Entriamo subito nel vivo, col dire che il bucranio simboleggia la capacità inseminatrice dell’uomo. In effetti, il bucranio, nel suo significato apparente è la rappresentazione della testa del bue con i suoi principali attributi, ovvero del toro. Ma, il toro è animale riproduttivo per eccellenza, al quale si ricorre per la fondamentale, quotidiana necessità del latte per l’alimentazione. Anche la testa dell’ariete ricorre, in quel novero di espedienti simbolici, con la stessa frequenza, perché anch’esso è mezzo indispensabile per la quotidiana razione di latte per l’alimentazione. Pertanto, senza l’assolutamente necessario contributo di questi due preziosi animali, tutte le umanità di tutte le epoche, forse, non sarebbero sopravvissute o almeno, non interamente. La stessa umanità dei nostri giorni non ne può fare a meno.
La dea di Mas Caplier La dea di Sardara |
Quindi l’ariete ed il toro rappresentano, soprattutto, forza soprannaturale di generazione e alimentazione; soltanto poi e per gli effetti indispensabili di quella alimentazione “divina”, essi risultano essere patrocinatori della vita. Ma, uno degli attributi principali della Dea e della donna (forse fin dagli inizi del Paleolitico superiore) non è proprio quello di madre nutrice, rappresentata con i seni traboccanti del prezioso nutrimento?. E, quale migliore patronato può essere ad esse accostato, se non il potentissimo toro (od ariete), per esaltare in massimo grado quella loro funzione? Pur tuttavia, il bucranio, cioè la testa del toro, è proprio il simbolo che rappresenta la funzione fecondatrice dell’uomo, certo idealmente esaltata dall’accostamento con la bestia.
Tale segno, è l’accorgimento artistico che ricorda l’unione della donna (sovente idealizzata come Dea) con il suo sodale uomo, che dà la spinta alla formidabile sequenza dei fenomeni naturali che portano alla creazione di una umana comunità: deposizione del seme nell’utero, gestazione, parto, allattamento, crescita. L’artista che si esibì in corrispondenza del pozzo e della tomba, prese a prestito il profondo significato del simbolo bucranio, quello potentemente generativo, per mettere in evidenza la necessaria comunione fra l’uomo e l’utero-pozzo o l’utero-tomba. E non aveva più chiaro modo per farlo: nella gloriosa esaltazione della proprietà generatrice della Dea, ma anche della donna, l’unico simbolo, all’altezza del compito, era quello che rappresentava la macchina inseminatrice per eccellenza, il toro (o l’ariete). In alcuni casi la scelta cadeva sull’ariete, ma più comunemente sul toro, forse per un suo più antico addomesticamento. Aggiungiamo che può sembrare naturale credere ad uno strettissimo legame segnico fra bucranio e utero, mentre, ad un più attento esame, la “identificazione” simbologica (messa a punto nel passato) fra i due elementi figurativi, ci lascia certo insoddisfatti. Siamo però consapevoli (come espresso altrove) che una ardita rappresentazione del segno bucranio, come talvolta si legge sull’oggetto definito “menhir”, racchiuda in sé l’utero della dea-donna, con la vita che dal suo interno si fa strada verso la luce, oltrepassando l’apertura della vulva.
Nell’arco dei millenni, la raffigurazione del bucranio, ha preso la mano degli artisti e quelli antico neolitici lo hanno fatto nascere in contesti nei quali quella tradita grafia si integrava alla perfezione. Esempio caratteristico, di tale impegno trascendente è, come detto, l’interno di tombe e pozzi, in cui quei simboli avevano il compito sovrannaturale di favorire la rigenerazione nell’umidità del limo e nella intimità dell’acqua. Ma, i segni generativi, entrarono a far parte delle compiute espressioni degli artisti del sacro, nel momento in cui essi sentirono l’esigenza di esprimere la loro rappresentando la stessa Dea che sovrintendeva alla generazione dell’essere e alla rinascita della natura. Riguardo al primo dei raffronti che ci sentiamo di intessere, proponiamo le due figure che appaiono, secondo l’ottica messa a punto testé, straordinariamente identiche.
La prima, è un menhir del III millennio a.C. (Mas Caplier, al sud della Francia) che rappresenta una deità femminile mentre abbraccia un bucranio. La seconda, è un frammento di vaso piriforme con rappresentazione schematica di figura umana, la quale per alcuni regge un bastone forcuto, secondo altri stringe fra le braccia un oggetto terminante a forcella (Sardara, Sardegna centro meridionale), che rappresenta ancora una dea che abbraccia un bucranio. La percezione del bucranio è infatti evidente, una volta entrati nel preciso contesto simbolico, anche nella seconda figura (nota finora come il frammento di Sardara), nella quale si ammira la dea che abbraccia null’altro se non un bucranio. Si badi anzi, come lo stesso elemento figurativo, il bucranio, sia inserito per ben due volte in questa partitura grafica, la seconda (se pur capovolto) anche alla base (così come ci viene restituita dal frammento) della rappresentazione della dea. Vediamo pertanto, come in quella che definiremo d’ora in avanti la “dea di Sardara”, vi è anche una stupefacente applicazione di quell’effetto del doppio (due linee, due triangoli, due losanghe, ecc.) tendente, nelle manifestazioni artistico-religiose del Neolitico antico, ad amplificare il significato racchiuso in tutto il portato del segno singolo. La dea di Sardara deve intendersi come la narrazione più estensiva del divino che genera la vita, non solo per le manifestazioni simboliche amplificate (ve ne sono altre ancora da interpretare) con cui l’artista e le rigide regole cultuali attinenti alla antichissima tradizione, hanno imposto alla materia, ma soprattutto perché la dea di Sardara, al contrario della dea di Mas Caplier, soggiorna in un pozzo, che solo in virtù della sua presenza ascende al sacro. Il pozzo, con il suo elemento liquido è (forse più che la tomba sotterranea) l’esaltante simbolo della nuova vita che si genera nell’umido del ventre divino e materno. La stupefacente tessitura simbolica su cui insiste la dea di Sardara, si arguisce essere sì complessa che, noi, superficiali viventi il III millennio d.C., riusciamo solo lontanissimamente a penetrarne significato e nobiltà liturgica. Si guardino ad esempio, i quattro cerchi concentrici con punto centrale, posti esattamente al di sopra del bucranio rovesciato, appoggiato al divino ventre. Ebbene, pur nel molteplice significato che assumono, nelle circostanze più varie, i cerchi concentrici di matrice antico-neolitica, ci pare coercitivo avocarne due per il simbolo sul bucranio capovolto della dea di Sardara: energia vitale divina, che si manifesta, luna dopo luna, con l’ingrossamento del ventre della madre-dea. La stessa, identica impressione, materiale e spirituale a un tempo, troviamo a Çatalhöyük, il sito anatolico del Neolitico antico, che in un santuario datato a circa la metà del IX millennio da oggi, presenta un rilievo che venne definito dal Mellaart “la dea incinta”, il quale, pur esso, ci fornisce il racconto eterno e prepotente dell’appropinquarsi alla vita, del nascituro, attraverso il testo scritto nei quattro cerchi concentrici con punto centrale, che ci ammoniscono dal corpo della donna-dea.
Ma, la potenza espressiva della dea di Sardara, nella sua funzione di custode del germoglio di vita nel suo divino ventre, viene declinata manifestamente nella esternazione dei cicli lunari necessari alla gestazione e nascita della nuova vita. Infatti, sulla parte inferiore del primo bucranio abbracciato dalla dea, è ben visibile il racconto sui cicli lunari, in numero di dieci. Non soltanto questo, ci dona l’antica arte neolitica, ma relativamente alla stessa enunciazione dei cicli lunari, ci esalta con l’effetto del doppio: infatti, lungh’esso il lato adiacente a quello in cui sono sistemate le prime dieci tacche, ve ne sono altre dieci che fanno bella mostra di sé. La scoperta di questa seconda lista di cicli, dobbiamo alla osservazione dal vivo del reperto, infatti solo ora, chi guarda la solita riproduzione fotografica della dea di Sardara, riesce ad intuire la presenza della seconda lista di cicli, appena al di là della prima.
V’è alfine da aggiungere, come la pertinenza del frammento di Sardara all’Età del Ferro, a causa della presenza di “motivi geometrici” (sic!), ci lasci quanto mai dubbiosi circa il raggiungimento dell’obiettivo di una assegnazione temporale all’esercizio artistico e segnico. Per conto nostro, diciamo che la dea di Sardara, dopo aver varcato i confini di una esperienza umana lunga moltissimi millenni, ci proviene da ultimo, dal pozzo sacro di sant’Anastasia.
6 commenti:
Grazie, Micheli.
A leggere te mi pare di scorrere una poesia di uno di quei poeti (che poi sono i soli a meritarsi il nome) che sanno esprimere con chiarezza quanto tutti sentiamo dentro confusamente.
Contrariamente ad Aba, a me la faccia della dea di Sardara non pare mostruosa; se mi è possibile osare, direi che esprime gli stessi segreti non confessati della Gioconda di Leonardo. Basta vederne il sorriso.
A proposito delle tacche, ripetute, in numero di 10 per indicare i cicli lunari, hai notato gli altri numerosi cerchielli, ai polsi e altrove, che però sono sempre in numero di tre?
Certo che l'hai notato, naturalmente; volevo chiederti se hai supposto qualcosa in merito o è tutto ancora avvolto nella "complessità" che, come dici, non riusciamo a penetrare?
Insomma, hai capito che sono curioso e me ne frego della geometricità dei segni perché, qualunque segno tu tracci su qualsiasi supporto, è comunque geometrico. Anche le semplici barrette, anche i triangoli scaleni.
Mi rode ancora aver visto che nella dea francese, le tacche sono sempre e solo 4, 8 quando ripetute.
Mi pare difficile associarle alle lune di gestazione, diversamente avremmo fatto uno scoop: gli altichi celti nascevano tutti settimini.
La cosa è improbabile, ma darebbe conto della fisiologia cerebrale di taluni discendenti odierni, aderenti o sospesi dalla Lega Nord.
Non ho detto che è bello, ma che non mi pare mostruoso. A ben vedere, neppure la Gioconda ha un volto "bello", ma interessante sì.
Lo so che lo hai chiesto a Micheli, io le ho lette sulla sinistra, appena sopra quei due "occhi" da tre cerchielli che paiono gli occhi di una civetta, ma forse sono solamente la "messa a video" dell'ecografia alla pancia della dea di Sardara.
Nel neolitico latitava la tecnologia non la fantasia.
per Bellamente.
Per quanto concerne la definizione di dea di Mas Caplier, fu la Gimbutas, in illo tempore, a concepirla, proprio in virtù della presenza del bucranio.
Fra il serio e il faceto, dirò che relativamente alla dea di Sardara, io la vedo intrisa di una bellezza irraggiungibile (e ringrazio francu per essermi solidale). Forse perché me ne sono innamorato e l’amore è cieco? Non solo, ma anche perché, nel pur suo inestimabile valore, giace negletta e prigioniera in un museo. Non apprezzata. Sempre maltrattata. Anche da te, pur Bellamente, che oggi la hai definita dai lineamenti mostruosi. Una lacrima mi scende lungh’essa la non glabra guancia.
L’ipotesi androginica rigetto in modo rigoroso, stante la pluralità di esclusive femminili attribuzioni, non ultima la reiterazione delle dieci lune di gestazione.
Relativamente alla possibile doppia funzione espressiva del bucranio, ma soltanto in certi precisi ambiti (ed accetto come valido il tuo aggettivo, andando ben oltre, individuando una dinamica interpretazione della grafia, che vede l’iniziale indispensabilità del toro, seguita e cancellata poi (nel leggibile testo) dall’inarrestabile manifestazione della grandiosità della dea che fa nascere la vita e tutto ciò che segue), mi sono già espresso, per quel poco ch’è di mia conoscenza, anche in questo contesto.
Riguardo la duplicazione delle tacche, dovresti osservare una foto della dea di Sardara così come riprodotta per esempio su Ichnussa, mentre leggi la mia indicazione sul contributo.
Ciao, mikkelj.
per francu.
Il tuo accenno a Leonardo, nel suo concetto più intimo, è presente (pur se non indirizzato alla dea di Sardara, in linea diretta) nell'articolo, da cui ho estratto il presente contributo, che pubblicherò appena possibile sul mio piccolo sito.
I "cerchielli che sono sempre in numero di tre", non sono (ancora) riuscito a leggere, la qual cosa, certo difficilissima, sarebbe aiutata ove riuscissimo a dare una parvenza di "tutto tondo" cioè immaginare una rotondità della figurina basandoci sul contesto visibile.
Un saluto cordiale, mikkelj.
francu,
l’esaltazione della funzione di “prendere in se e portare a compimento la nuova vita” della dea di Sardara (e ti sono molto grato per aver accettato, tu per primo, questo appellativo), cioè il suo raddoppio grafico, è appena visibile (da qualsiasi fotografia disponibile) ed appena, appena anche sulla figura posta sul sito del nostro Ospite: ove immaginassimo la parte inferiore del bucranio abbracciato dalla dea, avente una sezione quadrangolare, allora la facciata adiacente a quella ove sono chiare le dieci tacche, (restituita fotograficamente due millimetri più in alto, lungo tutto il piano inclinato) porta anch’essa le altre dieci tacche, delle quali, solo le due centrali sono visibili anche sul sito di Gianfranco. mikkelj
Bellamente,
non so dove, l’archeologa lituana, parli di “androginia per la dea uccello”. Ma, ribadisco che, per mio conto, in questo contesto, non leggo tratti del sesso maschile nella rappresentazione della dea di Sardara.
Riguardo la caratteristica grafica del doppio (ciò che tu chiami “doppiezza”), sono intimamente convinto esso rappresenti la esaltazione del significato primo del segno singolo (il bucranio ovvero la capacità inseminatrice, le dieci tacche ovvero la raccolta del seme, che si finalizza nel portare a compimento la nuova vita). Ma, il segno del due, cioè il doppio segno, cioè le due linee, rendono pregni i ventri degli esseri su cui sono impresse: esso è pertanto la grafia essenziale per comunicare una gravidanza. E, la gravidanza, in senso lato, non è altro che il processo necessario alla creazione della comunità. E, tale processo reiterato, è necessario per rendere numerosa la stessa comunità. Quindi questa “doppiezza” nel caso della dea di Sardara, possiamo anche vedere come una invocazione alla dea, orientata ad ottenere la crescita numerica della comunità, finalizzata ad aumentarne, in prospettiva, la potenza. In ultima analisi, la “doppiezza”, cioè il segno del due, è esso stesso la sintesi della potenza creatrice della dea, di Sardara in questo caso. mikkelj.
Sono perfettamente d’accordo sul fatto che compenetrare i sentimenti, le tendenze, le manie, le esplosioni geniali, gli schemi mentali, le illusioni del pensiero paleolitico e neolitico dei nostri simili, risulti a noi praticamente impossibile. Le elucubrazioni di tutti, compresa la Gimbutas (ma del sottoscritto in particolare) si fondano soltanto sul parziale possesso di pochissimi dati, essendo esito di personali percorsi in cui l’intuizione è madrina del procedere.
D’altro canto, l’approccio del singolo è condizionato non tanto dalla sua formazione culturale di base, ma dall’obiettivo che sta perseguendo il suo momentaneo principale impegno di indagine, sulle cose del passato, non necessariamente legato al presente contesto. Pertanto, ciascheduno vorrà vedere confermate le tappe del suo procedere, portando dei risultati personali.
Ma, ben al di là del qualunquismo che può leggersi in queste parole, credo sia necessario che tutti diano il loro, certo sempre fondamentale ed onesto, contributo, gettando nella tenzone tutto il peso della personale esperienza.
Saltando a piè pari la prima parte del tuo scritto, carissima Bellamente, riguardo quanto indichi su “analogie e differenze” (nella figura di Sardara il segno a Y è similmente tenuto tra le due mani che si congiungono, ma è fuori dalla figura, non dentro come nell’ altra), osservo che a mio modo di vedere gli aspetti che tu richiami, sono posti esattamente al contrario. Infatti, mentre il bucranio abbracciato dalla dea di Sardara è totalmente inserito nel complesso raffigurativo tanto da sparire alla vista perché soverchiato dalla presenza delle mani, nel caso della dea di Mas Caplier, il bucranio è totalmente esterno alla figura nel suo insieme, tanto è vero che sembra appoggiato sopra, a posteriori (la qual cosa da un punto di vista pratico, sembra ovviamente impossibile), dallo scultore neolitico, quasi a voler manifestare la presenza di un pensiero che vola al di sopra del messaggio contenuto nella essenza stessa del menhir.
Riguardo l’appellativo “segno solare” che tu usi per i cerchi concentrici con punto centrale, come dicevo un attimo fa, questa definizione è la spia di una tua preparazione, che forse ha nulla a che fare con stimoli, credenze, immagini dell’area culturale (meglio sarebbe usare il plurale) che ha partorito quell’insieme figurativo che ho definito la dea di Sardara.
Anche il seguito del tuo dotto discettare, è figlio del tuo diversamente indirizzato, ma per altri versi molto encomiabile, impegno rivolto alla Sardegna, del quale sono il primo fra tutti ad apprezzare acume e profondità.
Riguardo, invece, la tua affermazione di sabato, in cui confessavi di non accettare una divinità solo femmina o solo maschio, ribadisco la “mia” certezza che nella figura che rappresenta la dea di Sardara non vedo tratti caratteriali maschili. Però, col senno del poi, essendomi venuto in mente l’aulete itifallico di Ittiri, riprodotto per lustri in modo da nasconderne i seni, mi sono anche ricordato del frammento di fiasco dal collo “senifallico” del Taramelli, anch’esso proveniente dal pozzo votivo di sant’Anastasia. Ebbene, vista con l’ausilio di questa clamorosa testimonianza, certo la tua affermazione non trovo affatto peregrina, per quel periodo culturale (non sappiamo quanto lungo e articolato) che si focalizzava anche sul pozzo sacro di Sardara, ferma però restando, la cristallina femminilità della dea di Sardara.
Ma, per quanto attiene alla ricerca sul percorso seguito dall’esperienza religiosa dell’Homo sapiens (come tratteggiato nella nota che apparirà sul sito), credo che la manifestazione che scopriamo sia sul bronzetto sia sul collo del fiasco, possa essere una recente impostazione di alcuni nostri antenati (perché non ho motivo contrario a credere vi fosse in tal epoca mancanza di libertà d’espressione), seguita - a far data dal neolitico antico, in cui l’antico predominio della donna (sapiens) venne messo in discussione – ad un predominio dell’uomo. E, certo questi sono miei personali pensieri.
Grazie, mikkelj.
sul mio piccolo sito è ora presente l'intera nota titolata:
la dea di Sardara, mikkelj.
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