di Francesco Casula
Fra l’Università di Sassari e la Regione è scoppiata la pace. Dopo mesi di acute polemiche, fra l’Assessore alla Pubblica Istruzione Milia e il rettore Mastino è stato raggiunto un accordo: l’Ateneo sassarese, nei Corsi di formazione degli insegnanti, per il 50%, utilizzerà il sardo come lingua veicolare, mentre i laboratori si terranno interamente in limba. Per mesi, Sassari sembrava opporsi con forza a tale ipotesi. Che si sia addivenuti a un accordo è positivo. Sbaglia però chi pensasse che il conflitto sia totalmente composto: alla sua base infatti non c’è il problema della Limba sarda comuna, come apparentemente parrebbe, quanto una diversa concezione del Sardo, del suo ruolo e della sua funzione.
Da una parte vi sono gli accademici sassaresi –e non solo- che sostanzialmente considerano la Lingua sarda come un “bene culturale”, da conservare, proteggere e tutelare. Una sorta di “bronzetto nuragico”. Dall’altra vi è tutto il movimento che in tutti questi decenni si è battuto per il bilinguismo, che sostiene il Sardo come lingua viva, da studiare e imparare certo, specie attraverso i nostri poeti e scrittori, per conoscere la cultura e la civiltà che essa sottende; ma anche e soprattutto per utilizzarla, come strumento di comunicazione, in ogni occasione della vita e dunque anche a livello ufficiale e non solo in situazioni private e familiari. Scrivono i docenti dell’Università di Sassari:” Pessamus chi chene litteradura, chene s’istudiu de sas usantzias e de s’istoria, chene sabidoria, chene limbazos, sa limba no esistit, est unu nudda, unu battile, unu trastu calesisiat”.
Si tratta di affermazioni giuste e assolutamente condivisibili da tutti: tanto da essere persino scontate. E, dunque, neppure da discutere, perché, come ci consigliano i latini, “De evidentibus non est disputandum”. Da dibattere vi è invece tutta la politica linguistica. A partire da questo presupposto: senza l’uso sociale la lingua sarda rischia di essere una lingua artificiosa e sostanzialmente morta. Di qui la necessità non solo dell’insegnamento del Sardo in Sardo ma dell’utilizzo del Sardo come lingua veicolare per insegnare anche tutte le altre materie. Di qui la necessità che il Sardo irrompa in modo organico, come lingua coufficiale in tutti i media (giornali, libri, Radio-TV, Internet), nella toponomastica, nella pubblicità.
Da una parte vi sono gli accademici sassaresi –e non solo- che sostanzialmente considerano la Lingua sarda come un “bene culturale”, da conservare, proteggere e tutelare. Una sorta di “bronzetto nuragico”. Dall’altra vi è tutto il movimento che in tutti questi decenni si è battuto per il bilinguismo, che sostiene il Sardo come lingua viva, da studiare e imparare certo, specie attraverso i nostri poeti e scrittori, per conoscere la cultura e la civiltà che essa sottende; ma anche e soprattutto per utilizzarla, come strumento di comunicazione, in ogni occasione della vita e dunque anche a livello ufficiale e non solo in situazioni private e familiari. Scrivono i docenti dell’Università di Sassari:” Pessamus chi chene litteradura, chene s’istudiu de sas usantzias e de s’istoria, chene sabidoria, chene limbazos, sa limba no esistit, est unu nudda, unu battile, unu trastu calesisiat”.
Si tratta di affermazioni giuste e assolutamente condivisibili da tutti: tanto da essere persino scontate. E, dunque, neppure da discutere, perché, come ci consigliano i latini, “De evidentibus non est disputandum”. Da dibattere vi è invece tutta la politica linguistica. A partire da questo presupposto: senza l’uso sociale la lingua sarda rischia di essere una lingua artificiosa e sostanzialmente morta. Di qui la necessità non solo dell’insegnamento del Sardo in Sardo ma dell’utilizzo del Sardo come lingua veicolare per insegnare anche tutte le altre materie. Di qui la necessità che il Sardo irrompa in modo organico, come lingua coufficiale in tutti i media (giornali, libri, Radio-TV, Internet), nella toponomastica, nella pubblicità.
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