Una bella ballata di Enzo Jannacci sfotte coloro che "pur essendo testimoni di fatti importantissimi e determinanti dell'avvenire della civiltà, neanche se ne accorgono". Fra costoro, a leggere i giornali di oggi e ascoltado i telegiornali di ieri che riferivano della celebrazione di Sa die de sa Sardigna nel nostro Parlamento, sono certamente arruolati i responsabili della stampa sarda. Penso agli striminziti servizi televisivi di ieri che si sono occupati dello straordinario avvenimento (riportato integralmente nel sito della Regione) con lo stesso tempo dedicato a una notizia di cronaca nera; penso alla vergogna della "L'Unione sarda" che oggi gli dedica una decina di righe e una foto, ma penso anche a "La Nuova Sardegna" che, pur segnalando in prima pagina l'avvenimento a cui dedica un servizio più esteso, non resiste alla tentazione di segnalare un'avversione di fondo: "Soru in aula celebra Sa Die in campidanese". Non in sardo come è giustamente scritto nel sito della Regione e come lo stesso Soru ha detto: no, in campidanese.
Resta, spero, la svolta che il giornale vicino a Soru ha dato alla sua politica linguistica, che domenica qui ho segnalato. Ma resta intatta la fronda dei fans del re di Prussia, pervicacemente sardofobici. E insensibili all'emozione che ha preso me, e credo gran parte dei sardi correttamente informati (non molti purtroppo), nel vedere i deputati al Parlamento sardo in piedi e tutti insieme cantare l'inno nazionale sardo.
martedì 29 aprile 2008
domenica 27 aprile 2008
Lingua sarda: la svolta della "Nuova Sardegna"
C'è stata oggi una inattesa e importante svolta nell'atteggiamento di "La Nuova Sardegna" nei confronti della lingua sarda. Importante per ciò che dice un lungo articolo nella pagina della cultura, ma soprattutto perché esso non è firmato ed è, dunque, del giornale nel suo insieme. (Vero è che una fronda interna sardofoba tenta di sminuire l'importanza della svolta con un paio di trucchi nella titolazione: Remundu Piras è degradato a "poeta dialettale" e quello da salvaguardare è "un patrimonio orale in via di estinzione", espressioni di cui non c'è traccia nell'articolo. C'è sempre qualcuno che sta col re di Prussia, soprattutto se fino al giorno prima era guida spirituale e politica).
L'articolo è, per la prima volta, totalmente schierato al fianco di una politica linguistica della Regione. Ed è molto severo con la Chiesa "che in questi ultimi anni non ha fatto nient'altro se non tacere sul delicato argomento dell'uso della lingua sarda nella liturgia". Nè meno duro è nei confronti delle Università sarde: "Sarebbe interessante conoscere nel dettaglio l'entità dei fonti erogati in questi anni dalla Regione a finanziare - in teoria - corsi di lingua sarda che inevitabilmente finivano per diventare tutt'altra cosa".
Diventa sarcastico nei confronti della "ostilità pregiudiziale di molti accademici" che dovevano fare e non hanno fatto: del resto "non si può dare alle volpi l'incarico di vegliare sugli agnelli né ai topi il compito di garantire l'integrità del formaggio". Importante, infine, il consiglio dato all'assessora della cultura, Maria Antonietta Mongiu: "Non sarebbe male se d'ora in avanti si allenasse a distinguere meglio l'oro dall'argento o, peggio, l'ottone".
Non so, naturalmente, a che cosa si riferisca il giornale nell'articolo autorevolmente non firmato. Ma come molti altri, io so del finanziamento, con soldi della Legge sulla lingua, di ricerche scolastiche rigorosamente in italiano in cui il sardo era un semplice oggetto di curiosità folcloristica. O anche di finanziamenti per spettacoli teatrali di bambini con i sardo la parte del bimbo, poverino, un po' arretrato.
Questa svolta della "Nuova" è un bel passo in avanti e sarà ancora più importante se, in questa opera di riconoscimento delle buone ragioni della lingua sarda, si accorgerà che esiste un sardo non solo orale ma anche scritto, con i circa duecento romanzi e racconti lunghi che la sua politica culturale ha finora totalmente ignorato, facendo credere che la letteratura in Sardegna era rappresentata solo ed esclusivamente da una sedicente "nouvelle vague letteraria" popolata solo di italofoni e, a volte, di sardofobi.
L'articolo è, per la prima volta, totalmente schierato al fianco di una politica linguistica della Regione. Ed è molto severo con la Chiesa "che in questi ultimi anni non ha fatto nient'altro se non tacere sul delicato argomento dell'uso della lingua sarda nella liturgia". Nè meno duro è nei confronti delle Università sarde: "Sarebbe interessante conoscere nel dettaglio l'entità dei fonti erogati in questi anni dalla Regione a finanziare - in teoria - corsi di lingua sarda che inevitabilmente finivano per diventare tutt'altra cosa".
Diventa sarcastico nei confronti della "ostilità pregiudiziale di molti accademici" che dovevano fare e non hanno fatto: del resto "non si può dare alle volpi l'incarico di vegliare sugli agnelli né ai topi il compito di garantire l'integrità del formaggio". Importante, infine, il consiglio dato all'assessora della cultura, Maria Antonietta Mongiu: "Non sarebbe male se d'ora in avanti si allenasse a distinguere meglio l'oro dall'argento o, peggio, l'ottone".
Non so, naturalmente, a che cosa si riferisca il giornale nell'articolo autorevolmente non firmato. Ma come molti altri, io so del finanziamento, con soldi della Legge sulla lingua, di ricerche scolastiche rigorosamente in italiano in cui il sardo era un semplice oggetto di curiosità folcloristica. O anche di finanziamenti per spettacoli teatrali di bambini con i sardo la parte del bimbo, poverino, un po' arretrato.
Questa svolta della "Nuova" è un bel passo in avanti e sarà ancora più importante se, in questa opera di riconoscimento delle buone ragioni della lingua sarda, si accorgerà che esiste un sardo non solo orale ma anche scritto, con i circa duecento romanzi e racconti lunghi che la sua politica culturale ha finora totalmente ignorato, facendo credere che la letteratura in Sardegna era rappresentata solo ed esclusivamente da una sedicente "nouvelle vague letteraria" popolata solo di italofoni e, a volte, di sardofobi.
martedì 22 aprile 2008
"W Soru", purché non rompa con questa Lsc
C'è chi stravede per Renato Soru e ne difende parossisticamente le politiche in materia economica, urbanistica, sociale. Ma quando si mette in testa di fare qualcosa per la lingua sarda, sono guai. L'opposizione allora si fa dileggio e, spesso, mistificazione. Uno di questi supporter a corrente alternata è il direttore di L'Altra voce, quotidiano web, feroce critico dell'idea che la Sardegna abbia una lingua comune, sia pure solo per uso amministrativo.
Un'idea che obnubila chi, per altri versi, ha osannato il presidente della Regione. La cronaca dell'assemblea degli addetti agli sportelli linguistici, durante la quale Soru ha annunciato una prossima legge di politica linguistica, è stato titolata così: “Seus cirkendi de fai radio Kabul…”. Nell'articolo è scritto: "Una radio tutta in sardo: «No ia bolli ki mi nerinti ki seu cirkendi de fai Radio Kabul», scherza".
Ma dove il nostro dà il meglio è nello sfottere il comunicato stampa in Limba sarda comuna (il primo uscito dalla Regione in 60 anni di autonomia). Per "par condicio", sfotte, lo pubblica anche in casteddaiu (lo si può leggere cliccando qui). Ottima iniziativa, verrebbe da dire. E lo sarebbe se il casteddaiu non fosse bistrattato, ridotto a un linguaggio sgrammaticato, incoerente, scritto alla carlona come si confà non a una lingua nobile, ma a un dialetaccio senza arte ne parte.
Così, ma chi legge si potrà spassiai guardando il testo completo, il verbo "è" viene scritto una volta "esti" e altre volte, all'italiana, "è"; il plurale una volta è scritto con la "s" finale, "sportellus" e un'altra volta con una inedita "u", "kussusu"; una volta si scrive "sarda" e un'altra "srada" come se si trattasse di cose diverse.
Insomma, il nostro sale in cattedra e sbaglia anche la grammatica.
Un'idea che obnubila chi, per altri versi, ha osannato il presidente della Regione. La cronaca dell'assemblea degli addetti agli sportelli linguistici, durante la quale Soru ha annunciato una prossima legge di politica linguistica, è stato titolata così: “Seus cirkendi de fai radio Kabul…”. Nell'articolo è scritto: "Una radio tutta in sardo: «No ia bolli ki mi nerinti ki seu cirkendi de fai Radio Kabul», scherza".
Ma dove il nostro dà il meglio è nello sfottere il comunicato stampa in Limba sarda comuna (il primo uscito dalla Regione in 60 anni di autonomia). Per "par condicio", sfotte, lo pubblica anche in casteddaiu (lo si può leggere cliccando qui). Ottima iniziativa, verrebbe da dire. E lo sarebbe se il casteddaiu non fosse bistrattato, ridotto a un linguaggio sgrammaticato, incoerente, scritto alla carlona come si confà non a una lingua nobile, ma a un dialetaccio senza arte ne parte.
Così, ma chi legge si potrà spassiai guardando il testo completo, il verbo "è" viene scritto una volta "esti" e altre volte, all'italiana, "è"; il plurale una volta è scritto con la "s" finale, "sportellus" e un'altra volta con una inedita "u", "kussusu"; una volta si scrive "sarda" e un'altra "srada" come se si trattasse di cose diverse.
Insomma, il nostro sale in cattedra e sbaglia anche la grammatica.
La "casta dei migliori" e una certa idea di Sardegna
Al termine di un editoriale dal titolo "La Sardegna dei luoghi comuni", Fabio Pruneri, docente di Storia dell'educazione all'Università di Sassari scrive: "Da spettatore lombardo e da principiante di cose isolane ritengo che tra il banditismo e la Costa Smeralda, i due volti più noti ed esportati della Sardegna, c'è molto altro: è troppo chiedere ai sardi di raccontarcelo?".
Il professore, "continentale trapiantato", scrive ancora che "leggere - cito a caso ciò che "in continente" si è potuto conoscere della Sardegna in questi ultimi trent'anni - ... significa in fondo vedere una parte sola dell'isola: quella dei violenti, dei banditi, dei delinquenti più o meno romanticamente o sociologicamente raccontati".
Fabio Pruneri sintetizza con efficacia quanto da tempo, alcuni intellettuali sardi non allocati, vanno sostenendo: la disinformatzia attuata dalla "casta dei migliori" va dando della Sardegna un'immagine non solo falsa - sarebbe il meno - ma rispondente all'idea che della Sardegna (arcaica, folcloristica, chiusa su rituali ancestrali) si ha fuori di essa. Non perché, naturalmente, i continentali vivono nel pregiudizio (o non prevalentemente per questo), ma perché ad informarli sono o giornalisti poltroni o una congrega di scrittori sardi che traggono successo e diritti d'autore proprio da questa rappresentazione dell'isola.
Il professore lombardo è, insomma, vittima di quella corporazione che, usando abilmente la disinformatzia, nega l'esistenza di tutto ciò che non appartiene alla "casta dei migliori". Le decine e decine di romanzieri in italiano (molti dei quali di buon livello), i duecento romanzi il lingua sarda (moltissimi di ottima scrittura) non esistono poiché la "casta dei migliori" e i suoi alleati nei mass media e nelle università applica su di loro la consolidata tecnica stalinista della disinformatzia: esiste solo ciò che noi diciamo che esiste. Se ciò produce effetti di rimozione in Sardegna (dove questi scrittori operano), figurarsi che cosa succede oltre mare, dove si è legittimati a pensare quel che ha pensato Pruneri: non c'è chi racconta una Sardegna diversa da quella dei banditi e della Costa Smeralda.
Qualche giorno fa, parlandodi una lodevole iniziativa che coinvolge una ventina di intellettuali fra giornalisti, scrittori e editor, Giorgio Todde, un romanziere sardo ben inserito nella "casta dei migliori" ha lapidariamente decretato che nell'iniziativa "gli scrittori sardi ci sono tutti". In un eccesso di magnanimità, Todde concede che oltre al Sommo Sestesso la categoria "scrittori sardi" comprenda qualche altro. Non ne fa il nome, ma non credo di sbagliare pensando che "tutti gli scrittori sardi" coincidano con quella "casta dei migliori" che, spesso per solo merito di partito, è titolata a dare quell'idea di Sardegna che al professore lombardo sta giustamente stretta.
Il professore, "continentale trapiantato", scrive ancora che "leggere - cito a caso ciò che "in continente" si è potuto conoscere della Sardegna in questi ultimi trent'anni - ... significa in fondo vedere una parte sola dell'isola: quella dei violenti, dei banditi, dei delinquenti più o meno romanticamente o sociologicamente raccontati".
Fabio Pruneri sintetizza con efficacia quanto da tempo, alcuni intellettuali sardi non allocati, vanno sostenendo: la disinformatzia attuata dalla "casta dei migliori" va dando della Sardegna un'immagine non solo falsa - sarebbe il meno - ma rispondente all'idea che della Sardegna (arcaica, folcloristica, chiusa su rituali ancestrali) si ha fuori di essa. Non perché, naturalmente, i continentali vivono nel pregiudizio (o non prevalentemente per questo), ma perché ad informarli sono o giornalisti poltroni o una congrega di scrittori sardi che traggono successo e diritti d'autore proprio da questa rappresentazione dell'isola.
Il professore lombardo è, insomma, vittima di quella corporazione che, usando abilmente la disinformatzia, nega l'esistenza di tutto ciò che non appartiene alla "casta dei migliori". Le decine e decine di romanzieri in italiano (molti dei quali di buon livello), i duecento romanzi il lingua sarda (moltissimi di ottima scrittura) non esistono poiché la "casta dei migliori" e i suoi alleati nei mass media e nelle università applica su di loro la consolidata tecnica stalinista della disinformatzia: esiste solo ciò che noi diciamo che esiste. Se ciò produce effetti di rimozione in Sardegna (dove questi scrittori operano), figurarsi che cosa succede oltre mare, dove si è legittimati a pensare quel che ha pensato Pruneri: non c'è chi racconta una Sardegna diversa da quella dei banditi e della Costa Smeralda.
Qualche giorno fa, parlandodi una lodevole iniziativa che coinvolge una ventina di intellettuali fra giornalisti, scrittori e editor, Giorgio Todde, un romanziere sardo ben inserito nella "casta dei migliori" ha lapidariamente decretato che nell'iniziativa "gli scrittori sardi ci sono tutti". In un eccesso di magnanimità, Todde concede che oltre al Sommo Sestesso la categoria "scrittori sardi" comprenda qualche altro. Non ne fa il nome, ma non credo di sbagliare pensando che "tutti gli scrittori sardi" coincidano con quella "casta dei migliori" che, spesso per solo merito di partito, è titolata a dare quell'idea di Sardegna che al professore lombardo sta giustamente stretta.
lunedì 21 aprile 2008
Soru annonsat una lege nova pro sa limba sarda
"Una lege regionale noa subra sa limba, una televisione digitale in sardu in Internet e un'apellu a sos giòvanos pro faeddare sa limba semper e in totue. Sunt custas sas propostas chi su Presidente de sa Regione at fatu ischire in die de oe in Casteddu sende presente finas s'Assessora de s'Istrutzione Pùblica Maria Antonietta Mòngiu." Cumintzat gasi su primu comunicadu pro s'istampa essidu dae su Guvernu sardu dae cando b'at sa Regione autonoma de Sardigna.
In su situ meu, podides lèghere su papiru e b'agatare su link a un'àteru documentu de importu: sa reunione de sos Ufìtzios pro sa limba sarda in uve belle totus, dae sos responsabiles de sos ufìtzios a su presidente Soru, ant faveddadu in sardu.
In su situ meu, podides lèghere su papiru e b'agatare su link a un'àteru documentu de importu: sa reunione de sos Ufìtzios pro sa limba sarda in uve belle totus, dae sos responsabiles de sos ufìtzios a su presidente Soru, ant faveddadu in sardu.
Identità e statalismo divide gli elettori sardi
Tra le semplificazioni introdotte in Sardegna dalle ultime elezioni, ce n'è una che non mi pare sia stata esaminata dai commentatori nei giornali né nei documenti, che ho potuto leggere, dei partiti. Parlo della divisione netta fra chi ha proposto un futuro della Sardegna fondato sulla promozione della Nazione sarda a soggetto istituzionale e chi, al contrario, ha proposto una maggiore integrazione della Sardegna nello Stato italiano.
Nessuno, al momento, può dire se gli elettori abbiano avuto piena consapevolezza che la loro scelta era anche fra questi due corni della questione sarda. Ma è molto chiaro che il risultato è questo: ha vinto chi ai sardi ha proposto un percorso fortemente autonomista. Ha vinto, insomma, chi ha annunciato un futuro partito autonomista fondato sul riconoscimento dell'identità sarda, ha proposto un percorso di formazione di una Costituzione sarda radicalmente federalista (Sa Carta de Logu nova de sa Natzione sarda), ha battuto il tasto dell'autogoverno dei comuni.
E ha perso chi ha riproposto una visione unitarista (e anti federale) del rapporto Sardegna/Italia (la conclusione dei comizi sardi di Veltroni al canto dell'inno di Mameli ne è un sintomo); ha insistito sull'accentramento in capo alla Regione della pianificazione territoriale (Piani territoriali, ma anche Siti di interesse comunitario, Zone a protezione speciale, politica dei Parchi); è andato proponendo una modifica dello Statuto con visione economicista (con le questioni "immateriali" come identità e diritti del popolo sardo in sottofondo); ha negato l'autonomia del Pd in Sardegna (così come, in questi giorni, del resto Veltroni e Prodi hanno respinto l'idea di loro dirigenti del Nord Italia di costituire nella macroregione padana un partito autonomo e federato).
Non è una novità, del resto, la vocazione napoleonica del nucleo dirigente del centro-sinistra italiano. Si deve ad esso la bocciatura di due leggi sarde (che personalmente ritengo sbagliate nel merito, ma legittimamente approvate dal Parlamento sardo) che incidono profondamente sull'essere la Sardegna una autonomia speciale: la cosiddetta tassa sul lusso che rivendica alla Regione la potestà di avere una fiscalità autonoma; la dizione "sovranità del popolo sardo" compresa in un'altra legge sbagliata ma legittima, quella sulla Consulta per lo Statuto.
Che questa visione nazionalista italiana, o più correttamente statalista, non sia solo una sovrapposizione romana sul centrosinistra sardo, lo si capisce viaggiando fra i blog e i forum degli sconfitti del Pd sardo. C'è persino chi vorrebbe cancellarsi da italiano e chiedere asilo politico in Spagna o in Bulgaria. E non tanto perché ha vinto Berlusconi, come si potrebbe credere, ma perché hanno vinto Bossi e la sua idea di federalismo. Il che, detto in una terra in cui il federalismo è proposta politico-istituzionale da ormai 87 anni, è un segno incontrovertibile di quanto all'inizio proponevo alla riflessione: in Sardegna si sta producendo una divisione finalmente fuori delle categorie ottocentesche fra sinistra, destra, centro variamente combinate.
Le nuove categorie sono quelle del nazionalismo sardo (o nazionalitarismo per chi preferisce gli eufemismi) e dello statalismo: entrambe legittime e degne di rispetto. Bisogna solo prenderne atto e uscire dalle fumisterie.
Nessuno, al momento, può dire se gli elettori abbiano avuto piena consapevolezza che la loro scelta era anche fra questi due corni della questione sarda. Ma è molto chiaro che il risultato è questo: ha vinto chi ai sardi ha proposto un percorso fortemente autonomista. Ha vinto, insomma, chi ha annunciato un futuro partito autonomista fondato sul riconoscimento dell'identità sarda, ha proposto un percorso di formazione di una Costituzione sarda radicalmente federalista (Sa Carta de Logu nova de sa Natzione sarda), ha battuto il tasto dell'autogoverno dei comuni.
E ha perso chi ha riproposto una visione unitarista (e anti federale) del rapporto Sardegna/Italia (la conclusione dei comizi sardi di Veltroni al canto dell'inno di Mameli ne è un sintomo); ha insistito sull'accentramento in capo alla Regione della pianificazione territoriale (Piani territoriali, ma anche Siti di interesse comunitario, Zone a protezione speciale, politica dei Parchi); è andato proponendo una modifica dello Statuto con visione economicista (con le questioni "immateriali" come identità e diritti del popolo sardo in sottofondo); ha negato l'autonomia del Pd in Sardegna (così come, in questi giorni, del resto Veltroni e Prodi hanno respinto l'idea di loro dirigenti del Nord Italia di costituire nella macroregione padana un partito autonomo e federato).
Non è una novità, del resto, la vocazione napoleonica del nucleo dirigente del centro-sinistra italiano. Si deve ad esso la bocciatura di due leggi sarde (che personalmente ritengo sbagliate nel merito, ma legittimamente approvate dal Parlamento sardo) che incidono profondamente sull'essere la Sardegna una autonomia speciale: la cosiddetta tassa sul lusso che rivendica alla Regione la potestà di avere una fiscalità autonoma; la dizione "sovranità del popolo sardo" compresa in un'altra legge sbagliata ma legittima, quella sulla Consulta per lo Statuto.
Che questa visione nazionalista italiana, o più correttamente statalista, non sia solo una sovrapposizione romana sul centrosinistra sardo, lo si capisce viaggiando fra i blog e i forum degli sconfitti del Pd sardo. C'è persino chi vorrebbe cancellarsi da italiano e chiedere asilo politico in Spagna o in Bulgaria. E non tanto perché ha vinto Berlusconi, come si potrebbe credere, ma perché hanno vinto Bossi e la sua idea di federalismo. Il che, detto in una terra in cui il federalismo è proposta politico-istituzionale da ormai 87 anni, è un segno incontrovertibile di quanto all'inizio proponevo alla riflessione: in Sardegna si sta producendo una divisione finalmente fuori delle categorie ottocentesche fra sinistra, destra, centro variamente combinate.
Le nuove categorie sono quelle del nazionalismo sardo (o nazionalitarismo per chi preferisce gli eufemismi) e dello statalismo: entrambe legittime e degne di rispetto. Bisogna solo prenderne atto e uscire dalle fumisterie.
martedì 15 aprile 2008
La lezione dei sardi ai sardismi
Come tutti, o moltissimi di noi, ho viaggiato, sera e notte di ieri, fra un canale e l'altro della Tv e, nelle sarde, la cosa che più mi ha stupito è l'enorme quantità di spot pubblicitari che fanno riferimento alla Sardegna. Singoli prodotti e strutture generali come supermercati e altro pongono la Sardegna e la sua immagine al centro della "cosa" che si vuol vendere. La sarditudine è presa, cioè, come valore aggiunto ed è chiaro che quando l'economia fa proprio un dato immateriale, qual è l'identità, vuol dire che questo dato è ritenuto vendibile con successo.
Del resto, è piuttosto evidente che mai come in questi ultimi anni il sentimento di appartenenza alla Nazione sarda sia stato diffuso, per alcuni con i caratteri di vera coscienza per altri come sentore più o meno vago. Sentire l'espressione "Nazione sarda" in bocca di una platea così vasta da comprendere Renato Soru e Mariano Delogu (l'uno presidente di un governo di centrosinistra, l'altro senatore di An) sta a significare che il concetto è entrato con naturalezza anche nel lessico politico. Né francamente ha molto senso star lì a interrogarsi quanta sincerità ci sia in chi dice le parole.
Ha invece senso chiedersi perché, se così è, i partiti e i movimenti più titolati a interpretare questo sentimento (Partito sardo d'azione e Sardigna natzione) non siano da tempo capaci di trasformare in consensi per loro questo sentimento di identità e di identificazione che, comunque, è la base unica su cui si innestano le differenze, anche importanti, esistenti.
Il fatto è che il popolo sardo è cosciente, vuoi per via del sistema politico che si è consolidato in tutta l'Europa vuoi per il sistema elettorale esistente, che si va a votare per rendere possibile un governo o l'altro. E che si sceglie non sulla base di vecchie idee di schieramento precostituito (centrodestra, centrosinistra, destra, sinistra, centro), ma sulla base di maggiore aderenza di un programma ai propri bisogni economici, sociali, culturali, in una gerarchia che non per tutti è la stessa. Un mondo nazionalista (o nazionalitario, per chi ama gli eufemismi) frantumato dall'ideologia non dà prospettive.
L'idea lanciata un anno fa da Fortza paris di unificare (in forme tutte da vedere, se di unità, federazione o altro) tutte le forze che fanno della Nazione sarda il punto di coagulo, ha rovinosamente impattato sugli ideologismi di chi sarebbe stato d'accordo purché il nuovo soggetto si schierasse a sinistra, purché fosse dentro il centro destra, purché avesse il centro come punto di riferimento. E questo indipendentemente dal fatto che gli oggetti di desiderio si comportavano in maniera diversa dagli ideologismi precostituiti.
Il centrosinistra, nella sua grande maggioranza, si è schierato anche in Sardegna per la conservazione di una Costituzione italiana idolatrata (portò i suoi elettori a votare contro la timida riforma federalista della Repubblica), il centrodestra no. Questo si è fatto garante di un processo di trasformazione dello Statuto sardo in una Costituzione sarda secondo la quale tutti i poteri e le competenze sono della Sardegna all'infuori del potere di governare la moneta, la giustizia, la difesa della Repubblica, i rapporti diplomatici. Il centro sinistra ha tentato di affidare una miniriforma dello Statuto a un club di saggi.
E anche oggi, ad elezioni fatte, dal Pd non viene una sola parola sui futuri rapporti tra Sardegna, Italia e Europa (forse ancora condizionato dal programma di Veltroni, un brutto esempio di napoleonismo). Dal Pdl vengono assicurazioni che questo partito si trasformerà in partito autonomista sardo e che bisogna fare leva sull'identità sarda per avviare lo sviluppo della Sardegna. Insomma, nel futuro della Sardegna, si delineano due prospettive: una di neo-centralismo e una di rilancio dell'identità, entrambi, naturalmente, proposti come leva per la crescita dell'Isola. Fondarsi sull'identità non è certo fondarsi sull'indipendenza. Il problema, oggi, è, però, scegliere tra il neo-giacobinismo del Pd e la promessa, fatta dal Pdl, di un processo di autogoverno.
Non so quanto la scelta dei sardi sia fondata su questi fattori. Resta il fatto che la maggioranza dei sardi ha scelto chi promette loro possibilità di autogoverno. Qualcosa, insomma, che si avvicina ai temi agitati da Psd'az e Sardigna natzione più di quanto lo sia il programma del Pd.
Del resto, è piuttosto evidente che mai come in questi ultimi anni il sentimento di appartenenza alla Nazione sarda sia stato diffuso, per alcuni con i caratteri di vera coscienza per altri come sentore più o meno vago. Sentire l'espressione "Nazione sarda" in bocca di una platea così vasta da comprendere Renato Soru e Mariano Delogu (l'uno presidente di un governo di centrosinistra, l'altro senatore di An) sta a significare che il concetto è entrato con naturalezza anche nel lessico politico. Né francamente ha molto senso star lì a interrogarsi quanta sincerità ci sia in chi dice le parole.
Ha invece senso chiedersi perché, se così è, i partiti e i movimenti più titolati a interpretare questo sentimento (Partito sardo d'azione e Sardigna natzione) non siano da tempo capaci di trasformare in consensi per loro questo sentimento di identità e di identificazione che, comunque, è la base unica su cui si innestano le differenze, anche importanti, esistenti.
Il fatto è che il popolo sardo è cosciente, vuoi per via del sistema politico che si è consolidato in tutta l'Europa vuoi per il sistema elettorale esistente, che si va a votare per rendere possibile un governo o l'altro. E che si sceglie non sulla base di vecchie idee di schieramento precostituito (centrodestra, centrosinistra, destra, sinistra, centro), ma sulla base di maggiore aderenza di un programma ai propri bisogni economici, sociali, culturali, in una gerarchia che non per tutti è la stessa. Un mondo nazionalista (o nazionalitario, per chi ama gli eufemismi) frantumato dall'ideologia non dà prospettive.
L'idea lanciata un anno fa da Fortza paris di unificare (in forme tutte da vedere, se di unità, federazione o altro) tutte le forze che fanno della Nazione sarda il punto di coagulo, ha rovinosamente impattato sugli ideologismi di chi sarebbe stato d'accordo purché il nuovo soggetto si schierasse a sinistra, purché fosse dentro il centro destra, purché avesse il centro come punto di riferimento. E questo indipendentemente dal fatto che gli oggetti di desiderio si comportavano in maniera diversa dagli ideologismi precostituiti.
Il centrosinistra, nella sua grande maggioranza, si è schierato anche in Sardegna per la conservazione di una Costituzione italiana idolatrata (portò i suoi elettori a votare contro la timida riforma federalista della Repubblica), il centrodestra no. Questo si è fatto garante di un processo di trasformazione dello Statuto sardo in una Costituzione sarda secondo la quale tutti i poteri e le competenze sono della Sardegna all'infuori del potere di governare la moneta, la giustizia, la difesa della Repubblica, i rapporti diplomatici. Il centro sinistra ha tentato di affidare una miniriforma dello Statuto a un club di saggi.
E anche oggi, ad elezioni fatte, dal Pd non viene una sola parola sui futuri rapporti tra Sardegna, Italia e Europa (forse ancora condizionato dal programma di Veltroni, un brutto esempio di napoleonismo). Dal Pdl vengono assicurazioni che questo partito si trasformerà in partito autonomista sardo e che bisogna fare leva sull'identità sarda per avviare lo sviluppo della Sardegna. Insomma, nel futuro della Sardegna, si delineano due prospettive: una di neo-centralismo e una di rilancio dell'identità, entrambi, naturalmente, proposti come leva per la crescita dell'Isola. Fondarsi sull'identità non è certo fondarsi sull'indipendenza. Il problema, oggi, è, però, scegliere tra il neo-giacobinismo del Pd e la promessa, fatta dal Pdl, di un processo di autogoverno.
Non so quanto la scelta dei sardi sia fondata su questi fattori. Resta il fatto che la maggioranza dei sardi ha scelto chi promette loro possibilità di autogoverno. Qualcosa, insomma, che si avvicina ai temi agitati da Psd'az e Sardigna natzione più di quanto lo sia il programma del Pd.
venerdì 11 aprile 2008
Requiem per un Parco mai nato
Rigettato dalle comunità colpite dallo sciagurato progetto che hanno combattuto fin dal 1992, il Parco statale del Gennargentu è stato finalmente sotterrato anche dalla legge. Il Tribunale amministrativo della Sardegna, stabilendo la illegittimità del cosiddetto "Decreto Ronchi" (in realtà decreto Scalfaro), ne ha decretato la morte. Vero è che il governo italiano forse non si rassegnerà e investirà della questione il Consiglio di Stato, ma è anche vero che la sentenza del Tar ha ridato forza a quanti, in questi sedici anni, hanno cercato e trovato nelle proprie comunità adesione a una battaglia di salvaguardia del diritto all'autogoverno dei territori.
Territori belli e pregiati non perché tali li hanno considerati gli ayatollah dell'ambiente (impazienti di accaparrarsene il governo) ma perché così li avevano conservati le comunità che si volevano espropriare con l'infausta legge 394 del '91. Ancora prima della sentenza del Tar, a dare un duro colpo alle pretese della consorteria finto-ambientalista sono state le manifestazioni popolari (nelle foto quella dell'ottobre 2005 a Cagliari, cui parteciparono non meno di diecimila persone), prima di tutte quella di dieci anni fa a Pratobello, luogo simbolo della dissidenza orgolese da quando, nel 1969, l'intera Orgosolo si ribellò alla creazione di una base militare alle falde del Gennargentu.
Un giorno, finite le elezioni, varrà la pena di raccontare tutto di questa vicenda, fatta di impegno comunitario e di tradimenti di chi queste comunità era chiamato a governare.
Territori belli e pregiati non perché tali li hanno considerati gli ayatollah dell'ambiente (impazienti di accaparrarsene il governo) ma perché così li avevano conservati le comunità che si volevano espropriare con l'infausta legge 394 del '91. Ancora prima della sentenza del Tar, a dare un duro colpo alle pretese della consorteria finto-ambientalista sono state le manifestazioni popolari (nelle foto quella dell'ottobre 2005 a Cagliari, cui parteciparono non meno di diecimila persone), prima di tutte quella di dieci anni fa a Pratobello, luogo simbolo della dissidenza orgolese da quando, nel 1969, l'intera Orgosolo si ribellò alla creazione di una base militare alle falde del Gennargentu.
Un giorno, finite le elezioni, varrà la pena di raccontare tutto di questa vicenda, fatta di impegno comunitario e di tradimenti di chi queste comunità era chiamato a governare.
mercoledì 9 aprile 2008
Walter Veltroni e lo stato napoleonico
Era dai tempi di Almirante e della destra più patriottarda che in Italia non si sentivano frasi come quelle pronunciate dal candidato del Pd alla presidenza del governo italiano. Nella sua lettera a Berlusconi, Veltroni chiede la sottoscrizione di
"questi quattro fondamentali principi: la difesa dell'unità nazionale, che è il bene più prezioso che abbiamo, il legame che ci fa sentire italiani e orgogliosi di esserlo; il rifiuto di ogni forma di violenza, attuata o anche solo predicata, e per questo portatrice di divisione e di odio; la fedeltà ai principi contenuti nella prima parte della nostra Costituzione, fedeltà che non solo non contraddice, ma dovrà guidare, ogni impegno di adeguamento della seconda parte della Carta; il riconoscimento e il rispetto della nostra storia, della nostra identità nazionale e dei suoi simboli, a cominciare dal tricolore e dall'inno di Mameli".
Secondo molti giornali, Veltroni tenterebbe così di attirare a sé il voto di quegli elettori di An che sono ancora sedotti dal nazionalismo neo-fascista e degli elettori di "La destra" di Sorace. Dubitando che il loro schieramento possa superare lo sbarramento dell'8 per cento al Senato, questi potrebbero sentirsi sicuri di essere rappresentati dalla svolta nazionalista di Veltroni e magari farci un pensierino sulla opportunità di non disperdere il voto. In campagna elettorale, tutto o quasi tutto è consentito ed è legittimo il tentativo fatto dal leader del Pd. I voti, come i denari, non puzzano.
Ma ci sono nell'appello cose che rischiano di introdurre in Italia, ed anche in Sardegna e nelle altre nazioni della Repubblica italiana, elementi di scontro anziché di convivenza fra lo Stato napoleonico desiderato da Veltroni e i diversi popoli della Repubblica. Il "rispetto della nostra storia, della nostra identità nazionale e dei suoi simboli" esclude, in questa visione nazionalista granditaliana, il rispetto della storia sarda e della storia degli altri popoli dell'Italia geografica, storie che hanno invece diritto non solo al rispetto ma anche a una tutela attiva. Lo stesso valga per i simboli nazionali (la bandiera sarda, quella veneta, quella sud tirolese, quella valdostana, ma anche quella siciliana) che in una visione meno totalizzante di quella veltroniana possono e devono essere rispettati al pari del tricolore.
Chiedere, nel momento in cui in Sardegna e in altri territori della Repubblica si discute di nuovi rapporti fra regioni, Italia e Europa, e quando anche in Italia si pensa a una assemblea costituente, la fedeltà ai principi fondamentali, significa mettere pesanti ipoteche alla riforma della Costituzione. Non è vero, fra l'altro, che questa prima parte sia intangibile: nella scorsa legislatura la Camera ha approvato la modifica dell'articolo 12 (l'ultimo dei fondamentali) per introdurre la norma secondo cui l'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica. La proposta fu di una deputata di Alleanza nazionale ma fu fatta propria da tutto il giacobinismo presente alla Camera, con l'opposizione di soli quattro deputati sardi, due del centrosinistra e due del centrodestra. Se questa riforma non è legge non dipende, però, dalla "fedeltà" invocata da Veltroni ma dalla - almeno per questo - fortunata fine della legislatura. Altrimenti questa fedeltà sarebbe stata bellamente violata.
Naturalmente, nulla da dire circa il rifiuto della violenza "attuata o solo predicata" sia che ci si riferisca a Bossi sia che si condannino le violenze verbali e non solo pronunciate contro i nemici dello schieramento opposto.
Ma, al di là di queste considerazioni, possono accettare e condividere questo rigurgito di giacobinismo e di nazionalismo grande italiano, coloro che in Sardegna ritengono compatibile la militanza nel Pd con la difesa della Nazione sarda? Coloro che si sono invocati e si invocano al "diritto dei popoli all'autodeterminazione" quando si tratti di Kosovo e di Tibet?
PS - La stessa domanda vorrei porre all'ex consigliere regionale sardista Beniamino Scarpa, approdato al Pd proprio il giorno che Veltroni gridava il serrate le fila intorno alla intangibilità dello Stato napoleonico.
"questi quattro fondamentali principi: la difesa dell'unità nazionale, che è il bene più prezioso che abbiamo, il legame che ci fa sentire italiani e orgogliosi di esserlo; il rifiuto di ogni forma di violenza, attuata o anche solo predicata, e per questo portatrice di divisione e di odio; la fedeltà ai principi contenuti nella prima parte della nostra Costituzione, fedeltà che non solo non contraddice, ma dovrà guidare, ogni impegno di adeguamento della seconda parte della Carta; il riconoscimento e il rispetto della nostra storia, della nostra identità nazionale e dei suoi simboli, a cominciare dal tricolore e dall'inno di Mameli".
Secondo molti giornali, Veltroni tenterebbe così di attirare a sé il voto di quegli elettori di An che sono ancora sedotti dal nazionalismo neo-fascista e degli elettori di "La destra" di Sorace. Dubitando che il loro schieramento possa superare lo sbarramento dell'8 per cento al Senato, questi potrebbero sentirsi sicuri di essere rappresentati dalla svolta nazionalista di Veltroni e magari farci un pensierino sulla opportunità di non disperdere il voto. In campagna elettorale, tutto o quasi tutto è consentito ed è legittimo il tentativo fatto dal leader del Pd. I voti, come i denari, non puzzano.
Ma ci sono nell'appello cose che rischiano di introdurre in Italia, ed anche in Sardegna e nelle altre nazioni della Repubblica italiana, elementi di scontro anziché di convivenza fra lo Stato napoleonico desiderato da Veltroni e i diversi popoli della Repubblica. Il "rispetto della nostra storia, della nostra identità nazionale e dei suoi simboli" esclude, in questa visione nazionalista granditaliana, il rispetto della storia sarda e della storia degli altri popoli dell'Italia geografica, storie che hanno invece diritto non solo al rispetto ma anche a una tutela attiva. Lo stesso valga per i simboli nazionali (la bandiera sarda, quella veneta, quella sud tirolese, quella valdostana, ma anche quella siciliana) che in una visione meno totalizzante di quella veltroniana possono e devono essere rispettati al pari del tricolore.
Chiedere, nel momento in cui in Sardegna e in altri territori della Repubblica si discute di nuovi rapporti fra regioni, Italia e Europa, e quando anche in Italia si pensa a una assemblea costituente, la fedeltà ai principi fondamentali, significa mettere pesanti ipoteche alla riforma della Costituzione. Non è vero, fra l'altro, che questa prima parte sia intangibile: nella scorsa legislatura la Camera ha approvato la modifica dell'articolo 12 (l'ultimo dei fondamentali) per introdurre la norma secondo cui l'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica. La proposta fu di una deputata di Alleanza nazionale ma fu fatta propria da tutto il giacobinismo presente alla Camera, con l'opposizione di soli quattro deputati sardi, due del centrosinistra e due del centrodestra. Se questa riforma non è legge non dipende, però, dalla "fedeltà" invocata da Veltroni ma dalla - almeno per questo - fortunata fine della legislatura. Altrimenti questa fedeltà sarebbe stata bellamente violata.
Naturalmente, nulla da dire circa il rifiuto della violenza "attuata o solo predicata" sia che ci si riferisca a Bossi sia che si condannino le violenze verbali e non solo pronunciate contro i nemici dello schieramento opposto.
Ma, al di là di queste considerazioni, possono accettare e condividere questo rigurgito di giacobinismo e di nazionalismo grande italiano, coloro che in Sardegna ritengono compatibile la militanza nel Pd con la difesa della Nazione sarda? Coloro che si sono invocati e si invocano al "diritto dei popoli all'autodeterminazione" quando si tratti di Kosovo e di Tibet?
PS - La stessa domanda vorrei porre all'ex consigliere regionale sardista Beniamino Scarpa, approdato al Pd proprio il giorno che Veltroni gridava il serrate le fila intorno alla intangibilità dello Stato napoleonico.
domenica 6 aprile 2008
Gavoi e la sua omertà (omertà?)
"Noi diciamo no all'omertà. Questo paese, l'intera Barbagia, non ha bisogno dell'omertà" ha detto Salvatore Lai ai suoi concittadini gavoesi riuniti in assemblea popolare nei giorni scorsi. Poste così fra virgolette, le frasi dovrebbero essere autentiche, non frutto dell'approssimazione di un cronista innamorato del suono della parola "omertà", ma poco conscio del suo significato.
Vediamo che cosa è dunque "omertà" nei dizionari di lingua italiana. "Regola della malavita organizzata e consuetudine culturale dei luoghi da essa dominati, che obbligano al silenzio sull'autore di un delitto e sulle circostanze di esso". Oppure: "Solidarietà interessata fra i membri di uno stesso gruppo o ceto sociale che coprono le colpe altrui per salvaguardare i propri interessi o evitare di essere coinvolti in indagini spiacevoli o pericolose". Rispetto all'etimologia, a quel che pare, omertà deriva da una parola napoletana che indica la dipendenza di un individuo dalla camorra.
Si provi, ora, a leggere quelle due frasi del sindaco di Gavoi conoscendo il significato della parola omertà: l'uccisione della povera Dina Dore decisa dalla malavita organizzata in un paese da essa dominato? C'è qualcuno che può crederlo? E c'è chi sia disposto a credere davvero che in Barbagia domini la camorra?
Naturalmente né i gavoesi né il loro sindaco pensano seriamente che nel loro paese esista un problema di omertà. Ma è diffuso da moltissimo tempo in certi ceti dirigenti sardi un atteggiamento di subalternità tanto forte da render loro impossibile l'idea che esista anche una criminalità propria della Sardegna, diversa da quella esistente in Italia. E che, come tale, ha bisogno di strumenti di contrasto diversi anche nella comprensione del fenomeno.
Tempo fa i compagni di partito di Salvatore Lai chiesero l'applicazione della legislazione anti-mafia alla Sardegna e ai delitti che qui si compivano, particolarmente i sequestri di persona. L'allora presidente della Repubblica Scalfaro dovette intervenire per ricordare a consiglieri e deputati comunisti che in Sardegna non c'era la mafia. Insomma l'omertà non è di questi posti: quel che esiste è forse anche peggio, ma certo non omologabile all'omertà. Sarebbe interessante capire perché giornalisti e parte del ceto politico sardo insistono, invece, ad evocarla.
Vediamo che cosa è dunque "omertà" nei dizionari di lingua italiana. "Regola della malavita organizzata e consuetudine culturale dei luoghi da essa dominati, che obbligano al silenzio sull'autore di un delitto e sulle circostanze di esso". Oppure: "Solidarietà interessata fra i membri di uno stesso gruppo o ceto sociale che coprono le colpe altrui per salvaguardare i propri interessi o evitare di essere coinvolti in indagini spiacevoli o pericolose". Rispetto all'etimologia, a quel che pare, omertà deriva da una parola napoletana che indica la dipendenza di un individuo dalla camorra.
Si provi, ora, a leggere quelle due frasi del sindaco di Gavoi conoscendo il significato della parola omertà: l'uccisione della povera Dina Dore decisa dalla malavita organizzata in un paese da essa dominato? C'è qualcuno che può crederlo? E c'è chi sia disposto a credere davvero che in Barbagia domini la camorra?
Naturalmente né i gavoesi né il loro sindaco pensano seriamente che nel loro paese esista un problema di omertà. Ma è diffuso da moltissimo tempo in certi ceti dirigenti sardi un atteggiamento di subalternità tanto forte da render loro impossibile l'idea che esista anche una criminalità propria della Sardegna, diversa da quella esistente in Italia. E che, come tale, ha bisogno di strumenti di contrasto diversi anche nella comprensione del fenomeno.
Tempo fa i compagni di partito di Salvatore Lai chiesero l'applicazione della legislazione anti-mafia alla Sardegna e ai delitti che qui si compivano, particolarmente i sequestri di persona. L'allora presidente della Repubblica Scalfaro dovette intervenire per ricordare a consiglieri e deputati comunisti che in Sardegna non c'era la mafia. Insomma l'omertà non è di questi posti: quel che esiste è forse anche peggio, ma certo non omologabile all'omertà. Sarebbe interessante capire perché giornalisti e parte del ceto politico sardo insistono, invece, ad evocarla.
mercoledì 2 aprile 2008
Marcello Fois, Gavoi e i danni collaterali
C'è chi, pur di apparire, non risparmia commenti, prese di posizione, dichiarazioni su cose intorno alle quali il buon gusto della riservatezza consiglierebbe un prudente silenzio. E così, a volte, alle tragedie umane (parlo dell'omicidio di Dina Dore, a Gavoi) dobbiamo aggiungere i danni collaterali delle parole in libertà. Come quelle scritte giorni fa dall'inevitabile Marcello Fois, lo scrittore eletto maestro di pensiero da giornali amici, assessori al turismo, associazioni paesane.
Una tragedia, quella dell'omicidio della signora Dore, ancora oggi al centro della "autoanalisi" dei 2900 gavoesi. Il nostro, a salma ancora calda, ha dispensato le sue certezze. Ha mescolato i suoi soliti stereotipi senza senso ("trita retorica pastoral-barbaricina", "magma antropologista", per esempio) a una captatio benevolentiae (ricerca di benevolenza) del paese barbaricino. A differenza di altri centri delle Terre interne, sempre bacchettati senza pietà, Gavoi è risparmiato dal Fois sculacciapopoli. Per lui, questo paese è una sorta di paradiso in terra barbaricina. Affermazione che ha suscitato reazioni non positive in chi ci vive e sa che così non è.
Come molti paesi sardi, ma non solo sardi, chiaro, anche Gavoi ha nell'armadio della sua cronaca nera molti scheletri. Purtroppo, ma è così. Né basta, per fargli fare un salto fuori dalla barbarie, l'aver affidato all'inevitabile commentatore la presidenza di un importante Festival letterario.
Fois passa, non per forza della oggettività delle cose, come esperto dello "specifico barbaricino" nei circoli letterari e in alcune redazioni di giornali: egli stesso dice che è stato contattato da una decina di giornalisti che gli chiedevano di commentare l'uccisione di Dina Dore alla luce dello specifico barbaricino. Lo ha fatto solo su La Nuova del 28 marzo, l'indomani della tragedia. Non è detto che scrittori e intellettuali siano costretti a dire la loro: si può benissimo prendere in considerazione la possibilità di stare zitti o di dire "non so".
Questo li toglierebbe dall'imbarazzo di dire castronerie. Come questa: "Gavoi è di per sé la dimostrazione che molte di quelle che vengono ritenute formule matematiche sui barbaricini sono spesso sciocchezze". Non la Gavoi reale, par di capire, ma quella che ha affidato a Fois la presidenza del suo Festival letterario.
Una tragedia, quella dell'omicidio della signora Dore, ancora oggi al centro della "autoanalisi" dei 2900 gavoesi. Il nostro, a salma ancora calda, ha dispensato le sue certezze. Ha mescolato i suoi soliti stereotipi senza senso ("trita retorica pastoral-barbaricina", "magma antropologista", per esempio) a una captatio benevolentiae (ricerca di benevolenza) del paese barbaricino. A differenza di altri centri delle Terre interne, sempre bacchettati senza pietà, Gavoi è risparmiato dal Fois sculacciapopoli. Per lui, questo paese è una sorta di paradiso in terra barbaricina. Affermazione che ha suscitato reazioni non positive in chi ci vive e sa che così non è.
Come molti paesi sardi, ma non solo sardi, chiaro, anche Gavoi ha nell'armadio della sua cronaca nera molti scheletri. Purtroppo, ma è così. Né basta, per fargli fare un salto fuori dalla barbarie, l'aver affidato all'inevitabile commentatore la presidenza di un importante Festival letterario.
Fois passa, non per forza della oggettività delle cose, come esperto dello "specifico barbaricino" nei circoli letterari e in alcune redazioni di giornali: egli stesso dice che è stato contattato da una decina di giornalisti che gli chiedevano di commentare l'uccisione di Dina Dore alla luce dello specifico barbaricino. Lo ha fatto solo su La Nuova del 28 marzo, l'indomani della tragedia. Non è detto che scrittori e intellettuali siano costretti a dire la loro: si può benissimo prendere in considerazione la possibilità di stare zitti o di dire "non so".
Questo li toglierebbe dall'imbarazzo di dire castronerie. Come questa: "Gavoi è di per sé la dimostrazione che molte di quelle che vengono ritenute formule matematiche sui barbaricini sono spesso sciocchezze". Non la Gavoi reale, par di capire, ma quella che ha affidato a Fois la presidenza del suo Festival letterario.
martedì 1 aprile 2008
Promemoria per la Soprintendenza su Allai e Lugherras
Sono passati due mesi dal sequestro, ordinato dalla Soprintendenza archeologica ad Allai, di un certo numero di reperti che sarebbero riconducibili agli Etruschi. Ed è passato un mese dall'annuncio, fatto da Luigi Sanna, della scoperta nei pressi del nuraghe Lugherras di due scritte con molta probabilità del periodo nuragico.
Sui due ritrovamenti c'è silenzio. Qualche giorno fa ho salutato con contentezza l'annuncio che finalmente è cominciato il lavoro di restauro delle statue di Monte Prama. Trentaquattro anni dopo la loro scoperta, però. Un tempo enorme anche per chi fosse ben disposto a capire la prudenza di chi sovrintende a queste cose.
Le due scoperte, quella di materiale forse etrusco nelle vicinanze di Allai e quella di due massi con iscrizioni forse nuragiche vicino al nuraghe Lugherras, sono in grado di cambiare le nostre conoscenze sul rapporto tra sardi e etruschi e sull'ingresso dei sardi antichi (1200/1300 a.C) nella civiltà della scrittura. Gli archeologi della Sovrintendenza sono abituati a lavorare in silenzio (e non è detto si tratti di una cosa buona), ma spesso lo fanno come chiusi in una torre di avorio da cui escono solo per comunicare risultati ai loro simili, quasi che la gente come voi e me debbano accontentarsi di pagare, attraverso le tasse, i loro stipendi.
Tutti, ma soprattutto chi ha passione per la storia del nostro passato, abbiamo il diritto di aver risposte alle domande suscitate da notizie di nuove scoperte. Come quelle di Allai e di Perdu Pes vicino a Lugherras, per dire. Su quest'ultima, doveva esserci un mese fa la presentazione delle scritte trovate in una capanna da due signore di Paulilatino e studiate dal professor Luigi Sanna. La presentazione non c'è stata e, anche a non voler pensare male, qualcosa è successo che la ha impedita. Un peccato.
Secondo Sanna, le scritte sono di tipo protosinaitico, come lo sono, in parte almeno, le scritte trovate in un grande sito archeologico a Glozel, piccolo villaggio francese nei pressi si Vichy. A dimostrazione che tutto il mondo è paese, anche Glozel, i suoi tesori preistorici, è al centro di feroci scontri fra archeologi: gli uni sicuri di trovarsi di fronte a materiale autentico, gli altri pronti a giurare che si tratti o di falsi o di cose senza grande interesse. Ne discutono da 84 anni. Sanna, che ha visitato il museo del villaggio (riaprirà ad aprile), si è applicato alla decifrazione delle tabelle scritte. (E come lui una quantità di altri epigrafisti di varie parti del mondo). Nel sito del Museo è in questi giorni comparso un apprezzamento per un libro (I segni del Lossia Cacciatore, edito da S’Alvure, 2007) e il testo di una conferenza fatta da Luigi Sanna a Sassari. "Vedi un po' come spesso bisogna andar fuori per aver credito" ha scritto in una amara lettera che pubblico nel mio sito.
Sui due ritrovamenti c'è silenzio. Qualche giorno fa ho salutato con contentezza l'annuncio che finalmente è cominciato il lavoro di restauro delle statue di Monte Prama. Trentaquattro anni dopo la loro scoperta, però. Un tempo enorme anche per chi fosse ben disposto a capire la prudenza di chi sovrintende a queste cose.
Le due scoperte, quella di materiale forse etrusco nelle vicinanze di Allai e quella di due massi con iscrizioni forse nuragiche vicino al nuraghe Lugherras, sono in grado di cambiare le nostre conoscenze sul rapporto tra sardi e etruschi e sull'ingresso dei sardi antichi (1200/1300 a.C) nella civiltà della scrittura. Gli archeologi della Sovrintendenza sono abituati a lavorare in silenzio (e non è detto si tratti di una cosa buona), ma spesso lo fanno come chiusi in una torre di avorio da cui escono solo per comunicare risultati ai loro simili, quasi che la gente come voi e me debbano accontentarsi di pagare, attraverso le tasse, i loro stipendi.
Tutti, ma soprattutto chi ha passione per la storia del nostro passato, abbiamo il diritto di aver risposte alle domande suscitate da notizie di nuove scoperte. Come quelle di Allai e di Perdu Pes vicino a Lugherras, per dire. Su quest'ultima, doveva esserci un mese fa la presentazione delle scritte trovate in una capanna da due signore di Paulilatino e studiate dal professor Luigi Sanna. La presentazione non c'è stata e, anche a non voler pensare male, qualcosa è successo che la ha impedita. Un peccato.
Secondo Sanna, le scritte sono di tipo protosinaitico, come lo sono, in parte almeno, le scritte trovate in un grande sito archeologico a Glozel, piccolo villaggio francese nei pressi si Vichy. A dimostrazione che tutto il mondo è paese, anche Glozel, i suoi tesori preistorici, è al centro di feroci scontri fra archeologi: gli uni sicuri di trovarsi di fronte a materiale autentico, gli altri pronti a giurare che si tratti o di falsi o di cose senza grande interesse. Ne discutono da 84 anni. Sanna, che ha visitato il museo del villaggio (riaprirà ad aprile), si è applicato alla decifrazione delle tabelle scritte. (E come lui una quantità di altri epigrafisti di varie parti del mondo). Nel sito del Museo è in questi giorni comparso un apprezzamento per un libro (I segni del Lossia Cacciatore, edito da S’Alvure, 2007) e il testo di una conferenza fatta da Luigi Sanna a Sassari. "Vedi un po' come spesso bisogna andar fuori per aver credito" ha scritto in una amara lettera che pubblico nel mio sito.
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