de Elio
“Esti ca no mi potzu arrosciri! Ma custu de giogari feti a tertzigliu, connoscendusia is cartas s’unu cun s’atru, seus tirendudidha tropu a longu. Beru g’i e’ beru ca su tempus po mimi no esistidi, ne su chi est passau ne su benidori, totu dhu maniggiu cumenti-e chi siat immoi e totucantu m’est presenti. Mi parit arribau, perou, su momentu giustu. Tocai, lah! ca dha faeus custa creatura, e chi siat a magini e assimbillu nostru.”
Aici iat fuedhau su Babu, ca a printzipiu de totu fut Issu, sa Paraula, Una Cosa sola cun is Atrus Dusu: su Fillu e s’Ispiridu Santu.
“Po no dhu sciri coment’andat a acabbari.” – murrungia murrungia, sighit su Fillu, bussendi forti su cuatru de cupas – “Tantisi s’Angioni... a chini dhu fai’ dhu faidi”.
“Ndh’eus giai arrexonau.” – intervenit su Paraclitu, castiendusia sa muntzitedha, ca fut totu su chi portada a cupas. – “Non faidi, sa creratura, a dha fari priva de libertadi, candechinò a nosu non s’assimbillat mancu pagu pagu.”
“Gei dhu sciu, gei dhu sciu... Esti ca donnia borta chi si tocat cun mimi non portais una carta de mi torrar’ in deretu... Mi fait unu nervosu...”
“Feti ca” – torrat su Babu – “sa cosa andat fata comenti s’ispetada. Seus po fari s’Omini e a nosatrus depit assimbillari. Non bollu una cositedha de nudha, chi si torrit gratzias sentza de isciri nemancu e poita. Abbili e spibillu depit essiri.”
“Assumancu seus a podiri fari unu tresseti o una marianna” – ndhi ‘essit su Fillu, ca fut brullanu.
“Seriu, seriu.” – sighit su Babu, arriendu asuta de sa ‘abra canuda – “Sa cosa bolit pigada de su cabudu giustu, ca non depit parriri un’imbentu miraculosu. Si dhu ant a deper’ispremiri su crebedhu po podiri lompiri a cumprendiri, mancari pagu, totu su ch’eus fatu po issus.”
Leghe totu
sabato 31 luglio 2010
mercoledì 28 luglio 2010
Shardana: non ancora certezze scientifiche
di Vitale Scanu
Nonostante le intensissime relazioni commerciali tra le sponde del vicino Oriente e la Sardegna attraverso la civiltà minoica e micenea, i fenici e i greci, non esistono a tutt’oggi citazioni dirette, esplicite, riguardanti la nostra isola, ma solo una sovrabbondanza di “riferimenti” indiretti, i più aderenti dei quali restano le citazioni tante volte ricorrenti nella Bibbia, di Tarsis, dei “re di Tarsis e delle isole” (assonanze con Tharros, con Tirsos...).
Ancora, molti studiosi ritengono quasi certo un riferimento alla Sardegna negli sharden (lettere di Amarna, geroglifici, stele di Nora), il gruppo etnico facente parte della coalizione dei “popoli del mare” (gli omerici “pelasgi”) che attorno al 1200 a.C. sciamarono, per ragioni misteriose, in vaste regioni dell’Attica, dell’Anatolia, del vicino Oriente e dell’Egitto, lasciandosi dietro distruzione e paura.
Il dott. Alexis Martin, dell’università californiana di Berkeley, è un’autorità di fama internazionale in fatto di documenti sull'Oriente antico. Questo equivale ad avere, nelle sue parole, le informazioni più aggiornate. Ha lavorato anche in Sardegna, a Nuoro e a Bonorva, con gli archeologi dell’università della California, sotto la direzione di Leonora Gallin, e ha approfondito le datazioni e il percorso commerciale dell’ossidiana verso la Corsica e il sud della Francia. In particolare, per trent’anni ha studiato le fonti linguistiche riguardanti la storia preromana della Sardegna e consultato i documenti del primo medioevo degli archivi giudicali di Oristano, allo scopo di evidenziare forme e parole prelatine della lingua sarda. Al dott. Martin ho posto il quesito a sapere se esistano evidenze dirette ed esplicite riguardanti la Sardegna nei documenti delle antiche civiltà del vicino Oriente. Così mi ha risposto.
“In riferimento a fonti scritte dell’antico Oriente, mi devo limitare a darle un aiuto solo sui testi cuneiformi, perché non sono uno specialista su documenti egizi. La mia specializzazione è sulle fonti cuneiformi mediorientali e anatoliche. Queste fonti includono quelle urrite e ittite (luvian areas), quelle dei testi cuneiformi provenienti da Ugarit e quelle più recenti di Ebla. Se informazioni riguardanti la Sardegna verranno alla luce, dobbiamo presumere logicamente che esse proverranno da tali fonti. Al momento, l’unica evidenza che lega queste zone orientali al Mediterraneo occidentale è solo indiretta, e riguarda analogie linguistiche (parole mutuate da tali lingue, toponimi) e stilistiche (archeologiche, analogie strutturali, artistiche, sepolcrali…): To date, the lone evidence which links these Oriental zones with the Western Mediterranean is ONLY INDIRECT, consisting of linguistic (loanwords and toponymic) and stylistic (archeologic, structural analogies, artistic, sepulchral carvings etc.). Finora non si sono trovate in queste fonti cuneiformi riferimenti diretti alle isole del Mediterraneo. Tuttavia la ricerca continua.
"La serie degli idronimici (nomi riferentisi all’acqua) elencati anni or sono da Leopold Wagner nel suo noto Dizionario della lingua sarda e nel suo libro La lingua sarda, oggi dev’essere ampliata a includere un gran numero di similari idronimici e parole omologhe urrite e del protoorientale caucasico di recente indagato, che da molti specialisti è la famiglia alla quale verosimilmente appartiene la lingua urrita. Il parallelo che si scopre tra gli elementi del sardo e quelli urriti-caucasici sono impressionanti nella loro trasparenza. Secondo me, l’analisi della loro struttura morfemica dimostra che la somiglianza non è da attribuire a semplice coincidenza. Questa concordanza tra toponimi di attinenza idronimica e tante parole che Wagner sottolinea nella lingua dei Sardi suggeriscono un legame… con le regioni levantine degli Urriti e di Ugarit (sulla costa libanese dirimpetto a Cipro).
“Da non dimenticare i riferimenti indiretti, geografici e storici, ai grandi porti di Oristano (Tharros) e Bosa, nella costa occidentale della Sardegna, che figurano tra i più importanti del mondo antico, nei quali le navi provenienti dall’Oriente e dirette alle coste metallifere della Spagna hanno fatto tappa per almeno quattromila anni. Il grande porto e la città di Ugarit erano tra i maggiori centri di lingua urrita durante il periodo dei mitanni. Ambedue le lingue semitiche, l’ugaritico e l’urritico, hanno evidentemente viaggiato con gli uomini del mare provenienti da Ugarit. Le tavolette di Ugarit indicano che le lingue del Mediterraneo erano parlate anche dai mercanti e commercianti dell’occidente”.
Di questi interscambi culturali e linguistici con le civiltà del vicino Oriente potrebbe essere un esempio icastico la nota struttura del monte d'Accoddi, unico monumento in occidente che ci parla nel linguaggio delle ziqqurat di Ur (2550 a.C.). I casi sono due: o genti sarde sono emigrate attorno al IV millennio a.C. in Mesopotamia, o genti mesopotamiche sono arrivate in quei tempi remoti fino in Sardegna, talmente implicito, atipico ed esclusivo è il concetto architettonico e cultuale che presiede alla costruzione pre-nuragica del monte d'Accoddi.
"Shardana: i popoli del mare" e “I principi di Dan”. Già alla loro uscita (rispettivamente 2002 e 2006) i libri di Melis suscitarono interesse. Anch'io li ho letti con grande curiosità. Però mi permisi di notare, ancora nel 2002, che un conto è enumerare assonanze di nomi, parallelismi culturali, somiglianze artistiche impressionanti, indizi glottologici, elementi mitologici... nel trattare una materia tanto remota e opinabile qual è il campo della preistoria e della protostoria della Sardegna, e altro è la realtà accertata con metodo scientifico. Restano semplici ipotesi, solo indizi, anche se di grande valore probativo. Oltretutto, osservavo, nelle citazioni mancano spesso i nomi degli autori o i luoghi delle opere citate... che rendono le pur meritevoli opere del Melis alquanto malferme scientificamente, pur solleticando molto l'orgoglio sardo. Sembra di leggere pezze d'appoggio ottative per una tesi precostituita: vedi l'addomesticamento di passi scritturali che costituiscono grossa difficoltà esegetica perfino per gli esperti biblici. Vengono in mente le famigerate Carte di Arborea, con il loro corteo di figuracce storiche, del ridicolo disastroso rimediato dagli storici sardi e delle smentite umilianti.
Nonostante le intensissime relazioni commerciali tra le sponde del vicino Oriente e la Sardegna attraverso la civiltà minoica e micenea, i fenici e i greci, non esistono a tutt’oggi citazioni dirette, esplicite, riguardanti la nostra isola, ma solo una sovrabbondanza di “riferimenti” indiretti, i più aderenti dei quali restano le citazioni tante volte ricorrenti nella Bibbia, di Tarsis, dei “re di Tarsis e delle isole” (assonanze con Tharros, con Tirsos...).
Ancora, molti studiosi ritengono quasi certo un riferimento alla Sardegna negli sharden (lettere di Amarna, geroglifici, stele di Nora), il gruppo etnico facente parte della coalizione dei “popoli del mare” (gli omerici “pelasgi”) che attorno al 1200 a.C. sciamarono, per ragioni misteriose, in vaste regioni dell’Attica, dell’Anatolia, del vicino Oriente e dell’Egitto, lasciandosi dietro distruzione e paura.
Il dott. Alexis Martin, dell’università californiana di Berkeley, è un’autorità di fama internazionale in fatto di documenti sull'Oriente antico. Questo equivale ad avere, nelle sue parole, le informazioni più aggiornate. Ha lavorato anche in Sardegna, a Nuoro e a Bonorva, con gli archeologi dell’università della California, sotto la direzione di Leonora Gallin, e ha approfondito le datazioni e il percorso commerciale dell’ossidiana verso la Corsica e il sud della Francia. In particolare, per trent’anni ha studiato le fonti linguistiche riguardanti la storia preromana della Sardegna e consultato i documenti del primo medioevo degli archivi giudicali di Oristano, allo scopo di evidenziare forme e parole prelatine della lingua sarda. Al dott. Martin ho posto il quesito a sapere se esistano evidenze dirette ed esplicite riguardanti la Sardegna nei documenti delle antiche civiltà del vicino Oriente. Così mi ha risposto.
“In riferimento a fonti scritte dell’antico Oriente, mi devo limitare a darle un aiuto solo sui testi cuneiformi, perché non sono uno specialista su documenti egizi. La mia specializzazione è sulle fonti cuneiformi mediorientali e anatoliche. Queste fonti includono quelle urrite e ittite (luvian areas), quelle dei testi cuneiformi provenienti da Ugarit e quelle più recenti di Ebla. Se informazioni riguardanti la Sardegna verranno alla luce, dobbiamo presumere logicamente che esse proverranno da tali fonti. Al momento, l’unica evidenza che lega queste zone orientali al Mediterraneo occidentale è solo indiretta, e riguarda analogie linguistiche (parole mutuate da tali lingue, toponimi) e stilistiche (archeologiche, analogie strutturali, artistiche, sepolcrali…): To date, the lone evidence which links these Oriental zones with the Western Mediterranean is ONLY INDIRECT, consisting of linguistic (loanwords and toponymic) and stylistic (archeologic, structural analogies, artistic, sepulchral carvings etc.). Finora non si sono trovate in queste fonti cuneiformi riferimenti diretti alle isole del Mediterraneo. Tuttavia la ricerca continua.
"La serie degli idronimici (nomi riferentisi all’acqua) elencati anni or sono da Leopold Wagner nel suo noto Dizionario della lingua sarda e nel suo libro La lingua sarda, oggi dev’essere ampliata a includere un gran numero di similari idronimici e parole omologhe urrite e del protoorientale caucasico di recente indagato, che da molti specialisti è la famiglia alla quale verosimilmente appartiene la lingua urrita. Il parallelo che si scopre tra gli elementi del sardo e quelli urriti-caucasici sono impressionanti nella loro trasparenza. Secondo me, l’analisi della loro struttura morfemica dimostra che la somiglianza non è da attribuire a semplice coincidenza. Questa concordanza tra toponimi di attinenza idronimica e tante parole che Wagner sottolinea nella lingua dei Sardi suggeriscono un legame… con le regioni levantine degli Urriti e di Ugarit (sulla costa libanese dirimpetto a Cipro).
“Da non dimenticare i riferimenti indiretti, geografici e storici, ai grandi porti di Oristano (Tharros) e Bosa, nella costa occidentale della Sardegna, che figurano tra i più importanti del mondo antico, nei quali le navi provenienti dall’Oriente e dirette alle coste metallifere della Spagna hanno fatto tappa per almeno quattromila anni. Il grande porto e la città di Ugarit erano tra i maggiori centri di lingua urrita durante il periodo dei mitanni. Ambedue le lingue semitiche, l’ugaritico e l’urritico, hanno evidentemente viaggiato con gli uomini del mare provenienti da Ugarit. Le tavolette di Ugarit indicano che le lingue del Mediterraneo erano parlate anche dai mercanti e commercianti dell’occidente”.
Di questi interscambi culturali e linguistici con le civiltà del vicino Oriente potrebbe essere un esempio icastico la nota struttura del monte d'Accoddi, unico monumento in occidente che ci parla nel linguaggio delle ziqqurat di Ur (2550 a.C.). I casi sono due: o genti sarde sono emigrate attorno al IV millennio a.C. in Mesopotamia, o genti mesopotamiche sono arrivate in quei tempi remoti fino in Sardegna, talmente implicito, atipico ed esclusivo è il concetto architettonico e cultuale che presiede alla costruzione pre-nuragica del monte d'Accoddi.
"Shardana: i popoli del mare" e “I principi di Dan”. Già alla loro uscita (rispettivamente 2002 e 2006) i libri di Melis suscitarono interesse. Anch'io li ho letti con grande curiosità. Però mi permisi di notare, ancora nel 2002, che un conto è enumerare assonanze di nomi, parallelismi culturali, somiglianze artistiche impressionanti, indizi glottologici, elementi mitologici... nel trattare una materia tanto remota e opinabile qual è il campo della preistoria e della protostoria della Sardegna, e altro è la realtà accertata con metodo scientifico. Restano semplici ipotesi, solo indizi, anche se di grande valore probativo. Oltretutto, osservavo, nelle citazioni mancano spesso i nomi degli autori o i luoghi delle opere citate... che rendono le pur meritevoli opere del Melis alquanto malferme scientificamente, pur solleticando molto l'orgoglio sardo. Sembra di leggere pezze d'appoggio ottative per una tesi precostituita: vedi l'addomesticamento di passi scritturali che costituiscono grossa difficoltà esegetica perfino per gli esperti biblici. Vengono in mente le famigerate Carte di Arborea, con il loro corteo di figuracce storiche, del ridicolo disastroso rimediato dagli storici sardi e delle smentite umilianti.
martedì 27 luglio 2010
Alla festa dell'Unità di iRS: è di rigore l'italiano
Vi segnalo, se ancora non l'avete letto, l'articolo di Roberto Bolognesi nel suo blog
iRS è entrato nel salotto buono della Cultura, quella che conta e non sa di pecorino (leggi lingua sarda), grazie alla sua festa di Cagliari. Oggi un grande articolo del principale quotidiano sardo, “Carta, penna e pecorino”, ha sdoganato il movimento indipendentista e lo ha accolto nelle sue pagine dove, appunto, non circolano gli “imitatori di grammatica”, i sardo parlanti secondo Dante. Non so se è un dazio pagato coscientemente o una convinzione, ma i padroni di casa hanno accolto gli ospiti, scrittori in italiano, assicurando che per un sardo scrivere nella propria lingua o in italiano è un falso problema.
Tanto falso che infatti solo gli italo parlanti e italo scriventi sono stati invitati da chi progetta l'indipendenza nazionale della Sardegna. Il perché sta in uno degli stilemi ripetuti allo sfinimento per autoconvincersi e per convincere altri sulla inanità dello scrivere in sardo: “Forse qualcuno mette in dubbio la fisionomia irlandese di Joyce perché racconta in inglese i suoi Dublinesi?” (Frase di Omar Onnis nella lezione del giornalista). A cui fa seguito il teorico di iRS Franciscu Sedda, questa volta virgolettato: «realizziamo una buona volta l'indipendenza così i nostri romanzieri potranno scrivere di quel che gli pare» senza sembrare “disimpegnati”, senza che nessuno li accusi di essere “indifferenti” così come nessuno sgrida Carofiglio o Lucarelli se non si interrogano sulla propria italianità”.
Immagino che necessità di sintesi abbia tradito il pensiero del Sedda. Ma se così non fosse, se si trattasse davvero di una frase compiuta, espressione di un pensiero lungamente meditato, chiederei ai tanti amici di iRS che si sono fatti un culo a tressette per valorizzare la lingua sarda che si stanno a fare con una persona che, non conoscendo il sardo, invece di studiarselo lo irride. I presenti alla festa avranno condiviso l'altro ospite, quel libraio che ha proposto di “cancellare lo stesso concetto di letteratura sarda”, d'accordo con altri ospiti della festa dell'Unità di iRS, uniti nel cantare L'Internazionale?
Chiedo ai tanti indipendentisti che, magari in silenzio, sopportano tanto dileggio: l'indipendenza che state proponendo ai sardi può essere questa parodia di società? Una repubblica delle banane, snazionalizzata, in cui conta solo l'economia come in qualsiasi defunta democrazia popolare?
lunedì 26 luglio 2010
Come fu che il Psd'az si risvegliò stamani centrista
Povero Partito sardo, considerato una curiosa bestia che assume il colore di chi gli si avvicina. La prossimità della Dc lo fece diventare partito di destra, poi quella del Partito comunista lo trasformò di sinistra, recentemente l'alleanza con il Pdl lo ha cambiato in partito di destra (persino filofascista, nella paranoica campagna elettorale di una parte della sinistra). Stamattina il giornale di Caracciolo lo ha svegliato centrista per un accordo fatto con l'Udc e con i Riformatori sardi.
Non so, né francamente mi interessa, quale strategia politica perseguano i quotidiani-partito di questa Isola, oggi La Nuova, domani L'Unione sarda, appoggiando l'uno il centrosinistra l'altro il centrodestra, con l'informazione oggettiva lasciata sempre più sullo sfondo. È persino naturale che in questo bipolarismo mediatico tertium non datur fra destra e sinistra, che non sia contemplato, cioè, un partito fuori da questo schema. Capita persino nel campo della politica a partiti e movimenti che, pur essendo presenti solo in Sardegna, pre-giudicano il loro schierarsi a sinistra o a destra non sulla base di programmi, ma del loro stesso essere, come se in tutte le società si nasca necessariamente di destra o di sinistra.
È questo che nel passato ha comportato accuse di tradimento rivolte al Partito del popolo sardo (poi confluito in Fortza Paris insieme al movimento Sardistas, anch'esso “traditore”) e più recentemente al Partito sardo che avrebbe abiurato alla sua “natura” di sinistra (?) e al movimento nuorese di Efisio Arbau presentatosi alle elezioni fuori dalla casa madre Pd. Non sono, questa della fedeltà allo schieramento e l'altra di “il tradimento”, categorie esclusivamente dello spirito di sinistra; ha avuto un corrispettivo nel campo opposto che, senza successo, ha chiesto proprio al Psd'az un giuramento di fedeltà al centrodestra, pena l'accusa di eresia.
Il fatto è che, pur nella inconsapevolezza dei portatori sani della alterità, la politica dei partiti locali ha tutte le caratteristiche di forza dirompente del bipolarismo imposto per legge e non, come dovrebbe essere, bipolarismo a geometria variabile. I partiti locali, se hanno senso di esistere, dovrebbero essere gigantesche Pro loco che organizzano un programma a cui si aderisce secondo vicinanze culturali e politiche che non sono date per sempre. Il declino, alla fine degli anni Ottanta, del Partito sardo fu determinato dal suo schierarsi pregiudizialmente, non sulla base dell'adesione dei futuri alleati al suo programma. Così come la sua rinascita in corso è dovuta alla sua disponibilità ad allearsi con quanti ne condividano il programma. E il suo rafforzamento eventuale è legato alla capacità che avrà, o non avrà, di far rispettare ai suoi alleati il patto sottoscritto.
Chi, come me, ha una considerazione particolare per il problema della lingua, insieme elemento immateriale per il suo essere nella sfera dei diritti e “materiale” per la sua capacità di provocare economia, non può non apprezzare il fatto che, grazie ai sardisti (e alla pressione del Comitadu pro sa limba sarda), i tagli regionali previsti non ci saranno. Sottovalutata per troppo tempo, la “questione lingua sarda” è di nuovo al centro dell'interesse sardista. So che non è così, ma fingo di credere che lo sia perché è spendibile nel mercato della politica come e più di altre merci.
Certa è una cosa. I quotidiani-partito hanno ben chiara la questione: anche solo parlare di lingua sarda “si fa il gioco” del Partito sardo (non per caso si possono permettere di flirtare con iRS e con la sua ambiguità in merito). Così succede che non solo non abbiano parlato dei tagli decisi dall'Assessorato della cultura contro la lingua sarda, ma non abbiano parlato neppure della cancellazione dei tagli decisa – alla unanimità – dalla Commissione bilancio presieduta da un sardista. Ogni volta che si pongono questioni di lingua – diceva Gramsci – in realtà si pongono altre questioni. Qui, per esempio, si pone la questione di una nuova classe dirigente, politica, sindacale, imprenditoriale, culturale e, perché no?, mediatica.
Non so, né francamente mi interessa, quale strategia politica perseguano i quotidiani-partito di questa Isola, oggi La Nuova, domani L'Unione sarda, appoggiando l'uno il centrosinistra l'altro il centrodestra, con l'informazione oggettiva lasciata sempre più sullo sfondo. È persino naturale che in questo bipolarismo mediatico tertium non datur fra destra e sinistra, che non sia contemplato, cioè, un partito fuori da questo schema. Capita persino nel campo della politica a partiti e movimenti che, pur essendo presenti solo in Sardegna, pre-giudicano il loro schierarsi a sinistra o a destra non sulla base di programmi, ma del loro stesso essere, come se in tutte le società si nasca necessariamente di destra o di sinistra.
È questo che nel passato ha comportato accuse di tradimento rivolte al Partito del popolo sardo (poi confluito in Fortza Paris insieme al movimento Sardistas, anch'esso “traditore”) e più recentemente al Partito sardo che avrebbe abiurato alla sua “natura” di sinistra (?) e al movimento nuorese di Efisio Arbau presentatosi alle elezioni fuori dalla casa madre Pd. Non sono, questa della fedeltà allo schieramento e l'altra di “il tradimento”, categorie esclusivamente dello spirito di sinistra; ha avuto un corrispettivo nel campo opposto che, senza successo, ha chiesto proprio al Psd'az un giuramento di fedeltà al centrodestra, pena l'accusa di eresia.
Il fatto è che, pur nella inconsapevolezza dei portatori sani della alterità, la politica dei partiti locali ha tutte le caratteristiche di forza dirompente del bipolarismo imposto per legge e non, come dovrebbe essere, bipolarismo a geometria variabile. I partiti locali, se hanno senso di esistere, dovrebbero essere gigantesche Pro loco che organizzano un programma a cui si aderisce secondo vicinanze culturali e politiche che non sono date per sempre. Il declino, alla fine degli anni Ottanta, del Partito sardo fu determinato dal suo schierarsi pregiudizialmente, non sulla base dell'adesione dei futuri alleati al suo programma. Così come la sua rinascita in corso è dovuta alla sua disponibilità ad allearsi con quanti ne condividano il programma. E il suo rafforzamento eventuale è legato alla capacità che avrà, o non avrà, di far rispettare ai suoi alleati il patto sottoscritto.
Chi, come me, ha una considerazione particolare per il problema della lingua, insieme elemento immateriale per il suo essere nella sfera dei diritti e “materiale” per la sua capacità di provocare economia, non può non apprezzare il fatto che, grazie ai sardisti (e alla pressione del Comitadu pro sa limba sarda), i tagli regionali previsti non ci saranno. Sottovalutata per troppo tempo, la “questione lingua sarda” è di nuovo al centro dell'interesse sardista. So che non è così, ma fingo di credere che lo sia perché è spendibile nel mercato della politica come e più di altre merci.
Certa è una cosa. I quotidiani-partito hanno ben chiara la questione: anche solo parlare di lingua sarda “si fa il gioco” del Partito sardo (non per caso si possono permettere di flirtare con iRS e con la sua ambiguità in merito). Così succede che non solo non abbiano parlato dei tagli decisi dall'Assessorato della cultura contro la lingua sarda, ma non abbiano parlato neppure della cancellazione dei tagli decisa – alla unanimità – dalla Commissione bilancio presieduta da un sardista. Ogni volta che si pongono questioni di lingua – diceva Gramsci – in realtà si pongono altre questioni. Qui, per esempio, si pone la questione di una nuova classe dirigente, politica, sindacale, imprenditoriale, culturale e, perché no?, mediatica.
domenica 25 luglio 2010
I sindacati e lo Statuto sardo
Pubblico, visto che altri non lo fa, lo straordinario documento dei sindacati sardi dal titolo "Manifesto per un Nuovo statuto della Sardegna". Che sia fuori dell'ordinario, chi legge lo vedrà subito. Che sia del tutto condivisibile è, naturalmente, un altro discorso. Ma non v'è dubbio che si tratti di una assunzione di responsabilità assolutamente inedita per i sindacati sardi. Nella latitanza della politica, rotta da alcune per altro interessanti voci isolate, il Manifesto dei sindacati fa ben sperare che si apra una discussione fra i sardi sul loro futuro. [zfp]
Al Popolo della Sardegna e alle sue istituzioni
Noi, cittadini, uomini e donne della cultura, del sociale, della politica e delle istituzioni della nostra amata terra, provenienti da tutte le parti dell'Isola e partecipanti di differenti espressioni politiche, diversi orientamenti culturali, molteplici ruoli politici e sociali riuniti nei pressi del Nuraghe Losa, in Abbasanta per riflettere sulle condizioni, i progetti e i doveri verso il nostro difficile presente e in vista di un migliore comune futuro, consapevoli dei tanti motivi che fino ad ora ci hanno visto spesso differenziati e posti reciprocamente in conflitto negli indirizzi istituzionali e in quelli politici decisi però a lavorare insieme attraverso ciò che ci unisce, ci rafforza e ci rende liberi, partecipando dei migliori valori del nostro popolo, nell'intento di costruire le risposte alle odierne necessità e alle positive prospettive della nostra gente, abbiamo congiuntamente deciso di porre all'attenzione del nostro Popolo i principi ispiratori che fondano il nostro impegno nella costruzione dei nuovi istituti autogoverno.
Sono i seguenti:
sabato 24 luglio 2010
Ulassai, Peccioli e il nostro masochismo
di DedaloNur
Sarà la vicinanza a Pisa e alla sua famosa università, ma Peccioli pur essendo un piccolissimo centro, non si guadagna le pagine dei giornali grazie a delittuosi e voluttuosi fatti di cronaca, ma soltanto per le sue virtuose politiche di green economy. Di recente è comparso nelle pagine del Corriere della Sera per una sfilata realizzata in quella che viene definita la discarica più tecnlogicamente avanzata ed efficiente del mondo; basata sulla tecnologia sperimentale della dissociazione molecolare.
Si tratta di una storia ormai decennale. È dal 1997, come racconta orgogliosamente il sito della Belvedere S.p.a che la discarica fu trasformata da problema in opportunità economica: il nuovo sistema dovrebbe infatti produrre energia. Nel frattempo, a questa iniziativa si è aggiunto “Un ettaro di cielo”. Si tratta della realizzazione di un parco fotovoltaico in comproprietà al Comune e alla Belvedere S.p.a che a sua volta racimolò il capitale necessario da investire tramite l'azionariato popolare diffuso. L'intento è di evitare alle singole famiglie i timori e tremori del forte investimento inziale, le lungaggini burocratiche che l'installazione di un pannello fotovoltaico comporta.
La ricaduta sperata è quella d'incentivare la filiera del fotovoltaico, i c.d. green jobs, e non da ultimo, eliminare la bolletta energetica italica: la più alta in Europa. A giudicare dai dati forniti dalla Belvedere quest'ultimo obbiettivo pare sia già stato raggiunto. La Belvedere ad oggi, produce circa 10.000.000 di Kwh pari al fabbisogno di 3.500 famiglie quando il comune in sè è di soli 5.000 abitanti, quindi se ipotizziamo 4 menbri per nucleo, 1250 famiglie. Ma il bello è che entro i prossimi due anni e senza ulteriori investimenti il sistema Belvedere a regime, dovrebbe produrre 17.000.000 di Kwh, pari al fabbisogno di 5.800 famiglie, quindi, oltre tre volte il fabbisogno di Peccioli.
venerdì 23 luglio 2010
Ahi ahi ahi, l'indipendenza del Kosovo è legittima
La dichiarazione di indipendenza del Kosovo non ha violato il diritto internazionale. È la risposta che la Corte internazionale di giustizia ha dato (dieci voti a favore, quattro contro) alla domanda posta nell'ottobre di due anni fa dal segretario dell'Onu: “La dichiarazione unilaterale d'indipendenza delle istituzioni provvisorie della amministrazione autonoma del Kosovo è conforme al diritto internazionale?”. La sentenza della Corte non è vincolante, risponde infatti alla richiesta di un parere avanzata da Ba Ki Moon, ma è dirompente: significa che il principio della autodeterminazione dei popoli si applica ovunque si rispettino le norme del diritto internazionale, prima fra tutte il ripudio della violenza.
I giudici della Corte, a quel che si legge nei testi francese e inglese, hanno anche dato una risposta a chi li richiamava a considerare quali effetti avrebbe avuto nello scenario internazionale una loro risposta positiva alla questione posta dal segretario dell'Onu. Non è problema che possa riguardarci, hanno detto in sintesi. La sentenza, venuta dopo quasi due anni, è complessa come lo è la questione, densa di rimandi a precedenti storici, dalla questione ruandese a quella del Québec, e merita una grande attenzione che sicuramente avrà in tutte le cancellerie europee e non solo. Da quelle che hanno cavalcato il problema kosovaro, illudendosi che tutto finisse lì, a quelle che si sono opposte all'indipendenza del Kosovo giudicando, giustamente dal loro punto di vista, che nulla sarà più come prima se il nuovo Stato kosovaro sarà riconosciuto da tutti i governi del mondo, entrando a far parte della cosiddetta comunità internazionale.
La Corte di giustizia scioglie un nodo decisivo che, sintetizzando, può essere così descritto: il diritto internazionale (atto finale di Helsinki, 1975) riconosce a tutti i popoli la potestà di autodeterminarsi e, dunque, di autogovernarsi totalmente; unico ostacolo al pieno esercizio di questo diritto è quello degli stati alla loro integrità territoriale. Molti, e si parva licet anche io, hanno pensato che questo limite riguardasse anche gli stati al loro interno. Che, in poche parole, i popoli avessero la facoltà di esercitare il loro diritto alla autodeterminazione ma non a quello della secessione: la massima autonomia sì, l'indipendenza no. I giudici dell'Aja hanno sentenziato diversamente (caro amico Daniele Addis, sarai contento): “La portata del principio dell'integrità territoriale è … limitata alla sfera delle relazioni interstatuali”. Come dire che il diritto internazionale tutela uno stato dalle pretese aggressive e/o annessioniste di un altro stato, ma non lo tutela dalle decisioni di un popolo che voglia farsene indipendente.
E circa il non riconoscimento di liceità di altre dichiarazioni di indipendenza pronunciato dall'Onu, la Corte afferma che questo non riconoscimento “derivava non dal loro carattere unilaterale, ma dal fatto che esse andavano o potevano andare di pari passo con un ricorso illecito alla forza o con altre gravi violazioni gravi del diritto internazionale generale”. Dopo questa sentenza, sono da prevedere molti mal di capo nei governanti di stati alle prese con movimenti e partiti che si propongono di raggiungere l'indipendenza. Cito il caso della Catalogna, in cui una improvvida sentenza del Tribunale costituzione spagnolo di bocciatura dello Statuto. Un recente sondaggio da conto del fatto che la metà dei catalani è favorevole all'indipendenza.
PS – Ignorando, o forse solo fottendosene, del fatto che nella Serbia di Milosevic la “questione kosovara” nacque dalla decisione del despota di discriminare la lingua albanese, il ministro italiano delle Regioni Fitto ha lanciato ieri un ultimatum ai sudtirolesi: o tolgono dalle strade e dai sentieri montani le scritte monolingui in tedesco o ci penserà il governo italiano a farlo. Il moderato Dumwalder, presidente della Provincia autonoma, gli ha risposto: “Me ne frego” e, in maniera più riflessiva: se Fitto “medita di fare azioni di forza, prevedo reazioni altrettanto determinate. E allora potrebbe finire male”. La cosa singolare – segno certo di una confusione che fa poco bene al governo – è che nelle stesse ore, un altro ministro, Ronchi, lanciava fuoco e fiamme contro la decisione dell'Unione europea di discriminare l'italiano nei suoi rapporti interni. Saranno anche cattolici, questi ministri, ma non conoscono il “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Di sicuro non hanno uno spiccato senso di responsabilità.
I giudici della Corte, a quel che si legge nei testi francese e inglese, hanno anche dato una risposta a chi li richiamava a considerare quali effetti avrebbe avuto nello scenario internazionale una loro risposta positiva alla questione posta dal segretario dell'Onu. Non è problema che possa riguardarci, hanno detto in sintesi. La sentenza, venuta dopo quasi due anni, è complessa come lo è la questione, densa di rimandi a precedenti storici, dalla questione ruandese a quella del Québec, e merita una grande attenzione che sicuramente avrà in tutte le cancellerie europee e non solo. Da quelle che hanno cavalcato il problema kosovaro, illudendosi che tutto finisse lì, a quelle che si sono opposte all'indipendenza del Kosovo giudicando, giustamente dal loro punto di vista, che nulla sarà più come prima se il nuovo Stato kosovaro sarà riconosciuto da tutti i governi del mondo, entrando a far parte della cosiddetta comunità internazionale.
La Corte di giustizia scioglie un nodo decisivo che, sintetizzando, può essere così descritto: il diritto internazionale (atto finale di Helsinki, 1975) riconosce a tutti i popoli la potestà di autodeterminarsi e, dunque, di autogovernarsi totalmente; unico ostacolo al pieno esercizio di questo diritto è quello degli stati alla loro integrità territoriale. Molti, e si parva licet anche io, hanno pensato che questo limite riguardasse anche gli stati al loro interno. Che, in poche parole, i popoli avessero la facoltà di esercitare il loro diritto alla autodeterminazione ma non a quello della secessione: la massima autonomia sì, l'indipendenza no. I giudici dell'Aja hanno sentenziato diversamente (caro amico Daniele Addis, sarai contento): “La portata del principio dell'integrità territoriale è … limitata alla sfera delle relazioni interstatuali”. Come dire che il diritto internazionale tutela uno stato dalle pretese aggressive e/o annessioniste di un altro stato, ma non lo tutela dalle decisioni di un popolo che voglia farsene indipendente.
E circa il non riconoscimento di liceità di altre dichiarazioni di indipendenza pronunciato dall'Onu, la Corte afferma che questo non riconoscimento “derivava non dal loro carattere unilaterale, ma dal fatto che esse andavano o potevano andare di pari passo con un ricorso illecito alla forza o con altre gravi violazioni gravi del diritto internazionale generale”. Dopo questa sentenza, sono da prevedere molti mal di capo nei governanti di stati alle prese con movimenti e partiti che si propongono di raggiungere l'indipendenza. Cito il caso della Catalogna, in cui una improvvida sentenza del Tribunale costituzione spagnolo di bocciatura dello Statuto. Un recente sondaggio da conto del fatto che la metà dei catalani è favorevole all'indipendenza.
PS – Ignorando, o forse solo fottendosene, del fatto che nella Serbia di Milosevic la “questione kosovara” nacque dalla decisione del despota di discriminare la lingua albanese, il ministro italiano delle Regioni Fitto ha lanciato ieri un ultimatum ai sudtirolesi: o tolgono dalle strade e dai sentieri montani le scritte monolingui in tedesco o ci penserà il governo italiano a farlo. Il moderato Dumwalder, presidente della Provincia autonoma, gli ha risposto: “Me ne frego” e, in maniera più riflessiva: se Fitto “medita di fare azioni di forza, prevedo reazioni altrettanto determinate. E allora potrebbe finire male”. La cosa singolare – segno certo di una confusione che fa poco bene al governo – è che nelle stesse ore, un altro ministro, Ronchi, lanciava fuoco e fiamme contro la decisione dell'Unione europea di discriminare l'italiano nei suoi rapporti interni. Saranno anche cattolici, questi ministri, ma non conoscono il “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Di sicuro non hanno uno spiccato senso di responsabilità.
giovedì 22 luglio 2010
I tagli alla lingua sono stati tagliati. Su Comitadu gioisce
I tagli alla lingua sarda non ci saranno. Lo ha comunicato il presidente della Commissione bilancio del Consiglio regionale, Paolo Maninchedda, durante l'incontro fra la Commissione e una delegazione del Comitadu pro sa limba sarda e degli operatori negli sportelli della lingua sarda. I tagli decisi dall'Assessorato della cultura – ha comunicato Maninchedda – sono stati eliminati tutti, salvo uno riguardante l'Università che, del resto, può contare su consistenti cifre non spese.
L'incontro, al quale hanno preso parte Antonio Garau, Maria Antonietta Piga, Mario Carboni e Michele Pinna (questi ultimi anche membri dell'Osservatorio della lingua sarda), si è svolto al termine di un sit in del Comitadu e degli operatori della lingua svoltosi davanti al Consiglio regionale. “Il Comitato per la lingua sarda e i componenti l'Osservatorio” si legge in un comunicato “hanno ringraziato per la sensibilità espressa dalla Commissione nella sua interezza verso la lingua sarda esprimendo la volontà di collaborazione sopratutto per il varo del prossimo Piano triennale 2011-2012-2013 che entro l'anno dovrebbe essere approvato, auspicando una sollecita convocazione della Conferenza annuale prevista dalla legge sulla lingua”.
Un curioso comunicato dell'assessora Lucia Baire, diramato mentre era in corso l'incontro nella Commissione bilancio, afferma che “la Giunta Regionale sta portando avanti puntualmente tutti gli interventi nell’ambito della lingua e della cultura sarda previsti nel Piano Triennale 2008-2010. La prospettata riduzione degli stanziamenti non inficia la realizzazione delle iniziative e dei progetti già finanziati nelle precedenti annualità. Lo ha affermato l’assessore della Pubblica Istruzione e dei Beni Culturali, Maria Lucia Baire, in risposta alle proteste del Comitadu pro sa Limba Sarda che ha manifestato contrarietà per i tagli annunciati al settore nella manovra correttiva di bilancio. L’assessore Baire ha precisato, inoltre, che le riduzioni non riguarderanno alcune tra le iniziative più significative ovvero l’insegnamento curricolare del sardo nelle scuole e gli interventi relativi alla pianificazione linguistica come lo Sportello linguistico e le opere didattiche multimediali finalizzate all’apprendimento della lingua”.
Non sapeva ancora che la commissione avrebbe bocciato i tagli decisi dal suo Assessorato o ha intenzione di riproporli comunque alla Giunta di cui Baire fa parte? Certo non si può dire che abbia agito con accortezza. “Riguardo, invece, l’Osservatorio regionale per la lingua e la cultura sarda” dice ancora il comunicato “è già in programma una riunione per il prossimo 30 luglio”. Anche questa riunione era stata sollecitata dal Comitato che denunciava la violazione della legge 26 che lo istituisce e che obbliga l'assessore a convocarlo per un parere sul Piano triennale. Il vecchio, quello del governo Soru riconfermato dall'attuale, sta per scadere. Entro il 30 giugno avrebbe dovuto essere presentato, dopo la consultazione dell'Osservatorio che sarà riunito con grave ritardo e, evidentemente, grazie alla pressione del Comitadu pro sa limba sarda.
Resto sempre più convinto, con su Comitadu, che questioni di tanto valore quali quelle della identità del popolo sardo non possano essere affidate a un singolo assessore, ma debbano essere governate dalla Presidenza della Regione. Una visione complessiva dei problemi della lingua, della cultura, dell'identità avrebbe risparmiato alla Regione i passi falsi compiuti in questa occasione.
L'incontro, al quale hanno preso parte Antonio Garau, Maria Antonietta Piga, Mario Carboni e Michele Pinna (questi ultimi anche membri dell'Osservatorio della lingua sarda), si è svolto al termine di un sit in del Comitadu e degli operatori della lingua svoltosi davanti al Consiglio regionale. “Il Comitato per la lingua sarda e i componenti l'Osservatorio” si legge in un comunicato “hanno ringraziato per la sensibilità espressa dalla Commissione nella sua interezza verso la lingua sarda esprimendo la volontà di collaborazione sopratutto per il varo del prossimo Piano triennale 2011-2012-2013 che entro l'anno dovrebbe essere approvato, auspicando una sollecita convocazione della Conferenza annuale prevista dalla legge sulla lingua”.
Un curioso comunicato dell'assessora Lucia Baire, diramato mentre era in corso l'incontro nella Commissione bilancio, afferma che “la Giunta Regionale sta portando avanti puntualmente tutti gli interventi nell’ambito della lingua e della cultura sarda previsti nel Piano Triennale 2008-2010. La prospettata riduzione degli stanziamenti non inficia la realizzazione delle iniziative e dei progetti già finanziati nelle precedenti annualità. Lo ha affermato l’assessore della Pubblica Istruzione e dei Beni Culturali, Maria Lucia Baire, in risposta alle proteste del Comitadu pro sa Limba Sarda che ha manifestato contrarietà per i tagli annunciati al settore nella manovra correttiva di bilancio. L’assessore Baire ha precisato, inoltre, che le riduzioni non riguarderanno alcune tra le iniziative più significative ovvero l’insegnamento curricolare del sardo nelle scuole e gli interventi relativi alla pianificazione linguistica come lo Sportello linguistico e le opere didattiche multimediali finalizzate all’apprendimento della lingua”.
Non sapeva ancora che la commissione avrebbe bocciato i tagli decisi dal suo Assessorato o ha intenzione di riproporli comunque alla Giunta di cui Baire fa parte? Certo non si può dire che abbia agito con accortezza. “Riguardo, invece, l’Osservatorio regionale per la lingua e la cultura sarda” dice ancora il comunicato “è già in programma una riunione per il prossimo 30 luglio”. Anche questa riunione era stata sollecitata dal Comitato che denunciava la violazione della legge 26 che lo istituisce e che obbliga l'assessore a convocarlo per un parere sul Piano triennale. Il vecchio, quello del governo Soru riconfermato dall'attuale, sta per scadere. Entro il 30 giugno avrebbe dovuto essere presentato, dopo la consultazione dell'Osservatorio che sarà riunito con grave ritardo e, evidentemente, grazie alla pressione del Comitadu pro sa limba sarda.
Resto sempre più convinto, con su Comitadu, che questioni di tanto valore quali quelle della identità del popolo sardo non possano essere affidate a un singolo assessore, ma debbano essere governate dalla Presidenza della Regione. Una visione complessiva dei problemi della lingua, della cultura, dell'identità avrebbe risparmiato alla Regione i passi falsi compiuti in questa occasione.
I nostri antenati, i Romani
Lord Macaulay, mentre presentava l'Indian Education Act al Parlamento di Londra, disse: “Per contenere tutta la letteratura indiana basta un solo scaffale di una buona biblioteca europea questa gente non esprime nulla in alcuna disciplina noi dobbiamo formare una classe di persone che abbiano sì sangue indiano, ma sensibilità e cultura inglesi”.
Per raggiungere questo obiettivo le scuole locali furono sostituite da strutture scolastiche di tipo britannico. Gli indiani ricchi venivano mandati a Eton, a Cambridge, a Oxford. Si leggevano Shakespeare o il London Times, piuttosto che i Veda o le Upanishad. Gli Indiani imparavano a disprezzare la propria cultura, che vedevano arretrata e ridicola. Volevano governare l'India, ma volevano farlo alla maniera degli Inglesi.
Un caro amico mi ricorda quello straordinario pensiero che esprime mirabilmente la cultura politica del colonialismo inglese. Non diversa, del resto, da quella coloniale francese, olandese, portoghese, spagnolo. Imperi che, non a caso, ad una cosa massimante mirarono: demolire le lingue locali e deprimere come insignificanti le letterature dei popoli sottomessi. Fu questo l'aspetto “civilizzatore”, anzi la motivazione civilizzatrice di domini che avevano più banali intenti economici e geopolitici. Non a caso, ad Algeri, i bambini arabi e berberi imparavano in francese quali erano le loro origini: “Nos ancêtres les Gaulois”, i nostri antenati Galli.
Roba passata, per fortuna e per decisione dei popoli, ma mica tanto. Ancora oggi, è nella concezione italiana che “per contenere tutta la letteratura in sardo basta un solo scaffale di una buona biblioteca italiana”. A cui si aggiunge un più domestico: “noi dobbiamo formare una classe di persone che abbiano sì sangue sardo, ma sensibilità e cultura italiana”. Oltre che ad esprimersi in italiano, perché è del tutto inattuale e fuorviante il pensare che possa stabilirsi un nesso stretto fra identità nazionale e lingua. Chi dice questo parte prevalentemente da se stesso: io voglio l'indipendenza della Sardegna anche se non conosco il sardo e non mi sento affatto meno sardo perché non conosco la lingua.
Sembrano affermazioni piene di buon senso, persino inattaccabili. Conosco moltissimi che non conoscono il sardo e sono sardisti nel senso più lato della parola, ma vivono questa non conoscenza come una propria diminutio, non come esempio da imitare. In una terra in cui sono loro una minoranza, mai si permetterebbero di proporre il loro status come meta da raggiungere.
Di queste cose vorrei tanto discutere, pacatamente e senza furori, con le centinaia di amici di iRS che si spendono in tutti i modi per sviluppare la lingua sarda e per farla diventare normale e ufficiale. Anche loro si troveranno alla Festa manna del loro movimento, una festa in cui il sardo non solo non sarà l'habitus, normale per i loro amici corsi, catalani, scozzesi, baschi (indipendentemente dal fatto che parlino la loro lingua nazionale), ma neppure un elemento distintivo. La lingua sarda, così come la letteratura in sardo, non solo non saranno padrone di casa, ma neppure ospiti.
Una parte della futura classe dirigente è chiamata a rassegnarsi ad avere sì sangue sardo, ma sensibilità e cultura italiana. Credo sia giusto interrogarsi perché.
Per raggiungere questo obiettivo le scuole locali furono sostituite da strutture scolastiche di tipo britannico. Gli indiani ricchi venivano mandati a Eton, a Cambridge, a Oxford. Si leggevano Shakespeare o il London Times, piuttosto che i Veda o le Upanishad. Gli Indiani imparavano a disprezzare la propria cultura, che vedevano arretrata e ridicola. Volevano governare l'India, ma volevano farlo alla maniera degli Inglesi.
Un caro amico mi ricorda quello straordinario pensiero che esprime mirabilmente la cultura politica del colonialismo inglese. Non diversa, del resto, da quella coloniale francese, olandese, portoghese, spagnolo. Imperi che, non a caso, ad una cosa massimante mirarono: demolire le lingue locali e deprimere come insignificanti le letterature dei popoli sottomessi. Fu questo l'aspetto “civilizzatore”, anzi la motivazione civilizzatrice di domini che avevano più banali intenti economici e geopolitici. Non a caso, ad Algeri, i bambini arabi e berberi imparavano in francese quali erano le loro origini: “Nos ancêtres les Gaulois”, i nostri antenati Galli.
Roba passata, per fortuna e per decisione dei popoli, ma mica tanto. Ancora oggi, è nella concezione italiana che “per contenere tutta la letteratura in sardo basta un solo scaffale di una buona biblioteca italiana”. A cui si aggiunge un più domestico: “noi dobbiamo formare una classe di persone che abbiano sì sangue sardo, ma sensibilità e cultura italiana”. Oltre che ad esprimersi in italiano, perché è del tutto inattuale e fuorviante il pensare che possa stabilirsi un nesso stretto fra identità nazionale e lingua. Chi dice questo parte prevalentemente da se stesso: io voglio l'indipendenza della Sardegna anche se non conosco il sardo e non mi sento affatto meno sardo perché non conosco la lingua.
Sembrano affermazioni piene di buon senso, persino inattaccabili. Conosco moltissimi che non conoscono il sardo e sono sardisti nel senso più lato della parola, ma vivono questa non conoscenza come una propria diminutio, non come esempio da imitare. In una terra in cui sono loro una minoranza, mai si permetterebbero di proporre il loro status come meta da raggiungere.
Di queste cose vorrei tanto discutere, pacatamente e senza furori, con le centinaia di amici di iRS che si spendono in tutti i modi per sviluppare la lingua sarda e per farla diventare normale e ufficiale. Anche loro si troveranno alla Festa manna del loro movimento, una festa in cui il sardo non solo non sarà l'habitus, normale per i loro amici corsi, catalani, scozzesi, baschi (indipendentemente dal fatto che parlino la loro lingua nazionale), ma neppure un elemento distintivo. La lingua sarda, così come la letteratura in sardo, non solo non saranno padrone di casa, ma neppure ospiti.
Una parte della futura classe dirigente è chiamata a rassegnarsi ad avere sì sangue sardo, ma sensibilità e cultura italiana. Credo sia giusto interrogarsi perché.
mercoledì 21 luglio 2010
Si sos Carabineris bolent e sa Baire permitit
Mancu male chi bi pensant sos Carabineris a ammentare chi in Sardigna b'at sa limba sarda e chi sa limba sarda est istimada, si est beru chi su calendàriu de s'Arma at tentu una difusione ispantosa, comente ant ammentadu eris sos generales Carmine Adinolfi e Franco Murtas. Unu giornale nde faeddat oe, in presse in presse e sena li dare importu meda, fortzis pro sa birgunza de bìere sos mèdia a sa muda in contu de sardu e un'istitutzione de s'Istadu cuntenta de àere impreadu finas sa limba sarda pro amaniare su calendàriu suo.
A sa muda, istichinde finas unu fatu polìticu de importu comente est s'arrènegu de su Comitadu pro sa limba contra a s'Assessoradu de sa cultura chi at leadu su pessu de nche mutzare de 850 miza de èuros sa misèria de 1.650.000 de èuros impinnados pro sa limba sarda. S'Istadu at mantesu sos milli e seschentos èuros suos a bonu de sa limba sarda, sa Regione sarda mancu custa misèria.
Su primu gràficu, elaboradu cun datos chi si podet dare non sunt paris paris, a su sisinu, sos reales, contat unu contu de birgunza. Narat chi s'assessora, “o chi per lei”, at mantesu gasi coment'est s'istantziamentu de s'Istadu (e bella diat èssere), at mantesu su matessi dinare pro sa Die de sa Sardigna (chi est cosa galana, ma non bi pìtzigat cun sa limba) e faladu unu corfu de istrale a su sardu.
E su segundu gràficu no est mègius. Mustrat comente e in ue sas mutzadas ant fertu mascamente. Ma non contat totu. Unu contu est a nche minimare de 5 miliones sos 130 integrados a s'Universidade, de 3 miliones sos 41 integrados a sos Benes culturales (e s'una e sos àteros cumpetèntzia de s'Istadu e a càrrigu de s'Istadu), e àteru contu est a nche dogare 850 miza de èuros a sos 1.650.000 – prus de su mesu – a sa limba sarda. Cun chimbe miliones in mancu, s'Universidade faghet carchi sacrifìtziu. Cun su mesu de una misèria, sa limba sarda at a fàghere su praghere de si nche dogare de mesu de ancas.
Mancu male chi b'at sos Carabineris e mancu male chi b'at s'Istadu atzentradore. Cosa de li dassare sa limba sarda a poderiu de sa Regione autonoma de Sardigna, cussa chi narat chi s'identidade natzionale sarda est su faru de s'atzione sua. Ite, si non fiat istadu unu faru.
Semper in argumentu de custu santracoro, est de lèghere s'artìculu de Roberto Bolognesi in su blog cosa sua.
A sa muda, istichinde finas unu fatu polìticu de importu comente est s'arrènegu de su Comitadu pro sa limba contra a s'Assessoradu de sa cultura chi at leadu su pessu de nche mutzare de 850 miza de èuros sa misèria de 1.650.000 de èuros impinnados pro sa limba sarda. S'Istadu at mantesu sos milli e seschentos èuros suos a bonu de sa limba sarda, sa Regione sarda mancu custa misèria.
Su primu gràficu, elaboradu cun datos chi si podet dare non sunt paris paris, a su sisinu, sos reales, contat unu contu de birgunza. Narat chi s'assessora, “o chi per lei”, at mantesu gasi coment'est s'istantziamentu de s'Istadu (e bella diat èssere), at mantesu su matessi dinare pro sa Die de sa Sardigna (chi est cosa galana, ma non bi pìtzigat cun sa limba) e faladu unu corfu de istrale a su sardu.
E su segundu gràficu no est mègius. Mustrat comente e in ue sas mutzadas ant fertu mascamente. Ma non contat totu. Unu contu est a nche minimare de 5 miliones sos 130 integrados a s'Universidade, de 3 miliones sos 41 integrados a sos Benes culturales (e s'una e sos àteros cumpetèntzia de s'Istadu e a càrrigu de s'Istadu), e àteru contu est a nche dogare 850 miza de èuros a sos 1.650.000 – prus de su mesu – a sa limba sarda. Cun chimbe miliones in mancu, s'Universidade faghet carchi sacrifìtziu. Cun su mesu de una misèria, sa limba sarda at a fàghere su praghere de si nche dogare de mesu de ancas.
Mancu male chi b'at sos Carabineris e mancu male chi b'at s'Istadu atzentradore. Cosa de li dassare sa limba sarda a poderiu de sa Regione autonoma de Sardigna, cussa chi narat chi s'identidade natzionale sarda est su faru de s'atzione sua. Ite, si non fiat istadu unu faru.
Semper in argumentu de custu santracoro, est de lèghere s'artìculu de Roberto Bolognesi in su blog cosa sua.
martedì 20 luglio 2010
I tagli alla lingua tagliata
Se sopravviverà alla burocrazia, alla politica, ai partiti e ai movimenti, vorrà dire che la lingua sarda è immortale o, comunque, di vita lunghissima. Tutti – salvo la burocrazia che con il sardo deve avere un fatto personale, ma fa finta di adeguarsi – promettono di badare alla sua esistenza e alla sua crescita. “Mi piace ricordare – parole del presidente Cappellacci nel suo saluto al Congresso del Partito sardo – come nel recente Programma Regionale di Sviluppo, abbiamo inserito per la prima volta la Lingua sarda come fattore di sviluppo, aprendo la strada a interventi importanti e non percorsi in passato”.
Meglio di così, che cosa si potrebbe sperare? Vero è che i denari messi il primo anno per questo ambizioso programma erano pochini, un tredicesimo di quelli investiti in sport e spettacolo, un dodicesimo di quanto investito in beni culturali, un trentacinquesimo di quanto dato alle università, che spetterebbe allo Stato finanziare, ma non stiamo qui a sottilizzare. Nel futuro, però, gli investimenti necessari a quel grande progetto – era sottinteso – ci saranno. E invece, to', ecco che quel misero uno per cento si immiserisce ulteriormente e diventa lo 0,5 per cento degli stanziamenti nel bilancio dell'Assessorato della pubblica istruzione.
È successo, come è noto, che la Regione debba tagliare le sue spese e che, naturalmente, tutti gli assessorati debbano contribuire al grande taglio con i propri tagli. Dubito che sia l'assessora in persona ad aver impugnato le forbici o che abbia intimato alla sua burocrazia di tagliare del 50 per cento i già miseri finanziamenti per la lingua sarda. Di certo non ha impugnato la spada per difenderli, li ha firmati per presentare le sue proposte all'intero governo sardo. Io non conosco l'entità degli altri tagli, ma mi permetto di dubitare che abbia tagliato del 50 per cento che so?, l'università o i restauri o lo spettacolo.
Insomma, salvo opportuni ripensamenti, il vergognoso provvedimento sarà legge. Per aiutare il ripensamento, ma anche per dire che il gradimento del movimento per la lingua nei confronti dell'assessore Lucia Baire è alquanto basso, su Comitadu pro sa limba sarda ha diffuso stamattina questo comunicato.
Se il governo sardo appare largamente inadempiente, difficile pensare che l'opposizione, consiliare ed extra consiliare, possa gonfiare il petto. Non mi risulta che dal Pd all'Italia dei Valori alla sinistra al mondo dell'indipendentismo ci sia qualcuno che si sia scapicollato per difendere il sardo. E, salvo una interrogazione di qualche giorno fa del Partito sardo, il mondo della politica sarda è rimasto, come dice il poeta Luisi Marteddu, mudu che crastu de unu nuraghe anticu.
Nella foto: il famoso libro di Sergio Salvi
Meglio di così, che cosa si potrebbe sperare? Vero è che i denari messi il primo anno per questo ambizioso programma erano pochini, un tredicesimo di quelli investiti in sport e spettacolo, un dodicesimo di quanto investito in beni culturali, un trentacinquesimo di quanto dato alle università, che spetterebbe allo Stato finanziare, ma non stiamo qui a sottilizzare. Nel futuro, però, gli investimenti necessari a quel grande progetto – era sottinteso – ci saranno. E invece, to', ecco che quel misero uno per cento si immiserisce ulteriormente e diventa lo 0,5 per cento degli stanziamenti nel bilancio dell'Assessorato della pubblica istruzione.
È successo, come è noto, che la Regione debba tagliare le sue spese e che, naturalmente, tutti gli assessorati debbano contribuire al grande taglio con i propri tagli. Dubito che sia l'assessora in persona ad aver impugnato le forbici o che abbia intimato alla sua burocrazia di tagliare del 50 per cento i già miseri finanziamenti per la lingua sarda. Di certo non ha impugnato la spada per difenderli, li ha firmati per presentare le sue proposte all'intero governo sardo. Io non conosco l'entità degli altri tagli, ma mi permetto di dubitare che abbia tagliato del 50 per cento che so?, l'università o i restauri o lo spettacolo.
Insomma, salvo opportuni ripensamenti, il vergognoso provvedimento sarà legge. Per aiutare il ripensamento, ma anche per dire che il gradimento del movimento per la lingua nei confronti dell'assessore Lucia Baire è alquanto basso, su Comitadu pro sa limba sarda ha diffuso stamattina questo comunicato.
Su Comitadu pro sa limba sarda ha appreso con enorme preoccupazione dei tagli alla lingua sarda con cui l'Assessorato della cultura intende contribuire alla manovra finanziaria decisa dal Governo sardo. Già drammaticamente sottovalutata nell'impegno di spesa per il 2010, appena l'1 per cento, contro l'82% di spese in materie di competenza statale, alla lingua sarda e alla cultura sarda dovrebbe essere destinato lo 0,5% della spesa.
Su Comitadu non si può rassegnare a questo progetto di eutanasia che, per di più, si accompagna alla mancata attuazione della legge n. 26, laddove si stabiliscono le funzioni dell'Osservatorio per la lingua e per la cultura, mai riunito in questa legislatura. Su Comitadu prega i suoi aderenti facenti parte dell'Osservatorio di far presente a chi di competenza lo sconcerto di fronte a tali palesi violazioni dell'impegno assunto dal Governo sardo a difesa della lingua e della identità.
Chi, come su Comitadu, ha salutato come svolta nella politica autonomista il riconoscimento della lingua come motore dello sviluppo e apprezzato il privilegio, accordato dal programma di governo, alla lingua, alla cultura e alla eredità culturale dei sardi come fattori di distintività, non può non richiamare il presidente della Regione al dovere di mantenere gli impegni.
I fattori di distintività individuati dal programma hanno bisogno, per non essere retoriche mozioni degli affetti, di una azione di governo puntale e coraggiosa. È convincimento del Comitadu pro sa limba sarda che questo complesso di questioni non possa essere governato da un solo assessore, che per di più non si distingue per l'attenzione a tali questioni, e tanto meno da funzionari capaci di utilizzare solo parametri contabili. Così come accade in altre nazioni senza stato, i fattori di distintività e le questioni dell'identità meglio sarebbero governati se in capo alla Presidenza della Regione.
Se il governo sardo appare largamente inadempiente, difficile pensare che l'opposizione, consiliare ed extra consiliare, possa gonfiare il petto. Non mi risulta che dal Pd all'Italia dei Valori alla sinistra al mondo dell'indipendentismo ci sia qualcuno che si sia scapicollato per difendere il sardo. E, salvo una interrogazione di qualche giorno fa del Partito sardo, il mondo della politica sarda è rimasto, come dice il poeta Luisi Marteddu, mudu che crastu de unu nuraghe anticu.
Nella foto: il famoso libro di Sergio Salvi
lunedì 19 luglio 2010
Si s'unu pro chentu a sa limba, lis paret tropu
Su gràficu, si podet nàrrere, est canteddu malintrannadu, ponende a pitzos de su sardu e de sa cultura sarda su pesu de totu s'àteru. Ma siat chi sa limba sarda siat apedigada dae sos àteros gastos de s'Assessoradu de sa Cultura siat chi siat postu a bonete, s'unu pro chentu abarrat: s'1% de su chi in su 2010 fiat in su bilàntziu. S'unu pro chentu, contra a su 69 pro chentu chi s'assessora Lucia Baire at postu pro s'Universidade e pro s'istrutzione chi depent èssere a palas de s'Istadu, giai chi e s'una e s'àtera sunt cumpetèntzias suas.
Mancari gasi, s'unu pro chentu est duas bias su chi, paret, Lucia Baire cheret dassare pro sa limba e pro sa cultura: su 0,5 pro chentu. Nessi, est custu chi li resurtat a su comitadu de sos operadores, interpretes-tradutores chi cun sa limba traballant e chi ant cumbidadu a totus a protestare giòvia ch'intrat in antis de su Consìgiu regionale. “Cust'annu puru” narat su comitadu “s'istiu nos at batidu una noa de cabbale: su Guvernu Regionale, custrintu a mutzare sos istantziamentos in bilàntziu, at pensadu bene de che leare su dinare dae ue già bi nd'aiat pagu.
Sa limba sarda, chi "godiat" de s'1 pro chentu de s'istantziamentu de s'Assessoradu a sa cultura e istrutzione, commo nd'at a disponimentu su 0,5 pro chentu.
Est a nàrrere chi finas su pagu chi si podiat fàghere commo no at a èssere prus possibile.
A dolu mannu de chie trabballat in sos laboratòrios iscolàsticos, in sa ràdio, in sa televisione, de sas domos editoras e gai sighende...
Amus detzisu de nos fàghere intèndere, ca paret chi in cale si siat setore b'apat gente chi protestat pro su trabballu suo, petzi nois, chi trabballamus pro su sardu chin su sardu, no aberimus sa buca pro nos fàghere intèndere.
Giòvia, a sas 10 de mangianu, in Casteddu, in dae in antis de su Cussìgiu regionale, in carrera Roma, amus a protestare pro custas mutzaduras chentza cabu”.
domenica 18 luglio 2010
Il giallo della tavoletta sarda indecifrabile
“Il mistero della tavoletta indecifrabile” è noir di poche pretese da leggersi sotto l'ombrellone. Anche perché, forse, non ci sono l'assassino né il corpo del reato, ma solo le motivazioni. Sempre le stesse: il panico di fronte al nuovo che, in quanto tale, è sconosciuto, non si sa che cosa possa comportare per i dogma, gli stereotipi, la calda rassicurante culla in cui stare avvolti come Linus con la sua coperta.
Tutto comincia il 28 giugno di quest'anno quando GAP. mi comunica di aver chiesto la mia amicizia su Facebook. Gliela do, naturalmente. Il 13 di questo mese invia a me a una ventina di comuni amici l'invito a discutere con lui un articolo arricchito di una bella foto di una statua di Monti Prama e da una firma intrigante: “archeologo indipendentista”. Cose già lette da qualche parte, forse un riassunto, penso, o una lunga citazione senza autore. Vedo, poi, di tanto in tanto l'intervento di qualche amico a cui GAP risponde con lenzuolate di parole. Niente di nuovo, per la verità, più che altro la vulgata di ciò che è giusto sapere e la scomunica degli eretici, quelli che pretendono di mettere in discussione la Verità. Il tutto condito di improperi contro chi scrive di archeologia su questo blog. Tutto normale, insomma.
Quando ecco spuntare la tavoletta misteriosa. Rispondendo a chi gli chiede un parere sui “reperti misteriosi” di cui lungamente qui si è parlato, GAP dice; “Credo di intendere a cosa ti riferisci e ti rispondo, allora per prima cosa di reperti "simili" ne ho l'archivio digitale ed analogico pieno (se vuoi, in privato ti mando foto di una tavoletta Sarda con iscrizioni indecifrabili "acquistata di recente da Museo di Madrid)...”. C'è dunque un archeologo sardo che sa dell'esistenza di un reperto, definito sardo, “con iscrizioni indecifrabili e di “reperti simili”. Come me, molti abbiamo sempre pensato che le soprintendenze sarde (GAP afferma di lavorare in una di esse) sappia e taccia.
Adesso, voce dal sen fuggita, ecco la conferma che, però, doveva restare riservata (“se vuoi, in privato, ti mando...”). Certo che scegliere uno strumento come Facebook, aperto a milioni di persone, per fare una confidenza non è il massimo dell'accortezza. Ma ecco, comunque, il primo indizio per svelare il giallo.
Ed ecco il secondo ad infittire il mistero: la tavoletta sarda di Madrid supporta “iscrizioni indecifrabili”. Si è decifrato quasi tutto delle antiche iscrizioni, etrusco, ugaritico, egiziano, protosinaitico, protocananeo e cananeo, e così via complicando. C'è anche, dunque, una lingua misteriosa, indecifrabile che viene dalla Sardegna e che il Museo Arqueológico Nacional di Madrid ha acquistato. Le soprintendenze sarde si saranno dunque precipitate nella capitale spagnola per veder di decifrare l'indecifrabile, armate di repertori dei caratteri antichi di tutto il Mediterraneo. Se così è, mica vengono a dirlo a noi, ma dubito che lo abbiano fatto. È notorio, infatti, che i sardi, prima dell'arrivo dei fenici, non scrivevano, punto e basta. Al massimo, parola del nostro, “istoriavano” cocci come quello di Pozzomaggiore.
La notizia della tavoletta indecifrabile comunque esce, su questo blog, e crea un panico visibile e, forse, altri sotterranei. Quello visibile è del nostro GAP, che prima accusa comuni amici di aver violato la consegna del silenzio, dimenticando di averne parlato lui non al bar o a una riunione di amici, ma su Facebook; poi minaccia querele per divulgazione di un segreto da esso stesso rivelato potenzialmente a milioni di persone e, infine, chiudendo la sua pagina in Internet che ora a chi la cerca risponde: “Questo contenuto non è disponibile”. Inghiottito insieme ai numerosi commenti al suo articolo originario e allo stesso articolo, lo stesso o parte di un articolo che, come mi ha avvertito l'archeologo dr Roberto Sirigu, era uscito nel blog sadefenza ) qualche giorno prima: “Voglio precisare che si tratta di un mio articolo, copiato di sana pianta, intitolato "Le tombe degli eroi nella necropoli di Monti Prama", pubblicato nel 2006 nel Quaderno n. 1 della rivista "Darwin".” Anche l'articolo su sadefenza è sparito: “Spiacenti, la pagina che cerchi nel blog Sa defenza sotziali non esiste”. Non è mai esistito e il dr Sirigu ha equivocato o è prematuramente scomparso?
Bene, gli elementi per risolvere questo piccolo giallo estivo ci sono, a questo punto, tutti. È davvero esistita la tavoletta sarda con iscrizioni indecifrabili? È uno scherzo andato male, tipo: adesso metto in giro false iscrizioni e a chi le decifra racconto della burla? E, in più, esiste davvero un Giuseppe Asdrubale Puggioni, il GAP della nostra storia, archeologo, funzionario di una soprintendenza archeologica? Si accettano soluzioni del noir. Le migliori saranno premiate con un buono caffè da spendere da Vittorio, dove Michele fa il miglior caffè della costa orientale.
Tutto comincia il 28 giugno di quest'anno quando GAP. mi comunica di aver chiesto la mia amicizia su Facebook. Gliela do, naturalmente. Il 13 di questo mese invia a me a una ventina di comuni amici l'invito a discutere con lui un articolo arricchito di una bella foto di una statua di Monti Prama e da una firma intrigante: “archeologo indipendentista”. Cose già lette da qualche parte, forse un riassunto, penso, o una lunga citazione senza autore. Vedo, poi, di tanto in tanto l'intervento di qualche amico a cui GAP risponde con lenzuolate di parole. Niente di nuovo, per la verità, più che altro la vulgata di ciò che è giusto sapere e la scomunica degli eretici, quelli che pretendono di mettere in discussione la Verità. Il tutto condito di improperi contro chi scrive di archeologia su questo blog. Tutto normale, insomma.
Quando ecco spuntare la tavoletta misteriosa. Rispondendo a chi gli chiede un parere sui “reperti misteriosi” di cui lungamente qui si è parlato, GAP dice; “Credo di intendere a cosa ti riferisci e ti rispondo, allora per prima cosa di reperti "simili" ne ho l'archivio digitale ed analogico pieno (se vuoi, in privato ti mando foto di una tavoletta Sarda con iscrizioni indecifrabili "acquistata di recente da Museo di Madrid)...”. C'è dunque un archeologo sardo che sa dell'esistenza di un reperto, definito sardo, “con iscrizioni indecifrabili e di “reperti simili”. Come me, molti abbiamo sempre pensato che le soprintendenze sarde (GAP afferma di lavorare in una di esse) sappia e taccia.
Adesso, voce dal sen fuggita, ecco la conferma che, però, doveva restare riservata (“se vuoi, in privato, ti mando...”). Certo che scegliere uno strumento come Facebook, aperto a milioni di persone, per fare una confidenza non è il massimo dell'accortezza. Ma ecco, comunque, il primo indizio per svelare il giallo.
Ed ecco il secondo ad infittire il mistero: la tavoletta sarda di Madrid supporta “iscrizioni indecifrabili”. Si è decifrato quasi tutto delle antiche iscrizioni, etrusco, ugaritico, egiziano, protosinaitico, protocananeo e cananeo, e così via complicando. C'è anche, dunque, una lingua misteriosa, indecifrabile che viene dalla Sardegna e che il Museo Arqueológico Nacional di Madrid ha acquistato. Le soprintendenze sarde si saranno dunque precipitate nella capitale spagnola per veder di decifrare l'indecifrabile, armate di repertori dei caratteri antichi di tutto il Mediterraneo. Se così è, mica vengono a dirlo a noi, ma dubito che lo abbiano fatto. È notorio, infatti, che i sardi, prima dell'arrivo dei fenici, non scrivevano, punto e basta. Al massimo, parola del nostro, “istoriavano” cocci come quello di Pozzomaggiore.
La notizia della tavoletta indecifrabile comunque esce, su questo blog, e crea un panico visibile e, forse, altri sotterranei. Quello visibile è del nostro GAP, che prima accusa comuni amici di aver violato la consegna del silenzio, dimenticando di averne parlato lui non al bar o a una riunione di amici, ma su Facebook; poi minaccia querele per divulgazione di un segreto da esso stesso rivelato potenzialmente a milioni di persone e, infine, chiudendo la sua pagina in Internet che ora a chi la cerca risponde: “Questo contenuto non è disponibile”. Inghiottito insieme ai numerosi commenti al suo articolo originario e allo stesso articolo, lo stesso o parte di un articolo che, come mi ha avvertito l'archeologo dr Roberto Sirigu, era uscito nel blog sadefenza ) qualche giorno prima: “Voglio precisare che si tratta di un mio articolo, copiato di sana pianta, intitolato "Le tombe degli eroi nella necropoli di Monti Prama", pubblicato nel 2006 nel Quaderno n. 1 della rivista "Darwin".” Anche l'articolo su sadefenza è sparito: “Spiacenti, la pagina che cerchi nel blog Sa defenza sotziali non esiste”. Non è mai esistito e il dr Sirigu ha equivocato o è prematuramente scomparso?
Bene, gli elementi per risolvere questo piccolo giallo estivo ci sono, a questo punto, tutti. È davvero esistita la tavoletta sarda con iscrizioni indecifrabili? È uno scherzo andato male, tipo: adesso metto in giro false iscrizioni e a chi le decifra racconto della burla? E, in più, esiste davvero un Giuseppe Asdrubale Puggioni, il GAP della nostra storia, archeologo, funzionario di una soprintendenza archeologica? Si accettano soluzioni del noir. Le migliori saranno premiate con un buono caffè da spendere da Vittorio, dove Michele fa il miglior caffè della costa orientale.
sabato 17 luglio 2010
iRS in salsa tricolore? Fosse per la lingua, pare di sì
Ogni gruppo umano, partito, movimento, associazione, ha un suo progetto politico e culturale per il futuro, in sé e per sé rispettabile. Condividerlo o anche solo apprezzarlo come orizzonte che ti possa coinvolgere, certo, è cosa diversa, anche se apparentemente farebbe parte del tuo mondo di idee. Secondo me, per esempio, un futuro che metta da parte i problemi di democrazia linguistica o che, peggio, li ignori non solo non è futuro seducente ma è anzi un futuro da guardare con apprensione. E quindi i molti amici di iRS mi perdoneranno, ma il senso di indipendenza che è dentro il programma della loro grande festa (Festa manna) non mi interessa, anzi lo trovo nemico di una Sardegna indipendente.
A parte il titolo di Festa manna, niente richiama l'idea che questa grande festa si svolge in una terra che è sede di una antica nazione con una sua millenaria lingua. Non c'è, almeno nelle previsioni, alcuna iniziativa che quanto meno di preoccupi dello stato, non buono, della lingua sarda, quasi che sia indifferente al progetto di una società libera da dipendenze. E anche quando si parla di letteratura sarda si ignora l'esistenza di una ormai cospicua letteratura in lingua sarda e nelle altre lingue della Sardegna, dal gallurese al tabacchino dal sassarese all'algherese: la letteratura sarda è in italiano. Come, temo, la futura società che iRS propone ai sardi.
Lo Stato italiano investe quasi due milioni di euro l'anno a favore della lingua sarda. Pochissimo, ma sempre più di quanto spende la Regione sarda e incommensurabilmente più dell'interesse di iRS. Chi crede, con qualche fondamento, che la lingua sia il nucleo fondante di una nazione, si deve vedere costretto ad augurare lunga vita allo stato italiano? Certo non basta questo ad auspicarlo, ma è altrettanto certo che iRS fa di tutto per far desiderare la sua sopravvivenza, nella probabilità che esso, almeno, non dimentichi gli impegni presi con l'Europa.
Forse si sarà, a questo punto, capito che non trovo per nulla interessante l'indipendenza della Sardegna nell'immagine data dalla festa di iRS.
A parte il titolo di Festa manna, niente richiama l'idea che questa grande festa si svolge in una terra che è sede di una antica nazione con una sua millenaria lingua. Non c'è, almeno nelle previsioni, alcuna iniziativa che quanto meno di preoccupi dello stato, non buono, della lingua sarda, quasi che sia indifferente al progetto di una società libera da dipendenze. E anche quando si parla di letteratura sarda si ignora l'esistenza di una ormai cospicua letteratura in lingua sarda e nelle altre lingue della Sardegna, dal gallurese al tabacchino dal sassarese all'algherese: la letteratura sarda è in italiano. Come, temo, la futura società che iRS propone ai sardi.
Lo Stato italiano investe quasi due milioni di euro l'anno a favore della lingua sarda. Pochissimo, ma sempre più di quanto spende la Regione sarda e incommensurabilmente più dell'interesse di iRS. Chi crede, con qualche fondamento, che la lingua sia il nucleo fondante di una nazione, si deve vedere costretto ad augurare lunga vita allo stato italiano? Certo non basta questo ad auspicarlo, ma è altrettanto certo che iRS fa di tutto per far desiderare la sua sopravvivenza, nella probabilità che esso, almeno, non dimentichi gli impegni presi con l'Europa.
Forse si sarà, a questo punto, capito che non trovo per nulla interessante l'indipendenza della Sardegna nell'immagine data dalla festa di iRS.
venerdì 16 luglio 2010
Non c'è barone senza sudditi. Che fare, caro Vladimir?
di Efisio Loi
Abbiamo un difetto che ci accomuna, manifestandosi un po’ in tutti i campi della vita civile: siamo convinti che il popolo sia ‘buono’, che la società sia sana e che ci sia sempre un ‘altro’, the other man, a prevaricare e ad avvelenarci l’esistenza.
In linea generale, Totò aveva ragione: l’umanità si divide in uomini e caporali e i caporali, incapaci di ogni cosa, sono disposti a tutto pur di mantenere i ‘gradi’.
C’è una cosa però da considerare: l’entità della ‘caporalaggine’ e il danno che ne deriva, non è fissata una volta per tutte, fluttua, oscilla nel tempo. A determinarne la consistenza è, in buona misura, l’educazione di un popolo.
Dio mio, sto scivolando verso il trito e ritrito. Mettiamola così: se pensiamo di distribuire una popolazione lungo un grafico le cui variabili, in rapporto al numero delle persone, siano la “umanaggine” e la “caporalaggine”, tale grafico assumerà l’aspetto della campana di Gauss. Gli “uominissimi” e i “caporalissimi” saranno molto pochi e distribuiti, a destra e a sinistra, nelle code del grafico. Una notevole maggioranza degli individui la troveremmo sistemata nella media dei due valori.
Il bello della faccenda è che l’intero grafico, e di conseguenza la media del tasso dei due parametri, può spostarsi verso il segno + , se con questo indichiamo il campo degli “uominissimi” ma anche verso il segno – , campo dei “caporalissimi”, a seconda del tipo di educazione che abbia avuto corso nella società o, cosa altrettanto vera, a seconda del così detto controllo sociale.
È come per l’onestà: nessuno di noi può essere l’onestà fatta persona, come nessuno può essere la disonestà incarnata. Che, però, i criteri di valutazione dell’onestà o disonestà dei comportamenti siano rimasti immutati nel tempo, è difficile che qualcuno lo possa sostenere. Lascio a voi giudicare se il grafico si sia spostato verso il + o verso il – .
Purtroppo l’educazione e il controllo sociale, da un certo punto in qua, sono state considerate palle al piede di un libero dispiegarsi delle potenzialità umane e ipocrisie reazionarie al servizio delle classi dominanti. L’Ideologia ha preso il sopravento e, assieme all’acqua sporca, abbiamo buttato via il bambino.
Per tornare a bomba, chi sono i nostri “caporali”? Li possiamo chiamare “baroni”? Se la risposta è sì, bisognerà ammettere che, perché ci siano baroni, sarà necessaria la presenza di “sudditi”. Sudditi, bene inteso che aspirano alla “baronia” e, per questa, pronti a qualsiasi cosa anche se, il più delle volte, incapaci di tutto.
Ancora una domanda: quale è stata la “agenzia educativa” che, a cavallo di questi due secoli, ha generato sudditi e baroni? Lapalissiano: la scuola, in ogni suo ordine e grado, fino alla cupola, del feudalesimo più spinto, l’università. Non l’unica, non l’unica, per carità, dal momento che famiglia e chiesa ci hanno messo del loro, e in quantità notevole. Con una differenza, a mio modo di vedere, sostanziale: famiglia e chiesa sono “agenzie” private, condizionate in modo notevole dallo Stato, soprattutto la prima che non ha un Concordato dalla sua.
La scuola, senza dimenticare l’università, invece è emanazione diretta dello stato, non c’è scuola in Italia che non sia statale e non parlatemi di scuole private: quelle vere, non si trovano nel nostro Bel Paese e costano, accipicchia se costano. Chi, in genere, se le può permettere appartiene a quella parte contro cui è stata fatta la rivoluzione egalitaria, distruggendo la scuola, distruggendo la famiglia, distruggendo, in definitiva, la convivenza civile.
A costoro che un laureato di trent’anni, magari col massimo dei voti, non riesca a trovare una sistemazione consona o, il più delle volte, una sistemazione qualsiasi (non si può essere tutti imprenditori a questo mondo), non fa ne caldo ne freddo. Loro non cadono mai ma, se capita, cascano sempre in piedi. Il cosiddetto popolo, beneficiario principe di quella rivoluzione e che per quella rivoluzione ha lottato e ancora lotta, si ritrova ancora una volta come prima, “candu acapianta is canis a sartitzu”.
Cosa possiamo fare perché i cittadini siano sempre più uomini e sempre meno caporali? Perché venga premiato il merito e non si debba strisciare alla ricerca di un dovuto riconoscimento, di fronte al caporale o al barone di turno? Perché quella maledetta “campana di Gauss” si sposti verso la parte positiva del grafico? La rivoluzione “vera”? La secessione?
Qualcosa bisognerà pur farla.
Abbiamo un difetto che ci accomuna, manifestandosi un po’ in tutti i campi della vita civile: siamo convinti che il popolo sia ‘buono’, che la società sia sana e che ci sia sempre un ‘altro’, the other man, a prevaricare e ad avvelenarci l’esistenza.
In linea generale, Totò aveva ragione: l’umanità si divide in uomini e caporali e i caporali, incapaci di ogni cosa, sono disposti a tutto pur di mantenere i ‘gradi’.
C’è una cosa però da considerare: l’entità della ‘caporalaggine’ e il danno che ne deriva, non è fissata una volta per tutte, fluttua, oscilla nel tempo. A determinarne la consistenza è, in buona misura, l’educazione di un popolo.
Dio mio, sto scivolando verso il trito e ritrito. Mettiamola così: se pensiamo di distribuire una popolazione lungo un grafico le cui variabili, in rapporto al numero delle persone, siano la “umanaggine” e la “caporalaggine”, tale grafico assumerà l’aspetto della campana di Gauss. Gli “uominissimi” e i “caporalissimi” saranno molto pochi e distribuiti, a destra e a sinistra, nelle code del grafico. Una notevole maggioranza degli individui la troveremmo sistemata nella media dei due valori.
Il bello della faccenda è che l’intero grafico, e di conseguenza la media del tasso dei due parametri, può spostarsi verso il segno + , se con questo indichiamo il campo degli “uominissimi” ma anche verso il segno – , campo dei “caporalissimi”, a seconda del tipo di educazione che abbia avuto corso nella società o, cosa altrettanto vera, a seconda del così detto controllo sociale.
È come per l’onestà: nessuno di noi può essere l’onestà fatta persona, come nessuno può essere la disonestà incarnata. Che, però, i criteri di valutazione dell’onestà o disonestà dei comportamenti siano rimasti immutati nel tempo, è difficile che qualcuno lo possa sostenere. Lascio a voi giudicare se il grafico si sia spostato verso il + o verso il – .
Purtroppo l’educazione e il controllo sociale, da un certo punto in qua, sono state considerate palle al piede di un libero dispiegarsi delle potenzialità umane e ipocrisie reazionarie al servizio delle classi dominanti. L’Ideologia ha preso il sopravento e, assieme all’acqua sporca, abbiamo buttato via il bambino.
Per tornare a bomba, chi sono i nostri “caporali”? Li possiamo chiamare “baroni”? Se la risposta è sì, bisognerà ammettere che, perché ci siano baroni, sarà necessaria la presenza di “sudditi”. Sudditi, bene inteso che aspirano alla “baronia” e, per questa, pronti a qualsiasi cosa anche se, il più delle volte, incapaci di tutto.
Ancora una domanda: quale è stata la “agenzia educativa” che, a cavallo di questi due secoli, ha generato sudditi e baroni? Lapalissiano: la scuola, in ogni suo ordine e grado, fino alla cupola, del feudalesimo più spinto, l’università. Non l’unica, non l’unica, per carità, dal momento che famiglia e chiesa ci hanno messo del loro, e in quantità notevole. Con una differenza, a mio modo di vedere, sostanziale: famiglia e chiesa sono “agenzie” private, condizionate in modo notevole dallo Stato, soprattutto la prima che non ha un Concordato dalla sua.
La scuola, senza dimenticare l’università, invece è emanazione diretta dello stato, non c’è scuola in Italia che non sia statale e non parlatemi di scuole private: quelle vere, non si trovano nel nostro Bel Paese e costano, accipicchia se costano. Chi, in genere, se le può permettere appartiene a quella parte contro cui è stata fatta la rivoluzione egalitaria, distruggendo la scuola, distruggendo la famiglia, distruggendo, in definitiva, la convivenza civile.
A costoro che un laureato di trent’anni, magari col massimo dei voti, non riesca a trovare una sistemazione consona o, il più delle volte, una sistemazione qualsiasi (non si può essere tutti imprenditori a questo mondo), non fa ne caldo ne freddo. Loro non cadono mai ma, se capita, cascano sempre in piedi. Il cosiddetto popolo, beneficiario principe di quella rivoluzione e che per quella rivoluzione ha lottato e ancora lotta, si ritrova ancora una volta come prima, “candu acapianta is canis a sartitzu”.
Cosa possiamo fare perché i cittadini siano sempre più uomini e sempre meno caporali? Perché venga premiato il merito e non si debba strisciare alla ricerca di un dovuto riconoscimento, di fronte al caporale o al barone di turno? Perché quella maledetta “campana di Gauss” si sposti verso la parte positiva del grafico? La rivoluzione “vera”? La secessione?
Qualcosa bisognerà pur farla.
giovedì 15 luglio 2010
L'archeologo indipendentista e le sue dipendenze
Un “archeologo indipendentista”, Giuseppe Asdrubale Puggioni, tiene cattedra su Facebook col proposito, encomiabile davvero, di avvertire gli indipendentisti della necessità di non basare sull'archeologia la ricerca dei fondamenti dell'identità e dell'indipendenza. È un sacrosanto avvertimento oltre che, per un nazionalista come lui, una bella scommessa: una nazione senza miti sarebbe un unicum nel panorama mondiale.
Io non ho alcun motivo per dubitare della fede indipendentista di Puggioni, qualcuno sì sulla propria indipendenza personale, quel sottile e intrigante piacere di uscire dai dogma, dai paradigma, dagli stilemi, dagli stereotipi e, ben piazzato sulle spalle di chi lo ha preceduto, ragionare con la propria testa. Se la prende con il mito della Barbagia inespugnabile, ma nella rincorsa presa per saltare il mito inciampa in qualche cavolata. Come è noto, la Barbaria era tale perché non conquistata, nel momento in cui è conquistata non è più Barbaria e quindi è assai probabile trovarvi resti dell'occupazione romana. Fra i centri della Barbagia conquistata pone Orune e Bolotana, che mai furono in Barbagia. E poi, per non farsi mancare nulla nella meritoria opera di demolizione del mito, fa un minestrone di conquiste militari, commerci, spoliazioni.
Ma non è certo questa minutaglia a sollevare dubbi sulla sua indipendenza interiore. Rispondendo al generoso tentativo di incrinare le sue certezze granitiche, ecco che cosa scrive, e ditemi voi se non avete sentori conosciuti.
“Outsider e reperti misteriosi, bene, credo di intendere a cosa ti riferisci e ti rispondo, allora per prima cosa di reperti "simili" ne ho l'archivio digitale ed analogico pieno (se vuoi, in privato ti mando foto di una tavoletta Sarda con iscrizioni indecifrabili "acquistata di recente da Museo di Madrid)... infatti "tali" reperti essendo non più in situ, e peggio, di provenienza dubbia e non contestualizzabile, scientificamente non hanno alcun valore, infatti per l'archeologia non è importante il reperto in sé (che può avere qualsiasi provenienza) ma il luogo, oppure lo strato del terreno del Sito in cui viene rinvenuto, allora si che avrebbe un'importanza eccezionale a livello scientifico. e non mi riferisco solo al coccio istoriato di Pozzomaggiore a cui, credo, alludi, ma anche alle tavolette di bronzo ritenute da tanti Outsider incise in Sardo, addirittura dagli Shardana... bene quelle tavolette oltre ad essere chiaramente Bizantine (grazie a 6 confronti identici ma ritrovati in situ ed in strati sicuri di tombe Bizantine ritrovati nell'arco Egeo) ci dicono quanto “pericoloso” sia, spacciare teorie assurte a Verità Assolute, quando poi, scientificamente si viene smentiti.”
Dite. Non è un piccolo capolavoro? Giuro su quanto ho di più caro che non ho toccato alcunché.
Simili certezze, al servizio di tanto pensiero scientifico, mi esimono da qualsiasi commento. Salvo uno: la comunità scientifica sarda conosce un “Tavoletta sarda”, acquistata dal Museo di Madrid, in cui appaiono “iscrizioni indecifrabili” (tavoletta a disposizione dell'amico del Nostro, cosa loro insomma). Indecifrabili? Da chi, da Puggioni o dagli epigrafisti?
Io non ho alcun motivo per dubitare della fede indipendentista di Puggioni, qualcuno sì sulla propria indipendenza personale, quel sottile e intrigante piacere di uscire dai dogma, dai paradigma, dagli stilemi, dagli stereotipi e, ben piazzato sulle spalle di chi lo ha preceduto, ragionare con la propria testa. Se la prende con il mito della Barbagia inespugnabile, ma nella rincorsa presa per saltare il mito inciampa in qualche cavolata. Come è noto, la Barbaria era tale perché non conquistata, nel momento in cui è conquistata non è più Barbaria e quindi è assai probabile trovarvi resti dell'occupazione romana. Fra i centri della Barbagia conquistata pone Orune e Bolotana, che mai furono in Barbagia. E poi, per non farsi mancare nulla nella meritoria opera di demolizione del mito, fa un minestrone di conquiste militari, commerci, spoliazioni.
Ma non è certo questa minutaglia a sollevare dubbi sulla sua indipendenza interiore. Rispondendo al generoso tentativo di incrinare le sue certezze granitiche, ecco che cosa scrive, e ditemi voi se non avete sentori conosciuti.
“Outsider e reperti misteriosi, bene, credo di intendere a cosa ti riferisci e ti rispondo, allora per prima cosa di reperti "simili" ne ho l'archivio digitale ed analogico pieno (se vuoi, in privato ti mando foto di una tavoletta Sarda con iscrizioni indecifrabili "acquistata di recente da Museo di Madrid)... infatti "tali" reperti essendo non più in situ, e peggio, di provenienza dubbia e non contestualizzabile, scientificamente non hanno alcun valore, infatti per l'archeologia non è importante il reperto in sé (che può avere qualsiasi provenienza) ma il luogo, oppure lo strato del terreno del Sito in cui viene rinvenuto, allora si che avrebbe un'importanza eccezionale a livello scientifico. e non mi riferisco solo al coccio istoriato di Pozzomaggiore a cui, credo, alludi, ma anche alle tavolette di bronzo ritenute da tanti Outsider incise in Sardo, addirittura dagli Shardana... bene quelle tavolette oltre ad essere chiaramente Bizantine (grazie a 6 confronti identici ma ritrovati in situ ed in strati sicuri di tombe Bizantine ritrovati nell'arco Egeo) ci dicono quanto “pericoloso” sia, spacciare teorie assurte a Verità Assolute, quando poi, scientificamente si viene smentiti.”
Dite. Non è un piccolo capolavoro? Giuro su quanto ho di più caro che non ho toccato alcunché.
Simili certezze, al servizio di tanto pensiero scientifico, mi esimono da qualsiasi commento. Salvo uno: la comunità scientifica sarda conosce un “Tavoletta sarda”, acquistata dal Museo di Madrid, in cui appaiono “iscrizioni indecifrabili” (tavoletta a disposizione dell'amico del Nostro, cosa loro insomma). Indecifrabili? Da chi, da Puggioni o dagli epigrafisti?
mercoledì 14 luglio 2010
Quel sentore di secessione che aleggia sulla politica
Abbandonata, o almeno messa sullo sfondo come estrema ratio, dalla Lega, la parola “secessione” sta entrando con sempre maggiore frequenza nel lessico della politica e dei media. Il fatto che un uomo come Giorgio Napolitano, senza pronunciare la parola, ne descriva le conseguenze sempre più frequentemente dà il senso, io credo, che il suo spettro aleggi sui palazzi che contano. E che ci sia se non una rassegnata attesa, almeno la sensazione che l'esito dell'attuale temperie politica e istituzionale potrebbe essere quello del ritorno della penisola alle condizioni pre-unitarie.
Il governo italiano, al pari di quelli europei, si trova di fronte alla necessità e alla urgenza di far dimagrire consistentemente lo Stato. È, come dire?, un tentativo di non innescare rischi di bancarotta alla greca: uno, due, tre stati si salvano, ma alla fine il pericolo è che risuoni il “si salvi chi può”. Così, in Italia è capitato qualcosa che ha dell'inedito e che non mi pare sia stato sottolineato: le regioni sono in rotta di collisione con lo Stato e chiedono a questo di dimagrire esso consistentemente, prima di chiedere di farlo le regioni. È come dire allo Stato: commetti suicidio.
Fra le poche cose che tiene unito lo stato italiano è la burocrazia, colpita questa colpito il cuore.
Persino uno come Tremonti, al quale tutto si potrà rimproverare ma non di avere solide basi culturali ed economiche, di fronte alla riduzione dello Stato alle sue giuste dimensioni di coordinatore tentenna. E preferisce una iniezione di federalismo forzato: le regioni si facciano subito quel che dovranno essere in futuro, enti federati che spendano quanto incassano. La reazione di molte regioni è quella di chi teme l'autogoverno. Vogliono restituire le competenze che sono state assegnate loro, quasi che siano le giunte regionali titolari di queste funzioni e non le popolazioni che esse rappresentano. Altre naturalmente dicono di no e spero che fra queste ci sia la Sardegna.
Sia come si sia, ridotto che è il “sentimento nazionale” alle partite di pallone e ai proclami di Comesichiama Casini e poco più, il centralismo sta producendo una voglia di fuga dalla Repubblica italiana verso l'Unione europea, dove, come è noto, proprio in virtù dell'idelogia nazional-statalista conta solo il fatto di essere costituiti in stato. Stati come Malta, Cipro, Estonia, Lussemburgo più piccoli della Sardegna contano e contrattano, la Sardegna no, neppure dopo aver avuto lo status di regione sede di una “minoranza nazionale”. Condizione che, sia detto per inciso, la classe dirigente sarda (la politica, la sindacale, l'imprenditoriale, la intellettuale, l'istituzionale) non riesce neppure lontanamente a pensare di mettere nel carniere. Mi verrebbe di citare quel che è successo sabato scorso a Barcellona, ma taccio per pudore.
Altri hanno le mie stesse sensazioni circa la crisi del collante unitario italiano e hanno però reazioni esagitate. Vi segnalo l'articolo che il sociologo dell'Università di Cagliari, Marco Pitzalis, ha scritto per il sito di sinistra inSardegna.eu. È una mozione degli affetti nazionalista granditaliana, che arriva a rivolgersi all'esercito e alla polizia con inviti che non ho capito bene, e che così conclude: “Vedo solo due strade per la Sardegna. Possiamo essere autonomi dentro un’Europa delle Regioni o autonomi dentro un’Italia federale, unita e repubblicana. Tutto il resto è follia politica. Tutto il resto è polvere di tomba”. A parte i richiami lugubri e catastrofisti, ha ragione. E credo che se egli, stimatore del sociologo francese Pierre Bourdieu, sessantottino e solidale con gli intellettuali algerini, avesse mosso le acque della sinistra sarda nella direzione voluta, oggi non sarebbe lì a temer di chiudere la stalla con quel che segue.
Il governo italiano, al pari di quelli europei, si trova di fronte alla necessità e alla urgenza di far dimagrire consistentemente lo Stato. È, come dire?, un tentativo di non innescare rischi di bancarotta alla greca: uno, due, tre stati si salvano, ma alla fine il pericolo è che risuoni il “si salvi chi può”. Così, in Italia è capitato qualcosa che ha dell'inedito e che non mi pare sia stato sottolineato: le regioni sono in rotta di collisione con lo Stato e chiedono a questo di dimagrire esso consistentemente, prima di chiedere di farlo le regioni. È come dire allo Stato: commetti suicidio.
Fra le poche cose che tiene unito lo stato italiano è la burocrazia, colpita questa colpito il cuore.
Persino uno come Tremonti, al quale tutto si potrà rimproverare ma non di avere solide basi culturali ed economiche, di fronte alla riduzione dello Stato alle sue giuste dimensioni di coordinatore tentenna. E preferisce una iniezione di federalismo forzato: le regioni si facciano subito quel che dovranno essere in futuro, enti federati che spendano quanto incassano. La reazione di molte regioni è quella di chi teme l'autogoverno. Vogliono restituire le competenze che sono state assegnate loro, quasi che siano le giunte regionali titolari di queste funzioni e non le popolazioni che esse rappresentano. Altre naturalmente dicono di no e spero che fra queste ci sia la Sardegna.
Sia come si sia, ridotto che è il “sentimento nazionale” alle partite di pallone e ai proclami di Comesichiama Casini e poco più, il centralismo sta producendo una voglia di fuga dalla Repubblica italiana verso l'Unione europea, dove, come è noto, proprio in virtù dell'idelogia nazional-statalista conta solo il fatto di essere costituiti in stato. Stati come Malta, Cipro, Estonia, Lussemburgo più piccoli della Sardegna contano e contrattano, la Sardegna no, neppure dopo aver avuto lo status di regione sede di una “minoranza nazionale”. Condizione che, sia detto per inciso, la classe dirigente sarda (la politica, la sindacale, l'imprenditoriale, la intellettuale, l'istituzionale) non riesce neppure lontanamente a pensare di mettere nel carniere. Mi verrebbe di citare quel che è successo sabato scorso a Barcellona, ma taccio per pudore.
Altri hanno le mie stesse sensazioni circa la crisi del collante unitario italiano e hanno però reazioni esagitate. Vi segnalo l'articolo che il sociologo dell'Università di Cagliari, Marco Pitzalis, ha scritto per il sito di sinistra inSardegna.eu. È una mozione degli affetti nazionalista granditaliana, che arriva a rivolgersi all'esercito e alla polizia con inviti che non ho capito bene, e che così conclude: “Vedo solo due strade per la Sardegna. Possiamo essere autonomi dentro un’Europa delle Regioni o autonomi dentro un’Italia federale, unita e repubblicana. Tutto il resto è follia politica. Tutto il resto è polvere di tomba”. A parte i richiami lugubri e catastrofisti, ha ragione. E credo che se egli, stimatore del sociologo francese Pierre Bourdieu, sessantottino e solidale con gli intellettuali algerini, avesse mosso le acque della sinistra sarda nella direzione voluta, oggi non sarebbe lì a temer di chiudere la stalla con quel che segue.
martedì 13 luglio 2010
Guardie rosse della Ragione nelle sabbie mobili
Il generale francese Henri Navarre, quello sconfitto dai viet-minh a Dien bien fu, e quello americano William Westmoreland, destituito dopo l'offensiva del Tet dei soliti viet-minh, insegnavano ai loro soldati come comportarsi se incappavano in paludi e in sabbie mobili: guai a lasciarsi prendere dal panico. Perché i movimenti inconsulti di chi ne è preda sono inevitabilmente destinati a peggiorare la situazione. Peccato che non ne siano informate le guardie rosse della Ragione, professori universitari in incognito, reduci dello stalinismo, isterici, feticisti e vecchi biliosi,.
Sono specialisti nell'inventarsi nomignoli fantasiosi a cui intestano i loro indirizzi elettronici; non si fanno mancare nulla pur di mascherare la propria identità, per poter tendere imboscate senza pericolo di essere riconosciuti. Guardate questo filmino su Youtube che si trova digitando il nome di Bauer Xaver dietro cui si cela – secondo quanto lui stesso ha scritto – un “professore universitario” miliziano della Ragione. Goliardate? A me sembrano piuttosto persone in preda al panico che già nelle sabbie mobili si agitano e agitandosi sprofondano. Nel ridicolo ma non solo. Ma panico perché, terrore di che cosa?
Sul perché ho una mezza idea, che però sarebbe giusta solo se gli Illuminati fossero titolari di scoperte nel campo dell'archeologia (e non solo) che hanno il terrore di veder vanificate da nuove acquisizioni. Ma così non è, credo: dietro nomignoli, ci sono persone che perderebbero un piccolo potere cattedratico che solo la conservazione dello statu quo può assicurare loro. Di questo hanno massimamente terrore: si agitano nell'acquitrino nel disperato tentativo di lasciarlo calmo. Ecco perché avrebbero dovuto frequentare le lezioni di Navarre e di Westmoreland, l'età l'avrebbe consentito loro. Non l'hanno fatto, non sanno che nelle sabbie mobili bisogna stare fermi in attesa di aiuto.
Un aiuto che, però, non viene e non verrà. La Baronia, quella che conta, sta e starà zitta (salvo costrizioni esterne) sulle questioni che sono diventate incubo per i soldati della Ragione. Nell'ordine: la scrittura al tempo dei nuraghi, l'equazione Shardana=Nuragici (o Sardi), la progettazione astronomica dei nuraghi. Tutti elementi che, nella loro problematicità e criticità, sono stati prospettati su questo blog, come certificano le discussioni una volta non filtrate, e allora inquinate dalle incursioni degli Illuminati, e oggi moderate sia perché temperate sia perché regolate.
Ed è così che questo blog diventa bersaglio privilegiato dei soldati e delle soldatesse, addestrati non nel Delta del Mekong né ai confini del Laos ma nelle scuole della Stasi.
Qui non si impara a uscire dalla palude, ma come utilizzare la denigrazione, l'ingiuria, la diffamazione del nemico per renderlo ridicolo e privo di valore. Si insegna a non contrastare mai il nemico sul piano delle cose che dice, ma a deriderlo e ad offenderlo. Non a dire che una tesi è sbagliata, ma solo che è espressa da chi non ha titoli accademici o, se li ha, che si tratta di un semplice dottore, non di un professore. Non importa che la cosa non abbia alcun rilievo o che sia falsa: conta dirla. Alla scuola della Stasi (o dell'Ovra, che è lo stesso) questo è materia d'esame, superato brillantemente, del resto, dalla setta degli Illuminati.
Le tesi e le ipotesi avanzate sulla scrittura nuragica non trovano una sola contestazione sul merito, ma solo e sempre l'irrisione dello cavernicolo illetterato cui si vuol far credere che l'uomo è sbarcato sulla Luna. Il massimo della dialettica sta nel richiamo alle false Carte di Arborea e all'invito di Theodor Mommsen ai sardi a non cedere al nazionalismo, spauracchio dei compradores che temono come il fuoco l'idea di dover contare sul proprio cervello e una sola cosa possono fare: lasciarsi cullare dal potere che tutto ha già pensato e a tutto ha dato risposta. Cosa analoga capita con la teoria dell'allineamento astronomico dei nuraghi, che provoca troppi mal di testa, sorta di muscolo atrofizzato per le persone a cui tutto è stato già detto.
Per non parlare della questione degli Shardana di cui, con una certa fatica, si ammette che sono esistiti ma non certo come popolo che avesse a che fare con la Sardegna. Anche in questo caso si agita lo spettro del nazionalismo che, in questo caso, non è quello romantico e nostalgico di una età dell'oro, ma quello demoniaco del razzismo e del nazismo. Siamo, è chiaro, nel campo della paranoia e dell'ossessione che non ammette dibattito ma solo esorcismi. Anche qui funziona la ricetta Stasi (o Ovra, che è lo stesso): svilire il nemico e toglierli qualsiasi autorevolezza. Giovanni Ugas? Non è un professore ma solo un dottore senza credito nell'ambiente universitario in cui lavora. Adam Zertal, l'israeliano che afferma l'identità Sardi-Shardana? Sì è un professore, ma è “un archeologo sionista”. E, in più, è un archeologo da quattro soldi, ex ufficiale di Israele, non so se ci capiamo.
Questi sono i miliziani della Ragione, combattenti per conto terzi, al servizio probabilmente non richiesto di chi non esiterà a lasciarli culo a terra il giorno in cui, magari indotti da li superiori, troveranno giusto, o anche solo conveniente, prendere in esame la possibilità che non si tratti di questioni campate in aria.
Si dirà: ma perché non li citi per nome e cognome? Lo farei, ma non ne hanno e non si possono citare delle ombre, mostrare delle maschere senza la sicurezza che dietro si sia un volto. Ma ci sono, si muovono nella rete, rilasciando di tanto in tanto le loro brave puzzette. Quando ne sentirete di particolarmente sgradevoli, fermatevi: siate arrivati.
Sono specialisti nell'inventarsi nomignoli fantasiosi a cui intestano i loro indirizzi elettronici; non si fanno mancare nulla pur di mascherare la propria identità, per poter tendere imboscate senza pericolo di essere riconosciuti. Guardate questo filmino su Youtube che si trova digitando il nome di Bauer Xaver dietro cui si cela – secondo quanto lui stesso ha scritto – un “professore universitario” miliziano della Ragione. Goliardate? A me sembrano piuttosto persone in preda al panico che già nelle sabbie mobili si agitano e agitandosi sprofondano. Nel ridicolo ma non solo. Ma panico perché, terrore di che cosa?
Sul perché ho una mezza idea, che però sarebbe giusta solo se gli Illuminati fossero titolari di scoperte nel campo dell'archeologia (e non solo) che hanno il terrore di veder vanificate da nuove acquisizioni. Ma così non è, credo: dietro nomignoli, ci sono persone che perderebbero un piccolo potere cattedratico che solo la conservazione dello statu quo può assicurare loro. Di questo hanno massimamente terrore: si agitano nell'acquitrino nel disperato tentativo di lasciarlo calmo. Ecco perché avrebbero dovuto frequentare le lezioni di Navarre e di Westmoreland, l'età l'avrebbe consentito loro. Non l'hanno fatto, non sanno che nelle sabbie mobili bisogna stare fermi in attesa di aiuto.
Un aiuto che, però, non viene e non verrà. La Baronia, quella che conta, sta e starà zitta (salvo costrizioni esterne) sulle questioni che sono diventate incubo per i soldati della Ragione. Nell'ordine: la scrittura al tempo dei nuraghi, l'equazione Shardana=Nuragici (o Sardi), la progettazione astronomica dei nuraghi. Tutti elementi che, nella loro problematicità e criticità, sono stati prospettati su questo blog, come certificano le discussioni una volta non filtrate, e allora inquinate dalle incursioni degli Illuminati, e oggi moderate sia perché temperate sia perché regolate.
Ed è così che questo blog diventa bersaglio privilegiato dei soldati e delle soldatesse, addestrati non nel Delta del Mekong né ai confini del Laos ma nelle scuole della Stasi.
Qui non si impara a uscire dalla palude, ma come utilizzare la denigrazione, l'ingiuria, la diffamazione del nemico per renderlo ridicolo e privo di valore. Si insegna a non contrastare mai il nemico sul piano delle cose che dice, ma a deriderlo e ad offenderlo. Non a dire che una tesi è sbagliata, ma solo che è espressa da chi non ha titoli accademici o, se li ha, che si tratta di un semplice dottore, non di un professore. Non importa che la cosa non abbia alcun rilievo o che sia falsa: conta dirla. Alla scuola della Stasi (o dell'Ovra, che è lo stesso) questo è materia d'esame, superato brillantemente, del resto, dalla setta degli Illuminati.
Le tesi e le ipotesi avanzate sulla scrittura nuragica non trovano una sola contestazione sul merito, ma solo e sempre l'irrisione dello cavernicolo illetterato cui si vuol far credere che l'uomo è sbarcato sulla Luna. Il massimo della dialettica sta nel richiamo alle false Carte di Arborea e all'invito di Theodor Mommsen ai sardi a non cedere al nazionalismo, spauracchio dei compradores che temono come il fuoco l'idea di dover contare sul proprio cervello e una sola cosa possono fare: lasciarsi cullare dal potere che tutto ha già pensato e a tutto ha dato risposta. Cosa analoga capita con la teoria dell'allineamento astronomico dei nuraghi, che provoca troppi mal di testa, sorta di muscolo atrofizzato per le persone a cui tutto è stato già detto.
Per non parlare della questione degli Shardana di cui, con una certa fatica, si ammette che sono esistiti ma non certo come popolo che avesse a che fare con la Sardegna. Anche in questo caso si agita lo spettro del nazionalismo che, in questo caso, non è quello romantico e nostalgico di una età dell'oro, ma quello demoniaco del razzismo e del nazismo. Siamo, è chiaro, nel campo della paranoia e dell'ossessione che non ammette dibattito ma solo esorcismi. Anche qui funziona la ricetta Stasi (o Ovra, che è lo stesso): svilire il nemico e toglierli qualsiasi autorevolezza. Giovanni Ugas? Non è un professore ma solo un dottore senza credito nell'ambiente universitario in cui lavora. Adam Zertal, l'israeliano che afferma l'identità Sardi-Shardana? Sì è un professore, ma è “un archeologo sionista”. E, in più, è un archeologo da quattro soldi, ex ufficiale di Israele, non so se ci capiamo.
Questi sono i miliziani della Ragione, combattenti per conto terzi, al servizio probabilmente non richiesto di chi non esiterà a lasciarli culo a terra il giorno in cui, magari indotti da li superiori, troveranno giusto, o anche solo conveniente, prendere in esame la possibilità che non si tratti di questioni campate in aria.
Si dirà: ma perché non li citi per nome e cognome? Lo farei, ma non ne hanno e non si possono citare delle ombre, mostrare delle maschere senza la sicurezza che dietro si sia un volto. Ma ci sono, si muovono nella rete, rilasciando di tanto in tanto le loro brave puzzette. Quando ne sentirete di particolarmente sgradevoli, fermatevi: siate arrivati.
lunedì 12 luglio 2010
Intervista sugli Shardana con Giovanni Ugas
Il saggio del professor Giovanni Ugas (diviso nelle tre parti El Ahwat e gli Shardana nel Vicino Oriente, Qui stavano gli Shardana, Architettura e ceramica Shardana nel Vicino oriente) ha suscitato numerose domande in molti lettori. Le ho sintetizzate, spero correttamente, per porle a Giovanni Ugas che risponde in questa intervista.
1.Il suo saggio su Shardana e el Ahwat sta suscitando, come è ovvio che sia, molto interesse e reazioni che vanno dall'incredulità alla cauta accettazione, dall'incoraggiamento all'attesa del suo libro sugli Shardana. Si attendeva qualcosa di diverso?
Mi attendevo esattamente questo. Ho presentato lo studio El Ahwat e gli Shardana nel Vicino Oriente in questo Blog non solo perché me lo ha chiesto Gianfranco Pintore ma anche con un preciso intento divulgativo data la scarsa accessibilità dell’articolo, pubblicato nel 2008 in un volume israeliano. Dunque non posso che essere grato ai lettori e mi scuso per il fatto che non mi è possibile rispondere a ogni singola domanda e a ogni commento. Questo mio lavoro ha il fine, come del resto lo avrà quello più generale sugli Shardana, di fare il punto sulla situazione degli studi e sulle problematiche relative al primo e più importante “popolo del mare”.
Nell’ottica di una prospettiva di identificazione tra gli Shardana e i Sardi non può essere certo trascurato, come sinora è avvenuto, il tema delle relazioni archeologiche tra la Sardegna e il Vicino Oriente (e l’Egitto) durante l’età del Bronzo. Si è solo all’inizio di una ricerca che, comunque, non è limitata ai soli dati presentati nell’articolo in forma abbreviata e per di più non documentati adeguatamente sul piano iconografico. Io ho cercato semplicemente di aprire, grazie anche all’Università di Haifa e in particolare ad Adam Zertal, la porta di un cammino difficoltoso che risente dello stato non ottimale della ricerca in questo campo poiché sino a un decennio fa nessuna missione archeologica sarda ha operato in contesti del Vicino Oriente. Il mio non è un punto d’arrivo ma di partenza e tuttavia non posso esimermi dal trarre le prime conclusioni.
Leggi tutto
Nel disegno: ricostruzione della fortezza di el Ahwat
1.Il suo saggio su Shardana e el Ahwat sta suscitando, come è ovvio che sia, molto interesse e reazioni che vanno dall'incredulità alla cauta accettazione, dall'incoraggiamento all'attesa del suo libro sugli Shardana. Si attendeva qualcosa di diverso?
Mi attendevo esattamente questo. Ho presentato lo studio El Ahwat e gli Shardana nel Vicino Oriente in questo Blog non solo perché me lo ha chiesto Gianfranco Pintore ma anche con un preciso intento divulgativo data la scarsa accessibilità dell’articolo, pubblicato nel 2008 in un volume israeliano. Dunque non posso che essere grato ai lettori e mi scuso per il fatto che non mi è possibile rispondere a ogni singola domanda e a ogni commento. Questo mio lavoro ha il fine, come del resto lo avrà quello più generale sugli Shardana, di fare il punto sulla situazione degli studi e sulle problematiche relative al primo e più importante “popolo del mare”.
Nell’ottica di una prospettiva di identificazione tra gli Shardana e i Sardi non può essere certo trascurato, come sinora è avvenuto, il tema delle relazioni archeologiche tra la Sardegna e il Vicino Oriente (e l’Egitto) durante l’età del Bronzo. Si è solo all’inizio di una ricerca che, comunque, non è limitata ai soli dati presentati nell’articolo in forma abbreviata e per di più non documentati adeguatamente sul piano iconografico. Io ho cercato semplicemente di aprire, grazie anche all’Università di Haifa e in particolare ad Adam Zertal, la porta di un cammino difficoltoso che risente dello stato non ottimale della ricerca in questo campo poiché sino a un decennio fa nessuna missione archeologica sarda ha operato in contesti del Vicino Oriente. Il mio non è un punto d’arrivo ma di partenza e tuttavia non posso esimermi dal trarre le prime conclusioni.
Leggi tutto
Nel disegno: ricostruzione della fortezza di el Ahwat
Un milione a Barcellona a difesa dello Statuto
Un milione e mezzo secondo il movimento catalanista Òmnium Cultural (dal cui sito è tratta una delle foto pubblicate), un milione e centomila secondo la "Guardia Urbana" o 450mila come minimizza il quotidiano governativo spagnolo El Pais, fatto sta che quella di sabato a Barcellona per la difesa dello Statuto è stata "la mayor manifestación de la historia del catalanismo", persino per El Pais il quale sottolinea che "la marcha deriva en un acto independentista". Sono stati, infatti, le parole d'ordine e gli striscioni indipendentisti a dominare la manifestazione.
La protesta, come si ricorderà, era stata indetta contro la sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo che aveva bocciato le parti maggiormente identitarie dello Statuto catalano approvato quattro anni fa dal Parlamento di Barcellona.
E intanto, rassegnato, invecchio
di Francu Pilloni
Se c’è una cosa di cui il giovane contadino di questa favola andava certo era che la Luna piena si alzava proprio dietro i filari di pioppo lungo il fiume, là dove termina il suo terreno. La seconda e la terza che dava per probabili sono, la prima, che in città non potevano vedere mai la Luna piena così bassa e così vicina; la seconda, che i cittadini avrebbero desiderato molto osservarla così come a lui succedeva da una vita. E allora, perché non consentirglielo, a quella gente di città, a cui avrebbe potuto vendere i prodotti della sua terra, mentre i bambini s’intrattenevano col vitellino e con le papere?
Prese un’ancoretta di ferro, quella che usava per pescare il secchio finito in fondo al pozzo, ci legò una lunga corda nuova e si esercitò tutto il giorno a lanciare l’attrezzo più in alto che poteva, in attesa della sera. Quando la Luna si affacciò con la sua faccia tonda fra i rami dei pioppi, il contadino lanciò l’ancora e il colpo andò a buon fine. Quindi ci legò in fretta sa tella de argiolai, la grossa pietra che veniva trascinata dai buoi durante la trebbiatura delle fave. Pensava, anzi sperava che la Luna sarebbe stata trattenuta da così gran peso. In effetti gli parve proprio che ciò avenisse, ma poi s’accorse che l’astro, seppure a fatica, seguitava a salire. D’istinto il contadino si aggrappò alla pietra per aggiungere tutto il suo peso ma non bastò: lentamente, molto lentamente, sentì che i piedi si staccavano dal suolo e saliva, fino a raggiungere l’altezza della cima dei pioppi. A quel punto capì di dover prendere una decisione ed esitò: poteva saltare, sapendo di rischiare di farsi male alle gambe, di procurarsi un’ernia, di rompersi la schiena; oppure poteva lasciarsi portare nel cielo in un viaggio magnifico, unico, impensabile per lui che non andava neanche alle fiere paesane. Aveva però timore che, giunto chissà dove e posati trepidamente i piedi su una terra lontana e sconosciuta, non sarebbe riuscito a trovare la via di casa. O almeno non così in fretta da poter accudire alle mucche e agli altri animali, la mattina dopo.
A questo punto mi fermo con la favola e mi dispiace: se volete, aggiungetevi un lieto fine, perché a me non riesce.
E però non mi esimo dal fare un parallelo fra il contadino e un sardo (autonomista, indipendentista, fate voi) come me, perché se è vero che riesco a comprendere il contesto in cui vivo (bene), che riesco a fare ragionamenti sensati (più o meno), è altrettanto lampante che mi manca il modus operandi.
In ciò, ne sono conscio, mi presento come un sardo paradigmatico, data per scontata che storicamente è proprio questa la carenza caratteriale, politica, organizzativa del nostro popolo.
A me, che sono un sognatore-biseri, la figura di quel contadino aggrappato alla pietra che si staglia contro il cielo, mi appare come la parabola della Repubblica di Maluentu, frutto di uno slancio emotivo, generoso, temerario. E nulla di più.
Proprio dopo che si è fatto il primo passo nella direzione corretta, subentrano le paure, quelle di percorrere sentieri sconosciuti, quelle di perdere il poco a cui ci teniamo stetti, la paura della solitudine, di non essere all’altezza della situazione.
Di questo passo, anche l’Italia, matrigna quanto si vuole, mi pare una patria, certo inadeguata, ma sempre meglio di niente. E così ragiono per la lingua, per la scuola, per l’economia, per tutto.
Ecco perché, con tutte queste paure in corpo, non riesco a immaginarmi un lieto fine che pure desidero più di ogni altra cosa al mondo. E intanto, irrassegnato, invecchio.
Se c’è una cosa di cui il giovane contadino di questa favola andava certo era che la Luna piena si alzava proprio dietro i filari di pioppo lungo il fiume, là dove termina il suo terreno. La seconda e la terza che dava per probabili sono, la prima, che in città non potevano vedere mai la Luna piena così bassa e così vicina; la seconda, che i cittadini avrebbero desiderato molto osservarla così come a lui succedeva da una vita. E allora, perché non consentirglielo, a quella gente di città, a cui avrebbe potuto vendere i prodotti della sua terra, mentre i bambini s’intrattenevano col vitellino e con le papere?
Prese un’ancoretta di ferro, quella che usava per pescare il secchio finito in fondo al pozzo, ci legò una lunga corda nuova e si esercitò tutto il giorno a lanciare l’attrezzo più in alto che poteva, in attesa della sera. Quando la Luna si affacciò con la sua faccia tonda fra i rami dei pioppi, il contadino lanciò l’ancora e il colpo andò a buon fine. Quindi ci legò in fretta sa tella de argiolai, la grossa pietra che veniva trascinata dai buoi durante la trebbiatura delle fave. Pensava, anzi sperava che la Luna sarebbe stata trattenuta da così gran peso. In effetti gli parve proprio che ciò avenisse, ma poi s’accorse che l’astro, seppure a fatica, seguitava a salire. D’istinto il contadino si aggrappò alla pietra per aggiungere tutto il suo peso ma non bastò: lentamente, molto lentamente, sentì che i piedi si staccavano dal suolo e saliva, fino a raggiungere l’altezza della cima dei pioppi. A quel punto capì di dover prendere una decisione ed esitò: poteva saltare, sapendo di rischiare di farsi male alle gambe, di procurarsi un’ernia, di rompersi la schiena; oppure poteva lasciarsi portare nel cielo in un viaggio magnifico, unico, impensabile per lui che non andava neanche alle fiere paesane. Aveva però timore che, giunto chissà dove e posati trepidamente i piedi su una terra lontana e sconosciuta, non sarebbe riuscito a trovare la via di casa. O almeno non così in fretta da poter accudire alle mucche e agli altri animali, la mattina dopo.
A questo punto mi fermo con la favola e mi dispiace: se volete, aggiungetevi un lieto fine, perché a me non riesce.
E però non mi esimo dal fare un parallelo fra il contadino e un sardo (autonomista, indipendentista, fate voi) come me, perché se è vero che riesco a comprendere il contesto in cui vivo (bene), che riesco a fare ragionamenti sensati (più o meno), è altrettanto lampante che mi manca il modus operandi.
In ciò, ne sono conscio, mi presento come un sardo paradigmatico, data per scontata che storicamente è proprio questa la carenza caratteriale, politica, organizzativa del nostro popolo.
A me, che sono un sognatore-biseri, la figura di quel contadino aggrappato alla pietra che si staglia contro il cielo, mi appare come la parabola della Repubblica di Maluentu, frutto di uno slancio emotivo, generoso, temerario. E nulla di più.
Proprio dopo che si è fatto il primo passo nella direzione corretta, subentrano le paure, quelle di percorrere sentieri sconosciuti, quelle di perdere il poco a cui ci teniamo stetti, la paura della solitudine, di non essere all’altezza della situazione.
Di questo passo, anche l’Italia, matrigna quanto si vuole, mi pare una patria, certo inadeguata, ma sempre meglio di niente. E così ragiono per la lingua, per la scuola, per l’economia, per tutto.
Ecco perché, con tutte queste paure in corpo, non riesco a immaginarmi un lieto fine che pure desidero più di ogni altra cosa al mondo. E intanto, irrassegnato, invecchio.
domenica 11 luglio 2010
Un Partito della Nazione fresco di giornata: 11/07/1848
Sul mercato della politica è in arrivo un nuovo prodotto: il nazionalismo granditaliano organizzato. La diluizione nel Popolo della libertà dell'ultimo scampolo, Alleanza nazionale, ha lasciato uno spazio vuoto e in politica come in fisica, il vuoto non può esistere. Ed ecco la furbata di Comesichiama Casini che, conoscendo la legge della domanda e dell'offerta, di fronte alla domanda inevasa di nazionalismo offre il suo prodotto: il Partito della Nazione.
Intendiamoci di partiti, segmenti di partiti, club, opinion maker nazionalstatalisti ce ne sono a iosa in Italia, ma lo sono nel volto non nella maschera. Per lo più rispettabili e lontani dallo chauvinismo di quel giornalista che ho sentito dire queste parole: chi sa se la terra d'Africa si sentirà emozionata nell'essere calpestata dagli italiani campioni del mondo? Un'offerta però che, pur mettendo da parte la volgarità di quanti si vorrebbero monsieur Nicolas Chauvin, non soddisfa alla domanda di franco e tondo nazionalismo. Quello, per intenderci, che pensa al separatismo quando sente parlare di federalismo, anche se modesto e gattopardesco come quello della legge in vigore.
Ecco quindi l'idea dell'Udc, ottocentesca con richiami nel secondo ventennioi del Novecento, ma riconfezionata a nuovo. Intendiamoci, la semplificazione e l'onestà nel dichiarare la propria identità è sempre una cosa buona: “Ebbene sì, io sono un reazionario” diceva il protagonista di un bellissimo disegno di Georges Grosz. L'offerta c'è: bisogna ora vedere se la domanda premierà l'idea di Comesichiama Casini.
In Sardegna, per esempio, dove il nascente Partito della Nazione ha già scelto e imposto i propri rappresentanti. Uno di essi è il segretario dell'Udc Giorgio Oppi, quello stesso che si è fatto garante della proposta di Nuovo Statuto speciale. Lì c'è scritto, nel suo preambolo, che “la Sardegna è una Nazione con proprio territorio, propria storia, propria lingua, proprie tradizioni, propria cultura, propria identità ed aspirazioni distinte da quelle della Nazione italiana”. Concetti analoghi sono nel programma di governo che Oppi ha sottoscritto per entrare e uscire in attesa di rientrare nella Giunta Cappellacci. L'uomo è scaltro e riuscirà certamente a trovare il modo di essere contemporaneamente dirigente del Partito della Nazione (italiana, va da sé) e rappresentante della Nazione sarda. Si tratta pur sempre di cose non sostanziali, che non mettono in crisi l'ipertrofico bisogno di potere.
Ma gli altri? Quanti hanno firmato con convinzione quella proposta di Statuto, quanti hanno flirtato con il Partito sardo e la sua idea di indipendenza nazionale della Sardegna, quanti sono convinti che la nazione sarda è cosa diversa, né conflittuale né opposta, ma diversa sì, dalla nazione italiana? Lo so, lo so, che queste cose sono nominalismi e che quel che conta è la sostanza, indovinate quale. Lo sarà per tutti, questione di sostanza? E comunque, viva Comesichiama Casini che finalmente offre agli elettori una chiara possibilità di scegliere fuori degli infingimenti. Questi partiti nazionali che amoreggiano con i sardismi variamente coniugati sono avvertiti, è nato il luogo geometrico in cui si potrà finalmente gridare: uno stato, un popolo, una lingua, una nazione. Ebbene sì, io sono un reazionario.
Intendiamoci di partiti, segmenti di partiti, club, opinion maker nazionalstatalisti ce ne sono a iosa in Italia, ma lo sono nel volto non nella maschera. Per lo più rispettabili e lontani dallo chauvinismo di quel giornalista che ho sentito dire queste parole: chi sa se la terra d'Africa si sentirà emozionata nell'essere calpestata dagli italiani campioni del mondo? Un'offerta però che, pur mettendo da parte la volgarità di quanti si vorrebbero monsieur Nicolas Chauvin, non soddisfa alla domanda di franco e tondo nazionalismo. Quello, per intenderci, che pensa al separatismo quando sente parlare di federalismo, anche se modesto e gattopardesco come quello della legge in vigore.
Ecco quindi l'idea dell'Udc, ottocentesca con richiami nel secondo ventennioi del Novecento, ma riconfezionata a nuovo. Intendiamoci, la semplificazione e l'onestà nel dichiarare la propria identità è sempre una cosa buona: “Ebbene sì, io sono un reazionario” diceva il protagonista di un bellissimo disegno di Georges Grosz. L'offerta c'è: bisogna ora vedere se la domanda premierà l'idea di Comesichiama Casini.
In Sardegna, per esempio, dove il nascente Partito della Nazione ha già scelto e imposto i propri rappresentanti. Uno di essi è il segretario dell'Udc Giorgio Oppi, quello stesso che si è fatto garante della proposta di Nuovo Statuto speciale. Lì c'è scritto, nel suo preambolo, che “la Sardegna è una Nazione con proprio territorio, propria storia, propria lingua, proprie tradizioni, propria cultura, propria identità ed aspirazioni distinte da quelle della Nazione italiana”. Concetti analoghi sono nel programma di governo che Oppi ha sottoscritto per entrare e uscire in attesa di rientrare nella Giunta Cappellacci. L'uomo è scaltro e riuscirà certamente a trovare il modo di essere contemporaneamente dirigente del Partito della Nazione (italiana, va da sé) e rappresentante della Nazione sarda. Si tratta pur sempre di cose non sostanziali, che non mettono in crisi l'ipertrofico bisogno di potere.
Ma gli altri? Quanti hanno firmato con convinzione quella proposta di Statuto, quanti hanno flirtato con il Partito sardo e la sua idea di indipendenza nazionale della Sardegna, quanti sono convinti che la nazione sarda è cosa diversa, né conflittuale né opposta, ma diversa sì, dalla nazione italiana? Lo so, lo so, che queste cose sono nominalismi e che quel che conta è la sostanza, indovinate quale. Lo sarà per tutti, questione di sostanza? E comunque, viva Comesichiama Casini che finalmente offre agli elettori una chiara possibilità di scegliere fuori degli infingimenti. Questi partiti nazionali che amoreggiano con i sardismi variamente coniugati sono avvertiti, è nato il luogo geometrico in cui si potrà finalmente gridare: uno stato, un popolo, una lingua, una nazione. Ebbene sì, io sono un reazionario.
sabato 10 luglio 2010
Limba sarda: su Psd'az li sonat s'isvèllia a sa Regione
Sos sardistas si ponent sa berrita a tortu e pro su manìgiu de sa limba sarda presentant su contu a su Guvernu sardu chi meda at impromìtidu e tropu pagu at fatu. Tres sunt sas chistiones chi sos consigeris regionales de su Partidu sardu pesant in una interrogatzione a su presidente de sa Regione e a s'assessora de sa Cultura: su fatu chi nudda s'ischit de sa Cunferèntzia chi pro lege si depet fàghere cada annu pro sa limba e pro sa cultura; su fatu chi agabande chi est su Pranu triennale nudda s'ischit de su nou (su chi disinnat s'ispesa pro su 2011, 2012, 2013); su fatu chi s'Osservatòriu pro sa limba no est istadu reunidu mancu una bia.
E lis dimandant a Cappellacci e a Baire si in mesu de sos pessos chi est pretzisu de leare bi siat s'impinnu prioritàriu de atuare sa lege n. 26 pro sa limba e pro sa cultura. Un'àtera dimanda pertocat su pro ite sa Regione no at convogadu nen sas cunferèntzias a pitzos de sa limba nen s'Osservatòriu comente est in obrigu de lege. E, in fines, sos consigeris sardistas lis ammentant a presidente e assessora chi su programa de guvernu tenet s'identidade e sa limba de sos sardos comente puntos de importu mannu: si cheret o non si cheret impinnare sa Regione, e coitende puru, pro leare provvedimentos pretzisos?
Giai fiat ora chi sos consigeris sardistas s'esserent abigiados chi sa de sa limba est una chistione de importu e chi su chi, craru, tenent in su coro si depet bortare in initziativa polìtica. Che a meda àteros sardos, siat ite si siat sa simpatia polìtica insoro, mi so cuntentadu in custu blog puru pro sas paràulas de atentu naradas dae su presidente de sa Regione e dae sa presidente de su Parlamentu sardu. Gasi e totu comente nos fiamus cuntentados meda de su pessu leadu in su Pranu regionale de isvilupu de numenare sa limba comente motore de s'isvilupu econòmicu. Sunt colados meses e meses in su mudore de partidos, grupos parlamentares, consigeris. E beneitu li siat a su Partidu sardu de àere leadu sa paràula, at istentadu tropu, ma, a su nàrrere de su ditzu, mègius a tardu ma non mai. De àteru, no est chi siant a trumas sos àteros partidos e moimentos identitàrios (dae Irs a Uds, dae Sardigna natzione a Fortza paris) pesende sa chistione de sa limba.
Semus in tempos de carestia econòmica, l'ischimus totu, e finas in su domìniu de sa limba e de sa cultura cherent fatos issèberos. Cando b'at pagu dinare, in una amministratzione che in una domo, tocat de leare unu pessu: su cocone o s'aligusta? Chi s'identidade e sa limba siant e depant èssere su cocone non lu naro deo, l'ant naradu, in paràulas prus pagu terra terra, sos presidentes de sa Regione e de su Parlamentu sardu. E tando s'isseberet su cocone. Non b'at 80.000 èuros pro sa Fundatzione Siotto-Pintor chi cheret ammentare sos 150 annos de s'Italia in un'addòviu cun ùndighi relatores istràngios? Passèntzia. In tempos gasi, non si podent pònnere a banda sos restàuros chi non sunt pretzisos e pònnere dinare pro agiuare sa limba a si la campare? E non si podet fàghere su matessi cun sas 378 sagras biddaresas? E cun unos festival chi pintant sa linna pro la batire a Sardigna? Si s'identidade est su chivu de su programma de guvernu, sos abentos de chi de s'identidade si nd'afutit non podent isetare tempos mègius?
Craru, bi cheret unu disinnu coerente, chi poderet sa tentatzione de cumbidare s'aligusta pro èssere à la page. E, comente at propostu su Comitadu pro sa limba sarda, custu disinnu si podet fàghere petzi si totu sas chistiones de s'identidade e de sa limba sunt guvernadas, comente depet èssere, dae sa Presidèntzia de sa Regione. E non dae un'assessore chi, in prus, non mi paret siat a grabu de isseberare si est prus de importu a sarvare sa limba o a pònnere fatu a sas pedidorias de sos restauradores e de sas pro loco in deficit de imbentivas.[zfp]
E lis dimandant a Cappellacci e a Baire si in mesu de sos pessos chi est pretzisu de leare bi siat s'impinnu prioritàriu de atuare sa lege n. 26 pro sa limba e pro sa cultura. Un'àtera dimanda pertocat su pro ite sa Regione no at convogadu nen sas cunferèntzias a pitzos de sa limba nen s'Osservatòriu comente est in obrigu de lege. E, in fines, sos consigeris sardistas lis ammentant a presidente e assessora chi su programa de guvernu tenet s'identidade e sa limba de sos sardos comente puntos de importu mannu: si cheret o non si cheret impinnare sa Regione, e coitende puru, pro leare provvedimentos pretzisos?
Giai fiat ora chi sos consigeris sardistas s'esserent abigiados chi sa de sa limba est una chistione de importu e chi su chi, craru, tenent in su coro si depet bortare in initziativa polìtica. Che a meda àteros sardos, siat ite si siat sa simpatia polìtica insoro, mi so cuntentadu in custu blog puru pro sas paràulas de atentu naradas dae su presidente de sa Regione e dae sa presidente de su Parlamentu sardu. Gasi e totu comente nos fiamus cuntentados meda de su pessu leadu in su Pranu regionale de isvilupu de numenare sa limba comente motore de s'isvilupu econòmicu. Sunt colados meses e meses in su mudore de partidos, grupos parlamentares, consigeris. E beneitu li siat a su Partidu sardu de àere leadu sa paràula, at istentadu tropu, ma, a su nàrrere de su ditzu, mègius a tardu ma non mai. De àteru, no est chi siant a trumas sos àteros partidos e moimentos identitàrios (dae Irs a Uds, dae Sardigna natzione a Fortza paris) pesende sa chistione de sa limba.
Semus in tempos de carestia econòmica, l'ischimus totu, e finas in su domìniu de sa limba e de sa cultura cherent fatos issèberos. Cando b'at pagu dinare, in una amministratzione che in una domo, tocat de leare unu pessu: su cocone o s'aligusta? Chi s'identidade e sa limba siant e depant èssere su cocone non lu naro deo, l'ant naradu, in paràulas prus pagu terra terra, sos presidentes de sa Regione e de su Parlamentu sardu. E tando s'isseberet su cocone. Non b'at 80.000 èuros pro sa Fundatzione Siotto-Pintor chi cheret ammentare sos 150 annos de s'Italia in un'addòviu cun ùndighi relatores istràngios? Passèntzia. In tempos gasi, non si podent pònnere a banda sos restàuros chi non sunt pretzisos e pònnere dinare pro agiuare sa limba a si la campare? E non si podet fàghere su matessi cun sas 378 sagras biddaresas? E cun unos festival chi pintant sa linna pro la batire a Sardigna? Si s'identidade est su chivu de su programma de guvernu, sos abentos de chi de s'identidade si nd'afutit non podent isetare tempos mègius?
Craru, bi cheret unu disinnu coerente, chi poderet sa tentatzione de cumbidare s'aligusta pro èssere à la page. E, comente at propostu su Comitadu pro sa limba sarda, custu disinnu si podet fàghere petzi si totu sas chistiones de s'identidade e de sa limba sunt guvernadas, comente depet èssere, dae sa Presidèntzia de sa Regione. E non dae un'assessore chi, in prus, non mi paret siat a grabu de isseberare si est prus de importu a sarvare sa limba o a pònnere fatu a sas pedidorias de sos restauradores e de sas pro loco in deficit de imbentivas.[zfp]
venerdì 9 luglio 2010
Ardia-guardia a chi?
di Efisio Loi
Sul fatto che ‘ardia derivi da bardiare, nel senso di sorvegliare, far la guardia, pare ci sia un accordo di fondo. Cosa c’entri Santu Antine con questo “servizio di guardia” risulta meno facile da giustificare e rende i pareri più controversi.
Intanto, se al servizio di sorveglianza si aggiunga l’aggettivo, militare – in modo che diventi guardia o presidio militare – , il nome di Costantino, vincitore di Massenzio, prende maggiore consistenza esplicativa e il suo “In hoc signo vinces” assume un preciso significato nel contesto.
Che i meriti dell’imperatore dell’edito del 313 siano notevolissimi agli occhi della Chiesa è un altro fatto su cui regna pieno accordo. Due, però, sono le cose che mal si accordano con Costantino Prima Bandela, bandiera primigenia, dell’Ardia.
In primo luogo non è un santo universalmente riconosciuto come tale – forse lo è solo da noi in Sardegna – eppure il parroco di Sedilo, e quindi la Chiesa, ha un ruolo determinante nel selvaggio e avvincente rodeo: è lui che sceglie e nomina ogni anno, sa prima bandela, con un rituale meticoloso nella sua sacralità, scandita da momenti preparatori in importanti festività religiose.
In secondo luogo, i fatti di Ponte Milvio, avranno avuto grande risonanza entro i confini dell’impero, ma che ne abbiano avuto altrettanta, in una terra ai confini con la Barbagia dove fino ai tempi di Gregorio Magno si continuavano ad adorare ligna et lapides, può lasciare qualche dubbio.
Si potrebbe scorgere nell’Ardia sotto l’egida di San Costantino, un tentativo di sostituzione, riuscito solo in parte – un santo non santo –, di una divinità pagana con un santo cristiano, fenomeno diffusissimo e ben documentato. Se è spiegabile il buon viso a cattiva sorte della Chiesa che, non solo accetta una figura fuori dai canoni, (vuoi mettere un San Giorgio vincitore del Drago, o lo stesso San Paolo, per di più munito di spada?) ma addirittura sia costretta ad una campagna promozionale nei confronti di un succedaneo, magari del tutto sconosciuto, solo perché lo spirito guerriero di quelle popolazioni altro non avrebbe accettato che non fosse un condottiero vincitore, – se tutto ciò è spiegabile – rimane tutto da spiegare il significato dell’Ardia in sé.
A cosa si faceva la “guardia”, ben prima di Costantino, al di qua del corso del Tirso, linea di demarcazione fra le fertili colline dell’alto Oristanese e le prime aspre giogaie del Gennargentu e le Barbagie?
Se scendiamo appena più a sud, non molto lontano abbiamo Fordongianus, Forum Traiani, presidio militare strategicamente identico, mantenuto dal periodo imperiale fino a tutta la dominazione bizantina. Le sue truppe, suddivise in due corpi distinti, i limitanei e i comitatenses, assolvevano al compito di “guardia” del limes. I primi, con radicamento nel territorio, facilitato dalla concessione di terre ai militari, combattevano per Cesare ma anche per la propria famiglia e i propri beni, mentre i comitatenses erano una sorta di unità mobili, di pronto intervento nei punti in cui il confine, sa lacana, fosse stato violato.
Procedendo in direzione sud-sud-est, non lontano si trova Escolca, sotto la giara di Serri, a poca distanza dalla ferita profonda del Flumendosa che separa il Sarcidano dalla Barbagia di Seulo. Escolca è un termine bizantino che significa ancora “guardia”, presidio, luogo di osservazione.
Tutto quindi riconducibile alla classicità antica e alla più tarda età di Bisanzio in cui si illanguidiva il millenario potere di Roma? Sembrerebbe di sì, ma su quella stessa linea che fronteggia la Montagna, il Gennargentu, si attesta una serie di nuraghi polilobati, a “profilo curvo-rettilineo” che vanno dall’Arrubiu di Orroli al Noltza di Meana, passando per il nuraghe Adoni di Villanovatulo, su Idili di Isili, Genna ‘e Corte di Laconi.
Al di qua di questa linea, verso i Campidani, è tutto un fiorire di nuraghi polilobati, complessi, ricchi possiamo dire; al di là, solo pochi nuraghi, per lo più monotorre. Segno, questo, di ieratica austerità o di più prosaica povertà? Ma non finisce qui! Lungo la stessa direttrice segnata dai due maggiori fiumi sardi, il Tirso e il Flumendosa, partendo questa volta da latitudini più meridionali, c’è l’allineamento portentoso di Menhir e Statue Menhir che vanno da Goni fin oltre l’Alto Oristanese, passando per il Sarcidano, il Mandrilisai, il Barigadu. Anche questi segni di confine? Lacanas da difendere? Due mondi a contrasto? Due Sardegne diverse, fin dai lontani tempi del Neolitico?
Sul fatto che ‘ardia derivi da bardiare, nel senso di sorvegliare, far la guardia, pare ci sia un accordo di fondo. Cosa c’entri Santu Antine con questo “servizio di guardia” risulta meno facile da giustificare e rende i pareri più controversi.
Intanto, se al servizio di sorveglianza si aggiunga l’aggettivo, militare – in modo che diventi guardia o presidio militare – , il nome di Costantino, vincitore di Massenzio, prende maggiore consistenza esplicativa e il suo “In hoc signo vinces” assume un preciso significato nel contesto.
Che i meriti dell’imperatore dell’edito del 313 siano notevolissimi agli occhi della Chiesa è un altro fatto su cui regna pieno accordo. Due, però, sono le cose che mal si accordano con Costantino Prima Bandela, bandiera primigenia, dell’Ardia.
In primo luogo non è un santo universalmente riconosciuto come tale – forse lo è solo da noi in Sardegna – eppure il parroco di Sedilo, e quindi la Chiesa, ha un ruolo determinante nel selvaggio e avvincente rodeo: è lui che sceglie e nomina ogni anno, sa prima bandela, con un rituale meticoloso nella sua sacralità, scandita da momenti preparatori in importanti festività religiose.
In secondo luogo, i fatti di Ponte Milvio, avranno avuto grande risonanza entro i confini dell’impero, ma che ne abbiano avuto altrettanta, in una terra ai confini con la Barbagia dove fino ai tempi di Gregorio Magno si continuavano ad adorare ligna et lapides, può lasciare qualche dubbio.
Si potrebbe scorgere nell’Ardia sotto l’egida di San Costantino, un tentativo di sostituzione, riuscito solo in parte – un santo non santo –, di una divinità pagana con un santo cristiano, fenomeno diffusissimo e ben documentato. Se è spiegabile il buon viso a cattiva sorte della Chiesa che, non solo accetta una figura fuori dai canoni, (vuoi mettere un San Giorgio vincitore del Drago, o lo stesso San Paolo, per di più munito di spada?) ma addirittura sia costretta ad una campagna promozionale nei confronti di un succedaneo, magari del tutto sconosciuto, solo perché lo spirito guerriero di quelle popolazioni altro non avrebbe accettato che non fosse un condottiero vincitore, – se tutto ciò è spiegabile – rimane tutto da spiegare il significato dell’Ardia in sé.
A cosa si faceva la “guardia”, ben prima di Costantino, al di qua del corso del Tirso, linea di demarcazione fra le fertili colline dell’alto Oristanese e le prime aspre giogaie del Gennargentu e le Barbagie?
Se scendiamo appena più a sud, non molto lontano abbiamo Fordongianus, Forum Traiani, presidio militare strategicamente identico, mantenuto dal periodo imperiale fino a tutta la dominazione bizantina. Le sue truppe, suddivise in due corpi distinti, i limitanei e i comitatenses, assolvevano al compito di “guardia” del limes. I primi, con radicamento nel territorio, facilitato dalla concessione di terre ai militari, combattevano per Cesare ma anche per la propria famiglia e i propri beni, mentre i comitatenses erano una sorta di unità mobili, di pronto intervento nei punti in cui il confine, sa lacana, fosse stato violato.
Procedendo in direzione sud-sud-est, non lontano si trova Escolca, sotto la giara di Serri, a poca distanza dalla ferita profonda del Flumendosa che separa il Sarcidano dalla Barbagia di Seulo. Escolca è un termine bizantino che significa ancora “guardia”, presidio, luogo di osservazione.
Tutto quindi riconducibile alla classicità antica e alla più tarda età di Bisanzio in cui si illanguidiva il millenario potere di Roma? Sembrerebbe di sì, ma su quella stessa linea che fronteggia la Montagna, il Gennargentu, si attesta una serie di nuraghi polilobati, a “profilo curvo-rettilineo” che vanno dall’Arrubiu di Orroli al Noltza di Meana, passando per il nuraghe Adoni di Villanovatulo, su Idili di Isili, Genna ‘e Corte di Laconi.
Al di qua di questa linea, verso i Campidani, è tutto un fiorire di nuraghi polilobati, complessi, ricchi possiamo dire; al di là, solo pochi nuraghi, per lo più monotorre. Segno, questo, di ieratica austerità o di più prosaica povertà? Ma non finisce qui! Lungo la stessa direttrice segnata dai due maggiori fiumi sardi, il Tirso e il Flumendosa, partendo questa volta da latitudini più meridionali, c’è l’allineamento portentoso di Menhir e Statue Menhir che vanno da Goni fin oltre l’Alto Oristanese, passando per il Sarcidano, il Mandrilisai, il Barigadu. Anche questi segni di confine? Lacanas da difendere? Due mondi a contrasto? Due Sardegne diverse, fin dai lontani tempi del Neolitico?
Buono sciopero colleghi, ma io non ci sto
Il mio cuore di casta è con i miei colleghi che scioperano contro “la legge bavaglio”. La casta è casta ed è tenuta a difendere tutto, anche il vezzo di raccogliere in procure poco attente fascicoli di intercettazioni e pubblicare scopate vere e presunte per la gioia dei voyeurs che poco si curano del fatto che il “non fornicare” è un comandamento, non un articolo di legge. Sono d'accordo con i miei colleghi che ostacolare la pubblicazione di quanto sanno non è di uno stato democratico; non sono d'accordo con il fatto che, nel nome della libertà di stampa, si distruggano carriere, reputazioni, vite.
Passi per quelle dei politici, anche se provo una certa ripugnanza nel considerarli, alla Lombroso, una specie antropologicamente delinquente, soprattutto quando la cronaca ci racconta di un clima di corruzione diffusa, nel quale ci sta di tutto, dai lavoratori di un cimitero che spogliano i cadaveri a magistrati collusi, da professionisti che truccano gli appalti alla cosiddetta gente comune che profitta dei disastri naturali per comprarsi la mobilia nuova a spese dell'erario. Ma sono abbastanza su con gli anni per arrossire pensando a che cosa miei colleghi hanno fatto delle vite di gente famosa come Enzo Tortora ed Elio Luttazzi, di persone come Pietro Valpreda fatte diventare famose loro malgrado, di altre persone finite in un tritacarne mediatico e di cui ormai solo loro ricordano personali drammi e tragedie.
Il nostro codice deontologico, il mea culpa recitato ogni volta che la caccia al mostro si è rivelata una bufala mediatica non hanno fatto cambiare costume e malcostume che anzi si sono trasformati in patologia con l'abitudine di far arrivare sulle scrivanie dei giornalisti interi fascicoli di intercettazioni. Fascicoli che hanno preso il posto dei mattinali delle questure e delle veline passate a giornalisti privi del filtro necessario a considerare che un “blitz durato una settimana” è un non senso, che un “agguato micidiale” non può finire con “per fortuna un solo ferito”, che una pistola e un coltello non è “un vero e proprio arsenale” e così via drammatizzando alla ricerca del titolo forte.
Il mercato sta provvedendo a dare il senso della disaffezione verso la stampa scritta, i cui lettori, salvo uno o due quotidiani, diminuiscono. In uno Stato serio, sarebbe bastato lasciar lavorare il mercato, senza interventi legislativi che inevitabilmente impattano con lo spirito di casta che, altrettanto inevitabilmente, insorge a difesa di propri interessi.
Sarebbe bastato imporre alla magistratura di distruggere le parti delle intercettazioni che non riguardano direttamente le indagini e sarebbe bastato controllare con serietà e responsabilità che i fascicoli restino la dove si devono trovare, o, anche, che fossero i magistrati a rendere disponibili solo le parti delle intercettazioni che avessero congruità. È invece uscita una proposta di legge di cui si può dire che rappresenta un eccesso di legittima difesa della privatezza e della dignità delle persone. Anche lo sciopero dei miei colleghi servirà forse a limare spigolosità e criticità della legge e in questo è giusto. Ma è vero anche il contrario: non ci sarebbe stato bisogno di una legge con aspetti spigolosi e di criticità se si fosse considerato un semplice principio: tutte le libertà, compresa quella di stampa, hanno un limite nella libertà degli altri. E con la pubblicazione di vagonate di intercettazioni è stata violata troppo spesso la libertà di gente penalmente innocente e al massimo colpevole di turpiloquio, di imbecillità, di megalomanie sessuali e di altre cazzate che ci stanno, in una società diversa da quello Stato etico vagheggiato da chi è ben lieto di mettersi alla testa della protesta dei giornalisti.
È per questo che capisco chi sciopera, ma non riesco ad essere in mezzo a loro.
Passi per quelle dei politici, anche se provo una certa ripugnanza nel considerarli, alla Lombroso, una specie antropologicamente delinquente, soprattutto quando la cronaca ci racconta di un clima di corruzione diffusa, nel quale ci sta di tutto, dai lavoratori di un cimitero che spogliano i cadaveri a magistrati collusi, da professionisti che truccano gli appalti alla cosiddetta gente comune che profitta dei disastri naturali per comprarsi la mobilia nuova a spese dell'erario. Ma sono abbastanza su con gli anni per arrossire pensando a che cosa miei colleghi hanno fatto delle vite di gente famosa come Enzo Tortora ed Elio Luttazzi, di persone come Pietro Valpreda fatte diventare famose loro malgrado, di altre persone finite in un tritacarne mediatico e di cui ormai solo loro ricordano personali drammi e tragedie.
Il nostro codice deontologico, il mea culpa recitato ogni volta che la caccia al mostro si è rivelata una bufala mediatica non hanno fatto cambiare costume e malcostume che anzi si sono trasformati in patologia con l'abitudine di far arrivare sulle scrivanie dei giornalisti interi fascicoli di intercettazioni. Fascicoli che hanno preso il posto dei mattinali delle questure e delle veline passate a giornalisti privi del filtro necessario a considerare che un “blitz durato una settimana” è un non senso, che un “agguato micidiale” non può finire con “per fortuna un solo ferito”, che una pistola e un coltello non è “un vero e proprio arsenale” e così via drammatizzando alla ricerca del titolo forte.
Il mercato sta provvedendo a dare il senso della disaffezione verso la stampa scritta, i cui lettori, salvo uno o due quotidiani, diminuiscono. In uno Stato serio, sarebbe bastato lasciar lavorare il mercato, senza interventi legislativi che inevitabilmente impattano con lo spirito di casta che, altrettanto inevitabilmente, insorge a difesa di propri interessi.
Sarebbe bastato imporre alla magistratura di distruggere le parti delle intercettazioni che non riguardano direttamente le indagini e sarebbe bastato controllare con serietà e responsabilità che i fascicoli restino la dove si devono trovare, o, anche, che fossero i magistrati a rendere disponibili solo le parti delle intercettazioni che avessero congruità. È invece uscita una proposta di legge di cui si può dire che rappresenta un eccesso di legittima difesa della privatezza e della dignità delle persone. Anche lo sciopero dei miei colleghi servirà forse a limare spigolosità e criticità della legge e in questo è giusto. Ma è vero anche il contrario: non ci sarebbe stato bisogno di una legge con aspetti spigolosi e di criticità se si fosse considerato un semplice principio: tutte le libertà, compresa quella di stampa, hanno un limite nella libertà degli altri. E con la pubblicazione di vagonate di intercettazioni è stata violata troppo spesso la libertà di gente penalmente innocente e al massimo colpevole di turpiloquio, di imbecillità, di megalomanie sessuali e di altre cazzate che ci stanno, in una società diversa da quello Stato etico vagheggiato da chi è ben lieto di mettersi alla testa della protesta dei giornalisti.
È per questo che capisco chi sciopera, ma non riesco ad essere in mezzo a loro.
giovedì 8 luglio 2010
Sensazionale: un tre romano sul nuraghetto di Dorgali
di Stella del mattino e della sera
Museo di Dorgali, mercoledi 7 luglio, un pomeriggio caldissimo. L'informazione mi ha raggiunto mentre mi trovavo all'affollato lido di Orrí, sognando una solitaria spiaggia tropicale. Niente da fare, mi ha detto il capo, fino ad agosto non parti se prima non mi porti qualcosa di grosso. “Museo di Dorgali, vetrina 17”, cosí diceva il messaggio, anonimo, sul telefonino. Lo vedo ora, altro che grosso, è minuscolo, alto due centimetri e mezzo, ma immenso nella sua verde traslucida bellezza: un nuraghetto con il tappo.
”Modellino di nuraghe in pasta vitrea proveniente dall’insediamento in grotta del Flumineddu”, il rio che percorre il fondo di Gorropu. Nessuno ne sa di piú, solo io: sul nuraghetto tre linee parallele incise, tre segni che formano, inequivocabilmente, il numero romano 3. Solo quei tre segni, non c´è altro. Ma io so, so che c´è molto altro: c´è il brassard di is Locci santus con X II V, c´è la mia freccia levantina con X III II, c´è la stele di Pozzomaggiore con il IIII, c´è il documento di Serabit-el-Khadim con il IIII. Documenti splendidi, i piú belli del Mediterraneo, che finalmente ci confermano ciò che abbiamo sempre, in cuor nostro, saputo: la civiltà romana è nata ben prima di quanto ritenessimo fino ad ora e la nostra isola reca le indelebili e documentate tracce di una occupazione nell'etá del bronzo finale, un'occupazione finora ritenuta impossibile ed impensabile. Le tracce indelebili sono i documenti epigrafici, gli unici che fanno davvero la storia. Se non vi piace la mia riproduzione o trovate sfocata da foto, andate di persona al museo di Dorgali: ne vale assolutamente la pena. C'è una guida simpatica e colta a farvelo gustare tutto.
Signor Gigi Sanna, so bene cosa vorrebbe dirmi: sul cocuzzolo di quel nuraghetto si distingue un globo solare (NUR). Un globo che sembra adagiarsi tra le corna di un toro (´AK). Le tre lineette sono il determinativo H. Quindi NURAK-LUI. Mi pare di sentirla: “Il tre del determinativo rivela l'aspetto fonetico monumentale del nuraghe”. Tutte chiacchiere, ma tanto non le sentiró: il proto-romanaico è ormai una realtà. Questo è l´ultimo documento che vi presento, ho giá un piede sull´aereo.
Nella foto: il nuraghetto, come compare nella Libreria digitale della Sardegna nel volumetto di Daniela Pulacchini dedicato al Museo di Dorgali
Museo di Dorgali, mercoledi 7 luglio, un pomeriggio caldissimo. L'informazione mi ha raggiunto mentre mi trovavo all'affollato lido di Orrí, sognando una solitaria spiaggia tropicale. Niente da fare, mi ha detto il capo, fino ad agosto non parti se prima non mi porti qualcosa di grosso. “Museo di Dorgali, vetrina 17”, cosí diceva il messaggio, anonimo, sul telefonino. Lo vedo ora, altro che grosso, è minuscolo, alto due centimetri e mezzo, ma immenso nella sua verde traslucida bellezza: un nuraghetto con il tappo.
”Modellino di nuraghe in pasta vitrea proveniente dall’insediamento in grotta del Flumineddu”, il rio che percorre il fondo di Gorropu. Nessuno ne sa di piú, solo io: sul nuraghetto tre linee parallele incise, tre segni che formano, inequivocabilmente, il numero romano 3. Solo quei tre segni, non c´è altro. Ma io so, so che c´è molto altro: c´è il brassard di is Locci santus con X II V, c´è la mia freccia levantina con X III II, c´è la stele di Pozzomaggiore con il IIII, c´è il documento di Serabit-el-Khadim con il IIII. Documenti splendidi, i piú belli del Mediterraneo, che finalmente ci confermano ciò che abbiamo sempre, in cuor nostro, saputo: la civiltà romana è nata ben prima di quanto ritenessimo fino ad ora e la nostra isola reca le indelebili e documentate tracce di una occupazione nell'etá del bronzo finale, un'occupazione finora ritenuta impossibile ed impensabile. Le tracce indelebili sono i documenti epigrafici, gli unici che fanno davvero la storia. Se non vi piace la mia riproduzione o trovate sfocata da foto, andate di persona al museo di Dorgali: ne vale assolutamente la pena. C'è una guida simpatica e colta a farvelo gustare tutto.
Signor Gigi Sanna, so bene cosa vorrebbe dirmi: sul cocuzzolo di quel nuraghetto si distingue un globo solare (NUR). Un globo che sembra adagiarsi tra le corna di un toro (´AK). Le tre lineette sono il determinativo H. Quindi NURAK-LUI. Mi pare di sentirla: “Il tre del determinativo rivela l'aspetto fonetico monumentale del nuraghe”. Tutte chiacchiere, ma tanto non le sentiró: il proto-romanaico è ormai una realtà. Questo è l´ultimo documento che vi presento, ho giá un piede sull´aereo.
Nella foto: il nuraghetto, come compare nella Libreria digitale della Sardegna nel volumetto di Daniela Pulacchini dedicato al Museo di Dorgali
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