domenica 30 marzo 2008

Monte Prama: era l'ora.

Si deve forse al nuovo sovrintendente archeologico, Azzena, se finalmente si comincia a tirar fuori dagli archivi il "dossier Monte Prama". Le tonnellate di pietre fatte a pezzi, trovate nel Sinis nel 1974 (trentaquattro anni fa), che in un certo periodo della nostra storia erano statue, stanno per restituirci forme di guerrieri e di chi sa che cos'altro. I restauratori di Li Punti pare non si facciano molte illusioni sulla possibilità di ricostruire molte di quelle sculture, ma vivaddio almeno si comincia.
Tutto è bene qualche che finisce (o promette di finire) bene? Sì, ma solo in parte. Trentaquattro anni di colpevole dimenticanza, mescolata con l'incredibile ignavia di chi aveva in mano quei reperti, possono aver recato danni forse non recuperabili.
Si è scoperto molto recentemente che i giganti di Monte Prama erano stati colorati di nero e di rosso dai loro scultori. Colori, a quel che si dice, di origine animale. Si sa che, attraverso l'analisi al C14 di resti organici, è possibile risalire all'età delle tinte e, quindi, delle statue. E sapere, così, se hanno ragione i feniciomani a datarle a un'epoca successiva all'arrivo dei Fenici, o se hanno ragione quelli che le fanno risalire al X o all'XI secolo avanti Cristo. Questa analisi, sia detto per inciso, non potrà essere fatta in Sardegna perché nella nostra isola, per quanto ricchissima di reperti archeologici, non c'è strumentazione adatta.
La domanda che c'è da porsi, con timore e con rabbia, è a questo punto: Possibile che gli archeologi che hanno lavorato nel sito, prima di autorizzare il trasporto delle migliaia di pezzi, non si siano accorti che alcuni di questi erano dipinti?

giovedì 27 marzo 2008

Supramonte e la delibera misteriosa

Quando si parla di possibile nuova occupazione, soprattutto in periodi di magra come questi, non si può non rallegrarsene. Soprattutto se a creare posti di lavoro è l'utilizzo non consumistico del patrimonio ambientale che abbiamo. L'occasione si chiama "Progetto pilota del Supramonte" deliberato ieri dal governo sardo (Delibera 18/4) e che riguarda i comuni di Orgosolo, Dorgali e Oliena.
La delibera (alle ore 15 di oggi) non è ancora pubblica se non a beneficio dei sindaci diessini di Orgosolo e Dorgali e della Nuova Sardegna. Non la conosce - per sua ammissione - neppure il sindaco di Oliena che è, però, di altra parrocchia. Siamo uomini di mondo e sappiamo che fra i privilegi di chi detiene il potere è quello di informare per primi i consanguinei. Si racconta che nel 1832, anno dell'entrata in vigore dell'editto delle chiudende, un funzionario bittese residente a Torino abbia informato i suoi parenti con un laconico messaggio: "Tancadebonde".
Non avendo santos in corte come i due sindaci e la cronista della Nuova, dobbiamo fidarci dei peana sciolti alle magnifiche sorti e progressive degli oltre 15 mila ettari toccati dalla buona sorte. Ma c'è qualcosa che mi ha fatto sobbalzare, effetto che mi auguro faccia anche a chi non conosce la realtà di quei luoghi. "La Cooperativa Rinascita '70 ha messo a disposizione i propri terreni".
Ohibò. E da quando, una cooperativa, per amica che sia prima del Pci, poi del Pds, quindi dei Ds e ora del Partito democratico, ha "propri terreni" nel Supramonte, notoriamente fatto di terre comunitarie e demaniali? Sbaglio o lapsus feudiano? Forse, ma mica tanto. Perché si viene a sapere che la Cooperativa "ha manifestato la disponibilità a restituire i terreni in occupazione per essere trasferiti all'Ente Foreste".
Chi mi legge deve sapere che la Rinascita '70 ottenne in concessione per 25 anni dalla comunità orgolese (proprietaria essa sì dei terreni, gravati fra l'altro di uso civico) 2500 ettari perché li lavorasse e legittimamente ne ricavasse occupazione. La Cooperativa, dunque, scaduto il prestito deve restituire ciò che ha ottenuto dalla legittima proprietaria, non può dichiarare la sua disponibilità a farlo. E lo deve fare senza porre alla comunità la condizione che quelle terre siano trasferite all'Ente Foreste.
Come molti di voi, credo, ho ottenuto da una banca un prestito per farmi la casa. Dubito che sarebbe contenta se dichiarassi la mia disponibilità a restituirle il mutuo, a patto che... Mi pare improbabile che nella delibera del governo sardo, quando sarà dato anche ai non diessini di conoscerla, leggeremo simili proterve sciocchezze. Ciò che mi pare assai probabile è che le comunità interessate dal provvedimento non prenderebbero alla leggera un simile tentativo di esproprio.

giovedì 20 marzo 2008

Perché tanto silenzio sulla letteratura in sardo?

Continua giorno dopo giorno e con metodo, la posa nei quotidiani sardi di una cortina sanitaria intorno alla letteratura in sardo. Diversi quanto a linea politica e concorrenti in molti altri aspetti, su una cosa sono concordi: nella pervicacia con cui stendono una assordante cappa di silenzio su tutto ciò che anche da lontano odori di letteratura in lingua sarda.
Con assiduità pubblicano intere pagine sui romanzi usciti in Sardegna purché in italiano e, al massimo, con qualche "espressione dialettale" che, fuori dell'Isola, fa molto esotico e folcloristico. E, sopra, gli appiccicano il bollino "Nouvelle vague letteraria sarda" o "Nuova letteratura sarda". Sul fatto se possa essere definita sarda una letteratura scritta in altra lingua, è in corso in vari forum (uno è quello di Politica OnLine) una lunga e spesso appassionata discussione, ma non è questo in causa.
In causa è il fatto che per i quotidiani sardi (unico veicolo di conoscenza e di pubblicizzazione di quanto avviene in questo campo) esiste solo la letteratura in italiano. La negazione di informazione su quanto si pubblica in lingua sarda è totale e se non parlo di genocidio culturale è perché, in questi giorni, è tornato di attualità il più grave genocidio della cultura tibetana. Ma, nel loro piccolo, i giornali sardi se lo tentano con la letteratura in sardo.
Un complotto? Magari: si saprebbe come metterlo a nudo e combatterlo. Il fatto è che si tratta di un'operazione di politica cultura condotta con piena consapevolezza da alcuni responsabili dell'azienda culturale sarda e con inconsapevole complicità di chi sta a questo gioco alla negazione. In un forum aperto su Il Corriere della Sera sul "Leggere e Scrivere", di fronte alla curiosità per una cosa ignota espressa da molti, è stato un sardo ad affermare: 1) La letteratura sarda è coltivata in vitro dalle provvidenze regionali (cosa notoriamente falsa); 2) Nessuno compra i libri in sardo se non gli amici e i compaesani dell'autore.
Che fuori dell'Isola nulla si sappia sulla letteratura in sardo è persino ovvio, come è bella cosa sapere che ci sia almeno curiosità; che le sciocchezze che ho riportato le dica un sardo è dovuto al fatto che non ne ha mai letto sui giornali sardi che, presumibilmente, egli legge. Il che dimostra che la cappa di silenzio funziona. Una cosa non conosciuta non esiste: la disinformatzia stalinista è buona maestra.

martedì 18 marzo 2008

Una assenza inquietante

Sarà responsabilità dei giornali infedeli, nel riportare le cose, o dalla campagna elettorale dei grandi e medi schieramenti in Sardegna manca una questione di fondo? Fondamentale è, va da sé, la questione della nuova Costituzione della Sardegna. Diceva non ricordo più chi, che fra la riforma delle istituzioni e i provvedimenti economici e sociali c'è lo stesso rapporto che c'è fra il matrimonio e i regali di nozze: questi ultimi sono molto attesi, ma senza il primo non ci possono essere.
Ebbene, leggendo i giornali sardi e qualche comunicato emanato dai partiti, si ha l'impressione che c'è una inquietante assenza: la volontà di dare alla Sardegna una Costituzione in cui siano stabiliti i rapporti futuri fra l'Isola, l'Italia, l'Europa. Tutti parlano dei regali di nozze, nessuno di nozze. Tutti, insomma, si impegnano per lo sviluppo della Sardegna, per l'occupazione, qualcuno dice che bisogna ripensare al sistema produttivo, altri si spinge a chiedere continuità territoriale e la zona franca. Non si esce, insomma, dall'economicismo che fu il difetto fondamentale del vecchio Statuto, fatto passare, dai sardi che lo chiesero e gli italiani che lo concessero, come un provvedimento per superare il deficit di sviluppo tra Sardegna e Continente. Il fatto che a fondamento della specialità dell'autonomia ci fossero elementi immateriali come la lingua, la storia, gli istituti giuridici del diritto consuetudinario, nemmeno fu preso in esame.
Oggi si rischia di commettere lo stesso drammatico sbaglio. Per la verità, l'ex ministro Pisanu, una novità l'ha introdotta: quella della insularità come fondamento della specialità e del diritto a una contrattazione alta di un nuovo rapporto con l'Italia e l'Europa. Dal semplice economicismo del passato si va al "geografismo", qualcosa di più e di meglio, ma non basta. C'è a disposizione di tutti una proposta di Costituzione "Sa Carta de logu nova de sa Natzione sarda", pubblicata ora da Condaghes e a cui può essere richiesta,elaborata da un Comitato cui ha garantito appoggio e sostegno anche lo schieramento di cui Pisanu fa parte. (Nella foto la copertina del libretto).
Un progetto forte. Troppo per essere appoggiato anche in campagna elettorale?

sabato 15 marzo 2008

Tuvixeddu e gli adoratori dell'Ordigno



L'Ordigno è, nel bellissimo "Sardità come utopia. Cronache di un corpiratore" di Eliseo Spiga, lo Stato e, in genere, l'organizzazione suprema. Lui, ed io, prendiamo al più atto che l'Ordigno esiste e, insieme a molti altri, tentiamo di limitarne l'invadenza, il perverso suo gusto di disciplinare tutto, compresa la lunghezza delle banane. Altri lo vorrebbe più invadente, più in grado di omogeneizzare tutto il possibile.
Così, nel post qui sotto, riferisco di un articolo di Marcello Madau, archeologo, docente all' Università di Sassari, angustiato dal pericolo che l'Ordigno sia almeno moderato nel governo dei beni culturali sardi. Poco male fosse solo, il fatto è che tutto lo statalismo sardo è di questa idea: se tutto il potere non è nelle mani dello Stato, e per esempio è compartito con la Regione, poveri beni culturali alla merce' "degli interessi locali".
Deve essere per questo che la Soprintendenza archeologica, notoriamente organo dello Stato e perciò lontano dalle seduzioni "degli interessi locali", ha compromesso la necropoli di Tuvixeddu. "La Soprintendenza e il Ministero dei Beni Culturali" ha scritto Legambiente "in passato non hanno attuato una tutela adeguata dell'area archeologica di Tuvixeddu, tanto che numerose tombe sono state inglobate all'interno di costruzioni private. Si è persino autorizzata la costruzione di una strada a scorrimento veloce che taglia il sito e si estende a pochi metri dalle tombe della necropoli."
Chi sta meglio salvaguardando Tuvixeddu (non interessa, qui, se bene o male, con o senza forzature): lo Stato attraverso la sua Soprintendenza o la Regione sarda?
E dato che ci siamo: chi ha dato all'Enel il permesso di piazzare brutti tralicci vicino al nuraghe Losa?
Chi - si guardi la prima foto in alto - ha dato il permesso di recingere e di costruirvi accanto la splendida domo de jana di Calaviche, scavata nel masso che si intravede dietro il recinto?
Chi - guardate l'altra foto - sta consentendo lo scempio degli affreschi della chiesa campestre di Santu Naniu di Orgosolo?

giovedì 13 marzo 2008

Statoiatri sull'orlo di una crisi di nervi

Marcello Madau scrive oggi su un giornale sardo di augurarsi non venga "smarrito, per via della omologazione di interessi che si intravvede nel riavvicinamento delle due grandi forze politiche, il ruolo superiore dello Stato come custode della collettività nazionale e dell'uguaglianza dei suoi diritti e doveri". Aznar in Spagna e il Conseil constitutionnel francese (per dire dei più resistenti baluardi del giacobinismo) non avrebbero potuto dire meglio.
E per che cosa Madau esprime questa preoccupazione? Perché sente il rischio che il controllo dei beni culturali possa passare dallo Stato alle Regioni. E che cosa, se non una concezione statoiatra, può fargli pensare che questo sia un male, anziché, come penso, un bene? La Regione sarda, intesa naturalmente come istituzione del popolo sardo, non sarebbe in grado di avere una visione unitaria di beni culturali che le appartengono? Perché? Perché è un'entità più piccola dell'Italia o solo perché non è uno Stato indipendente? Par di capire che se lo fosse, Madau non eccepirebbe e si rassegnerebbe a una tutela sarda del patrimonio culturale sardo.
Insomma, Malta, quattro volte meno popolata della Sardegna, è titolata a esercitare tutela dei suoi beni culturali perché è uno Stato. E la stessa titolarità, suppongo, Madau riconosce a Montenegro, a Cipro e ad altri Paesi più piccoli della Sardegna, solo perché stati. Se è così, credo che Bustianu Cumpostu, Efisio Trincas e Gavinu Sale abbiano ragioni da vendere, quando propongono la costituzione dello Stato sardo.
Non ne sono sicuro, ma penso che una Sovrintendenza sarda (nel senso che non risponde a un Ministero italiano) starebbe più attenta a non fare figli (feniciomani, romanomani, grecomani, etc) e figliastri (quei poveri archeologi che si ostinano a pensare che in Sardegna, oltre a fenici, punici, romani, bizantini... ci fossero anche dei sardi).

martedì 11 marzo 2008

Come si "sdoganò" la letteratura in sardo

Su Il Corriere della sera di questi giorni, più precisamente su un suo forum dedicato alla letteratura, si è incidentalmente aperto un mini dibattito sulla letteratura sarda in lingua sarda. Incidentalmente perché, ad un intervento su "l'auto-esotismo" di una parte degli scrittori di cognome sardo che vanno di moda, ho risposto con un mio intervento in cui segnalavo una "curiosità": in Sardegna esiste una ormai copiosa letteratura in lingua sarda.
La "curiosità" è certo per i lettori italiani, ma anche per quelli sardi, ai quali, del resto, l'esistenza di una letteratura in sardo è negata non solo dai giornali continentali, ma anche sa quelli stampati e diffusi in Sardegna. Chi avesse voglia di vedere le reazioni suscitate da questa "curiosità", può farlo cliccando qui e poi seguendo il dibattito nei giorni di cui è indicata l'apertura del forum.

Attenti ai Sic: chiedetelo a quelli di Narbolia

Solo in pochi - ricordo l'intellettuale di Baunei ed ex sindaco del paese Pasquale Zucca - si resero conto di quanti pericoli si nascondessero dietro il gentile acronimo Sic. Sic = siti di interesse comunitario. L'ex presidente del governo sardo ed ex senatore dipietrista Federico Palomba corse a individuare decine e decine di Sic qua e là per la Sardegna e, senza sentire i comuni, ne consegnò l'elenco all'Unione europea.
Per Palomba, questo del ritenere superflua l'opinione delle comunità e delle loro amministrazioni, era un vizio: lo sperimentò disastrosamente con il Parco del Gennargentu che tentò di imporre con i risultati che, credo, tutti sappiano. Ma, mentre parco è una parola tonda, immediatamente comprensibile, Sic, Zps, Ptp sono sigle che hanno bisogno di una comprensione più sofisticata. E in pochi, salvo nelle comunità più avvertite e sull'avviso circa il fondamentalismo dei cosiddetti ambientalisti, si misero sul chi vive.
Succede, così, che fondandosi sulla direttiva europea sui Sic, e con il godimento quasi orgasmatico del club degli ambientalisti illuminati sardi, l'Unione europea starebbe per trascinare la Regione sarda e lo Stato italiano di fronte alla Corte di giustizia europea perché la Regione, dopo un tira e molla con il comune di Narbolia, alla fine ha concesso il nulla osta alla costruzione di strutture turistiche dentro la pineta di Is Arenas, in una zona della Sardegna preclusa allo sviluppo turistico e aperta quasi solo alla contemplazione dei buoni selvaggi.
I Sic, è stato lungamente bandito, non contrastano con lo sviluppo, non confliggono con il turismo. Forse - ma non è detto - la corporazione degli ayatollah ambientalisti non riuscirà a far abbattere le strutture turistiche di Is Arenas. Ma, forse, è il caso che le amministrazioni sarde le quali hanno subito (o inconsciamente accettato) i Sic sul loro territorio comincino a riflettere su quanto sta per accadere nel comune di Narbolia, provincia di Oristano.

lunedì 10 marzo 2008

Cubeddu: ci sono novità sul fronte dell'autonomia

E' quanto ha sostenuto ieri su L'Unione sarda Salvatore Cubeddu. Per chi avesse perso questo importante contributo, lo ripropongo in questo blog. Che, naturalmente è aperto ad ogni commento.

Il sessantesimo anno dello Statuto sardo è appena trascorso. Merita riparlarne per alcune circostanze ed eventi che meglio specificano e rafforzano il significato di quelle celebrazioni.
Il tempus propitium ha inizio giovedì 20 febbraio con i carabinieri che organizzano in limba un proprio calendario.
I successivi passaggi espressi da queste giornate sono tutti da catalogare sotto la voce autonomia della Sardegna. Cioè della passione per la nostra libertà. E sono molteplici. Il 21 pomeriggio gli ex-consiglieri regionali promuovono un seminario sull'identità sarda nel futuro Statuto, come immettervi l'"essere sardi" in quanto produttori di beni, di cultura e di società. La mattina del sabato 22 vede in sale distinte del Consiglio regionale il ricordo della vicenda di Giomaria Angioy (1751-1808), collegata agli eventi della rivoluzione francese ed europea, e la presentazione alla stampa del "nuovo statuto speciale per la Nazione sarda, Sa Carta de Logu noa pro sa Natzione sarda". In fondo non c'è molta distanza, almeno emotiva, tra coloro (i presidenti, la giunta, consiglieri, uomini di cultura, studenti, cittadini) che intonano commossi in piedi le strofe del "procurade de moderare" e coloro (il comitato, con i politici del centro-destra) che spiegano ai giornalisti come "il popolo sardo, il territorio della Sardegna e delle sue isole, il mare e il cielo territoriale, l'ambiente, la lingua, la cultura e l'eredità culturale, materiale e immateriale, della Sardegna costituiscono la Nazione sarda". Cosa sta succedendo in Sardegna se, concludendo il proprio intervento in occasione della festa dell'autonomia, il leader di AN in Sardegna afferma di "esserne affascinato" e si impegna a far "riconoscere quei valori"?
Per chi ha seguito nell'aula dell'assemblea regionale la giornata del 25 febbraio quella conclusione era del tutto in linea con le aperture dei costituzionalisti provenienti da molte università italiane, anche quando non si sono specificamente soffermati sul riconoscimento dei diritti storici della Sardegna. Chi ha ascoltato si è reso conto che nelle istituzioni italiane ed europee ci sarebbero gli spazi per riconoscere le nostre richieste, decise e motivate, che poi non sono dissimili da quelle ottenute da altri popoli-senza-stato. L'intervento dei giuristi delle università italiane è stato una boccata d'ossigeno rispetto all'indisponibilità di coloro che in Sardegna interpretano le norme della costituzione italiana quali muri invalicabili e non come, seppure autorevolissimi, gli articoli di una legge che può venire modificata adattandosi anche alle esigenze dei sardi.

sabato 8 marzo 2008

Sonetaula e gli anti-identitari

Credo che mi piacerà, e non poco, il nuovo film di Salvatore Mereu, Sonetaula. E questo malgrado gli sforzi della congrega degli anti-identitari (naturalmente sardi) e nonostante l'aiuto che lo stesso Mereu, in una infelice intervista con una Tv (naturalmente sarda), ha dato loro. Come capita spesso è stato un critico italiano, Goffredo Fofi (il quale evidentemente non soffre della sindrome dell'autocolonizzato), a farmi capire che nel film non mi imbatterò nella fastidiosa e ormai insopportabile reprimenda dei modernisti contro l'arcaismo dell'identità sarda.
Quel che avevo letto fino ad allora mi faceva temere il peggio degli stereotipi. Gianni Olla su La Nuova Sardegna parlava di "banali ragioni d'orgoglio identitario" (banali?) e diceva come Sonetaula fa risaltare "una sorta di messaggio nascosto: la violenza e la solitudine sentimentale, sessuale, repressiva, rabbiosa, come "tabù visivo" e prima ancora verbale dell'intera cultura sarda non metropolitana". Walter Porcedda, sempre sullo stesso quotidiano, parla della "maledetta via crucis della balentia", di pellicola interpretata "in sardo e in lingua italiana" (la seconda è lingua, l'altro chissà cos'è?), di "terra alla vigilia del passaggio alla modernità".
Per fortuna, se di deve dar retta a Fofi, Mereu "ha voluto dialogare con i morti, con i suoi morti, e richiamarli sciamanicamente in vita perché rivivano la loro pena e possano raccontarla, finché si può". Speriamo: non se ne può più degli stereotipi di chi si mette in testa di raccontare ai sardi e forestieri la Sardegna "autoesotica" che piace tanto ai forestieri, così convinti che la Sardegna sia come la pensano loro che sono disposti a investire i propri soldi per comprare romanzi che li confortino nel loro immaginario.
Nella foto: la porta dell'abitazione di Orgosolo scelta da Mereu per ricostruirvi la bottega del barbiere.

martedì 4 marzo 2008

Scritta nuragica: intervista con lo scopritore


E' stata rinviata la conferenza stampa che, ieri a Santa Cristina di Paulilatino, Luigi Sanna doveva tenere per illustrare la nuova scrittura nuragica trovata in una capanna vicino al nuraghe Lugherras. A quel che pare, dovrebbe trattarsi di niente di grave, solo un rinvio. Intanto, però, ho fatto a Sanna una breve intervista che qui sotto pubblico.

D. - Come ha scoperto la scritta che avrebbe dovuto illustrare ieri a Santa Cristina?
R. - La scritta è stata scoperta circa un mese fa da un'insegnante di Paulilatino, Teodora Masia e da una sua amica, anche lei insegnante. Entrambe sono appassionate di archeologia e di epigrafia. Essendo a conoscenza di quanto avevo pubblicato in Sardoa Grammata sulla particolare scrittura adoperata dai nuragici, hanno ritenuto opportuno farmela conoscere. Mi è stata fatta una telefonata il 10 Febbraio e l'indomani stesso ho effettuato un sopralluogo. Le incisioni si trovavano in località Perdu Pes, non lontano dal Nuraghe Lugherras, in una capanna abbandonata, sicuramente di antica costruzione. Ho capito subito che si trattava di scrittura del periodo nuragico. I grafemi infatti erano riconducibili alle tipologie di alfabeto, ormai note, di altri documenti nuragici.

D. - Ha già decifrato i grafemi?
R. - Se per decifrazione intendiamo il trasferimento dei grafemi in segni fonetici, la risposta è ampiamente affermativa. Se invece intendiamo per decifrazione il significato che sta dietro i suoni, il discorso è più complesso. Infatti, com'è d'obbligo per tutte le decifrazioni, in queste bisogna essere cauti e andarci con i piedi di piombo. I fraintendimenti sono sempre possibili. Inoltre la scrittura nuragica, per ora sempre d'ispirazione semitica, stando a tutti i documenti rinvenuti, raramente manifesta segni d'interpunzione. Pertanto la 'lectio continua', ovvero la serie ininterrotta dei grafemi, non permette mai una lettura agevole. Comunque le parole sono o meglio, sembrano essere, due. Forse tre, perché bisogna sempre tener presente che la scrittura nuragica, soprattutto se è arcaica, è 'a rebus'. In genere tende a nascondere il più possibile il nome della Divinità.

D. - Lei dice che la scritta, di tipo protosinaitico, risale al XIV-XIII secolo a.C. Da dove ricava questa convinzione?
R. - La scritta è di tipo protosinaitico per alcuni grafemi, ma per altri (si pensi ad esempio al 'beth' iniziale) di tipo cosiddetto 'protocananeo'. Per protocananeo s'intende uno sviluppo in senso meno pittografico della scrittura protosinaitica. Ora poiché il protocananeo viene di norma datato tra il XV ed il XIII secolo a.C., è evidente che in questo arco di tempo si deve collocare anche la scritta di Perdu Pes.
Dopo abbiamo la presenza del fenicio arcaico, testimoniato questo in Sardegna dal frammento di stele rinvenuto a Nora e studiato dal Cross (che lo ritiene del XI secolo a.C.). Si deve tener presente, comunque, che nel Negev e in Palestina, quando si scrive in 'protocananeo' c'è la tendenza da parte degli scribi, ben compresa ormai dagli studiosi, a nobilitare la scritta con grafemi di un alfabeto più arcaico. Sembra essere anche il caso della nostra iscrizione. Del resto la tendenza 'arcaicistica' è assai manifesta nell'anello di Pallosu di S.Vero Milis e, in particolare, nelle tavolette di Tzricotu di Cabras che, addirittura, presentano il cuneiforme ugaritico.

D. - Guardando con l'attenzione che consente una fotografia, si ha l'impressione che la capanna "ospite" della scritta possa essere piuttosto del IX o VIII secolo a.C. E' cosi?
R. - Che la capanna sia del X -XI o del XVI o XVII secolo a.C. lo vedranno gli archeologi. Il dato secondo me, è però irrilevante, del tutto irrilevante, perché i massi scritti (bisogna tener presente che anche quello sottostante alla scritta contiene chiari 'segni' di incisioni e, con ogni probabilità di scrittura) sono stati riciclati. Lo dimostra il fatto che entrambi vanno capovolti per capire bene le iscrizioni graffite. Devo rilevare, con disappunto, che ci sono stati i soliti impulsivi che non si sono accorti del particolare e che comunque si sono affrettati a trinciare giudizi da epigrafisti consumati.
Evidentemente non hanno letto o si sono dimenticati delle raccomandazioni della Guarducci, la massima studiosa di epigrafia italiana di ogni tempo. Per le iscrizioni, oltre ad avere una grande competenza sulla natura e la tipologia dei segni, bisogna portare il massimo rispetto. Bisogna guardarli bene, con grande scrupolo. Le iscrizioni tuttavia non sono fuori contesto perché fanno parte della antica 'religio' del sito di Perdu Pes. Di ciò parlerò diffusamente, nel mese di Aprile/Maggio nella rivista Quaderni Oristanesi diretta dal prof. Giorgio Farris. La scritta, a quanto pare, illumina l'archeologia del toponimo ed il nome dello stesso.

D. - Sempre dalla foto, sembra che i grafemi siano troppo spigolosi e chiari, poco consumati dal tempo, insomma, e non sono evidenti macchie di muschi e licheni. Ha una spiegazione?
R. - E' strano che mi si faccia questa domanda perché la fotografia (ma ognuno può vederlo di persona in loco) mostra che i primi tre grafemi sono in parte ricoperti di muschio, anche nei 'profondi' solchi delle incisioni. Tre invece ( ma due sono accorpati!), quelli non ben protetti dall'antico frascame prima, dalle tegole moderne dopo, nonché dall'architrave della capanna, manifestano le ingiurie del tempo; ed infatti compaiono in un quella particolare zona della pietra esposta ( a sud- est) all'acqua ed al sole. E' stato un miracolo che le due insegnanti paulesi abbiano rinvenuto le iscrizioni per tempo. Qualche altra decina d'anni e la seconda parte della scritta, con ogni probabilità, non ci sarebbe stata più. Comunque gli scettici procedano pure con metodo autoptico. In questo figuriamoci se non sono d'accordo. Lo sono tanto che ho subito portato nella capanna di Perdu Pes un noto epigrafista e semitista, perché è bene non fidarsi mai di due occhi soli.

D. - Lei sostiene che la scritta è simile a quelle trovate in Palestina. Non è possibile che i sardi, nelle lunghe frequentazioni dell'odierno Medio oriente, abbiano scoperto lì la scrittura e importata in patria?
No, a mio giudizio le cose non sono andate così. Non si è trattato di una 'semplice' copiatura. Per capirlo bisogna allargare il campo storico e riconsiderare gli avvenimenti di uno dei periodi più complessi e tormentati della storia del Medio Oriente, quello della seconda metà del Secondo Millennio a.C. Dalle mie recenti ricerche, che attraverso la scrittura nuragica hanno portato alla decifrazione dei documenti greci di Pito (Delfi) finiti in maniera rocambolesca nel cuore della Gallia (Glozel), risulta che tra il semitico Cadmo che portò le 'lettere alfabetiche' a Tebe in Beozia e coloro ( purtroppo senza nome) che le portarono anche in Sardegna, non c'era grande differenza. Sardi cosiddetti 'nuragici' e semiti trapiantati in Grecia avevano la stessa Divinità e quasi lo stesso codice di scrittura, ad essa organico.
Nel corso del XVI secolo a.C., prima ancora dell'espansione travolgente dei Micenei nel Mediterraneo orientale, i semiti (particolarmente di tribù ebree) fondando i loro scali commerciali in Grecia e in Sardegna (e forse in altri luoghi) portarono con sé quella divinità (yah o yahwhè che dir si voglia) che veniva espressa nella scrittura con i grafemi 'cananei e palestinesi' d'origine, d'ispirazione pittografica egiziana. Ho scritto un libro su questo fenomeno mercantile prefenicio ( I Segni del Lossia Cacciatore, S'Alvure 2007) che diffuse un certo tipo di scrittura (quella che poi portò all'alfabeto greco del periodo arcaico) ma vedo che, purtroppo, in pochi lo conoscono, nonostante la stampa sarda (e non solo) lo abbia citato più volte. Ne parlerò comunque tra qualche giorno a Mogoro (insieme alla scritta di Perdu Pes) e nella Giornata di Studi in onore di Gianni Atzori (quarto anniversario della morte), promossa dal Sindaco di Oristano, per la fine di Marzo.

sabato 1 marzo 2008

La scritta nuragica e un possibile miracolo

E se questa scritta nuragica, che lunedì sarà presentata a Santa Cristina di Paulilatino dal professor Luigi Sanna, facesse il miracolo di mettere d'accordo "orientalisti" e "occidentalisti"? Spiego, un po' alla grossa, per chi è, come me, appassionato della nostra storia antica, ma di non molta competenza scientifica: "orientalisti" sono quanti ritengono che i sardi costruttori di nuraghi venivano dall'oriente (Anatolia e dintorni); "occidentalisti" sono quanti sostengono, invece, che i sardi costruttori di nuraghi erano residenti nell'Isola da un bel po' di secoli e che, comunque, erano venuti dalla Libia.
Il "miracolo" che immagino è fondato sulla logica e sulle letture spero non raffazzonate: cita proprio queste letture e non coinvolge gli autori delle scoperte, fatte senza prevedere che un giorno qualcuno le potesse legare con un filo di logica.
Luigi Sanna sostiene che quella trovata nelle campagne dell'Oristanese è una scrittura protosinaitica pittografica
acrofonica, molto arcaica il che vuol dire XIV –XIII secolo a.C. Un’ iscrizione di 4.300 anni fa, dunque, in pieno splendore
della civiltà dei sardi nuragici. I quali che usavano la stessa scrittura originaria del Sinai e del Negev.
I secoli XIV e XIII sono quelli in cui - afferma l'archeologo Giovanni Ugas in una intervista (L'Unione sarda, 27 ottobre 2007) - i sardi scorrazzavano nel Verde Grande (il Mediterraneo visto dagli egiziani). Bazzicarono a lungo dalle parti della Palestina e dell'attuale Israele: "Ci sono contatti e scambi culturali e tecnologici" disse Ugas al giornale "fra Occidente e Oriente: uno dei frutti più interessanti è stato trovato e studiato anche da me in Israele, a El Awat, vicino ad Haifa. Si tratta di una fortezza risalente al periodo fra il 1230 e il 1170" che è di origine nuragica. Ma la permanenza dei sardi, noti al mondo di allora come Shardana, fu molto più lunga: gli egiziani li citano a partire dal XIV secolo a.C per circa tre secoli.
Non è possibile pensare che in tutti questi decenni, i sardi si siano "innamorati" della scrittura, l'abbiano imparata e quindi usata anche in patria? Anche per lasciarci la scritta dell'Oristanese che risalirebbe proprio a quel tempo.