragiche sia dell’Età del Bronzo che del I Ferro.

D. La Sardegna dell'epoca, l'epoca degli Shardana, non potrebbe essere quell'isola che Platone chiamò Atlantide? Il filosofo greco avrà avuto pur in testa un luogo fisico e non soltanto un luogo mitico.

In un paragrafo del mio contributo per gli atti del II Convegno di Micenologia (1991), dedicato al mito di Atlantide raccontato nel Crizia e nel Timeo di Platone, nel 1996 scrivevo -e qualcuno avrebbe dovuto registrarlo- che: “un attacco contro l’Egitto da parte di una popolazione occidentale che possiede i metalli e una flotta potente può essere pensabile su un piano storico solo quando la terra dei faraoni, tra il XIV e il XII secolo dovette subire gli attacchi dei Libi, degli Sherden e degli altri popoli del grande Verde”.
Scrivevo anche: “La mitica Atlantide può ben essere identificata nelle varie coalizioni di popoli, comprendenti genti occidentali, come i nord-africani Libu e Mashuesh, e gli abitanti delle “isole che stanno al centro del Verde Grande”, cioè Sherden (Sardi), Tursha (Tyrreni), Liku (Liguri) e Shekelesh (Siculi), venute a contatto, anche conflittuale con l’Egitto dei faraoni Ramses II, Meremptah e Ramesse III”. Inoltre affermavo: “Per inciso, come l’isola atlantidea la Sardegna è una regione decisamente occidentale rispetto ad Atene e all’Egitto, ha una grande e ferace pianura ricca di metalli, possiede splendidi edifici di pietre policrome e opere di ingegneria idraulica”.
Dunque ventilavo l’ipotesi, per la prima volta, che l’isola di Atlantide potesse essere la Sardegna. Però, l’identificazione della terra atlantidea con la Sardegna non è così semplice come parrebbe e, non a caso, la sua dimensione storico-geografica (pari all’Asia e all’Africa (mediterranea) messe insieme, non collima con quella della sola isola di Sardegna. E infatti, implicitamente, per giustificare la straordinaria grandezza dell’isola di Atlantide, facevo riferimento all’insieme delle terre dei popoli del Nord-Africa e delle genti del Tirreno, in espansione verso l’Est del Mediterraneo.
Platone richiama eventi storici oramai mitizzati, come erano quelli relativi all’epopea eroica tramandata da Omero, accaduti almeno in parte e soprattutto registrati in terra egizia, dato che non erano noti alla tradizione letteraria greca. La loro collocazione cronologica è però piena di ambiguità e appare il prodotto dell’intrecciarsi di racconti su accadimenti susseguitisi a molta distanza di tempo tra loro. Invero, questo intreccio serve a spiegare la fine di due civiltà, quella di Atene (che poi sarebbe risorta) e quella senza ritorno di Atlantide attraverso l’intervento del Dio del mare, quello stesso che punì Ulisse, l’eroe di Itaca che pensa e muore sardonicamente.
Della questione, assai complessa, tratterò nel mio libro dedicato agli Shardana. Per certo, la fine della civiltà nuragica non avvenne a seguito di uno tsunami, così favoloso da far sparire nella stessa giornata oltre che l’isola di Atlante anche l’antica Atene, ma, come detto in precedenza, per eccezionali sconvolgimenti politici.