lunedì 30 marzo 2009

Torna lo stemma sardo ed è bagarre

Come è ovvio, ogni volta che c’è un atto riguardante la simbologia della Nazione sarda, si aprono discussioni raramente pacate e il più delle volte i toni si fanno aspri. Personalmente trovo assai naturale che ciò capiti in una terra, come la Sardegna, in cui è forte il sentimento di appartenenza e spesso legittimo il sospetto che il giacobinismo di sinistra e il nazionalismo granditaliano di destra, in questo uniti, vogliano denazionalizzare la Sardegna.
Capita così che il recente provvedimento del governo sardo di restituire alla Regione autonoma della Sardegna il suo stemma sia stato guardato con diffidenza, quasi si trattasse della restaurazione di un oscuro passato. È successo che con una delibera del 24 marzo, la Regione abbia revocato la decisione presa nel 2005 dalla giunta Soru di sostituire con la bandiera sarda lo stemma adottato nel 1952. Secondo il mio modesto parere, niente da eccepire nella sostanza, non fosse per il fatto che la decisione fu presa senza abrogare il vecchio stemma e senza legiferare in proposito.
Invece di sollecitare un decreto del presidente della Repubblica che abolisse quello del 1952 e introducesse la bandiera dei Quattro mori anche come stemma, il governo Cappellacci ha preferito reintrodurre la doppia simbologia identitaria: quella dello stemma e quello della bandiera sarda, la cui definizione è stabilita con legge del parlamento sardo.

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Nelle foto: la bandiera nazionale e lo stemma baschi

sabato 28 marzo 2009

Come il centrodestra fu contagiato dal vetero-marxismo

Che la lingua sia considerata un epifenomeno della cultura dai discendenti consci o inconsci dal marxismo è cosa persino scontata. La lingua, insomma, sta alla cultura come il fischio di un treno sta a questo, o come un rumore sta ad un ingranaggio in azione. È un dato più o meno importante (secondo chi lo osserva), ma non influisce sulla cultura. Si capisce, perciò, perché nel programma elettorale di Renato Soru nel 2004 la lingua sarda fu rubricata sotto la voce Cultura e perché in quello di quest’anno si legga questa frase: “Una terra è il suo paesaggio, la sua cultura, la sua storia”. Una frase in cui, come si vede, la lingua sarda è “sottintesa”, come si conviene ad un epifenomeno.
Nella prima edizione del programma, come ricorderanno i lettori di questo blog, la frase era, correttamente, questa: “Una terra è il suo paesaggio, la sua cultura, la sua lingua, la sua storia, la sua musica”. Che Soru abbia, come dicono suoi amici, subito questa cancellazione o che ne sia stato artefice, magari per buona pace con gli “epifenomenisti” della coalizione, solo lui lo sa e, tutto sommato, ha poca importanza. Resta il fatto che un miscuglio di vecchio positivismo e vetero-marxismo ha avuto la meglio. Naturale, data la provenienza della intellettualità che Soru ha scelto come consigliera.
Meno naturale, e anzi piuttosto incomprensibile, è che di questa riduzione della lingua sarda a ciliegina (magari saporita) sulla torta Cultura, si sia fatto corresponsabile il centro-destra che, di tutto può essere sospettato salvo che di derivare da una cultura positivista e vetero-marxista. Eppure anche nel programma elettorale del presidente Cappellacci, questo vizietto ha un suo momento di gloria. Il capitolo che comprende gli annunciati provvedimenti a favore della lingua sarda è titolato: “Valorizzazione della cultura”. Riesce difficile immaginare che nella équipe autrice del programma ci fossero infiltrati. Non resta, così, altro che supporre come la egemonia culturale della sinistra ex comunista abbia esteso le sue ali anche su territori a lei inconsueti.
Ho esaminato il programma di Cappellacci dal punto di vista della ricorrenza di alcune parole chiave che, personalmente, a me interessano più di altre e che attengono alla qualità delle profferte autonomiste. E così si scopre che la parola identità (naturalmente riferita alla Sardegna) compare 8 volte, popolo sardo 6 volte, e per due volte insiste sulla riscrittura di un nuovo Statuto speciale, vi compare anche la parola nazione riguardante la Sardegna. Questo per dire che tali quantità di parole chiave significano, quanto meno, che esse sono nel lessico comune del programma e di chi lo ha stilato.
Diventa perciò incomprensibile come, per quanto riguarda uno degli elementi fondanti della nostra identità nazionale, si siano cedute le armi ad una concezione positivista e vetero-marxista della lingua. Forse il cedimento è inconsapevole, attuato perché “così ormai si dice”. Il che non è meno sintomatico di una caduta nella rete dell’egemonia culturale di figli e nipoti del Pci.

venerdì 27 marzo 2009

Archeologia: invito alla pacatezza

di Pierluigi Montalbano

Da anni il mondo archeologico che osservo dall'interno e dall'esterno mi lasciano l'amaro in bocca. Le polemiche per dettagli infinitesimali ormai non si contano più. Con tutte le problematiche che si sono presentate negli ultimi 10 anni continuo a leggere battibecchi, insinuazioni, commenti sarcastici e altro ancora da parte di studiosi, ricercatori, docenti, scrittori e appassionati.
La Sardegna e la sua storia ci inseriscono tutti nella stessa barca e bisogna sforzarsi di remare tutti verso una direzione che valorizzi le nostre origini... non il contrario!
Pittau, Sanna e tutti gli altri, che non cito per correttezza, amano la Sardegna e amano la storia. Sarei molto più felice se aprendo un blog o un giornale di cultura o assistendo ad un convegno, potessi leggere o ascoltare un discorso sereno, costruttivo, positivo.
Diamoci tutti da fare, a partire dai nomi più illustri, per favore.


Caro Montalbano, come non darle ragione? Leggo nella sua tesi sulle navicelle nuragiche la cui lettura consiglio a tutti: "Il dovere primario di ciascun ricercatore è il dubbio: induce a escogitare nuove ipotesi, per poi vagliarle e magari rielaborarle ancora, ma che spinge sempre a cercare più in là, a superare quelle "invalicabili" Colonne d’Ercole che sono ovunque, perché in noi stessi. Istoria nell’antica lingua greca vuole dire inizialmente proprio investigazione, indagine. Persino solo su un dubbio. Bisogna essere disposti poi a ragionarci, a discuterne e a cercare conferme o smentite, magari impastate insieme."
Se il clima corrente nella ricerca, come dovrebbe essere, fosse questo, il tono delle discussioni non potrebbe non essere sereno, costruttivo, positivo. Si dà il fatto che, generalmente parlando, così non sia. Né lo è mai stato. Il fatto è che, prima dell'irrompere di Internet nelle case, le discussioni interessavano solo i loro protagonisti e arrivavano alle nostre orecchie decisamente attutite e per lo più incomprensibili. L'accesso alla rete ha prodotto, in questo ambito, due fenomeni importanti: la facilità di pubblicazione di ipotesi nuove che prima trovavano chiuse le porte della comunicazione; l'arroccamento dei titolari di verità considerate assolute e una loro pulsione alla scomunica di ipotesi che non abbiano il bollo accademico.
Nel suo piccolo, questo blog è uno specchio di questi due fenomeni. Io credo che sia compito precipuo delle istituzioni culturali di muoversi secondo i criteri da lei illustrati. E sono convinto che, se così facessero, non solo i toni della discussione sarebbero costruttivi, ma ne guadagnerebbe la qualità della ricerca. E, in più, cadrebbe il sospetto che l'arroccamento accademico nasconda inconfessabili difese di status acquisiti.

mercoledì 25 marzo 2009

Caro Sanna, ecco il tuo "tallone d'Achille"

di Massimo Pittau

Caro Gigi Sanna,
tu ha sbagliato a prendertela con me anziché con altri. Non sono stato io infatti a dimostrare che le cosiddette “placchette di Tzricottu” non sono affatto bronzi nuragici, ma sono semplicemte ornamenti di armatura bizantina, bensì è stato Paolo Benito Serra; non sono stato io a dimostrare che i segni che vi compaiono non sono affatto segni alfabetici, dato che, dividendo verticalmente in due la faccia, l’una parte è perfettamente speculare con l’altra (e questo non può avvenire in nessuna scrittura), ma è stato Rubens D’Oriano.
Se io ho aderito alle tesi di questi due studiosi è segno che le loro argomentazioni mi hanno convinto, le tue no.
Ricordo di avertelo detto in una comunicazione privata e oggi te lo dico pubblicamente: il punto debolissimo di tutte le tue argomentazioni relative alla lingua dei Nuragici, il tuo “tallone d’Achille” è questo: tu ignori completamente tutto ciò che in 80 anni hanno scritto su questo argomento numerosi linguisti di professione e alcuni di chiarissima fama, B. Terracini, G. Bottiglioni, C. Battisti, V. Bertoldi, G. Alessio, G. Devoto, M. L. Wagner, G. Rohlfs, J. Huschmid, G. B. Pellegrini, J. H. Wolf e, modestamente, M. Pittau (autore del libro di 232 pagine «La Lingua Sardiana o dei Protosardi», Cagliari 2001, Editore Gasperini). Invece tu avresti dovuto prendere contatto con gli scritti di questi linguisti, almeno per confutarli, anche per non pretendere di assumere la parte del primo ed unico scopritore dell’America.
Che valore scientifico hanno le argomentazioni basate su notazioni esclusivamente epigrafiche – dato ma non concesso che queste siano tutte vere e non fasulle - le quali non facciano almeno un qualche riferimento alle sicuramente accertate notazioni fonetiche, morfologiche e semantiche acquisite dai linguisti di professione intorno alla lingua dei Nuragici?
Se tu questi linguisti non li avessi ignorati del tutto e invece li avessi letti e meditati, non saresti arrivato ad affermare – fra l’altro - che il vocabolo nurac (composto da due sole sillabe!) implica “due radici, una semitica e l’altra indoeuropea”…
Sempre con cordialità Massimo Pittau

martedì 24 marzo 2009

Le origini illiriche di Aristanis

di Alberto Areddu

Tempo fa sul Blog si era discusso della proposta di ridenominare il Golfo di Oristano con l’appellativo di “Golfo dei Fenici”. Rintervengo ora, proponendo all’attenzione del curatore e dei cultori, un estratto, aggiornato dal mio libro, sulle origini del nome della città. Il poleonimo di Oristano appare in antico in una forma (Aristianis limne, nel geografo bizantino Giorgio Ciprio) che si ripresenta tuttoggi nel dialetto comune: Aristanis; la deformazione in Oristano è successiva (a partire da geografi toscani del xii sec.). L’interpretazione che ne fa un toponimo africaneggiante per l’uscita in -an (Terracini), come quella che lo vorrebbe un indimostrabile prediale da tale Aristius (De Felice; Pittau) hanno poco fondamento; un suff. -anis ritorna infatti nel sostrato (cfr. ad es. Lesanis). Lo spiritus loci dovrebbe indirizzarci a fornire invece un etimo confacente alle caratteristiche, abbastanza particolari, del territorio. Oristano sorge a pochi km. dalla costa all’interno dell’omonimo golfo, in vicinanza dello stagno di S. Giusta, ma la denominazione di “portu” nel Medioevo fa presumere una sua maggiore prospicenza alla costa. Una prima nostra interpretazione ci potrebbe spingere a vedere nelle forme riportate dei geografi toscani: Arestagno, Aristanno un indizio di una durevole continuità dal lat. stagnum (cfr. Spano sull’individuazione da ‘stagno’); ma se l’interpretazione è motivata geograficamente, non lo è altrettanto linguisticamente: dal lat. stagnum avremmo ottenuto nel sardo *stannu, e non vedendosi il motivo della perdita della geminata, meno ancora si comprenderebbe un Ari- iniziale romanzo. La chiave illirica può invece darci maggiori risposte; qui, come nel celtico, esiste un prefissuale ar- (celt. are-, ari- ‘presso’; cfr. anche umbro ar- per ad-) “presso”, che ritorna peraltro in altri toponimi sardi; presso dunque di che cosa? La risposta più confacente: un’ ‘imboccatura’: cfr. all’uopo antico indiano ustha- ‘labbro, bocca’, così anche avestico aošta-, aoštra- (<*əus), lat. ōstium ‘entrata, imboccatura sul fiume’ (= slav. *ustьje); antico slavo usta ‘bocche’; slavo *ustьje 'imboccatura'; antico slavo ustьna, sloveno ûstna ‘labbro' (dalla stessa base si confrontino le città tracie di Ostaphos, Ostudizos). Discorso solidale credo vada fatto per la località turistica olbiese di Porto Ìstana. Anche qui verosimilmente ritroviamo un *usta ‘imboccatura’ che originariamente doveva apparire isolatamente come *Ust-ana ‘luogo dell’imboccatura’ -> ‘porto’, poi replicato tautologicamente con la definizione di Porto. Dunque sia Oristano “che sorge presso un porto”, sia Porto Istana ci possono testimoniare che la forma *Ùstana indicasse nella lingua nuragica il ‘porto largo’ (cfr. lettone uosts masch, uōsta femm. ‘porto’). La resa i/u si inserisce in quegli adeguamenti fonetici di u esotici, verosimilmente [ü], della latinità coi prestiti, e nel successivo passaggio del segmento iniziale us- poco frequente a quello logudorese is- (: i-stare, i-schire). Secondo lo Spano, un altro Aristani/Aristanno si sarebbe trovato nel territorio di Olbia (forse in reg. Astaina si recepisce il documentato Aristana). Riguardo l'uscita in -is, che parrebbe latina, faccio presente che la presentano parole sicuramente prelatine come Kalaris/Karalis, Lesanis, Etis, Seunis, Sipontis, e per le quali ho trovato forti connessioni illiriche. Al momento non ho trovato tracce di *usta in area illirica, ma non è detto che salti fuori; foneticamente si adatterebbe la località di Shtanë (anticam. Stana), registrata dalle carte albanesi, che però non è località balneare. Riguardo poi la toponomastica odierna albanese essa ha subito notevoli influssi da quella slava (gli albanesi erano pastori in continua migrazione per i Balcani), e molto oggi si discute su quanto sia esterno e quanto sia originario.

domenica 22 marzo 2009

No, caro Pittau no, così non va

di Gigi Sanna

Caro Pittau. Devo essere molto sincero. Non sono d’accordo quasi su nulla di quello che scrivi nel tuo recente libretto (Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monti Prama, Edes Sassari 2009). Non sono d’accordo se non in un dato solo: che i cosiddetti Guerrieri stavano in un tempio. In questo sì. Del resto lo aveva già sostenuto autorevolmente G.Lilliu e, se permetti, nel piccolo anch’io. Ma ne parlerò in un prossimo intervento, con riferimenti puntuali alla tipologia della costruzione, alla datazione delle statue e all’identità dei Giganti. Per il momento mi limito a parlare sulla scrittura nuragica. Semplicemente e per linee essenziali, data la natura sempre ‘distensiva’, più informativa che ‘tecnica’ del Blog.
Procedo da questo argomento anche perché partire dalla conoscenza della scrittura paleosarda è un prerequisito per capire anche il resto. Tutto il resto. In primis. Mi meraviglio davvero che tu ti meravigli che gli studiosi in fondo ti snobbino a proposito della scrittura ( p. 49). E tu che fai ? Va bene Gasperini, va bene qualcuno della nomenclatura. Ma gli altri? Se solo li avessi nominati, con il loro nome avresti fatto presente che esistono ben 45 documenti sui quali ora poter far leva per capire un po’ di più (o forse molto) della cultura cosiddetta nuragica. E avresti evitato certi errori basati su inveterati pregiudizi.
Ti sei dimenticato di Tzricotu di Cabras, di S.imbenia di Alghero, di Is Loccis Santus di S.Giovanni Suergiu, di Pallosu di S.Vero Milis, di San Pietro di Bosa, di Orani 1 e di Orani 2, di Pitzinnu di Abbasanta, di Aiga di Abbasanta, di Perdu Pes di Paulilatino, di Pirosu Su Benatzu di Santadi, del ‘nuraghetto’ de Su Cungiau de is Mongias di Uras, ecc.ecc.? Ti sei dimenticato di tutto il mio repertorio dei segni? Dei segni protosinaitici, protocananei, ugaritici, ‘protocananei’ o fenici arcaici? Sembra proprio di sì.

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Nella foto: la scritta di Aidu Entos

Modello nuragico ed elogio della lumaca

di Carlo Carta

Caro Eliseo,
parto dalla fine delle tue perplessità nella risposta che mi dai, e cioè: siamo sicuri che i giovani abbiano preso realmente coscienza? Beh di sicurezze, tu m’insegni, il Popolo Sardo nella sua millenaria storia, ne ha avute ben poche. A cominciare da Hampsikorra, passando per G.M. Angioy e per finire ai nostri giorni. Altrimenti spiegami diversamente questa triste ineluttabilità del destino dei Sardi. Questo secondo me è il vero problema.

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