venerdì 29 ottobre 2010

Enna: spiedini di lingua sarda con contorno di cavolate

Singolare sorte quella della lingua sarda, strumento di comunicazione per i più, indistinto blob limaccioso per altri, che si sentono, così, autorizzati a scrivere cose che mai e poi mai oserebbero dire di argomenti che conoscono. Temerebbero, a ragione, di essere lo zimbello non solo degli esperti, ma anche di un bravo dilettante. Verrebbe mai in mente ad una persona seria che volesse scrivere di questioni linguistiche, sostenere che i legislatori italiani facendo una legge di tutela del sardo hanno mescolato tabarchino e sardo, gallurese e sassarese? Evidentemente no.
O meglio sì, qualcuno lo fa. Tanto il sardo è un blob, una massa priva di forma e di consistenza, in cui chiunque può vedere quel che vuole. Così capita che un bravo scrittore come il sassarese Franco Enna, ex direttore didattico, confezioni un articolo pieno di pressappochismi e di informazioni false, di sue invenzioni di comodo e di idee bislacche verniciate di oggettività. Lo pubblica oggi su La Nuova Sardegna, in risposta ad un articolo di Diego Corraine che ieri ha sostenuto come la sola letteratura sarda sia quella scritta in sardo. Ciò di cui è convinto anche Enna che, citando una serie di autori sardi, afferma: “è fondamentalmente vero, ammesso però che ai suddetti sia mai venuto in mente di tentare di dimostrare il contrario”.
Ohibò, uno sguardo ai blog, ai forum e ai siti che oramai sono il solo spazio in cui si dibatte su questi argomenti, e Enna si sarebbe agevolmente reso conto che invece c'è, da parte di molti scrittori italofoni, il tentativo di dimostrare che la loro letteratura in italiano è parte della letteratura sarda. Non si capisce bene perché, ma così è, fin dalla invenzione della “nouvelle vague letteraria sarda” Gli sarà sfuggito. Del resto, mica è obbligo girare in Internet per tenersi informato, anche se non sarebbe male conoscere prima di sparare certezze.
Ma la legge 482 di tutela delle minoranze linguistiche c'è anche in carta. E per parlarne è obbligo conoscerla, pena la certezza di dire sciocchezze. Come questa: “La Legge statale 482 del ’99 ha riconosciuto a ben cinque varianti linguistiche regionali il valore di lingua autonoma: il campidanese, il logudorese, il gallurese, il sassarese e persino il tabarchino di Carloforte”. Potranno anche esserci cose mal dette e mal pensate in quella legge, ma questa corbelleria, i legislatori non l'hanno mai detta. Hanno scritto che “la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo.” Niente tabarchino, niente logudorese, niente gallurese, niente campidanese, niente sassarese.
Nelle sue improvvisazioni sul tema, Franco Enna si lancia in un'altra invenzione: il correttore ortografico sardo ha il fine di “garantire anche al più ignoto poeta nostrano (ammesso che sappia usare il computer) di scrivere correttamente in limba, sia da un punto di vista ortografico che da quello grammaticale”. Magari, si arriverà un giorno, speriamo, anche ad un correttore grammaticale, ma per ora è solo ortografico. E per saperlo, bastava leggere anziché far lavorare la fantasia.
Lasciate libere le briglie della fantasia, ecco il nostro alle prese con la Lsc: Renato Soru, dice, “tentò di rendere operativa una «Limba sarda comuna», che risultò essere un ibrido logudoro-campidanese, buono solo per la burocrazia degli uffici anagrafici sardofoni, non certo per gli scrittori”. Un simile concentrato di pressappochismo e disinformatsia è un primato assoluto.
  1. Soru non tentò di rendere operativa la Lsc, la rese operativa con delibera del suo governo. Oggi oltre il 70 per cento degli sportelli linguistici se ne servono;
  2. La Lsc non risultò affatto un ibrido logudoro-campidanese; è una lingua naturale, parlata nel centro geografico della Sardegna che ha per questo influssi di dialetti meridionali e settentrionali;
  3. La Lsc, lingua in uscita della Amministrazione regionale, non è solo “per la burocrazia degli uffici anagrafici sardofoni” espressione che, al di là della assenza di qualsiasi senso compiuto, da contezza del fatto che Enna neppure sa di che cosa parla;
  4. La Lsc è buona anche per gli scrittori che si vogliano servire, come alcuni fanno, delle sue norme ortografiche. Sarebbe come dire che le lingue con cui l'Eliseo o Palazzo Chigi comunicano con i cittadini, il francese e l'italiano, non siano buone per chi scrive.
Certo, Franco Enna dice, poi, anche cose sensate sull'insegnamento del sardo a scuola, ad esempio. Ma, come diceva quel tal poeta, timeo Danaos et dona ferentes. 

giovedì 28 ottobre 2010

Presentato il Correttore ortografico sardo

È stato presentato ieri il Cros, Curretore regionale ortogràficu sardu. E la lingua sarda fa un primo grande balzo verso la sua normalità. Fra non molto, nel sito della Regione sarda saranno pubblicati il correttore che potrà essere scaricato da chiunque lo voglia e quello on line. Nella saletta della Biblioteca regionale, vecchi combattenti per l'ufficializzazione del sardo e molti giovani che sul e con il sardo lavorano, insieme a salutare la nascita di uno strumento informatico che spingerà tutti quanti scrivono in sardo e nelle sue varianti ad usare una ortografia coerente.
La presentazione del Cros, elaborato dal fiorentino Carlo Zoli e dall'editore sardo Frantziscu Cheratzu, è stata occasione di un seminario, coordinato dal responsabile dell'Ufficio regionale per la lingua sarda, Giuseppe Corongiu, nel corso del quale hanno presentato relazioni Michele Pinna, Antonio Ignazio Garau, Roberto Bolognesi, Cristiano Becciu e Diego Corraine. Sono stati anche presentati i risultati del monitoraggio sulla legge 482 in Sardegna, da cui risulta che oltre il 70 per cento degli uffici per la lingua sarda hanno usato nelle loro relazioni pubbliche la Lingua sarda comune.
Il seminario è stato aperto dal neo assessore della cultura Sergio Milia che ha detto cose importanti sullo sviluppo della lingua sarda. La tutela e la valorizzazione della lingua sarda non può prescindere da un investimento serio di risorse economiche da proporre già nella prossima Legge Finanziaria, ha detto, riferendosi in particolare alla esigua quota dell’1 per cento attualmente destinata dal bilancio regionale alle politiche linguistiche. “Il Cros” secondo Milia “rappresenta un primo passo importante per il rafforzamento dell’uso della lingua sarda e mi auguro che la sperimentazione del sardo negli Istituti scolastici possa entrare di diritto tra gli argomenti scientifici previsti nel più ampio progetto “Scuola Digitale”. Il Cros, in una fase avanzata di realizzazione, dopo essere stato sperimentato fin dal 2007 negli oltre 200 sportelli linguistici presenti in tutto il territorio regionale, sarà presto messo in rete gratuitamente nel sito istituzionale della Regione Sardegna, per aiutare quanti vogliano scrivere in lingua sarda, sia nella varietà scelta per la norma amministrativa regionale sia in ciascuna delle varietà o nei dialetti specifici della lingua sarda”.
L’applicativo per i Pc, compatibile con tutti i sistemi operativi, funziona da correttore ortografico per il trattamento automatico della lingua, agevolandone l’utilizzo nella stesura di testi e documenti. Il Correttore ortografico sardo, in linea con gli indirizzi del piano triennale della Lingua Sarda, finanziato con fondi del Bilancio Regionale 2009 e 2010, è un sistema operativo “aperto” agli aggiornamenti e ai contributi lessicali per l’arricchimento del dizionario.

PS – Ogni volta che la valorizzazione della lingua sarda fa un passo in avanti, nella legislazione, nell'uso ufficiale, in letteratura, si solleva la canea dei contrari a prescindere. I più si rifugiano nel silenzio, sperando che passi 'a nuttata, ma non tutti mettono la testa sotto la sabbia. Alcuni, soprattutto fra coloro che scippano soldi pubblici destinati da Regione e Stato al sardo, rovesciano bile e bavosi livori su chi lavora per far fallire i loro assalti alla diligenza. Usano gli strumenti “politici” che hanno imparato nella loro militanza stalinista: la diffamazione, la calunnia, l'insinuazione, naturalmente anonima, il dileggio. La politica, disse mi pare il socialista Formica, “è sangue e merda”. Ma in questi casi di sangue neppure l'ombra.

Attribuzione dei bronzetti, fosse così facile darla

L'arciere di "S. Antioco"
di Marcello Cabriolu


Da anni il TPC ovvero il Nucleo per la tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri opera, in maniera encomiabile, nella tutela e nel recupero del patrimonio culturale italiano all’estero, rendendo spesso onore e lustro ai tecnici civili e militari del Ministero dei BB.CC. e ai cittadini e alle autorità degli enti amministrativi a cui viene reso il bene. Impareggiabile è l’opera condotta dai diplomatici e dagli esperti legali, i quali riescono molto intelligentemente a sbrogliare incredibili matasse burocratiche che spesso vincolano i beni culturali all’estero.
Ancora adesso non si è spenta l’eco del rinvenimento e del recupero, dal Cleveland Museum of Art – USA, di una statuetta bronzea di circa 22 cm. e, tramite un processo burocratico durato diversi mesi, dell’attribuzione e della consegna della stessa al Comune di Sant’Antioco. Immancabile la promozione mediatica, operata dalle testate giornalistiche regionali, vista l’importanza dell’avvenimento e il convenire di autorità alle conferenze promozionali dell’evento e alla Cerimonia di Consegna. L’attribuzione geografica è scaturita dallo studio di vecchie foto, sequestrate ad un trafficante di reperti archeologici, che in vita ha soggiornato nella località scelta come sede ultima del bronzetto, scelta che ha generato non pochi dubbi e perplessità tra i vari studiosi e appassionati locali.
Le perplessità maggiori si manifestano non appena si mettono a confronto alcuni bronzetti custoditi nei Musei sardi con l’Arciere oggetto del recupero. 

martedì 26 ottobre 2010

Nuntio vobis: amus su curretore ortogràficu

Bilartzi si bortat in Ilartzi. A cando Bordeaux in Bordò?

Bilartzi, su nùmene isseberadu comente ufitziale dae sa comuna de sa bidda (Ghilarza in italianu), s'est bortadu in Ilartzi pro sas protestas de unos bilartzesos chi ant chertu a iscrìere su topònimu gasi comente sa gente lu pronùntziat. In Fonne puru, sa comuna aiat isseberadu “Fonne” comente topònimu ufitziale e gasi l'aiat postu in sos cartellos. Carchi fonnesu, a de note, l'aiat “currèzidu” in Onne, gasi comente nant chi lu pronùntziant. Su fatu istat chi si narat “ando a Ilartzi o a Onne” e “isto in Bilartzi o in Fonne”, su chi cheret nàrrere chi ambas sas cosas si narant, siat Ilartzi e Bilartzi e siat Onne e Fonne.
Sos linguìstas podent ispricare comente e pro ite in sardu si podet nàrrere “sa èmina” e “duas fèminas”, ma s'iscrìet “sa fèmina” e “sas fèminas”, gasi e totu comente unu frantzesu narat “Bordò” ma iscriet “Bordeaux”. E si carchi unu, in cussa tzitade frantzesa, aeret imparadu dae bilartzesos e dae sos fonnesos? Essende dae su Pont de Pierre pro intrare a sa tzitade, si diant pòdere bìere cartellos “BORDÒ”, ca gasi sos abitantes puru li narant. Brullas a banda. B'at cosa chi no andat in su cunsideru chi nois e totu amus de nois e de sa limba nostra.
E puru no est giustu a si la leare cun sos chi non cumprendent chi in una limba, cale si siat limba, unu contu est a faeddare e àteru contu est a iscrìere. E chi non cumprendent chi una limba non si podet manigiare cun sos mèdios de sa democratzia, gasi e totu comente non si podet fàghere unu referendum pro una operatzione chirùrgica o pro sa revolutzione de sos planetas. Sa die chi b'at a èssere una alfabetizatzione massiva in sardu, gasi comente b'est istada in italianu, totu amus a cumprèndere chi in cada si siat limba sa forma de sas paràulas ponet fatu a règulas.
Nemos in Fonne o in Bilartzi s'at postu in conca de cambiare sos nùmenes italianos de sas bidda. Ghilarza sighit a èssere Ghilarza, sena peruna curretzione, e Fonni Fonni. In Fonne ant lassadu su nùmene italianu, ma ant cambiadu su topònimu sardu. S'italianu est cunsideradu una limba codificada, su sardu no, est una ispètzia de limbàgiu chi si podet cambiare a cumbènnida. E gasi at a èssere, finas a cando s'analfabetismu no at a èssere gherradu in iscola. E finas in sa cunsèntzia de chie lu pràticat e si nde bantat.

lunedì 25 ottobre 2010

Prèmiu Deledda: non petzi provintzialismu

Una ispètzia de editoriale in forma de vìdeo. Pro su prèmiu Deledda, b'at finas una intervista cun Limbas & Natziones

I nomi del fenicottero sardo

di Massimo Pittau

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), nella sua famosa opera Naturalis historia (30, 146), parlando della Sardegna dice testualmente: praeter haec sunt notabilia animalium ad hoc volumem pertnentium gromphena avem in Sardinia narrant grui similem, ignota iam etiam Sardis, ut existimo «oltre a questi sono notevoli fra animali similari di questa dimensione la gronfena, uccello della Sardegna che dicono essere simile alla gru, ormai ignota agli stessi Sardi, come ritengo».
Lo storico moderno Ettore Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano (ristampa a cura di A. Mastino, Nùoro 1999, II vol. pg. 244), giustamente ha affermato che il naturalista latino aveva presente il testo pseudo-aristotelico De mirabilibus auscultationibus (§ 100), che parla di grandi uccelli esistenti in Sardegna prima dell’arrivo dei Greci nell’Isola e che egli ha proposto di identificare coi fenicotteri.
Io aggiungo che Plinio asserisce che questi uccelli erano ormai sconosciuti agli stessi Sardi, probabilmente per la ragione che non tutti i numerosi Sardi che ormai vivevano a Roma e dai quali il naturalista latino non avrà mancato di chiedere informazioni, conoscevano i fenicotteri. D’altronde tuttora conoscono de visu i fenicotteri solamente i relativamente pochi Sardi che vivono vicino agli stagni costieri dell’Isola, mentre gli altri li conoscono soltanto per fotografie o per riprese cinematografiche o televisive.
A. Ernout e A. Meillet, autori del Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine (IV édit., IV tirage, Paris 1985, pg. 283), parlando dell’appellativo lat. gromph(a)ena, scrivono «Sans doute grec: grómphaina ?», cioè con un punto interrogativo finale, che dimostra il loro dubbio su questa connessione, dato che l’appellativo greco significa, non «fenicottero», bensì «scrofa, vecchia scrofa».
Ed io intervengo oggi per eliminare il dubbio dei due pur illustri linguisti: è noto che i suini grufolano o scavano il terreno alla ricerca di cibo, radici, tuberi e insetti. Ebbene anche i fenicotteri in un certo senso “grufolano”, dato che col loro lungo becco ricurvo scavano il fondo degli stagni, anch’essi alla ricerca di cibo.
Però la questione non è finita: sempre il naturalista latino, nella medesima opera Naturalis historia (I, 26, 23; 26, 40) col vocabolo gromphaena indica anche una pianta male identificata, una specie di amaranto orientale (Amarantus tricolor L.). Ma con quale rapporto, si chiede Jacques André, Les nomes de plantes dans la Rome antique (Paris 1985, pg.113) col greco grómphaina «scrofa, vecchia scrofa»?
Anche qui intervengo per eliminare il dubbio di quest’altro illustre linguista e botanico francese: quando i fenicotteri si levano in volo, le loro ali mettono in mostra proprio un colore amaranto, cioè “rosso intenso con sfumature violacee”. E per questo motivo i fenicotteri sono chiamati in Sardegna, con vocabolo collettivo, genti arrúbia, zente rúbia o ruja cioè «gente rossa». D’altronde anche il greco phoinikópteros significa “dalle piume rosse”; fatto che pure il nome scientifico dell’uccello mette in vivenza: Phoenicopterus roseus.
Nella lingua sarda al singolare il fenicottero si dice mangone, mangoni, mengoni (log. e camp.), che potrebbe derivare da margone, malgone «smergo» (uccello acquatico) (M.P.). Siccome però questa etimologia è dubbiosa, procedo oggi a prospettarne un’altra: potrebbe derivare dallo spagn. flamenco «fenicottero» (letteralmente “fiammante”) interpretato dai Sardi, per paretimologia, fra’ Mengo, cioè frate Domenico. [Cfr. mengu, (Nùoro) meng(r)o «individuo rozzo, strano, balordo», che deriva dal pisano menco, mengo «maldestro, impacciato, inetto», a sua volta da Ménico, accorciativo di Domenico, col significato di «minchione».

domenica 24 ottobre 2010

Tarsis-Tartesso? A Cagliari (II parte)

di Giuseppe Mura

Come e perchè Strabone arrivi a collocare Tartesso nel Guadalquivir e l’isola di Erizia a Cadice [vedi primo articolo] non è dato sapere. In ogni caso il geografo greco-latino identifica Erizia come isola, confermando così non solo l’antichissima definizione di Stesicoro, ma estendendone il concetto alle isole sorelle conosciute con i nomi di Egle, Esperia e Aretusa. Quindi Erizia “la rossa”, come isola, faceva parte di una sorta di arcipelago.
Ebbene, anche la quaterna di isole trova una facile collocazione nella regione di Cagliari e all’interno della laguna di S.Gilla, dove Sa Iletta rappresenta l’isola maggiore di un piccolo arcipelago (vedi figura).
Questa la collocazione di Tartesso secondo Strabone. Ma cosa dicono le fonti che compaiono nel periodo di circa sette secoli che separa la testimonianza di Stesicoro da quella di Strabone?
Seguendo l’ordine cronologico, Tartesso risulta citata a causa della longevità del suo re Argantonio (al quale sono attribuiti ben 120 anni) e in occasione di viaggi per mare dei Greci in Occidente. Erodoto, vissuto nel IV secolo a.C., narrando degli antichi naviganti Focei, attribuisce loro i meriti della scoperta dei seguenti luoghi: “Adriatico e la Tirrenia e Iberia e Tartesso”. Giunti a Tartesso i Focei, secondo lo storico, fecero amicizia con Argantonio, il quale li invitò a stanziarsi nella propria terra. Inoltre, quando gli orientali annunciarono di voler rientrare in patria, il re mostrò tutta la sua generosità offrendo loro denari in gran quantità.
La sequenza geografica della navigazione proposta da Erodoto suggerisce che Tartesso fosse dislocata in una regione diversa dall’Iberia, infatti, se la misteriosa località avesse fatto parte del territorio spagnolo, egli non avrebbe citato entrambi i luoghi nel contesto di un viaggio per mare che prevedeva tappe diverse.

venerdì 22 ottobre 2010

Inconsapevolezza e rimozioni intorno alla pastorizia

Il nucleo della rivolta dei pastori sardi sta nelle parole che uno dei leader del Movimento pastori ha detto ieri durante un dibattito televisivo: Noi non sappiamo come si possono risolvere i problemi che poniamo. I consiglieri regionali prendono 20 mila euro al mese proprio per affrontarli e risolverli. Voleva dire che sta a loro trovare non solo le risorse necessarie ma anche i modi per reperirle. Sempre che la politica sia oggi lo strumento adatto a farlo, cosa di cui c'è ragione di dubitare. Essa sta dando, infatti, prova di una inconsapevolezza incredibile e di una rimozione della memoria che ha del patologico.
È seduta su un vulcano e, salvo qualche suo addetto, sembra non accorgersene, tant'è che la maggioranza allarga le sue braccia contabili, dicendo che non ci sono soldi, e la minoranza si esibisce in tirate demagogiche, immaginando che basti promettere una alluvione di denari per poi averli a disposizione. In mezzo, ma con propensione a flirtare con la demagogia, il Movimento pastori che occupando il Parlamento sardo impedisce ad esso di legiferare sulla questione. Nessun parlamento del mondo può essere riunito in queste condizioni, ma questo – come ho già scritto – è il segno, bruttissimo, della delegittimazione di cui soffre.
Dice nel suo blog Paolo Maninchedda che “quando un movimento sindacale rinuncia ai propri obiettivi sindacali e anzi impedisce l’attività dell’unico organo che è in grado di soddisfarli almeno in parte, allora dichiara implicitamente che la sua piattaforma sindacale era un pretesto per una strategia politica anti-istituzionale, una strategia di destabilizzazione, una strategia antagonista e sostanzialmente rivoluzionaria”. Parole pesantissime, e immagino ben meditate, cui aggiunge altre che disegnano uno scenario pre insurrezionale: “Intorno al Movimento dei Pastori sardi si sta coagulando tutto il mondo dell’eversione sarda, il quale non si sbaglia a riconoscere nell’azione dei dirigenti del Movimento le caratteristiche di un disegno politico [che] sembra essere quello della spallata istituzionale […] E’ veramente amaro vedere come si confermi sempre che chi attacca i parlamenti attacca sempre la libertà di tutti, qualunque sia la sua buona o cattiva ragione”. Maninchedda sospetta anche che nel Pd “ampi settori sono tentati dal sostenere la destabilizzazione per dare la spallata istituzionale”.
Nessuno ha, credo, il diritto di ignorare che si sia aperto un conflitto molto aspro tra il mondo della pastorizia e quello della politica, tra la campagna e la città, una costante delle vicende storiche della Sardegna. Ricordate l'inno sardo, 1794? “O poveros de sas biddas, / Trabagliade, trabagliade / Pro mantenner in zittade / Tantos caddos de istalla”. È un conflitto pre-politico, naturalmente. Ma la politica, anche quella moderna, non è riuscito a risolverlo, anzi lo ha aggravato, pensando, forse, che bastassero politiche attive di contenimento della pastorizia. I pastori erano più di 40 mila intorno al 1970, sono meno di 20 mila oggi.
Nel frattempo si sono succeduti alla Regione dodici governi di centrosinistra e quattro di centrodestra, questo compreso. Un minimo di memoria storica, dovrebbe consigliare al centrosinistra un po' di pudore nel gettare, come alcuni suoi esponenti fanno, tutte le colpe sull'attuale governo. Ne ha – accidenti se ne ha – ma Prato non è più colpevole degli assessori socialisti dei primi governi di centrosinistra e comunisti negli altri. Lo scaricabarile in atto fra i due schieramenti maggiori dà il segno di quanta inconsapevolezza ci sia nella politica sarda, tutta presa nelle sue polemiche autoreferenziali. Io non so se l'amico Maninchedda veda giusto o se anche lui si sia lasciato andare ad una enfatica polemica. Ma credo di sapere che non è il Movimento pastori a delegittimare, con la sua intollerabile occupazione del Consiglio regionale, la massima istituzione del Popolo sardo: è questa politica ad averlo abbondantemente fatto. La destabilizzazione, se davvero è nei progetti di qualcuno, non sarà frutto dell'eversione ma di una implosione.
Forse non è del inevitabile, ma certo potrà essere evitata solo se i capponi di Renzo, invece di dilaniarsi a beccate, si accorgessero del dirupo verso il quale stanno andando loro, in nostra compagnia.

Tarsis-Tartesso? A Cagliari (I)

di Giuseppe Mura

La maggioranza degli studiosi che affrontano il tema dell’identificazione di Tarsis tramite le informazioni provenienti dalla Bibbia, la collegano all’altrettanto fantomatica Tartesso dei Greci. Tarsis è citata nei seguenti libri sacri: Salmi, 1 Re, Genesi, Isaia, Ezechiele, Geremia e Giona , dove i commentatori delle diverse edizioni interpretano generalmente il termine con quello di “navi di lungo corso per il trasporto dei metalli” o, più semplicemente, di “fonderia”. Queste le informazioni provenienti dai libri scritti dai vari profeti:
  • Tarsis ha una collocazione geografica occidentale, naturalmente rispetto ad Israele;
  • Tarsis è identificata come isola o come terra collocata genericamente “in mezzo ai mari”;
  • Tarsis impone il proprio dominio commerciale su Israele e sui vicini centri di Tiro e Sidone tramite una potente flotta; i vari profeti biblici denunciano, nei confronti di Tarsis, un certo timore reverenziale;
  • Tarsis importa nel Canaan molti materiali, tra i quali i metalli più preziosi del tempo, come argento (battuto e laminato), oro, ferro, stagno e piombo;
  • Tarsis risulta collegata via mare con Israele, in modo stabile, tramite lo scalo di Giaffa (l’antico porto di Tel Aviv);
  • gli abitanti di Tarsis praticano una particolare idolatria: adorano idoletti in metallo costruiti dai oro abili artigiani; inoltre vestono lussuosi abiti di porpora e bisso;
  • Tarsis assume il titolo di “madre” di Tiro, ruolo spiegabile con l’imposizione del dominio commerciale; meno chiara, invece, risulta la definizione di Tiro come “figlia” di Sidone, in quanto le due città erano delle vere e proprie consorelle politiche e commerciali. Questa duplice filiazione di Tiro suscita non poche perplessità negli esperti commentatori biblici, tanto da suggerire l’esistenza di una sorta di duplicazione in Occidente dei centri di Tiro e Sidone sotto le dipendenze di Tarsis. Si tratta di una duplicazione che trova conferma nelle fonti greche, ma in particolare in quelle omeriche.

giovedì 21 ottobre 2010

Ridagli, riecco il Golfo dei Fenici

Rieccolo il Parco archeologico del Golfo dei Fenici. Come un fiume carsico, a volte emerge per poi inabissarsi in attesa di ricomparire. Lo ha fatto riemergere il suo padre putativo, l'archeologo Raimondo Zucca che si è lamentato con un cronista oristanese per l'incerta sorte degli 800 mila euro promessi dal ministro Bondi. Destinati agli studi preliminari distesi su tre anni, i soldi arriveranno, secondo Zucca, entro l'anno o al massimo i primi mesi del prossimo. “Serviranno a realizzare gli interventi della prima tranche. Alcuni portali fisici realizzati sulle principali vie di comunicazione, alcuni elementi semantici nel territorio del parco, che non saranno semplici cartelli illustrativi. E poi la realizzazione della prima via dei Fenici, presumibilmente quella da Torregrande a Tharros”.
Ma “la società Arcus, che gestisce i fondi, ha chiesto di tornare al progetto originario. In pratica gli studi preliminari non potranno essere finanziati” afferma l'ideatore del parco. Nel sito della società Arcus (“diretta dal professore ordinario di Archeologia Elena Francesca Ghedini, sorella di Nicolò Ghedini, parlamentare del Pdl e avvocato personale del presidente del Consiglio”, come sottolinea il quotidiano) non c'è alcun accenno al Parco né risulta che sia diretta dalla dottoressa Ghedini che, anzi, non è neppure citata fra i dirigenti della società a capitale pubblico del Ministero dei beni culturali.
Elena Francesca Ghedini è invece membro del Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici e persona di fiducia del ministro Bondi. Ha un curriculum professionale di tutto rispetto, tale comunque da allontanare il sospetto che debba la sua posizione alla stretta parentela con l'avvocato di Berlusconi. Sono malignità coltivate da giornali che trovano buona ogni occasione per esibire il loro anti-berlusconismo e, dunque, per ciò stesso sospette. Non c'è dubbio, comunque, che la dr Ghedini sia molto influente, se non altro per i consigli e le raccomandazioni che può e deve dare al ministro. È quindi possibile, ma non ce ne sono tracce pubbliche, che essa abbia informato il dr Zucca che gli 800 mila euro sono a disposizione del “Parco archeologico del Golfo dei Fenici”.
Ed è anche possibile che, nei suoi contatti, la Ghedini abbia chiesto informazioni per la risposta che alla interrogazione al ministro Bondi con cui il sen. Massidda ha chiesto lumi su alcuni reperti archeologici che presentano iscrizioni. C'è solo da augurarsi che il membro del Consiglio Superiore per i beni culturali non faccia affidamento esclusivamente sulla vulgata corrente. Perché questa è ben conosciuta in Sardegna, tanto nota che non ci sarebbe alcuna necessità di scomodare un ministro perché la confermi.

Is amaretus sardus cun mèndula portoghesa

de Giampaolo Pisu


Su trigu Ariseu oi e cras” cun petza meda a coi in su cumbénniu de sa Pro Loco de Sàrdara. Totu is interbentus asuba de su stadu de su cumpartu agroalimentari funt stétius a una boxi feti sententziendi sa crisi arrorosa chi no si lassat scerai “su cras” in su setori.
Siendas tropu piticas chi no baliant sa cuncurréntzia. Lentesa de sa burocratzia. Speculadoris chi ndi faint arrui is prétzius. Strapoderi de is industrialis faci a is produsidoris. Apróciu sballiau de sa polítiga a unu cumpartu malàdiu de assistentzialismu. Responsabbilidadi manna de is assótzius de categoria. Unu cumpartu chi oi contat pagu in su PIL sardu mancai su primori de s’ambienti. Fadeus amaretus cun méndula portoghesa, sartitzu cun petza olandesa, pasta cun trigu russu… Mancai produsidoris de is mellus ollus de olia de s’Itàlia, su 90% de su chi spaciaus est extra-comunidàriu e no vírgini de Sardigna. Parti manna de su pisci benit de foras (ma no teneus su mari totu aingíriu-aingíriu nostu?). Proceddus chi benint de su Portogallu fatus passai po sardus.

mercoledì 20 ottobre 2010

Parlamento sardo sotto assedio: avviso ai nocchieri della politica

L'assedio di un Parlamento, in qualsiasi parte del mondo, Sardegna compresa, è segno di rottura fra rappresentati e rappresentanti. Insistere, come da noi si fa con frequenza, con questi assedi (operai, studenteschi, contadini e pastorali) da la misura di come questa rottura sia probabilmente insanabile, ma anche segnala che il nostro Parlamento regionale non gode di prestigio e di autorevolezza. Non ricordo, in altre regioni europee, che manifestanti accerchino i parlamenti; vi fanno sitin, vi sfilano sotto, vi manifestano intorno, ma non li assediano e, men che meno, li occupano, come è successo ieri da parte di una delegazione di pastori.
Giornali e televisioni, in Sardegna e in Italia, hanno raccontato e continuano a raccontare la dura manifestazione dei pastori del Mps, gli scontri fra polizia e manifestanti e, secondo le rispettive simpatie o appartenenza politica, si schierano con la prima o con i secondi. Per alcuni è una buona occasione per mettere in risalto la “natura violenta” del mondo pastorale sardo, per altri è una ghiotta opportunità per accusare il governo italiano e il suo ministro Maroni, additato come responsabile della violenza della polizia. Un dèjà vu su cui converrà sorvolare, almeno fino a quando i media torneranno a fare i media e non i sostituti dei partiti.
Non mi pare, invece, che ci sia stata consapevolezza della severità di questo assedio del Parlamento sardo, come non c'è stata quando a circondarlo sono state altre categorie sociali. Il Consiglio regionale è vissuto, ieri dai pastori e prima di loro da altri lavoratori, come una controparte, ruolo che tradizionalmente è assegnato, semmai, al governo. Forse è solo l'esasperazione dei pastori, che sentono sulle loro spalle una crisi disastrosa, a dettare questa confusione di ruoli e di responsabilità o forse è la diffusa sensazione che la politica (tutta la politica) non è più in grado di risolvere i problemi.
Con la sua autoreferenzialità, la politica (e non starei a sottilizzare sugli schieramenti) si è avvitata intorno ai problemi suoi. La maggioranza intorno alla sua tenuta, le opposizioni intorno alla loro volontà di rovesciare con tutti i mezzi (anche quelli giudiziari) l'attuale governo regionale. Non esiste la contezza che sono un tempo enorme i quaranta giorni trascorsi dall'impegno preso con i pastori di avviare a soluzione i loro problemi. E c'è, invece, una sorta di impudenza nell'annuncio della disponibilità a confrontarsi sui problemi al centro della vertenza, così come, però, è impudente fare della demagogia a buon prezzo.
Temo che la politica sarda non abbia capito ancora che cosa significhi affrontare con gli strumenti ad essa consueti (la promessa, la demagogia, il dire e non dire) il mondo dei pastori sardi e la cultura di cui sono portatori. In sessanta anni di autonomia non si è mosso granché, se oggi lo fa con la forza e la determinazione mostrata ieri, qualcosa di decisivo si è rotto. La storia insegna che quando i pazienti si muovono si è alla vigilia di importanti sconvolgimenti. Ieri, il Parlamento dei sardi ha perso l'occasione, forse irripetibile, di uscire dal palazzo e di sedere in assemblea con i pastori e di mostrare come non siano vere le accuse, che ad esso vengono mosse, di vivere in una torre d'avorio.
So che è molto diffusa l'opinione che quella dei pastori sia una vertenza come altre. Ma questo vuol dire che si sta smarrendo la coscienza del fatto che il mondo di “noi pastori” non è solo pecore, formaggio, produzione, contributi. In quel mondo sta l'epicentro etnico della nostra nazione. Spesso i singoli pastori lo dimenticano o forse non ci fanno caso. Ma sapete qual è la prima cosa che hanno deciso di fare dopo il fermo di una mezza dozzina di loro? Si sono preoccupati di fare una colletta a favore “de sos rutos in manu de sa zustìssia”. Come da secoli fanno, con sa ponidura o sa paradura che dir si voglia, ogni volta che sa zustìssia o un fulmine, l'uomo o la natura, colpisce un disgraziato, unu malassortadu.  

Bronzetti nuragici vendensi. Massima riservatezza

Questo arciere, inequivocabilmente nuragico, è stato venduto all'asta dalla Royal Athena Gallery di New York. Ne da notizia nel numero questi giorni in edicola la bella rivista Làcanas che pubblica anche un interessante articolo di Marcello Cabriolu. Lo studioso mette a confronto questo arciere (la cui foto è pubblicata dalla rivista) con quello rintracciato dai carabinieri a Cleveland e riportato in Sardegna, a Sant'Antioco. Ai nostri lettori il piacere di leggere l'articolo e di gustare le belle fotografie a corredo.
Nel sito della galleria d'aste compaiono le foto di altri bronzetti sardi e di uno iberico in attesa di compratori. Si tratta, di quella stessa Royal Athena Gallery che vendette il cosiddetto arciere di S Antioco al museo di Cleveland. Tutto regolare, immagino. Tutto a norma di legge, presumo. Qualcuno, “legittimo proprietario” dei bronzetti, li affida a una casa d'aste perché lo venda al miglior offerente. Come è successo a quello di cui parla Làcanas, che ha rintracciato il nome del “legittimo proprietario”, un signore svizzero. Sarebbe interessante sapere dove, come e quando e da chi lo svizzero abbia avuto il bronzetto. Ma è morto anni fa. 
Quasi certamente lo ha avuto da qualche mascalzone tombarolo sardo, uno di quelli che negli anni hanno depredato il nostro patrimonio archeologico. Per di più facendosi fregare. Quanto vuoi che abbia venduto, il mascalzone, un bronzetto che, a base d'asta, batte 37.000 euro? Un decimo, a esagerare?
Resta un'altra domanda, che resterà senza risposta, a meno che il Ministero dei beni culturali non la ponga ai venditori legali del patrimonio “indisponibile dello Stato”: sanno o non sanno, i proprietari delle case d'aste, che nessuno, proprio nessuno, può accampare la proprietà legittima di un bronzetto nuragico o di qualsiasi altro reperto archeologico del mondo? Non esiste, anche altrove, il reato di incauto acquisto, comunque definito?


PS - Nello stesso numero di Làcanas, Egidiu Lobina pubblica un ritratto di Aurelio Piano, protagonista dello sconcertante tentativo di consegnare ad archeologi il bronzo antico da essi definito un vegetale. Qui Piano è raccontato come ricostruttore e reinventore di segni nuragici attraverso le sue ceramiche. "Auréliu  non tenit sa pretesa de torrai a fai pretzisus is ghererris nuràgicus, siant shardana o peleset, sa sua est una revisitatzioni, un’interpretatzioni, un’arregalu a su mundu de oi pustis de unu biaxi longu longu. In su mundu de is sonnus de perda" scrive Lobina.

martedì 19 ottobre 2010

Da S. Stefano a Janna 'e sa pruna

Altare rupestre di S. Stefano
Janna 'e pruna
Vi propongo una breve visita a due aree archeologiche di grande interesse: le domus de jana e l'altare rupestre di Santo Stefano a Oschiri; il tempio nuragico Janna 'e sa pruna e la fonte sacra Su Notante di Irgoli. Per vedere i brevi video, clicca sulle rispettive didascalie.

La curiosa storia del bronzetto-vegetale. Intervista ad Aurelio

 

Ricordate il bronzetto che, agli occhi e al tatto di archeologhi, si trasforma in un vegetale? E che poi, per tardiva resipiscenza, si ritrasforma in bronzo, ma “non nuragico”? Ebbene, un amico è andato a intervistare Aurelio, colui che ha ereditato dal padre il reperto e che lo ha dato al Museo che a sua volta glielo ha riconsegnato dicendogli che se lo poteva tenere, perché senza interesse. Non aggiungo altro alla intervista. Non è un capolavoro di cinematografia, ma vale la pena di seguirla. Si capiranno alcune cose fondamentali su come vanno le cose nell'archeologia sarda. Anche perché i protagonisti della vicenda raccontata da Aurelio hanno nomi non banali né sconosciuti.  

lunedì 18 ottobre 2010

Alinei non convince? Bene, e allora che senso hanno quelle scritte?

Per onestà intellettuale, non fingerò di essere neutrale rispetto a quanto, sulle scritte antichissime trovate qua e là, dicono Atropa Belladonna e Gigi Sanna da una parte e i loro critici dall'altra. Sono infatti convinto che, fino a una prova contraria che ancora non c'è, abbiano visto giusto, riferendo degli abbondanti segni riconducibili alla scrittura al tempo dei nuraghi. Marcello Cabriolu, in un suo commento, suggerisce che non di segni mediorientali si tratti quanto, piuttosto, dell'alfabeto tifinagh, rinvenuto in iscrizioni nel Sahara. Per il resto, silenzio, quasi si trattasse di questione ininfluente per la conoscenza della civiltà nuragica, appagata dalle stratigrafie, dalle analisi chimiche e fisiche, dalle comparazioni fra civiltà più o meno contemporanee, purché non portatrici di scrittura.
E allora vorrei provare a rimettere in piedi la questione sollevata dal prof Sanna nei suoi due articoli La Teoria della Continuità  e Il sardo "latino". Sì ma non romano. Cominciando a dire che Mario Alinei non sembra proprio il matto scopritore della pietra filosofale, ottimo linguista per gran parte della sua vita, improvvisamente impazzito dietro la sua Teoria della continuità e da allora messo da parte e isolato dalla comunità dei linguisti. In un rapido giro in Internet si scopre che ci sono storici della linguistica, glottologi, indoeuropeisti e filologi che lo prendono maledettamente sul serio. Questo non vuol dire naturalmente che la ragione sia della parte di Alinei e dei suoi sostenitori, ma che questi esistono e che, dunque, rendono la Teoria della Continuità quanto meno controversa e degna di essere discussa e il suo autore non un visionario isolato.
Ma non è questo, a mio modo di vedere, l'aspetto decisivo. Alinei (e Mauro Zedda e Gigi Sanna che ne accolgono le conclusioni) potrebbero anche avere torto marcio. Ma restano, valide sino a prova contraria che ancora non c'è, le letture che Gigi Sanna fa di reperti scritti, a cominciare dalle Tavolette di Tzricotu. L'amico Stella del mattino e della sera nelle sue ricerche ha scovato la stele di Polis tis Chrysochou i cui caratteri cuneiformi hanno straordinarie somiglianze con quelli delle Tavolette, tanto straordinarie da fare strame della loro attribuzione al Medioevo. D'altra parte – e la cosa risulta da un documento dell'ex soprintendente Azzena – la tavoletta in possesso della Soprintendenza è autentica.
Ebbene, Gigi Sanna vi legge almeno due parole ancora rintracciabili nel lessico sardo, GiGaHnLOY e GaWaHuLO (piccolo gigante la prima, cantore la seconda). In altri reperti appaiono parole come NoN(N)o-Y, KoR(R)ASh, H(o)GY'ANO, BAR'AS'ON-Y, L(e)Ph(e) S-Y, tutte parole che si rintracciano nella moderna lingua sarda, adattate alla fonetica attuale (Efis e Barisone, per esempio) e a volte modificate di senso, come Gaurru. Del resto, se si pensa alla pessima fine che il colonialismo ha fatto fare alla parola “balentia”, si può capire come questo possa capitare: il “piccolo gigante” può essere benissimo trasformato in “spilungone”. E allora delle due una: o si dimostra che Gigi Sanna ha letto male, ma per farlo non basta una scrollata di spalle, o bisognerà che i critici si rassegnino a considerare che ci sono parole che, nate nel II millennio, hanno attraversato indenni la conquista romana e sono arrivate a noi.
Non ha ragione Mario Alinei? E sia. Qualcuno può dare una spiegazione attendibile?

domenica 17 ottobre 2010

Ancora su lingua e letteratura sarda

di Roberto Bolognesi (*)

Comincio subito murrungiando per il fatto che ancora una volta sono costretto a scrivere di “roba seria” in italiano. Il problema eterno è costituito dal fatto  che chi disquisisce di lingua e letteratura sarda lo fa esclusivamente in italiano. Vabbé, non moriremo neanche questa volta.
Prendo lo spunto dall’articolo serio e garbato di Alfonso Stiglitz, pubblicato sul Manifesto Sardo, in cui l’autore si lamenta che “In alcune parti del dibattito [sull'attribuzione della "patente di sardità" alla letteratura scritta in italiano da parte di autori sardi] , l’aspetto duro da digerire per qualcuno, in un percorso che vogliamo definire identitario, è che l’italiano, a prescindere dal fatto della sua imposizione come lingua ufficiale e quindi dall’alfabetizzazione forzata, è oggi una nostra, dei sardi, lingua madre; in molti casi, ahimè, unica e in ancora molti, fortunatamente, affiancata al sardo, al gallurese, al sassarese, al tabarchino, al catalano, a tutte le lingue e varietà della nostra isola.”
Non so a chi si riferisca Stiglitz con quel “qualcuno”, ma avendo partecipato anche io a quel dibattito, faccio allegramente finta che si riferisca a me. E mi limito a dire che Stiglitz qui sta facendo una confusione della Madonna!
Confonde infatti la situazione del “parlato” con quella della letteratura. Ora, non credo che si possa attribuire a me o ai miei lettori la bieca ignoranza della reale situazione linguistica in Sardegna a cui allude Stiglitz. La seguente citazione proviene da Sardegna fra tante lingue (Bolognesi & Heeringa, 2005):
Il risultato di una tale situazione è che fra sardo e italiano si è creato un continuum caratterizzato da vari gradi di commistione fra le due lingue, il quale rende molto difficile per un parlante medio stabilire chiaramente quali strutture linguistiche appartengono all’una o all’altra delle due lingue." Schematicamente, la situazione si può rappresentare nel modello seguente.

Continuum diglossico.
Questo modello illustra il fatto che i due sistemi originari vengono tenuti completamente distinti solo in situazioni estremamente controllate. In pratica, almeno nei contesti non decisamente formali (la lingua scritta), tutto il repertorio costituito dal continuum viene utilizzato. È chiaro, inoltre, che la posizione che il sardo italianizzato e l’Italiano Regionale di Sardegna occupano nel continuum diglossico non è così facilmente distinguibile come fa apparire lo schema. Il graduale passaggio dal rosso al giallo esprime molto meglio la
realtà della situazione.
Stiglitz, perciò, non dice niente di nuovo nelle righe seguenti: Il rapporto tra sardo e italiano è, in sostanza, oggi, un rapporto tra lingue nostre e il nostro esprimerci ha senso solo se agiamo liberamente nell’uso dell’uno o dell’altro codice o di entrambi e se tra tutti i nostri codici avviene la contaminazione che è vitale per le lingue. D’altra parte, l’italiano è oggi l’unica lingua che unisce tutta l’isola, dai sardoparlanti ai tabarchini e oltre. Alla fin fine usare molte lingue non ha mai fatto male a nessuno e, a differenza di altri settori, qui non vale la “modica quantità” alla quale certi censori sembrano volerci inchiodare. Come i nostri antichi dicevano, saggiamente: meda limbazzos, sapientia.”
Ma il punto, caro Stiglitz, non è quello! Qui si tratta di definire un’opera scritta in italiano come appartenente o meno alla letteratura sarda: tutto un’altro ordine di questioni! E questa definizione, non può che essere–come ho già ripetuto ad nauseam–che una definizione politica, anche se non del tutto.
Anche il buon senso può aiutarci a capire. Mi chiedo se Stiglitz definirebbe come letteratura (o anche, più modestamente, come narrativa) italiana i miei raccontini in sardo. Per me la risposta non può che essere negativa, ma attendo una sua risposta.
Nel mentre, però, traggo da me la conclusione simmetrica che un romanzo scritto in italiano non faccia parte della letteratura sarda. Riconosco che i romanzi scritti in italiano da autori sardi facciano parte della cultura sarda, ma la letteratura sarda è quella scritta in sardo.
E qui ammetto che diventa impossibile accomunare tutta la letteratura sarda (cioè anche quella in tabarchino, gallurese, sassarese e algherese) in una definizione non-negativa. E allora il problema lo risolvo politicamente e do una definizione negativa della nostra letteratura come quella “non scritta in italiano, ma in una delle nostre lingue autoctone”.
E adesso voglio vedere se Michela Murgia avrà ancora il coraggio di attribuire soltanto a chi è d’accordo con lei il diploma di Onestà Intellettuale.
Io a lei ho già assegnato un’altro diploma.
(*) Dal blog Bolognesu

venerdì 15 ottobre 2010

Il Consiglio regionale fra dr. Jekill e mister Hyde

I comportamenti della politica sarda sembrano appartenere ad una classe di disturbi schizofrenici. Niente di particolarmente nuovo rispetto alla politica italiana, sia chiaro, ma speciali anch'essi come la nostra autonomia. Ieri mattina, i deputati regionali riuniti nel Parlamento sardo hanno approvato, con sole tre astensioni, un importante documento unitario sul federalismo. Di pomeriggio, tornati ad essere Consiglio di quartiere hanno dato la stura alla politica politicante che potrebbe avere esiti devastanti per la stagione di riforme istituzionali di cui, solo qualche ora prima, avevano posto un solido mattone bypartisan.
I giornali raccontano stamattina in poche striminzite righe dell'importante documento sul federalismo e inzuppano il biscotto negli scontri verbali. È successo che l'opposizione ha messo a profitto la ribellione di una parte della maggioranza (sardisti e riformatori) contro la composizione del governo appena varato: e insieme, opposizione e parte della maggioranza, hanno vinto. Di conseguenza, il centrosinistra ha chiesto le dimissioni del presidente e nuove elezioni, sostenendo, non senza ragione, che si è trattato di una sfiducia al governo Cappellacci.
Non succederà, immagino, che la richiesta di dimissioni sia accolta. Ma se lo fosse? Si voterebbe non prima di gennaio, non si avrebbe il nuovo governo prima di febbraio. E se tutto va bene, se i decreti sul federalismo non saranno nel frattempo in vigore, la scrittura del nuovo Statuto sarà rimandata a chi sa quando. Se il presidente dovesse dare le dimissioni, neppure sarebbe da prendere in considerazione il documento sullo Statuto su cui maggioranza e opposizione stanno lavorando per renderlo condiviso.
Dev'essere capitato qualcosa di molto grave, dunque, qualcosa per cui valga la pena di mettere a rischio la stagione costituente appena cominciata. Ma così non è. Ordinari appetiti non soddisfatti, con decorazioni di disinteresse, personale e di gruppo, nei confronti delle poltrone. C'è colui che si indigna perché la Gallura non è rappresentata nel nuovo governo, e poi si scopre che quella regione è rappresentata sì, ma non da lui. Ci sono due gruppi consiliari che propongono, per rendere credibile l'azione del governo, otto punti programmatici irrinunciabili, ma vai poi a sapere che avrebbero voluto due assessori a testa e non l'uno ciascuno ottenuto. Decretano così che la soluzione della crisi appena avutasi è “provvisoria e inadeguata”, facendo capire che con due poltrone in più la soluzione sarebbe definitiva e adeguata. C'è poi chi lamenta che i finiani non sono rappresentati nel governo, che, per carità, non ne fa una questione personale, e allora ti chiedi “Quanti sono i finiani in Consiglio?”. Uno, lui.
Insomma, mister Hyde di giorno e dottor Jekyll di pomeriggio. Attenti alle sorti future della Sardegna dalle 10.01 alle 12.49, capponi di Renzo dalle dalle 16.07 alle 19.03. E sullo sfondo di queste vicende schizoidi, un'altra degna dei burocrati di Gogol. Si è saputo nel frattempo che il neo assessore alla Cultura ha deciso di dare a una società bresciana l'incarico (350 mila euro) di studiare la fattibilità del museo “Betile” che si è già deciso da più di un anno di non costruire. Appalto che forse sarà revocato, sempre che sia possibile farlo. E allora delle due una: o il neo assessore della Cultura si è trovato l'appalto sulla scrivania e gli ha dato il via imprudentemente o ritiene che 350 mila euro siano una bazzecola, in un momento di floridezza economica quale la Sardegna attraversa. In ogni caso, c'è da sperare che la poltrona di assessore della Cultura sia presto libero per rendere la soluzione della crisi nel governo sardo adeguata e non più provvisoria. Così, finita la ricreazione, i deputati regionali potranno pensare al nuovo Statuto della Sardegna.
Siamo donne e uomini di mondo e sapremo dimenticare quegli attimi di smarrimento.

giovedì 14 ottobre 2010

Amato, la sovranità e la retorica patriottarda

di Francesco Casula

Giuliano Amato, al recente Convegno tenutosi a Cagliari per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ha affermato: “Qui nella vostra Isola si discute di sovranità da affermare. Per me che sono un giurista costituzionalista fa rabbrividire che la sovranità venga attribuita a una parte del popolo e non all’intera nazione”. I “brividi” amatiani potrebbero essere liquidati semplicemente ricordandogli che la sovranità che i Sardi rivendicano attiene alla Nazione sarda e dunque all’intero popolo sardo. Ma lui, evidentemente, confondendo Stato con Nazione, con una visione tipicamente e biecamente ottocentesca e ormai superata, pensa ai sardi non come popolo specifico e come Nazione autonoma ma come parte indistinta del popolo italiano e della stessa nazione italiota. Ma sarebbe arretrato anche all’interno di queste coordinate culturali e politiche. Amato dovrebbe infatti sapere, che nell’ottica e nella sagomatura dello Stato federalista verso cui si marcia – con la sostanziale condivisione di tutte le parti politiche - la sovranità non è unica né è posta solo negli organi centrali dello Stato ma è divisa fra Stato federale e Stati particolari – o regioni che dir si voglia - e ognuno la esercita di pieno diritto.
Con la sua affermazione Amato è ancora fermo allo stato ottocentesco, unitario, indivisibile e centralista, che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere dal “centro” alla “periferia”. O, più semplicemente può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe limitare e parziali alla Regione che comunque in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continuando ad essere utilizzata come un terminale di politiche, sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale. Sarebbe bastato leggere Lussu che - fin dal 1933 - parlava di sovranità “divisa fra Stato federale e Stati particolari” – o meglio federati, aggiungo io – e dunque di “frazionamento della sovranità”. 


Caro Zizzu, ho conosciuto e intervistato Zitara quasi quaranta anni fa. E a me, giovane cronista allevato a pane e "quistione meridionale", aprì un mondo sconosciuto e occultato. Aprì le paratie a una crisi con le rassicuranti vulgate in cui ero cresciuto. Che il "Dottor Sottile" cerchi non tanto di chiudere le paratie, quanto di ripiombarci nella bambagia delle vulgate, lo trovo eticamente riprovevole. [zfp]

mercoledì 13 ottobre 2010

(2) Il sardo 'latino'? Sì, ma 'romano' no. Parola di Documenti.

di Gigi Sanna

Abbiamo visto dunque, nel precedente articolo, che sia l'Angius sia l'Alinei si sono sforzati, ciascuno con le proprie energie e capacità metodologiche linguistiche, ma con identità di vedute, per invalidare la tesi che la lingua sarda possa aver avuto origine da quella romana e che quindi ci fosse, tra i due codici espressivi e comunicativi, un rapporto, strettissimo (e nobilissimo per 'purezza'), tra 'mamma' e 'fiza' (come dicevano il Madao nel Settecento e lo stesso lessicografo Spano, contemporaneo dell'Angius, nel secolo successivo). Particolarmente importante, quasi fondamentale, l'obbiezione avanzata da entrambi che la Sardegna dell'interno (Barbagie), quella resistente della 'riserva indiana' e mai domata dalla colonizzazione di Roma, avrebbe dovuto mantenere la sua lingua arcaica pre-romana e non, al contrario, presentarsi come la zona con romanità linguistica più radicata di tutte le altre. Spia evidente questa che il sardo 'latino' è da ritenersi precedente e che le due lingue, quella chiamata da Alinei 'italide' e quella sarda, appartenevano allo stesso 'ceppo' linguistico, per quanto indipendenti.
Si capisce subito però da ciò le conseguenze che si determinano sul piano della ricerca scientifica sull'origine della lingua sarda: le tesi, che hanno fatto ormai scuola da tantissimo tempo, sulla lingua romana che sarebbe la 'madre' di quella sarda (e di quelle franco -iberiche) andrebbero totalmente riviste. E a farne le spese sarebbero, per quanto riguarda il sardo 'romano', gli studi di mostri sacri come W. Meyer -Lübke e soprattutto come M. L. Wagner, autore del famoso DES (Dizionario Etimologico Sardo), uno studioso benemerito che, con le sue citatissime 'etimologie' e l'esame profondo assieme della società e dell'anima sarda, ha dato, tra gli altri contributi, statuto di 'lingua' al linguaggio usato dai Sardi. Tante, tantissime parole, andrebbero alla luce della TdC ricalcolate e riviste quanto ad 'ascendenza' e bisognerebbe, di conseguenza, ridisegnare un confine tra il sardo 'latino' anteriore a quello della data della conquista romana dell'Isola (fine del III secoloa.C.) e il sardo inevitabilmente influenzato (così come - quando più quando meno - da altre lingue nel passato) dopo la conquista, a partire soprattutto dai secoli dall'età imperiale.

martedì 12 ottobre 2010

Su Notante, vittima di ottusa burocrazia

Il gioiello architettonico che si intravede, in secondo piano dietro la casamatta in primo piano è Su Notante, la fonte sacra del XII secolo che si trova sui monti di Irgoli, poco sotto sa Janna de sa Pruna e il suo tempio nuragico, a cavallo fra la vallata di Pauleddas e quella del Cedrino. La seconda foto, dedicata tutta alla fonte, le rende ragione e forse qualcuno sentirà un richiamo al più famoso Su Tempiesu. Anche Su Notante aveva probabilmente un tetto a doppio spiovente e un timpano.
Intorno al 1927, quando fu deciso di raccogliere le acque di cui sono ricchi i monti di Irgoli, intorno al rio Rèmules, operai e tecnici lavorarono intorno alla fonte sacra che probabilmente non era evidente come oggi. E costruirono la casamatta della nostra fotografia. Un pizzico di malignità indurrebbe a credere che non si accontentarono di portare via solo terra e pietre, fatto sta che intorno alla fonte sacra non è stato trovato alcun reperto archeologico, non una ceramica, non un pugnaletto votivo, non un bronzetto.
Per costruire la casamatta, si sono distrutte quasi tutte le strutture murarie a destra di Su Notante, anche se alcuni conci ancora si conservano nel piccolo, bellissimo Antiquarium del paese. Storia passata; quel che certamente c'era intorno alla fonte sacra non c'è più e, forse, solo una attenta e non inutilmente punitiva politica dei Beni culturali potrebbe far sperare di recuperare qualcosa. È certo che una visione non burocraticamente ottusa (la casamatta ha più di ottanta anni ed è quindi tutelata) potrebbe almeno rimediare allo sfregio fatto a questo gioiello della civiltà nuragica.  

domenica 10 ottobre 2010

1. La teoria della continuità di Alinei? L'ha avanzata per primo Vittorio Angius

Il frontespizio del Dizionario del Casalis

di Gigi Sanna

Gli studi sulla cosiddetta Teoria della continuità di Mario Alinei di cui tanto si discute da tempo, tra detrattori (da subito aspri, come il glottologo Paolo Ramat: L'Indice, febbraio 1997. V. anche, in risposta alla critica, Alinei, 2000, Origine delle lingue d'Europa. II. Continuità dal Mesolitico all'età del ferro nelle principali aree etnolinguistiche. Postfazione pp. 993 - 996) ed estimatori (come F.Benozzo, Università di Bologna), sono stati, in 'qualche modo', preceduti due secoli fa, dallo studioso Vittorio Angius (1797 - 1862). Credo che nessuno possa mettere in discussione o negare questo dato, considerata l'evidenza documentaria.
Il suo contributo, in termini di analisi sull'origine del linguaggio dei Sardi (Lingua antica de' sardi; in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529) naturalmente è quello che è, ovvero quello non 'rigoroso' di un docente di Retorica dell'Ateneo Turritano della prima metà dell'Ottocento, di uno studioso non 'specialista' linguista; ma è pur sempre quello di un uomo coltissimo ed intelligentissimo, impegnato in ricerche approfondite di svariate discipline (etnologia, storia, geografia, scienze naturali, economia, letteratura, ecc.); di uno che comunque, 'a suo modo' ed 'in un certo modo' (cioè con i mezzi della gracile 'scienza' linguistica del tempo in Sardegna, e non solo), nega, ribadendolo con orgogliosa fermezza e con tanto di articolata argomentazione, il fatto che la lingua sarda arcaica possa essere di derivazione romana.
Tanto dotto il canonico Angius e universalmente apprezzato per i suoi contributi scientifici, che gli venne affidato il compito di collaborare, per la la voce Sardegna, al famoso ' Dizionario geografico - storico - statistico - commerciale degli Stati di S.M il Re di Sardegna '. Opera enciclopedica, ancora oggi di fondamentale importanza - com'è noto - per gli studi storici, geografici, antropologici, toponomastici, naturalistici, ecc. riguardanti la Sardegna.

sabato 9 ottobre 2010

Il "Dottor Sottile", grossolano nemico della sovranità sarda

Si conclude oggi a Cagliari l'annuale congresso della Società italiana per lo studio della storia contemporanea, dedicato a “La costruzione dello Stato-nazione in Italia”. Nella due giorni di retorica patria, l'ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, oggi a capo del Comitato per il 150° della “unità d'Italia”, ha smesso l'abito di dottor sottile che gli era stato cucito addosso. E ne ha indossato uno casual e grossolano per lanciarsi, così trasformato, contro la Padania, i neo-borbonici e i consiglieri regionali sardi (anche del suo schieramento) che parlano di sovranità della Sardegna.
Che non ci fosse da aspettarsi granché di diverso da una rimpatriata di guardiani della “unità nazionale” e di rianimatori bocca a bocca dello Stato-nazione, era facile capirlo dall'intervento del professor Raffaele Romanelli, scelto da L'Unione sarda a dare il senso del congresso: “Le opinioni [sull'unificazione, NdR] ancora una volta attingono non tanto a dati materiali, quanto a dati storico-culturali del tutto fantasiosi (come i miti del Carroccio e di Pontida, o la rivendicazione di specificità linguistiche locali o regionali), con una singolare commistione di storicismo e di analfabetismo storiografico, di storia e di incultura.” Da notare la serietà dell'approccio scientifico di chi mette nello stesso calderone i miti padani (comunque legittimi almeno quanto i suoi) e le lingue nazionali, così le definisce la “Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali” europee.
A stare ai resoconti dei giornali, ci sono stati interventi più riflessivi e problematici, ma anche affermazioni lunari (che faranno felici alcuni teorici indipendentisti di casa nostra) come quella di un docente universitario di Pisa, secondo cui “il discorso identitario porta i germi dell’esclusione razzista, implica differenza e superiorità” e “il senso di una identità fissa e inamovibile”. Ma torniamo all'ex dottor sottile e alla sua crociata contro la sovranità. “La “sovranità del popolo sardo” è incompatibile con i princìpi della Costituzione repubblicana. Conosco la questione, ce ne siamo occupati con il governo Prodi” dice oggi in una intervista. Si riferisce alla bocciatura, da parte di Prodi, della legge statutaria voluta dal governo Soru, nel cui titolo si parlava, appunto, di sovranità del popolo sardo.
Nel suo intervento al Congresso ha detto: “Oggi anche la nazione Italia è contestata. Qui nella vostra isola si discute di modificare lo Statuto parlando di sovranità da affermare. Per me che sono un giurista costituzionalista fa rabbrividire che la sovranità venga attribuita a una parte del popolo e non all'intera nazione”. Quella stessa nazione che egli definisce “esangue” e sulla quale vorrebbe che gli intellettuali facessero una trasfusione vivificatrice. Da “giurista costituzionalista” con i brividi dovrebbe sapere che proprio la Costituzione parla di popolo sardo, il quale esiste accanto al popolo italiano che egli finge sia un tutto, per cui la sovranità del popolo sardo non confligge affatto con quella del popolo italiano.
Questo discorso, a parte ogni altra considerazione, da il senso della battaglia che la Sardegna si troverà ad affrontare, se il suo Parlamento terrà fede a quanto è emerso dal dibattito sullo Statuto, contro le incrostazioni nazional-stataliste, interpretate da Amato a Cagliari. Eppure, la questione della sovranità è già fonte, se non di diritto di volontà politica del nostro Parlamento. Il 24 febbraio 1999 (governo Palomba in Sardegna e D'Alema in Italia) fu approvato con 44 sì, 2 no e 13 astensioni una mozione che “dichiara solennemente la sovranità del Popolo Sardo sulla Sardegna, sulle isole adiacenti, sul suo mare territoriale e sulla relativa piattaforma oceanica”. Né risulta che Giuliano Amato, allora ministro delle riforme istituzionali abbia eccepito alcunché.
Vero è che, undici anni fa si pensava lontano dalla necessità di correre ai ripari con trasfusioni alla “nazione esangue” ed era lontano anche il 150° della cosiddetta “unità d'Italia”, ma un po' di pudore non guasterebbe. Per completezza dell'informazione, il giorno erano in Consiglio 59 degli 80 consiglieri, gli astenuti (13) provenivano da quasi tutti i gruppi e i due contrari furono il giornalista Giancarlo Ghirra (Progressisti federalisti) e il medico Aniello Macciotta, eletto con Patto Segni, dal cognome di quel Mario di cui anche recentemente ci siamo occupati per il suo sconvolgente articolo sulla riforma dello Statuto.