giovedì 31 marzo 2011

Eleonora paladina dell'Unità d'Italia? Anche questo s'ha da sentire

di Adriano Bomboi

Diciamoci la verità, anche gli Arborea non erano filantropi come vorrebbero farci credere alcune fonti. Men che meno nel mondo medievale, i cui reggenti, siano essi teste coronate o giudici, poco avevano a che fare con la beneficenza verso i popoli che stavano oltre la loro giurisdizione territoriale. E talvolta anche nei riguardi del proprio popolo. Le battaglie si facevano solo per interesse, e non – in base al mito di una parte del nazionalismo Sardo sugli Arborea – nel segno di una distinzione della “Nazione Sarda” rispetto agli “stranieri”.
Questo successe anche nel medioevo Sardo, in cui si confrontarono i reggenti del Giudicato di Arborea contro quelli del Regno di Sardegna per il controllo di tutta l’isola. C’erano dunque due poli politici ed istituzionali (ma non nazionali) che si scontrarono militarmente nella celebre battaglia di Sanluri del 1409.
Se ragionassimo in termini di nazionalismo ottocentesco con riferimento alla Sardegna, potremmo dire che gli arborensi-sardi si sono battuti contro “gli stranieri”. Nella realtà invece noteremmo che seppur autonomi, i Giudici arborensi, di origine catalana, che quindi oggi dovremmo definire di origine “straniera”, con la battaglia di Sanluri del 1409 furono alleati con i Doria, la potente dinastia genovese che aveva possedimenti in Sardegna e in diverse parti della penisola italiana.
E se ragionassimo quindi in termini di nazionalismo ottocentesco con riferimento all’Italia, troveremmo infatti altrettanto normale interpretare l’alleanza militare degli Arborea con genovesi, pisani (ed altri), per leggerla come un tentativo di resistenza del giudicato arborense contro gli invasori catalano-aragonesi che controllavano quella parte di Sardegna chiamata “Regno di Sardegna”. E si potrebbe così sostenere che il Giudicato un tempo guidato da Eleonora d’Arborea “stesse resistendo agli spagnoli per tutelare la sua futura italianità”.
La verità è che il concetto di “nazione” non esisteva, arrivò diversi secoli dopo, e le battaglie per il controllo integrale del territorio Sardo furono fatte da due opposte fazioni di Sardi, altrettanto alleati di opposte fazioni di “stranieri”, ovvero dinastie originarie tanto della penisola iberica quanto della penisola italiana. La “miscelazione” delle comunità territoriali dal mondo antico, passando anche per il medioevo e tutta l’età moderna, fu una costante storica che iniziò ad incrinarsi solo in epoca contemporanea, con l’avvento degli stati-nazione. Sebbene fino al ‘900 sopravvivessero ancora dinastie capaci di controllare popoli diversi (pensiamo agli Asburgo dell’Impero Austro-Ungarico) ma anche nel presente, basti osservare la monarchia britannica, tutt’ora reggente ad esempio della Papua Nuova Guinea (Commonwealth). Oggi casomai nella maggior parte delle democrazie occidentali il problema si è trasferito dalle monarchie alle repubbliche, in quanto alcuni popoli continuano ad essere amministrati da altri, senza avere una propria sovranità.
Ma ad Oristano nel 2011 succede qualcosa che ha dell’incredibile e del grottesco: l’assessorato alla cultura del Comune, assieme ad alcune associazioni, ha scelto di collegare Eleonora d’Arborea ai festeggiamenti per i 150° anni dell’Italia unita. E chi lo spiega adesso ai cittadini che la civiltà arborense invece aveva combattuto contro quella struttura istituzionale che in seguito, nei secoli, diventerà il Regno d’Italia?
E chi lo spiega ad alcuni indipendentisti che gli Arborea erano di origine catalana e si allearono con genovesi e pisani contro i catalano-aragonesi? Più comodo per questi indipendentisti “dimenticare” i Doria ed il resto degli italiani con i loro interessi politico-commerciali nel Tirreno e nel Mediterraneo occidentale.
Ecco a cosa si arriva quando la storia Sarda viene trasformata in storia nazionale Italiana o storia nazionale Sarda, e questo non è utile né ai sostenitori della Nazione Italiana, né a quelli della Nazione Sarda. La serietà storica è ben altra cosa.
Nel moderno liberal-nazionalismo non c’è bisogno di rincorrere la leggenda per valorizzare il proprio passato, qualsiasi esso sia. Con buona pace di chi si dichiara “non-nazionalista” ma ricercando il mito nella storia per giustificare il proprio presente. Un errore in cui cascarono soggetti come Hitler, Mussolini e forse anche il siriano Michel Aflaq, fondatore del partito Ba’th.

"E totu in una s'est imbertu"

L'ex frammento ugaritico di Mogoro e, sotto,
l'ex barchetta di Teti, per altro inesistente
di Stella del Mattino e della Sera

Il collega Pintore si è a lungo interrogato, e so che ancora lo fa, sulla scomparsa di un coccio con caratteri Ugaritici dal Museo di Senorbì,. Anche i suoi lettori si sono a lungo interrogati, alcuni suoi collaboratori sono stati invece interrogati causa piedini. La sola risposta al mistero del coccio, quella vera, la so io.  Ritrovato a Puistèris tra il 1980 ed il 1982 da un ex- curatore del Museo di Senorbì, fu mostrato in un convegno al Museo stesso nel 1995, convegno cui partecipò il prof. Giovanni Pettinato. Detto professore, allora docente di Assiriologia all'università di Roma, espresse entusiasmo per caratteri di scrittura cuneiforme che apparivano sul coccio in questione. Da quel momento se ne persero le tracce, non del prof. Pettinato ma del reperto. 
Grazie al ritrovamento del diario di un vecchio custode, L.G., siamo ora in grado di dirvi, in anteprima assoluta, cosa successe veramente: “[...] Prima die de ghennàrgiu 1996. Tèngio sas manos treme treme e chi Babu mannu m'amparet e mi diat sa fortza e s'ànimu de pònnere in custos fògios su chi est capitadu. Sa maleditzione de sos Mannos nostros s'est apoderende de nois e s'isfaghimentu s'est acurtziende: deo l'apo bidu. De pustis su cumbènniu chi b'aiat finas cuddu professore romanu, su bìculu de còngiu est disaparèssidu, s'est imbertu. Su curadore li fiat leande fotografias e issu... issu si faghiat semper prus traslughente e totu in una est isparidu, prus nudda. [v. figura, NdR]. Ant imbertu sas fotografias, ant tìmidu: mancari gasi, deo, betzu e sena peruna cosa de pèrdere, nd'apo mantesu sas fotocòpias [...]”
Seguono, sul diario, una serie di acclamazioni e farneticazioni, da cui possiamo solo concludere che il povero anziano, testimone di una tale prodigio scientifico, perse il lume della ragione. O forse lo aveva già perso prima. Inaspettatamente però il fenomeno pare essersi ripetuto di recente. La barchetta di Teti, pur fotografata con testimoni, non ha esitato a sparire anch'essa, sebbene con modalità leggermente differenti. Dapprima, come testimoniò un nostro lettore, venne restaurata ed a quel punto non era sparita: però i segni di scrittura non erano più distinguibili. Poi scomparve di nuovo. Stavolta nessun vecchio custode fece né foto né fotocopie dell'evento epocale e la nostra ricostruzione deve essere presa con molta cautela, seppure ci sembri più che plausibile.
Per ironia della sorte, entrambi i reperti furono oggetto di una petizione popolare sulla cosiddetta “scrittura nuragica”, che però è “non scrittura”, come ho dimostrato ampiamente e scientificamente. I presunti eventi prodigiosi, verranno da noi segnalati, per dovere di cronaca, a trasmissioni televisive misteriche e riviste di parapsicologia e poltergeist. La verità sulla misteriosa civiltà nuragica si sta però delineando, pur con nostro grande dolore: è stata tutta un'illusione. I Nuragici non sono mai esistiti.

mercoledì 30 marzo 2011

Geroglifici in Sardegna

di Leonardo Melis

Una segnalazione fatta da un amico di Oristano, che ci inviò anche le immagini, ci ha lasciati di sasso. Pur essendo abituati ormai a cose insolite fino a pochi anni fa, questa nuova acquisizione ci ha fatto fare un salto sulla sedia. Sapevamo del Gruppo Statuario che raffigurava in una lastra di pietra (steatite?) la Triade di Tebe. Si tratta di una lastra che affigura Amon-Ra, la moglie Mut e il loro figlio Khonsu. Una scoperta fatta, crediamo, dall’archeologo Taramelli decenni orsono.
L'iscrizione geroglifica
La foto del nostro amico P. Z. rappresenta un’iscrizione geroglifica che, tradotta a suo tempo, parve proprio un’invocazione alla Triade in questione. Si tratta in effetti di tre invocazioni, una per ogni Dio rappresentato. Siamo riusciti ad avere le prime due, che vi proponiamo.
  • Amon.Ra. suten. neteru. tu. f. anch. utja. senb. nib. Cioè: “Amon-Ra, re degli Dei, signore del cielo, dia vita, salute e vigore pieni”.
  • Mut. Urt. Nebit. Pet tu. S. senb, ossia: “Mut… la Gran Signora del cielo, dìa vigore”
Ora, già trovare una lastra con dei geroglifici in Sardinia è di per sè un fatto eclatante. Se poi lo scritto è collegato anche a un’immagine chiaramente egizia, la cosa assume i contorni del “giallo”. Vero è che il commento, probabilmente da attribuire al Taramelli, sa proprio di dichiarazione tipicamente archeobuonica, del tipo “Scaraboide egittizzante di stile hyksos”. Vero è… sentiamo. “Sicura e.. o almeno una famigliarità con la Lingua e la Scrittura egiziana. Per cui anche se trattasi di un’opera Fenicio/Punica.. dovrebbesi pensare che l’autore (Fenicio, è naturale! N.d.A.) fosse conoscitore della Lingua e della scrittura in Egitto”
La Triade
Già da allora, anzi soprattutto allora, si faceva passare tutto per Fenicio/Punico. Con buona pace della lampante realtà egizia del documento. Lampante, perché abbiamo scoperto che la lastra in steatite con i geroglifici corrisponde esattamente alla lastra (in steatite) che rappresenta la Triade Tebana che vi mostriamo. Insomma sul retro della lastra vi è la scritta, sul diritto il gruppo di Tebe. La nostra domanda è: perché una cosa talmente singolare (per essere cauti), ritrovata in Sardinia, in una di quelle città da noi definite shardana e abitata proprio da quei popoli che frequentavano assiduamente l’Egitto, non è stata resa pubblica e pubblicizzata? Forse perché si deve continuare a ignorare questa presenza? Perché tutto quanto è egizio, chiaramente egizio, deve essere attribuito a un Popolo, quello fenicio, mai esistito come Popolo “altro” E ad eseguire queste opere deve necessariamente essere stato un “artista fenicio” che conosceva a menadito i geroglifici? Stesso problema con gli scarabei con tanto di cartiglio dei faraoni egizi, definiti “Scaraboidi egittizzanti di tipo hyksos” datati al VII sec. a.C. quando degli hyksos non vi era manco più memoria. Tutto questo per far “quadrare il cerchio” sulla presenza presunta dei Fenici?
Noi non ci crediamo. E pensiamo che sempre meno persone oggi credono a queste sciocchezze.
La cosa peggiore è il perché un documento così importante al solito sia stato tenuto nell’ombra per tanto tempo.
Si argomenterà: “Ma il Taramelli la pubblicò”.
“Si” rispondiamo noi “anche Lilliu pubblicò qualcosa sulle statue di Monti Prama. Diverso è divulgare, in modo che la gente possa fruire e commentare”.

martedì 29 marzo 2011

La tavoletta di Loghelis. Decorata? No, raffinatamente scritta

di Gigi Sanna

La tavoletta in ceramica del nuraghe Loghelis di Oniferi (nella foto) costituisce uno dei documenti più importanti della scrittura nuragica perché mostra, in maniera inequivocabile, che i costruttori dei nuraghi usavano spesso la matematica e la geometria o meglio i simboli di esse per comporre testi di natura religiosa. Naturalmente nulla cambia nella specificità del codice dal momento che si tratta della solita scrittura a rebus, di una composizione cioè che non intende svelarsi subito 'all'occhio che guida' ma che ha bisogno, per essere compresa, anche dello sforzo, talvolta estremo, dell'intelligenza. Apparentemente essa appare di tipo 'decorativo,' date l'eleganza dei segni, certe scoperte simmetrie e l'organicità complessiva dei significanti.
Se si tengono in conto però alcuni accorgimenti e tecniche del tutto originali nel riporto dei segni usati dagli scribi sardi, l'apparente 'assoluta' decorazione svela il suo vero e completo volto con il suo significato fondamentale che è quello della scrittura. Perché nella composizione ed organizzazione del testo conta certo l'aspetto estetico ma contano molto, ma molto di più quello simbolico e quello fonetico.
Come primo espediente scrittorio del documento fittile di Loghelis prendiamo quello più importante, il più visibile, anche se si stenta a 'vederlo' chiaramente per quello che esso è e quindi a prenderlo nella dovuta considerazione: l'iterazione o ripetizione del segno.
La tavoletta , divisa in sei settori da linee verticali ben marcate, riporta, a partire dalla destra , nel primo settore delle linee orizzontali, nel secondo delle linee oblique verso sinistra, nel terzo settore delle linee oblique verso destra, nel quarto settore delle linee ancora oblique verso sinistra, nel quinto settore tre rombi agglutinati, con un quarto interrotto a formare un triangolo + una linea (linea, stavolta, non ripetuta ), nel sesto settore un motivo ad alberello di palma (o a spiga) costituito anche questo da delle linee, come se si affiancassero e si unissero il settore 3 e 4 ma capovolti... 

lunedì 28 marzo 2011

Stiglitz veterosardista? Solo nazionalista vulgaris

Millenni di osservazioni sul comportamento animale hanno portato i sardi a concludere che “corvu non bicat corvu” e gli italiani che “cane non morde cane”. Ma si tratta pur sempre di una constatazione non di.un codice etico come sembra ritenere l'archeologa Luisanna Usai per la quale “un archeologo non si sognerebbe mai di pubblicare su internet giudizi pesanti sul lavoro di un altro archeologo”. A dar man forte alla collega entra in scena Alfonso Stiglit in un sito che non nomino perché ci leggono anche delle signore, presso le quali godo della nomea di uomo dalla buone frequentazioni. Scrive Stiglitz:
"PPS. Mi stupisce anche che le sia sfuggita la campagna mediatica di due personaggi, continentali, ma appassionati di Sardegna indignati perché gli hanno chiuso una domu de janas che rischiava di scomparire, non lasciandola aperta alle loro fameliche macchine fotografiche; e che addirittura sia stata presentata da chi l’ha scavata in un congresso internazionale, senza avvertirli; ne hanno fatto un can can mondiale portandosi appresso un “gentleman” universitario inglese, al quale non è parso vero di pubblicarsi a sbafo un autentico gioiello archeologico, gridando allo scandalo per l’occultamento, ma tirandoci fuori un bel po’ di articoli suoi e di annessi fotografi clandestini. Cialtronaggine colonialista. Lo so che adesso si scandalizzerà perché ho usato il termine “colonialista”, prodotto della mia anima veterosardista”.
Altro che veterosardismo, questo è nazionalismo vulgaris di primo pelo, tipo “a mare i continentali”. Con non molto sottili venature di razzismo: continentali e sudditi della perfida Albione sono dei cialtroni; come si permettono di metter bocca in una cosa nostra, addirittura con critiche? Se non altro per età, sono più vetero sardista di lui. Ma non fino al punto di considerare l'orticello della nostra archeologia un tancato chiuso. Anche perché, ironia della sorte, quell'orticello è coltivato a pro dello Stato italiano, del continentale per eccellenza.
PS - Comunque sia, buon anniversario Alfonso.

domenica 27 marzo 2011

La Grotta verde riapre. A quando anche il suo mistero?

Uno dei graffiti della Grotta verde d'Alghero

La buona notizia è che, con tutte le precauzioni necessarie, la Grotta verde di Alghero sarà aperta alle visite. La dà un bell'articolo di Pier Giorgio Pinna a cui La Nuova Sardegna di oggi dedica una intera pagina densa di illustrazioni, una delle quali, come vedremo, almeno criptica. L'apertura è stata decisa dal Parco di Porto Conte e dal Comune di Alghero e, a da sé, tende a far conoscere il più possibile la straordinaria bellezza naturalistica della grotta. Questa, tuttavia, come sa chi segue questo blog, ha la particolarità di ospitare (forse ha ospitato), reperti “stupendi. Come la prima raffigurazione antropomorfa scoperta in Sardegna. E come appunto gli antichi pittogrammi” scrive Pinna secondo cui “alcuni dubitano che esistano ancora: forse sono stati cancellati dai vandali o dal tempo, forse sono recuperabili sotto uno strato di concrezioni”.

Caro traghetti: il silenzio dell’Antitrust

di Augusto Secchi

Seppur con riprovevoli e a volte incomprensibili ritardi sono giunte all’Antitrust un discreto numero di segnalazioni da parte di associazioni, politici e umanità varia finalmente indignata per gli aumenti ingiustificati applicati sui biglietti dei traghetti. Segnalazioni con le quali si chiede, essenzialmente, di controllare se le compagnie di navigazione abbiano approfittato della loro posizione dominante e abbiano fatto cartello. 
Espressione standardizzata utilizzata per chiedere se gli aumenti sono frutto di una coincidenza astrale o se, cosa assai più probabile, gli armatori si siano riuniti attorno ad un tavolo - virtuale o in noce massello non fa alcuna differenza – e abbiano giocato un gioco sporco. Lo stesso gioco giocato, ad esempio, dagli industriali caseari negli anni sessanta che, parafrasando Antonio Simon Mossa: “operano in un regime di monopolio, stabiliscono i prezzi e sono padroni del mercato e della nostra vita”. Un gioco che oggi, sotto il cilindro protettivo della globalizzazione, ripetono mettendo in ginocchio i pastori che sono costretti, per farsi sentire, a protestare un giorno sì e l’altro pure sotto palazzi frequentati da uomini in doppiopetto che fanno finta di ascoltare il loro disagio che si trasforma in rabbia, dramma della quale valuteremo la portata quando diventerà tragedia, materiale per future indagini sociologiche e antropologiche con le quali ci riempiranno la testa, magari misurandocela come fece l’allievo prediletto di Lombroso. 
La prima segnalazione di Altroconsumo sul caro traghetti, datata 20 gennaio, non ha ancora avuto risposta. L’Antitrust temporeggia, riflette e, ogni tanto, si aggiorna. E intanto il tempo passa: i sardi sono costretti all’immobilità, i turisti scelgono mete più convenienti, altri aspettano un segnale divino o un passo indietro terreno, in migliaia disdicono prenotazioni, il popolo di camerieri, chef, giardinieri, cuochi, animatori eccetera eccetera aspetta impaziente che squilli il telefono e che, dall’altra parte, ci sia qualcuno che gli dica che anche quest’anno, seppur solo per tre mesi, si sentirà un lavoratore, cittadino di un’Italia il cui primo diritto sancito dalla costituzione è il lavoro. 
Un lavoro che non c’è, evidentemente, e del quale l’Antitrust, come il nostro Governo impegnato in un federalismo solidale che ci affosserà, pare non preoccuparsi. Forse ci vorrebbe qualcuno che sollecitasse l’Antitrust per un controllo sui responsabili esitanti dell’Antitrust.  Qualcuno che, scuotendoli dall’abbiocco, li avvertisse che ogni giorno di ritardo equivale, per  la Sardegna, a un passo verso il baratro. E una spinta - leggera o sostanziosa sarà il tempo a dircelo - gli è stata assestata anche da chi invece di darsi una mossa, nicchia, indugia, tentenna.



sabato 26 marzo 2011

Lo Statuto sardo cominciando dalla coda

Nelle riforme istituzionali, il Governo sardo ha deciso di cominciare dalla coda con un provvedimento che puzza di demagogia: ridurre da 80 a 60 il numero dei deputati regionali. Quel che dovrebbe avvenire a conclusione di un processo di riscrittura dello Statuto sardo rischia così di diventare il nucleo della riforma e di prefigurare un nuovo Parlamento che si snellisce per favorire i grandi schieramenti e per fare a meno della rappresentanza delle minoranze. Proprio un pessimo inizio, insomma.
Nessun dubbio, naturalmente, che sia necessario ridurre i costi della politica e con questi il numero degli eletti. Nella proposta di nuovo Statuto del Comitato di cui altre volte si è parlato, abbiamo scritto, all'articolo 13: “Il Parlamento sardo è composto da 60 Deputati; comprende il Governatore e il Vicegovernatore, che vengono eletti nella Circoscrizione elettorale regionale, e 58 Deputati eletti nelle Circoscrizioni elettorali provinciali”. Che cosa c'è di diverso dal disegno di legge del Governo sardo? C'è che tutto questo è dentro un quadro che stabilisce cosette come la distribuzione dei poteri e delle competenza fra la Sardegna (tutti quelli che le servono) e lo Stato (gli altri quattro). Si definisce, insomma, a che cosa serve il futuro Parlamento dei sardi. Lì, invece, si stacca la coda della lucertola, nell'illusione che continui a muoversi da sola indefinitivamente.
Contro la decisione della Giunta Cappellacci hanno preso cappello in molti, alcuni con buone motivazioni altri con prese di posizione che rasentano l'impudicizia. Fra questi si segnalano particolarmente il capogruppo del Pdl. Mario Diana (“Il metodo unitario rischia di essere vanificato da questa iniziativa della giunta”) e, soprattutto, il presidente e il vicepresidente della Commissione autonomia. Pietro Pittalis del Pdl il primo, Tarcisio Agus del Pd, il secondo, hanno bocciato la decisione della Giunta, rivendicando il “ruolo costituente” della Commissione da loro diretta.
I tre sembrano dotati di buon senso e così sarebbe se davvero il “metodo unitario” evocato dal dirigente del più grande partito avesse prodotto qualcosa di più del vuoto pneumatico e se la maggioranza e l'opposizione avessero dato segni di esistenza in vita riguardo al nuovo Statuto. Dopo quel che a settembre 2010 fu pomposamente definito “Stati generali” c'è stato solo silenzio. E nel frattempo, a Roma, va avanti il cosiddetto federalismo fiscale che rischia di condizionare in modo drammatico l'iniziativa, se e quando ci sarà, del Consiglio regionale.
Ma la palma della impudicizia spetta di diritto ai due responsabili bypartisan della Commissione autonomia. A quest'organo del Consiglio fu affidato il 18 novembre il compito “1) di provvedere entro novanta giorni ad istruire ed elaborare un percorso costituente finalizzato alla riscrittura dello Statuto nel quadro delle disposizioni dell'articolo 54 dello Statuto stesso, avvalendosi anche di contributi tecnici altamente qualificati da individuarsi ai sensi dell'articolo 42 dello Statuto;
2) di avviare immediatamente, al suo interno, un confronto per l'individuazione puntuale dei temi delle riforme secondo i diversi ambiti: legge statutaria per i rapporti fra organi statutari, legge elettorale, incompatibilità ed ineleggibilità; riflessi sull'organizzazione regionale, la sua struttura e le funzioni ad essa attribuite;
3) di operare in ogni fase secondo un metodo unitario, eventualmente integrando la propria composizione, in modo da garantire la rappresentanza di tutte le forze politiche al massimo livello;
4) di esprimere la volontà del Consiglio attraverso la predisposizione di un ordine del giorno da approvare ai sensi dell'articolo 51, primo comma dello Statuto speciale.
Di giorni sono passati non novanta, ma 128 e nemmeno uno dei quattro mandati è stato attuato. Ancora di più: non c'è alcun segnale di attività. Che so? Qualche mormorio che significhi “Abbiamo cominciato”. Anzi no, un segnale c'è stato. La Commissione autonomia, quella che, come dice il suo oggetto sociale, dovrebbe difendere l'autonomia sarda, un atto l'ha compiuto: ha adottato senza neppur cambiarne una virgola, senza adattarla alla nostra realtà, una legge dello Stato che taglia il numero dei consiglieri comunali. Nessun obbligo; poteva considerare (agendo di conseguenza) che Pompu è diverso da Roma e che quel che può andare bene in una grande città non va bene in un piccolo centro sardo, ma non l'ha fatto.
Un dubbio, così, mi si affaccia alla mente: è se Cappellacci e i suoi assessori hanno voluto mandare un avvertimento a questa palude irresponsabile? Tipo: se non vi date una mossa, sarà il Governo sardo a presentare una proposta di nuovo Statuto. Troppo azzardato come dubbio? Forse, ma...

venerdì 25 marzo 2011

Sa Pala larga è un feudo. Buono a sapersi

La tomba n 7 di Sa Pala larga
Il bel sito “Sassari notizie” pubblica un articolo di Valentina Guido sulla cosiddetta Tomba della scacchiera di Bonorva. Della tomba dette per primo notizia il periodico telematico Stonepages dei due giornalisti Paola Arosio e Diego Meozzi. Anche questo blog si è occupato a più riprese della straordinaria Tomba n. 7. fotografata dall'imprenditore Antonello Porcu, prima che fosse sigillata per ordine della Soprintendenza.
Sassari Notizie – questo sì che è uno scoop – dà voce alla Soprintendenza archeologica di Sassari, istituzione dello Stato, nota per i suoi silenzi. Parla la dottoressa Luisanna Usai, responsabile scientifica delle zone Logudoro-Meilogu e Marghine, nota ai nostri lettori per aver certificato al Ministero dei beni culturali che nel coccio di Pozzomaggiorei caratteri della scrittura sono facilmente ascrivibili ad ambito fenicio-punico”. Che cosa dica l'archeologa si può leggere testualmente nell'articolo di Valentina Guido.
Qui non resta se non commentare, con non poco imbarazzo visto che si tratta pur sempre di una brava professionista, un paio di affermazioni che lasciano sbalorditi. “Per prima cosa, vige un codice etico non scritto tra colleghi, per cui un archeologo non si sognerebbe mai di pubblicare su internet giudizi pesanti sul lavoro di un altro archeologo” scrive la dr Usai con un appello alla solidarietà di casta che, se davvero vigesse, spiegherebbe non poche cose.

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mercoledì 23 marzo 2011

Bronzetti all'asta, saldi di fine inverno

L'arciere in vendita. Sotto: il gruppo di 4 uccelli

Un altro bronzetto nuragico, un arciere, è in vendita alla modica cifra di 25.000 dollari nelle Royal-Athena Galleries. Proviene dalla collezione John Kluge di Charlottesville in Virginia e fu acquistato nel 1988 dalla stessa Royal-Athena. 
Ma, volendo risparmiare, all'asta si può comprare, per 2.500 dollari, un bronzo nuragico di un gruppo di quattro uccelli, proveniente da una collezione privata di Ginevra. Evviva. Speriamo che, visto il menefreghismo dello Stato italiano, almeno siano trattati bene, questi scampoli di storia sarda.
Una piccola grata considerazione. L'indifferenza con cui lo Stato italiano tratta la civiltà nuragica ha almeno un pregio: i bronzetti li si può trovare sul mercato a prezzi da saldo. Meno di 21 mila euro per quell'arciere è un'occasione da non lasciar perdere.  

martedì 22 marzo 2011

La Libia e le semplificazioni idologiche

Vorrei tanto avere, sulla guerra portata in Libia dai “volenterosi”, la capacità di dividere il giusto dall'ingiusto come fanno molti qua e là sul web, soprattutto in Facebook. Uno strumento, questo, particolarmente usato per le asserzioni e non per i ragionamenti. Asserzioni come quelle secondo cui uno stato sovrano ha diritto a gestire i suoi affari interni e che non fanno una grinza. Se non fosse per un particolare: il resto del mondo può starsene con le mani in mano, mentre uno stato sovrano massacra i propri cittadini? Al che gli amanti delle asserzioni ribattono: il mondo però non si è mosso per il Darfur.
Aggiungerei che non si è mosso per la Cecenia, né per il Tibet, né per la Cambogia, né per la Birmania, facendo finta che si trattasse di affari interni ai rispettivi stati sovrani. Si è mosso invece per il Kosovo e per Timor Leste. Ma il problema è questo: le pochissime volte che la cosiddetta comunità internazionale si è interessata agli affari interni di stati come la Serbia e l'Indonesia, ha fatto male o ha fatto bene. Assicurarsi che Milosevic non sterminasse i kosovari e Giakarta i timorlestiani è stato un bene o un male? E, oggi, fare in modo che Gheddafi smettesse di massacrare la Cirenaica è un bene o un male?
Come spesso accade, l'ideologia non aiuta a capire le complessità. Aiuta quasi esclusivamente se stessa a riprodursi. La questione libica è invece ridondante complessità: la insopportabile grandeur francese, la sete di petrolio dell'Europa, una mai sopita vocazione colonialista, una paranoia (spesso razzista) dell'immigrazione di massa, il terrore molto giacobino che dalla Libia nascano due o tre stati, l'incertezza circa la qualità laica e non fondamentalista della futura Cirenaica, e si potrebbe continuare a lungo ad elencare gli elementi di una complessità che mal sopporta le semplificazioni ideologiche. Ma c'è sopra ogni cosa una domanda: è un bene o è un male che si impedisca a regimi dittatoriali o totalitari di bombardare i sudditi che tali non vogliono più essere?
Ogni successivo ragionamento parte dal tipo di risposta. Con chi dicesse che è un male, non saprei come interloquire. Con gli altri, sì. Gli insorti di Bengasi, pur ringraziando per l'intervento aereo francese, hanno detto che avrebbero preferito ricevere armi e sbrigarsela per conto loro. Segno evidente che si sentono forti e in grado di raggiungere il loro obiettivo da soli. Va da sé che dal punto di vista della legalità internazionale non c'è poi molta differenza tra inviare armi a ribelli contro uno stato sovrano e impedire ai suoi governanti di sterminare “come topi di fogna” gli insorti. Sempre di interferenza si tratta.
Una volta che si è d'accordo sulla questione di fondo, non c'è dubbio che sui modi, sugli interessi legittimi e ignobili, sui pericoli, sulle convenienze, sui timori, su tutto si potrà discutere. Utilmente ragionare, visto che oggi la Libia, domani forse la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan, sono alle porte di casa nostra. 



lunedì 21 marzo 2011

Goffredo Mameli, il Maghreb, la matria illirica e Mamujada

I Mameli d'Italia
di Alberto Areddu
In queste ore e giorni stiamo festeggiando, e dire che meglio non si potrebbe, due ricorrenze storiche. La prima un po' sospesa, ma ben presente sui libri di storia, è il centenario dall'invasione giolittiana dello scatolone di sabbia; per ben dare lustro alla memoria, abbiamo ceduto in queste ore a riinvaderlo, e quantunque il suo attuale governante, detto raìs, come i nostri esperti di mattanze, neanche pochi mesi fa ce lo ospitavamo amichevolmente in gran pompa col suo harem personale, ci siam genialmente detti: "non ce ne frega più niente che ci venda petrolio o ci tenga lontane le cavallette, dobbiamo celebrare come si deve, invadendolo a casa sua e in buona compagnia".
Della seconda sappiamo meglio: è il centocinquantenario della nascita dell'Italia, che benché non fossero ancora accorpati Roma e Nordest, ebbe il crisma della santificazione in una marzolina giornata del 1861, con l'erezione a capodinasta di Vittorio Emanuele di Savoia in quel di Torino. Per quella unificazione si eran battuti ed erano caduti fior di giovani e tra questi, al tempo della Repubblica Romana, il genovese Goffredo Mameli, l'autore del testo dell'inno nazionale che in ogni salsa e ritmo (bello quello di Fiorello), da Bologna in giù in questo anno risentiremo spesso cantare.  Musicato piacevolmente da Novaro, è come noto lordo di retorica e di riferimenti storici ormai obsoleti, in un linguaggio ridondantemente postarcadico, né più né meno di qualsivoglia libretto d'opera della stessa epoca, e chi ne ha tentato l'esegesi strappalagrime e patriottarda è dovuto quindi scendere molto in basso (ma per i cospicui emolumenti sanremaschi ci si può elevare a tali bassezze). 

Italia plurinazionale: ne acquisterebbe in salute

di Diego Corraine

Attorno alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, in corso in questi giorni, per troppa retorica si rischia di trascurare la sostanza dei fatti storici. Lo Stato nato un secolo e mezzo fa non corrisponde esclusivamente alla nazione italiana, ma è costituito da un territorio ben più vasto, in cui la nazione maggioritaria ha inglobato altre nazioni come la sarda o la friulana, costringendole ad uniformarsi e assimilarsi linguisticamente e culturalmente a quella italiana. L’Italia è un esempio classico di stato-nazione, in cui “prima” viene determinato, dinasticamente, politicamente e militarmente, il territorio-contenitore, e “poi” viene imposto ad ogni costo un processo di assimilazione alla nazione maggioritaria delle componenti nazionali diverse. Fino, almeno, a tutto il periodo fascista e alla sua forsennata politica di ulteriore italianizzazione.
Solo nel 1948 avviene un cambiamento, con l’articolo 6 della Costituzione, e la successiva Legge di attuazione numero 482 del 1999, che riconosce e ufficializza dodici comunità linguistiche diverse dall’italiana. È chiaro, in questo quadro, che la cosiddetta Padania è solamente una escogitazione politica e che i suoi territori, comunità e culture sono tutte interne alla nazione italiana. Chiaro anche che il federalismo che oggi è proposto a sinistra e a destra è puramente economicista e non deriva dalla ammissione della plurinazionalità dello Stato italiano, come invece è avvenuto nella Spagna postfranchista o anche nella Federazione Russa.
Anche se nessuno oggi pare ammetterlo, il territorio dello Stato è dunque abitato dalla nazione italiana numericamente “maggioritaria”, da altre quattro nazioni (Sardi, Friulani, Ladini, Franco-provenzali) e dalle minoranze di altrettante nazioni che hanno il loro nucleo storico fuori dai confini statali (catalani, greci, albanesi, sloveni, tedeschi, croati, occitani). Ad accettare e sancire la plurinazionalità dello Stato italiano non ci sarebbe nulla di male, visto che gli stati mononazionali sono una rarissima eccezione nel mondo.
Ecco perché, almeno finché una modifica della Costituzione non indicherà tutte le singole comunità nazionali che fanno parte dello Stato, non potremo celebrare ricorrenze come quella appena trascorsa del 17 di marzo con pari entusiasmo di chi fa parte della nazione italiana, verso il cui processo di affermazione e liberazione, pienamente compiuto, va tutta la nostra simpatia. Ma noi, come Sardi che c’entriamo? Siamo stati noi, la nazione sarda, il nucleo fondante dell’attuale stato italiano o è stato il Regno di Sardegna, come entità sovrana, che ha fatto da battistrada e da rullo compressore per la liberazione della nazione italiana? Questo Regno, nato in epoca medievale per ostacolare il processo di liberazione dei Sardi avanzato dagli Arborea, si è rivelato per secoli un utile strumento dinastico, per altri e non per noi, fino a passare in mano dei duchi di Savoia che se ne sono serviti per i loro interessi.
Sarebbe potuto essere, come è accaduto altrove, che una dinastia esterna incarnasse un regno nazionale sardo, così come un Regno della sola Sardegna e dei Sardi entrasse, nel 1861, a far parte di uno stato confederale italiano, ma non è stato così.
Allora, se vogliamo che lo Stato attuale sia anche nostro e delle altre nazionalità, in modo esplicito e consensuale, creiamo un vasto movimento trasversale per modificare la Costituzione in senso plurinazionale. Ne deriverà, eventualmente, un’altra visione di federalismo, più corretta, coerente, moderna e in armonia con la storia e la giusta parità delle nazioni.

domenica 20 marzo 2011

Caro traghetti: un Nobel per la tempestività

di Augusto Secchi

Dopo due mesi di coma pressoché profondo c’è tutto un risvegliarsi che, nelle intenzioni dei risvegliati, dovrebbe farci urlare al miracolo. Il risveglio col botto, sul caro traghetti, lo ha fatto il dieci marzo dell’anno domini duemilaundici il Ministro Altero Matteoli che, come se avesse fatto la scoperta dell’acqua calda, ha dichiarato: “l’aumento delle tariffe è un’ingiustizia che penalizza la Sardegna”. Appena l’ho sentito sono stato preso da un’incontenibile euforia e, come in preda a delirium tremens, ho cominciato a danzare intorno al tavolo al ritmo di un Mambo dei Sette Passi. Poi mi sono dato una calmata, ho stappato un cannonau delizioso che ho condiviso con il vicinato accorso per vedere se stavo festeggiando un sei al Superenalotto.
Finiti i bagordi, a cui ha partecipato anche mio nonno centotreenne, ho digitato un numero telefonico internazionale e ho proposto il nostro Ministro dei trasporti per il premio Nobel per la tempestività. Nonostante le mie insistenze non c’è stato niente da fare: una voce con un perfetto accento scandinavo mi ha detto che i giurati, dopo un dibattito acceso ma leale, erano giunti alla conclusione che era più giusto assegnarlo al suo omologo regionale che, con un botto paurosamente ritardato, ha dichiarato: “abbiamo allo studio diverse soluzioni per abbattere il costo dei biglietti. Il rimborso ai viaggiatori della quota Iva è fra questi. Ma è chiaro che servono altri sforzi comuni e questi li abbiamo chiesti agli armatori”. Una dichiarazione che somiglia a un placebo e, allo stesso tempo, a un ossimoro, come a dire: armiamoci e partite.
Ma forse è solo uno scaricabarile, uno dei tanti a cui abbiamo assistito da due mesi a questa parte e il cui primato va, con voto unanime, all’armatore che ha cercato di farci credere che il raddoppio dei biglietti fosse dovuto all’aumento del carburante. Mentre stavo per inviare quest’intervento mi è giunto, insistente, uno squillo: la stessa voce scandinava mi informava che i giurati erano giunti a questa sofferta soluzione: per non fare dei torti a nessuno il premio Nobel per la tempestività l’avrebbero assegnato a entrambi. Una menzione, tuttavia, con tanto di pergamena filigranata, è stata proposta anche per l’opposizione che dopo due mesi ha trovato il tempo per “sollecitare” un intervento dell’Antitrust.
Una sollecitazione davvero commovente, peccato che somigli terribilmente ad una sollecitazione fatta da Altroconsumo quasi due mesi fa. Forse è per questo che non mi è venuto da brindare. Mi sono limitato chiudere il giornale. Poi, appoggiando la testa sulla spalla di mio nonno, ho cominciato a piangere come un agnello. Mio nonno si è girato appena e, accarezzandomi la testa, mi ha chiesto: “ma a’ fattu die o er galu iscuru?” Anche se erano le quattro del pomeriggio ho risposto: “er galu iscuru, manne’, iscuru mummutu!”

Una neviera sul mare? E' una Torre di Babele in sardo

La "Torre di Babele" nei pressi di Sassari

di Leonardo Melis

L’estate del 2010 vedeva la nascita di “Shardana Jenesi degli Urim” che, oltre alla pubblicazione di un documento in scrittura shardana, annunciò anche la scoperta di una seconda ziqurat dopo quella di Monte d’Akkodi. La scoperta, annunciata da Leonardo Melis già nella Pasqua precedente alla Tv e alla Stampa, provocò la rabbia incontrollata di Archeologi della Sovrintendenza e Cattedratici. Le minacce di pubblicazioni di smentite si sprecarono, anche perché la nuova edizione del libro appena dopo due mesi dalla pubblicazione annunciava che la Ziqurat era costruita sopra un nuraghe. E poiché i nostri amici “Archeobuoni” avevano tra l’altro dichiarato essere tale costruzione un semplice Protonuraghe…possiamo immaginare la figura!
Mentre la Ziqurat di Pozzomaggiore finiva in Tv e Stampa, il Documento scritto finiva in Parlamento per un’interrogazione al Ministro della Cultura. Una petizione con migliaia di firme portava a Settembre la segnalazione dell’esistenza di questo documento all’opinione pubblica e alle Autorità. Ricordiamo che il reperto fu trovato in uno scavo ufficiale dalla Sovrintendenza di Sassari non lontano dalla stessa Ziqurat. Questo accadeva nel 2006, ma del Documento nessuno sapeva e niente, fino al ritrovamento casuale delle immagini da parte di Leonardo Melis.  

sabato 19 marzo 2011

Lettere dal passato: la scrittura tra i Popoli del Mare

di Marcello Cabriolu

Nelle lunghe ricognizioni per l’Isola di Sant’Antioco alla scoperta di aree archeologiche, mi capitò di rinvenire dei simboli particolari (nella foto) che qualche studioso in tempi precedenti qualificò come triangolo apicato o anche daleth. In particolare il prof. Barreca definì il segno, sistemato sulla roccia sacra del tophet di Sulci, come la variante sarda al più famoso simbolo religioso cartaginese: quello della Dea Tanit. La fortuna volle che, del simbolo sopra citato, riuscissi a scoprire altri otto esemplari sparsi per l’Isola e incisi sopra cime particolari o su macigni costituenti i paramenti murari di alcuni nuraghi.
La mia abitudine di fotografare e documentare tutto mi permise di memorizzare la collocazione dei segni e tenerli costantemente sotto controllo. Lo studio e l’abitudine di visitare con la mia famiglia le aree archeologiche sarde mi permisero di rivedere, riprodotti nella ceramica (fig. 2) oppure osservare scolpiti nella roccia, dei simboli molto simili. Il venire incontro spesso a macigni, presenti in aree archeologiche inquadrabili nell’epoca nuragica, riproducenti svariate forme grafiche rese dalla mano dell’uomo, mi stimolò insistentemente ad elaborare che l’uomo costruttore di nuraghi sapesse scrivere. Presi in mano il mio bel manuale di iscrizioni e cercai dei riscontri ai simboli rinvenuti sinora.



Il nostro piccolo sondaggio

La foto del sondaggio alla
sua chiusura

Il piccolo sondaggio senza pretese, lanciato alla vigilia della festa dell'Unità d'Italia, ha dato i risultati che vedete qui a sinistra. 523 sono stati i partecipanti, la maggioranza assoluta dei quali non si sente italiana o solo italiana: 33% solo sardi, 13% sardi e europei, 3% sardi e insieme italiani, 2% sia italiani sia sardi, 1% apolidi. 
Italiano e basta si sente il 45%. Con qualche dimostrazione di paranoia, come denuncia il fatto che l'11 marzo intorno alle 17.30 qualcuno ha votato in questo senso per 13 volte, intorno alle 19.30 da un ufficio qualcun altro ha espresso la sua italianità senza se e senza ma per 25 volte dallo stesso Ip. E, ancora, il 13 marzo dallo stesso Ip di Cagliari esprimendo la sua italianità uno ha votato per 19 volte (facendo balzare il risultato relativo da 156 a 175): ha cominciato a votare alle 17:38:03 e ha smesso alle 18:11:38. Il giorno dopo, dallo stesso Ip di Milis uno ha votato “italiano” per 7 volte e un altro da Roma per 4 volte.
Contenti loro. Sono di una buona scuola: quella che non bada a spese pur di imporre un diffuso sentimento nazionale che sentono altrimenti vacillante.

Nois, is giapponesus

de Efisio Loi

In Giapponi est sutzèdiu su chi est sutzèdiu, unas dis’ a oi. Fait a ndi chistionari? Innias nanta ca dhu’ at unu pisci mannu che ispantu e malu meda. Si podit cumprendiri, est gent’ ‘e mari e, de su mari, cosa meda nd’anti ‘ogau in totu s’istoria insoru. A-i custu pisci, una divinidadi de-i cussus logus chi dhi nanta Fokushima, anca dh’iat bintu e impresonau asut’ ‘e terra in su fundu prus fundudu. Tanti’ po narriri, Fukushima, is Giapponesus dh’anti ‘onau a nomini a sa centrali chi est donendidhis prus a pensari in custa’ disi. Mamutzu, aici si tzerriat su pisci, donnia tanti’, po s’indi liberai, anca scudit de coa pesendudindi undas de mari e sciorrocus cument’ ‘e-i cussus de cida passada.
Is Giapponesus a-i custas cosas nci funt abituaus, genti meda ndi dhu at mortu de candu s’agàtanta e donnia ‘orta anti torrau a incumentzari sentza de dhui prangiri meda. Funti in mes’ ‘e mari, in pagu logu, e po si biviri, in custus tempus tenint abbisongiu de energia meda. Po s’industria chi dui tenint nci nd’iat a bolliri de petrolliu e issus non ndi dhui tenint nudha; feti a còmpora ndi podint otènniri e su ‘inari abbastat a su chi abbastada. Anti fatu unu sceberu e cun crebedhu e coru si dhu’ appoderant cun pagu duda.
Sa terra insoru, mancari pagu sigura, no’dh’anti mai lassada, e dh’anti onorada cun seriedadi e coràgiu.  Populu de mari, eus nau, chi de su mari nd’at ottentu meda de su chi dhis est srebiu cun sa pisca e is fainas chi dh’acumpangiant; e su mari fut po issus, logu de acòstiu a is atras terras mancari fessant a istrèsiu meda. Populu de grandus marineris chi anti fatu de su ‘endi e compora s’atividadi insoru  de prus importu mannu. Po milla e mill’annus de su mari e de sa terra insoru “barandilla de chelos e de mares”, nd’anti sutu lati e dh’anti torrau sanguni.
Ita ant a fari de immoi innantis? Ant a fari cument’ ‘e sempiri? pesendisindi ‘e terra, de cumenti nci dhus adi scutusu sa mala sorti e ant a sighiri a pompiari a su mari? su mari chi est intrau che un’arràbiu e ndidhis at pigau donnia cosa e-i sa vida puru?  cun cussus oghixedhus istrintus, a cillu asciutu, serius e arrispetosus cument’ ‘e sempri de sa natura e de sa forza sua? A nosu non si parit beru chi dhu’apat genti chi si ponit in fila abetendi po donnia cosa chi dhis abbisòngiada e chi non s’agatat prus che a primu.
Ndi dhu’ at pagu o nudha de-i cussus chi, arrafa arrafa e prangi prangi, si dha pìgada contras a su guvernu ca no’ dhus at avèrtius de su chi depiat sutzèdiri e de s’agiudu chi trigat a ndi lòmpiri. “Shikataganai” – nàranta – “Tantis, fait su chi ólit”. Nosu’ puru fiaus Giapponesus, una ‘orta. Candu proiat, in Bosa, anca lassaiant a prori. Immoi, candu proit ‘oleus su contributu, candu non proit, dhu ‘oleus aici etotu. Si dha pigaus cun s’unu e cun s’atru, foras chi cun nos etotu, candu s’àcua si ndi pigat sa ‘omu chi nd’eus pesau in logu anca non depiat essiri fatta.
Seus feti prangendu ca nemus si ‘onat su chi s’ispètada ma: “Custu in domu mia, no!” Boleus industrias chi funtzionint sentza pagari staria. Po s’energia chi srèbidi, calincun’atru  nci depit pensari. Cuba prena e pobidha imbriaga, cumenti nanta is Italianus. Mirai chi, dea-i cust’ala, prus Italianus de nosu’ si nd’agatanta pagusu. Ita chi faiat a si torrari, assumancu pagu pagu, Giapponesus.
Atentzioni, perou, non seu narendu chi fut mellus candu is canis s’acapiant a sartitzu e totus faianta su chi dhisi naranta a fari sentza mancu mùsciri. Est s’idea de “Autoridadi” chi si ndi fait iscostiari meda de’ is Giapponesus: po issus è nudha sa morti a fronti de su rispetu e s’ubbidientzia chi dhi tenint a s’Imperadori. Ca su “tenno” esti soberanu de is celus e donnia cosa chi de issu ndi ‘enit, depit essiri rispetada e ubbidia. Po nosu’ no’ esistit prusu custu printzìpiu, de rispetari su calledhu po sa faci de su meri, podit capitari  de avreguari su contrariu.
Nemus iat a bolliri a ndi fari tot’unu Giapponesu de nos atrus ma, in mesu de s’ordini su prus mellus e de su prus casinu mannu, ca mi parint che opari,  nd’at ari de logu, o no? Torru a narriri, acabonu mannu chi si torraiaus, assumancu pagu pagu, Giapponesus.

venerdì 18 marzo 2011

150°? Io lo festeggerei ricordando la storia

di Francu Pilloni

Il nostro Regno ebbe origine formalmente nel 1296, per effetto dell'investitura pontificia di Bonifacio VIII, solennizzata nell'aprile del 1297, mediante la quale l'aragonese Giacomo II poté fregiarsi del titolo di Re di Sardegna.
Quando dico nostro, sia chiaro che intendo di Sardegna e quando dico noi, intendo popolo del Regno di Sardegna.
Se al momento qualcuno non ricorda perfettamente le date o i personaggi, confidi nel fatto che ho controllato io stesso tutto quanto.
Il re d'Aragona aggiunse immediatamente il titolo di Re di Sardegna alle altre sue numerose prerogative, così com'è costume immutato in quelle plaghe, benché trascorressero trent'anni prima che un aragonese armato potesse mettere piede sull'isola nostra, riuscendovi, infine, con l'aiuto determinante del Giudice d'Arborea.

I 150 anni nella Metropoli e in Colonia

La copertina di un libro di testo per le scuole cinesi
durante la "Rivoluzione culturale"
Vista dalla colonia, la sagra del nazionalismo celebrata ieri in tutta la Repubblica ha avuto due aspetti. Uno, proprio della Nazione italiana e di chi in essa si riconosce, gioioso con canti, balli, coccarde, tricolori, inni e fuochi artificiali e retorica a gogò; era la sua festa, del resto, che poteva succedere di diverso? Uno, qui in colonia, a sua volta quadripartito in disinteresse, franca opposizione, imbarazzati “sì però” e mobilitazione del giacobinismo accademico e mediatico. Quello, per intenderci, che da qualche mese si sta dando da fare per dimostrarci che i nostri antenati erano alti, biondi e si chiamavano Romani. E poi Bizantini, Aragonesi, Catalani, Spagnoli, Austriaci, Italiani e l'ultimo che arriva prende tutto.
Vicende da colonia, insomma. Da tenere di conto solo per l'indottrinamento che alla fine del cammino porta innocenti creature a cantare, come guardie rosse, un inno convinti che la storia che la sottende sia quella raccontata, nel caso della Cina, dal Comitato centrale del Partito comunista cinese e, nel caso dell'Italia, da Roberto Benigni. Nell'un caso tragica nella sua catastrofica grandiosità, nell'altro, appunto, comica. Ma su questo aspetto, credo basti. Più intrigante è la celebrazione istituzionale, preparata qualche giorno fa anche con la distribuzione gratuita in tutte le edicole (così almeno mi si dice) di “Novas”, periodico della Regione sarda, e con pubblicità nelle televisioni sarde. “Sardi e fratelli d'Italia” scrive Cappellacci. Ma non si tratta, temo, di una constatazione che qualunque indipendentista sottoscriverebbe, circa la fratellanza del popolo sardo con quello italiano, così come con tutti i popoli.
Novas”, in sardo e testo a fronte in italiano, e la pubblicità istituzionale (in italiano) “sdoganano” la dottrina della statualità di Francesco Cesare Casula che diventa, così, parte se non della storia patria (a quella sono deputati coloro che da sempre la dileggiano) almeno della autonomia sarda. Cesare Casula ha ripetuto le cose che da sempre dice in un editoriale e in interviste televisive. C'è, insomma, il tanto perché si apra, finalmente, un serio dibattito sulle origini dello Stato italiano e, chi sa?, sulle ragioni della sua crisi. La prima reazione, sprezzante com'è nel suo costume, è di Paolo Maninchedda che definisce “una solennissima minchiata” lateoria, tutta formale e non sociale, culturale, economica, insomma sostanziale”. Essa “è calibrata e cucita intorno al desiderio di legittimare i tanti sardi che hanno usato la Sardegna per far carriera in Italia cosicché la loro carriera assumesse il rango morale di servizio all’Italia generata dai sardi, coem se la Sardegna fosse l’egitto e l’Italia la Terra Promessa”.
Se scrive così Maninchedda, che non mi pare professi particolari simpatie per il vetero marxismo, a differenza di altri che oggi sfottono Casula, immagino gli altri. Quelli per i quali la storia non va raccontata per quel che è stata, ma, come nel caso della nauseabonda vulgata risorgimentale, fatta di nascondimenti e enfatizzazioni, per quel che serve: per inventare miti della nazione, per denigrare i vinti chiamandoli “briganti” (ricordate i “banditen” dei nazisti?), e così via mistificando. Del resto, quella che all'inizio ho chiamato franca opposizione alla celebrazione dell'Unità d'Italia è per lo più improntata alla litania della “Italia matrigna”: ci ha tolto questo, non ci ha dato quest'altro, non ci ha risolto quest'altro ancora. L'economicismo trionfante, insomma.
Quasi che cessassero le ragioni dell'alterità, del nostro essere “una nazione distinta dalla nazione italiana”, il giorno che da matrigna l'Italia si trasformasse in madre benevola e desse alla Sardegna i soldi che le spettano (magari come fa con il Sud Tirolo, ma lì c'è ben altra classe dirigente), chiudesse un occhio se avvertisse in qualche legge regionale una violazione della Costituzione e riconoscesse la nostra insularità.
Come hanno ragione gli operai della Vinyls che hanno srotolato dalla Torre Aragonese di Porto Torres una enorme bandiera italiana: l'Italia sta dimostrandosi una madre benevola e dunque Viva l'Italia.
Detto questo, e a scanso di fraintendimenti, la non partecipazione dei sardisti alla cerimonia in Consiglio regionale e insieme ad essa quella di altri consiglieri (ne mancavano venti su ottanta) è una cosa buona: l'assenza di un quinto dei deputati regionali sta, quanto meno, a significare che c'è fastidio nei confronti dei sentimenti imposti. Sotto il palazzo, Sardigna natzione e altri indipendentisti hanno rafforzato il senso di quella assenza. Meglio sarebbe stato se, magari, i sardisti, i tiepidi, gli indipendentisti lo avessero fatto ricordando che 250 anni fa, 100 anni prima del 17 marzo 1861, i Savoia francofoni imposero la lingua italiana in Sardegna. Ma la lingua sarda, si sa, è l'ultimo dei pensieri.

giovedì 17 marzo 2011

Augùrios corales
a sos italianos
pro sos 150 annos
de sa Natzione insoro

Isetamus a nos los torrarent pro sos 5.150 annos de sa Natzione nostra



Cari auguri
agli italiani
per i 150 anni
della loro Nazione

Per reciprocità ce li aspettiamo per i 5.150 anni della nostra Nazione

mercoledì 16 marzo 2011

Cardedu: pozzo sacro di Cuguddadas. Tre soli segni ma potentissimi

Iscrizione pittografica dell'architrave
del pozzo sacro di Cuguddadas (Cardedu)

di Gigi Sanna

La scrittura nuragica dell'età del bronzo più la si scopre e più manifesta possedere una caratteristica che ormai si deve dare per acquisita: la variazione continua sul tema.
Infatti, lo scriba nuragico non è mai ripetitivo sia che riporti pittogrammi o ideogrammi sia che riporti lettere, quelle cosiddette 'lineari', dei codici alfabetici consonantici semitici (di origine siro-palestinese). Se lo fosse, se la sua scrittura si adagiasse su quella altrui o anche sulla sua composta precedentemente, suppongo che verrebbe meno agli insegnamenti e alle norme cardine che i membri della sua 'corporazione' imparavano dopo non lungo tempo di tirocinio nella 'scuola della vita'.
Lo scriba inoltre, sia che scriva segni su supporto, sia che li riporti attraverso gli oggetti stessi e i monumenti (egli è nello stesso tempo 'scrittore artigiano' e 'scrittore architetto'), usa sempre l'ingegno e la fantasia. Si compiace per l'originalità ed è consapevole della straordinarietà (quando la si raggiunge) del disegno, della creatività circa ogni singola espressione comunicativa, del dettaglio innovatore. Sta però molto attento a controllarli perché risultino sempre precisi e non debordino quanto a 'razionalità' e funzionalità, affinché rimangano sempre vincolati a ben precise parole, alla formule e, soprattutto, al codice o sistema generale 'sacro' dei segni che a quelle parole formula/formule sovrintende.
E il motivo lo si capisce subito, perché detto codice o sistema scrittorio dei costruttori dei nuraghi 'parla' della divinità, ne esprime l'arcana e altissima natura attraverso simboli altrettanto arcani ed alti per i quali bisogna portare il massimo del rispetto. Lo scrivere, stando alla documentazione, non è mai un atto gratuito da codice - strumento 'laico' nelle mani dell'uomo per l'uomo, ma da codice strumento 'sacro' (cioè 'inviolabile') nelle mani dell'uomo per venerare e celebrare adeguatamente, vale a dire con il massimo dell'intelligenza, la grandezza e la potenza del Dio.

lunedì 14 marzo 2011

Atlantide in Sardegna e a Cagliari? (II parte)


La prima parte dell'articolo è stata pubblicata l'11 marzo

di Giuseppe Mura

A dispetto delle esagerazioni costruttive e numeriche, Platone conserva in Atlantide tutte le caratteristiche attribuibili alla Sardegna nuragica. Ne propongo alcuni esempi:
-  per costruire i numerosi templi vantati dalla misteriosa isola, gli atlantidei usano la pietra “bianca, nera e rossa”, esattamente come i nuraghi, costruiti in arenaria, trachite di colori diversi e basalto;
-  Atlantidei amano le corse a cavallo e i Sardi altrettanto. La Sardegna dell’Età del Bronzo ha restituito numerosi morsi di cavallo in bronzo e alcuni bronzetti che mostrano in anteprima “Sa Sartiglia” di Oristano e le acrobazie praticate dai Sardi sopra gli animali in corsa (figura 16);
- i guerrieri di Atlantide, a prescindere dal numero immenso, sono muniti di armi tipiche dell’Età del Bronzo: scudo piccolo (rotondo), arco, fionda, lanciatori di giavellotto e marinai con relativa flotta. Armi e navi che non mancavano certo ai Nuragici;
- Atlantide disponeva di tutti i metalli “allo stato solido o fuso, che vengono estratti dalle miniere”; atlantidei usavano addirittura rame, bronzo, stagno, oro, argento e oricalco per rivestire le pareti dei templi e dei comuni fabbricati. A prescindere dal molto improbabile  rivestimento, la Sardegna era famosissima nell’antichità proprio per il possesso di tutti i metalli, compresi quelli elencati da Platone...


domenica 13 marzo 2011

Vestali (della Costituzione) con poco seguito. Perché?

Il pm Antonio Ingroia, prendendo la parola in una manifestazione contro il Governo, ha dato corpo alle paturnie del presidente del Consiglio italiano. E ha mostrato come le grida di Berlusconi contro alcuni pubblici ministeri politicizzati non sono solo paranoia come, sotto sotto o palesemente, molti pensano. Un magistrato, si dirà è un cittadino come altri, titolare di ogni diritto, compreso quello di esprimere liberamente le proprie convinzioni. Ma è proprio così? Davvero si può avere tanta fiducia in un magistrato che pubblicamente ci sbatte in faccia come la pensa? Se il suo pensiero politico è all'opposto del mio, con che tranquillità accetterò che sia lui a chiedere che io sia assolto o condannato?
Ci sarà, è vero, un giudice terzo a decidere della mia sorte. Ma in attesa che lo incontri, chi mi ripagherà – nel caso il pm mi ritenga colpevole – della immagine che di me avranno avuto i vicini, il paese, la città e dei danni subiti? Certo non il pm, che non ha responsabilità civili e che, soprattutto, non vuole averne. Qualcuno ha mai chiesto ad un medico, ad un architetto, ad un impiegato delle poste, a un commercialista se è felice di rispondere dei suoi errori o delle sue negligenze? No, evidentemente. A stabilirlo è una legge, approvata dal Parlamento e applicata dai magistrati, quelli inquirenti e quelli giudicanti.
È un attacco alla Costituzione fare leggi in questo senso? No e nessuno l'ha mai detto. È invece un attacco alla Costituzione, oltre che una misura punitiva dei magistrati, prevedere che anche essi paghino se sbagliano. Ne va della indipendenza della magistratura, dicono molti magistrati e i partiti di riferimento. Quelli che erano in piazza ieri per “difendere la Costituzione”. Da che cosa? Dalla riforma della Giustizia che, va da sé, costituisce un duro colpo alla Costituzione che non va toccata. Ohibò, ma non fu toccata – e sostanzialmente – proprio dal centrosinistra sponsor della manifestazione di ieri? Ne riscrisse addirittura un intero Titolo, il Quinto, e lo approvò con soli quattro voti di maggioranza. (Detto per inciso, votai sì al referendum confermativo).
E alcuni manifestanti di spicco non tentarono di riformare addirittura uno dei principi fondamentali, quelli definiti intoccabili? Per la cronaca, si trattava dell'articolo 12, l'ultimo dei “fondamentali”, nel quale l'on. Angela Napoli e altri volevano si aggiungesse: “Lingua ufficiale è l'italiano”. Con quale credibilità chi ha tentato di riformare la Prima parte e cambiato sostanzialmente la Seconda si erge oggi a vestale della Costituzione? Per di più a strenua difesa di una sola categoria o, per meglio dire, di una sola casta? Forse è per questo deficit di credibilità che non ostante la mobilitazione di tutta la sinistra e dei nazionalisti di Fli, alla fin dei conti in tutte le piazze della Repubblica hanno manifestato solo un milione di persone secondo gli organizzatori, molti ma molti di meno secondo le questure: 45 mila, metà dei quali a Roma.
Nei panni dei magistrati, politicizzati o non politicizzati, farei una qualche riflessione, anche dando per buone le cifre fornite dagli organizzatori.