lunedì 31 agosto 2009

Scritta vicino al Nuraghe Losa, sempre vista mai guardata

di Gigi Sanna

Caro Gianfranco, 
chissà quante volte anche tu ci sarai passato accanto, senza notarla. Così come me, come i primi archeologi con il primo primitivo piccone, come gli archeologi del pennello di oggi, come le decine e decine di migliaia di persone che ogni anno visitano l’imponente e maestoso Nuraghe Losa. Non è sfuggita invece alla vista acuta di Tonino Mura, il presidente del G.R.S ( Gruppo – archeologico - Ricercatori Sardi). Di che cosa parliamo? Di una pietra singolare, davvero singolare. All’apparenza un masso basaltico (di mezzo metro circa per altezza e larghezza) come tanti altri, quasi informe e senza significato alcuno se non intervenissero a darglielo dei segni, dei ‘grammata’, che, senza alcuna ombra di dubbio, dopo una sfida di millenni (sicuramente vennero tracciati più di 3300 anni fa) appaiono, riportati in netto rilievo, su gran parte della sua superficie:una protome taurina sulla parte superiore a sinistra di chi guarda ed un serpente sulla parte bassa a destra. Ad una attenta osservazione però si nota che I due segni pittografici non sono soli.
Ad essi si aggiunge un terzo più difficile da individuare, quasi ‘nascosto’, che è reso dal vistoso prolungamento del corno sinistro del toro, disegnato ad ‘uncino’ o ad ‘elle ‘ di tipo sinistrorso ruotata a destra di 90 gradi. Ora, per chi conosce almeno un po’ l’epigrafia prefenicia, soprattutto quella cosiddetta protosinaitica, la lettura si presenta abbastanza agevole; non solo di per sé, ovvero per la sua compiutezza e chiarezza grafico-fonetica, ma anche perché il ‘testo’ risulta attestato nelle iscrizioni sinaitiche (v.fig.1) sia con la sequenza ‘toro (‘aleph) – bastone (lamed) sia con il segno del ‘serpente’. Assieme essi hanno, come si sa, un significato ben preciso: i primi due segni infatti offrono il nome di ‘El’ ed il terzo il logogramma ‘nahas’ (serpente). Cioè alla ‘lettera’ dalla lettura ricaviamo: ‘Dio (‘El) Serpente’. Nella pietra di Losa di Abbasanta dunque, troviamo attestata una breve scritta che, inequivocabilmente, conduce, ancora una volta, alla divinità nuragica yhwh ( Yahu> Jaku+ d ) di cui parliamo ormai da diverso tempo, anche con insistenza, dal momento che tutti o quasi tutti i documenti ‘nuragici’ scritti ad essa fanno, in vario modo, riferimento (il prossimo articolo, se me lo concederai, sarà dedicato all’iscrizione ‘semitica’ di Su Nuraxi di Barumini).
La lettura però, a mio parere, sia per letteratura corrente (il tentativo di carpire il significato del nome ‘EL: ugaritico ‘IL. ILI nel Nuraghe di Aidu ‘e Entos di Bortigali) sia per quanto mi sento personalmente di aggiungere per linee essenziali sul documento sardo, non si esaurisce qui.
Innanzitutto si noti il particolare (da non trascurare mai nella scrittura nuragica) del numero, ovvero del ‘tre’ (i tre segni), il numero sacro relativo all’essenza della divinità Yhw. Quindi si osservi un’altra della caratteristiche ormai sufficientemente certe della scrittura arcaica sarda o protosarda, ovvero quella del ricorso molto frequente all’agglutinamento o accorpamento delle lettere di cui abbiamo già parlato, qualche mese fa, in questo stesso Blog. Infine il tipo di lettura ‘regressivo’ cioè che corre da destra verso sinistra (ma in protosinaitico - si tenga presente - ciò non costituisce una norma. Anzi).
I semitisti, come in molti sanno, hanno cercato e cercano di dare un significato al nome ‘El , tradotto generalmente, come ‘dio’. Si pensi ad esempio al biblico ‘El Yhwh’. In realtà, come non pochi sostengono, il nome di ‘El, formato dall’acrofonia delle parole ’aleph e lamed , tende a significare la ‘natura’ o ‘la qualità’ del dio perché suggerisce con l’animale e l’oggetto schematici l’idea di ‘ potere (bastone) del toro’, ovvero più astrattamente il ‘potere, l’autorità di quell’ entità suprema che possiede la forza assolutamente più grande (taurina).
Sempre per letteratura corrente è noto dai documenti epigrafici del Sinai (v.fig.2) che il ‘serpente’, animale cassato e/o (così come il toro e l’uccello, ovvero il ‘toro alato’) declassato, con l’andar del tempo dalla simbologia degli scribi- teologi biblici, è il simbolo più forte di YHWH. Il serpente infatti è in origine icona frequente del dio ebraico delle tempeste, del dio giudice e del dio protettore del suo popolo, del dio guida, salvatore, guaritore ecc. ecc.).
Ciò che mi sento di aggiungere e di proporre è il fatto che l’agglutinamento ’aleph –lamed (toro–bastone) nella pietra di Losa di Abbasanta non vuole essere tanto o solo un ‘prosaico’ vezzo formale dello scriba sardo in quanto esso ha lo scopo di aggiungere carica di senso alla scritta, apparentemente così scarna con i suoi tre significanti pittografici. Tende cioè a sottolineare e a suggerire la straordinarietà o singolarità di quel toro con il corno sinistro così… strano. Una straordinarietà che non può non richiamare, come altre volte ho scritto, soprattutto a proposito delle superbe tavolette di Tzricotu di Cabras, la ‘qualità’ celeste del bue ‘Api’ o Bue ‘alato’ . Così non solo ci troviamo davanti a tre lettere ‘pittografiche ‘ (’aleph, lamed, nahas) ma ci troviamo, grazie alla raffinata allusione del corno–bastone (segno non riscontrabile se non in via del tutto eccezionale in un bue ‘normale’ o terreno ) ma anche davanti a tre ‘aspetti’ dell’essenza della divinità: quello di Toro, di Uccello e di Serpente (v.fig.3). E in questa sede, circa la presenza di questi tre simboli divini (in genere simboli-segni con valore fonetico) credo che non sia proprio il caso di dilungarsi con esempi documentari, quelli che in molti ormai conoscono e riconoscono (tavolette di Tzricotu, anello di Pallosu di S.Vero Milis, Concio di S.Pietro exra muros di Bosa, Vaso di ‘La Prisgiona’ di Arzachena, ‘brassard’ di Is Loccis–Santus di S.Giovanni Suergiu, ecc.).
Caro Gianfranco, ti prendo ancora un po’ di spazio e approfitto della tua cortesia per cercare di spiegare brevemente (e anticipo qui un argomento che tratterò anche per il documento di Barumini) un fatto, relativo alla scrittura, che porta molte persone, dilettanti o non, anche archeologi (sardi e non) di notevole capacità e di buon livello scientifico, a non capire la natura precisa di una certa documentazione che si trovano eventualmente a scoprire e ad esaminare.
Abbiamo visto che la pietra di Losa presenta tre lettere pittografiche. Queste, se individuate bene, non creano difficoltà alcuna circa la loro arcaicità e tipologia, tanto che difficilmente si troverà qualcuno che sostenga, con un minimo di credibilità, che si tratti di lettere romane o greche o etrusche. Supponiamo invece di trovarci con la stessa, identica scritta, non più in caratteri protosinaitici pittografici ma protocananei (si veda ad es., per riconoscerli bene, il famoso ostracon di Izbet Sartah: Naveh 1982 p. 37 fig.31) che, a distanza di alcuni secoli, tendono (seconda metà del Secondo Millennio a.C.) a schematizzare sempre di più i pittogrammi di partenza.
L’esito sarà esattamente quello che riporto nella figura 4. Stavolta, come si può notare, uno non avrebbe esitazioni e giurerebbe di trovarsi di fronte ad un testo in caratteri ‘romani’ e prenderebbe naturalmente per svitato chi proponesse di riportare la scritta, con il suo significato, al XIII o XII secolo a.C. E’ quello che è successo, purtroppo, ad epigrafisti ingenui quanto presuntuosi, anche per il bellissimo e preziosissimo documento, ugualmente lapideo, del Nuraghe Pitzinnu di Abbasanta. Naturalmente esempi di testi con lettere protocananee simili o identiche a quelle romane (e quindi alle nostre attuali), che possono trarre in inganno chi non conosce bene o non è molto attento allo sviluppo storico–formale dei segni alfabetici, se ne possono fare quanti se ne vuole. Quando poi i ‘segni’ vengono agglutinati  (il che accade molto spesso) a ‘rebus’ dagli scribi ‘nuragici’ la possibilità di incorrere in errore (e di prendere fischi per fiaschi) è ancora maggiore.
 
 
P.S. E’ da molto che,per motivi ‘oggettivi’,non posso vedere e leggere i contenuti del Blog. Non posso quindi rispondere a tutti e a tutto per quanto particolarmente mi riguarda. Vedo che qualcuno, come Maurizio, mi ha tirato indirettamente in ballo per quanto riguarda la presenza della ‘scrittura’ nuragica . Io non so se essa sia ‘post-tribale’ o non. Anche perché non mi interessano tanto le classificazioni e le schematizzazioni, in genere scolastiche e che lasciano il tempo che trovano Quello che so che essa c’era e che i documenti sono databili con certezza al periodo cosiddetto ‘nuragico’. Posso dire ancora che sono tutti di ispirazione semitica quanto ad alfabeto e al lessico.Tranne alcuni segni tipicamente ‘sardi’ (il beth ad esempio e lo shin) e qualche parola indoeuropea che compare qua e là. Ma importantissime tutte.
Posso aggiungere infine che tutta la scrittura si presenta come emanazione di scribi –sacerdoti del tempio (il nuraghe). Se Maurizio ci crede sarà .…felice; come scrive. Perché ritiene strano, anzi stranissimo che i costruttori dei nuraghi non scrivessero. Sulle pintadere: caro Franco cercherò, con notevole ritardo, di dire la mia. E punto molto, ma molto sul significato del ‘cinque’. Per Maura: non capisco perché io sia da …temere. Comunque, noto che ha mandato da acuta italianista un post che è bellissimo per lo spirito del Blog di Gianfranco. Il più bel romanzo (a puntate e con una raffinata regia) di Gianfranco è il Blog stesso. Che varia umanità! E che protagonisti! Nel bene e nel male.Per tutti il ‘saluto’ caro che ho suggerito a Franco Laner.


Le foto (dall'alto in basso): La pietra del Nuraghe Losa; (fig.1) Toro più bastone (lamed); (fig.2). Il serpente delle iscrizioni del Sinai; (fig.3) Toro, Lamed, Serpente. Il Dio ‘El; (fig.4) Toro, corno, serpente con scrittura poco o non più pittografica

domenica 30 agosto 2009

Noi sardi, al tempo della preistoria

di Pierluigi Montalbano

In Sardegna, verso metà del secondo millennio a.C., si erano sviluppate forme di civiltà in villaggi sorti intorno a residenze fortificate, in zone in cui la pesca, la pastorizia e l'agricoltura avevano avuto un imponente sviluppo. Di queste civiltà si hanno prove e testimonianze che risalgono fino al sesto millennio a.C.: sono diffusi oggetti di ceramica tardo neolitica, lavorata a mano, sottoposta a procedimenti di lisciatura o incisione e dipinte con forme geometriche non prive di variazione di fantasia.
Queste antichissime testimonianze, di gran lunga precedenti la comparsa dei nuragici, provano la presenza di vita religiosa ed economica in Sardegna già prima del contatto della regione con le grandi civiltà della Mesopotamia. Dimostrano inoltre l'esistenza di un antico sostrato di civiltà indigena con sviluppi autonomi, che ha percorso i presupposti necessari per il diffondersi di centri commerciali che scambiavano i prodotti della pastorizia, dell'artigianato e dell'agricoltura locali.
I centri di scavo ci mostrano prove di elevato tenore di vita con presenza di ceramiche colorate e decorate che rivelano la presenza di grandi ricchezze dei dinasti locali. La presenza di agenzie commerciali si protrasse per molti secoli, comportando progressi nella vita economica e culturale dell’isola: durante il secondo millennio si può parlare di una forma di colonialismo commerciale, che non soltanto lasciava sopravvivere l'assetto politico e sociale precedentemente trovato in Sardegna, ma determinava miglioramenti nella tecnologia in genere e in particolare nella metallurgia, in quanto insieme alle merci venivano importati anche procedimenti tecnici nella fabbricazione dei manufatti.
In questo periodo, forse per influenza Mesopotamica, anche le tradizionali figure religiose abbandonano la stilizzazione neolitica per assumere caratteri maggiormente realistici e antropomorfici, e cominciano ad apparire insieme con altre figure di uomini o di animali. La produzione ceramistica fa pensare ora all'esistenza di una più vasta sfera di acquirenti, con esigenze di gusto più complesse e più sensibili all'arte. Le nuove influenze introducono motivi decorativi inediti accanto alle antiche forme geometriche. Compaiono spirali, linee ondeggianti, grandi anfore e grandi brocche di ceramica non soltanto dipinta ma anche a rilievo e, nello stesso tempo, si introducono nuovi procedimenti di verniciatura e si imitano in argilla oggetti di bronzo, impiegando vernice e modellature che danno alla terracotta dipinta l'agilità, la fantasia e la ricchezza degli oggetti metallici.
La comparsa del vino come bevanda suggerisce tazze particolari e concede all'estro dei modellatori libertà di invenzione nella creazione di brocche con becchi che consentono di versare il liquido, certamente prezioso, senza sprecarlo. Un miglioramento generale del tenore di vita e più articolate esigenze nei consumi presuppongono però una nuova struttura sociale, che non è più concepibile in forma di grosse aziende agricole nelle quali tutti i sudditi lavorano per il sovrano, mediatore rispetto alle forze divine di una religione idolatrica, con una funzione a un tempo magica e sacrale.
Il maggiore sviluppo antropomorfico delle individualità divine indica, a sua volta, che la divinità ha abbandonato le arcaiche forme idolatriche (divinità come potenza generativa della natura) pur restando legata a una forma prevalentemente naturalistica, inerente principalmente al felice sviluppo di tutti i cicli della vita, dell'agricoltura e della pastorizia. Nel fondo religioso persiste, quindi, il concetto della presenza di una divinità femminile come simbolo della fecondità della terra e di ogni cosa animata e inanimata: una Dea Madre.

venerdì 28 agosto 2009

L'Espresso alla carica contro il "dialetto" friulano

La foto qui accanto è del titolo di uno dei più vergognosi attacchi postfascisti alle lingue minorizzate, protette dall'articolo 6 della Costituzione e tutelate da legge dello Stato. Ne è autore un giornalista di L'Espresso, organo dei radical-chic con particolari simpatie giacobine. È chiaro, dall'articolo (sopratitolato "Follie federaliste"), che la lingua friulana, naturalmente definita dialetto, è l'obiettivo di sponda della polemica contro la Lega nord e la sua proposta di valorizzazione dei dialetti. Ciò non toglie che niente di tanto bolso era più uscito dai tempi delle veline di Mussolini contro "i dialetti".
Tutti sappiamo, credo, che il confine fra lingua e dialetto è assai labile. La seconda espressione non è quasi mai usata per descrivere una parlata, ma per irriderla e per toglierle importanza. “La lingua” ho scritto tempo fa riportando una sarcastica definizione “è un dialetto con alle spalle un esercito”. E il friulano, come ogni lingua di nazioni senza stato, esercito non ha. Ha solo una grande tradizione e soprattutto la volontà dei friulani di difenderla e valorizzarla. Niente del ciarpame nemico della democrazia linguistica è risparmiato, dallo “spreco” di denari usati per salvare un “dialetto”, alla derisione degli sforzi fatti per tradurre in “dialetto” grandi opere di cultura.
L'autore dell'articolo postfascista nulla avrebbe da dire perché la Bibbia è tradotta in maltese o in malgascio, sghignazza perché lo è in friulano. E presenta come curiosità folcloristiche e leghiste (“Dante in chiave leghista”) la riduzione della Divina commedia in “versioni gergali”, dal siciliano, al bolognese, al calabrese, al milanese al friulano, appunto. Se gli è sfuggita la bellissima traduzione in sardo fatta da Paulu Monni, non credo sia per simpatia nei confronti del “dialetto” sardo, ma solo per ignoranza.
Il livore è tale che ne fa le spese anche Riccardo Illy, l'ex presidente di centrosinistra del Friuli Venezia Giulia, dall'Espresso cooptato fra i “governatori” migliori. Il suo torto è di aver prodotto “addirittura” una legge di politica linguistica per il friulano, quella che il governo Prodi, ormai dimissionario, aveva bocciato e rinviato alla Corte costituzionale. “C'era il rischio di un regime di bilinguismo obbligatorio denunciarono il governo Prodi, poi quello Berlusconi” è scritto nell'articolo. Le cose non stavano così, ma poco conta. La mistificazione non guarda in faccia a nessuno, quando c'è di assicurare i soci del club giacobino che i “dialetti” non passeranno e che è sempre valida l'espressione “Una nazione, una lingua, un popolo”.

giovedì 27 agosto 2009

Pintaderas: il giallo è risolto

di Franco Laner

Grazie a tutti quelli che hanno risposto al mio articolo, perché la mia era una richiesta di aiuto!
Chi ha pazienza di leggere il capitolo 6 del mio libro in uscita fra qualche mese e che è pubblicato nel sito di Pintore, capirà l’importanza che rivestivano le vostre risposte. Per chi non ha tempo o voglia, cerco di rispondere sinteticamente.
La “Torralba”, trovata al Santu Antine ha 6 buchi in un ramo pentaradiale, 5 in tutti gli altri, e così è stata studiata e rappresentata.
L’anomalia, i 6 buchi, al posto dei prevedibili 5, ha consentito una serie di deduzioni, come quella che la pindadera fosse un calendario, un abaco, un pallottoliere.
E’ però l’unico 6 riscontrabile nelle 8 pintadere “geometriche” trovate in Sardegna (meglio quelle che conosco) e quasi tutte, o tutte, nei nuraghi complessi!
L’altra tipologia, “le decorative”, sono molte ed alcune ancora in uso (esempio Chiaramonti, notizia e foto di Mario Unali).
Come molti hanno osservato, la particolare e casuale luce del secondo scatto, fa vedere che i crateri sono 5. Dunque, 6 i buchi e 5 i crateri. I buchi sono fatti dopo i crateri, prima della cottura dell’argilla. In questa operazione è stato compiuto l’ “errore” il “refuso”, come ha magistralmente annotato Maurizio Feo e come mi aveva sempre detto la Roberta Cabiddu di Villanovaforru che realizza con tecniche antiche splendide pintadere.
E come ho scritto prima dell’indovinello, deducendolo dalla “Isili”, anche se incompleta e pur non avendo prove.
Ovvio che a coloro che hanno osservato che in una ci sono 6 buchi e che nell’altra sono o sembrano 5, spedirò come promesso il libro, appena sarà stampato.
Tutti coloro che hanno questo titolo (o si avvicinano molto!) dovrebbero mandare l’indirizzo completo cliccando qui in modo che possa spedire loro il libro!
Ma ripeto, si potrà, almeno spero, capire di più leggendo il capitolo sulle pintadere. Mancano le figure. Allego solo la foto di alcune pintadere per dare una idea della loro intrinseca bellezza, con la “Bella” in primo piano
Comunque sia affermo che le pintadere sono un tesoro prezioso, originale, altamente simbolico.
Ah, che peccato di non accorgersi di star seduti su un giacimento –il patrimonio archelogico dell’Isola- e non sfruttarlo, né culturalmente né economicamente! Anche un semplice oggetto, come la pintadera, se vivisezionato con amore e strumenti sprovincializzati (sconosciuti agli archelogi sardi ed anche ai pur numerosi politici) darebbe indicazioni non banali.
Come un frammento di uno specchio, la pintadera getta luce e riflessi per la conoscenza della società nuragica, condizione senza la quale i nuraghi continueranno ad essere pensati come fortezza (madre di ogni sciocchezza)!

mercoledì 26 agosto 2009

Che male ha fatto S Francesco per dedicargli quest'ospedale?

Sentendo storie di mala o approssimativa sanità, mi sono a volte chiesto perché l'ospedale di Nuoro sia stato intitolato a San Francesco, invece che poniamo a Erode. Non che il casino sia peculiarità del solo nosocomio nuorese, a stare alle cronache di ordinaria follia che quotidianamente approdano, ma quando le vicende della vita ti fanno testimone, le cose da impersonali si trasformano in conoscenza diretta. E ti rendi conto che c'è qualcosa di perverso nel modo con cui un ospedale è organizzato. Non c'entrano i medici, né c'entrano gli infermieri, di solito sante persone che continuano a lavorare invece di rovesciare il tavolo sulla testa di chi li organizza.
Quale mente maligna può pensare di mandare in ferie gran parte del personale di Pronto soccorso tutto insieme in agosto, quando i potenziali utenti sono tre, quattro volte il consueto? Quale perversione autorizza a lasciare un solo medico, dei sette in organico, ad interessarsi di ortopedia? Che mente ci vuole per organizzare le visite non sulla base della gravità ma su quella del momento di arrivo in una sala già piena di pazienti in attesa di sapere se nell'incidente stradale che hanno avuto, il collo è stato danneggiato?
Intorno alle 13, nel Pronto soccorso (mai l'aggettivo pronto fu così destituito di fondamento) una quarantina di pazienti ha atteso ore qualcuno che si occupasse di loro, assoggetati ad una classifica di gravità sulla base di una tastatina del polso e una stretta di sfigmomanometro all'avambraccio. Che altro, del resto, potevano fare i rari infermieri e medici, prendendo a propria alleata non la loro professionalità ma la santa Provvidenza? Quell'anziano signore colto da una peresi facciale alla parte del cuore? Speriamo non abbia complicazioni, dopo ore di attesa in mezzo ai quaranta. La signora incinta? Speriamo non partorisca nella sala d'attesa del Pronto soccorso. Il giovane incidentanto, sanguinante dall'occhio e dal naso, imbragato su una rigida barella per otto ore? Speriamo non abbia avuto una commozione cerebale e che resista alla tentazione di muoversi e di mangiare qualcosa fino ad una visita che non arriva mai, perché nel reparto una geniale mente organizzativa ha lasciato solo uno solo di sette medici.
Il nuovo assessore della sanità, leggo, ha intenzione di comissariare i responsabili delle Asl. Ma come anche quello di Nuoro? si indignano gli sponsor politici. Pare di sì, a testimonianza che è pur sempre possibile un po' di giustizia, almeno a risarcimento dei patimenti delle persone che un'intera giornata hanno, come il vostro testimone, provato che cosa sia l'improvvisazione al potere.

lunedì 24 agosto 2009

Pintadera A e B: un premio a chi nota le differenze


di Franco Laner

Caro Gianfranco,
sto lavorando su un libro che raccoglie l'eredità di Accabadora, che compie 10 anni.
Il libro avrà titolo "Sa 'ena", un piccolo rigagnolo, però d'acqua pulita, capace di dissetare! (che presunzione!!). Avrei preferito "Su trogliu", ma più di un linguista me  lo ha sconsigliato!
Torno sui nuraghi, sulle Tombe dei Giganti, sui dolmen, pozzi e fonti, ho fatto anche un capitolo sui Telamoni di Monte Prama, sugli antropomorfi e c'è anche un capitolo sulle pintadere, oggetto di convegni, discussioni e soprattutto scoop dell'ing. Nicolino Di Pasquale, che ha dimostrato essere un calendario.
Stessa cosa ha fatto Piero Piscedda ed anche Zedda ha sostenuto che la Pintadera di Santu Antine fosse un "pallottoliere".
Ne ho "trovato" 8 di "geometriche" e altre "decorative". Tutte le geometriche sono assai belle e ruotano attorno al 2+3 e il 5. Solo la Santu Antine introduce una intrigantissima variante. In un ramo pentaradiale ha 6 tacche, anziché le 5 ripetute sulle altre.
L'indovinello è di verificare se qualcuna nota differenza fra queste due foto scattate l'una dopo l'altra?
Nel cercare la foto di questa Pintadera, ho trovato quelle che avevo scattato quando la vidi al Museo di Sassari.
Avevo scelto la A e stavo gettando la B, perché sfuocata, scattata un attimo dopo col flasch. Ma, stupefatto, le due foto sembravano di due pindadere diverse.
Dov'è la straordinaria differenza???
So che ti chiedo molto, ma non potresti pubblicare le due foto e chiedere ai tuoi lettori. Notate qualche differenza fra queste due foto della Pintadera di Torralba, ora logo del Banco di Sassari?
La differenza non è ovviamente sul fatto che la B è sfuocata! Non ho fatto, giuro, alcun ritocco: non saprei nemmeno da che parte cominciare!
A tutti coloro che daranno la risposta esatta Franco Laner invierà a sue spese il suo prossimo libro "Sa 'ena".

La risposta al nazionalismo italiano non è quello sardo

di Roberto Bolognesi

La discussione con GGG per ora si è calmata... [Bolognesi si riferisce agli interventi su questo blog di Giorgio Giovanni Gaias, un giovane militante di Destra, NdR]
Devo dire che GGG è davvero un ragazzo coraggioso e generoso: lo dico senza la minima ironia.
Come è normale a quell'età, però, si lascia trasportare da un idealismo che è tanto bello, quanto pericoloso.
Pericoloso quanto lo era il mio -di verso opposto- alla sua età.
Pericoloso come tutti gli idealismi.
Il concetto di Nazione è bellissimo...
E infatti in nome di questo bellissimo concetto sono stati commessi i crimini più orrendi, perché sono proprio questi bellissimi concetti che permettono a gente come GGG -a meno che non disponga dei "freni" giusti- di mettere a tacere quella che i cristiani chiamano la "coscienza" e io chiamo il buon senso.
In nome dell'Italia, perfino i Garibaldini potevano fucilare i cafoni di Bronte senza entrare in crisi.
Eppure erano "Italiani" che fucilavano altri "Italiani".
Per "salvare il Comunismo" -altro bellissimo concetto- Stalin ha fatto ammazzare più comunisti -senza contare anarchici e socialisti- di tutti i regimi fascisti messi insieme.
In nome di Cristo-altra bellissima figura-i Cristiani hanno ammazzato molti più Cristiani ("eretici" ammazzati dai Cattolici e Cattolici ammazzati dai protestanti) di tutti gli imperatori romani messi insieme.
Gli ideali sono come le droghe pesanti: a qualcuno possono essere utili per espandere la mente, mentre per altri sono pericolosissimi, perché disinibiscono quelle pulsioni distruttive che normalmente sono tenute a bada dai freni "morali" forniti dal buon senso.
Gli ideali forniscono "certezze".
GGG nel suo pezzo -gia pronto?- sulla necessità dell'ingresso dei giovani in politica dice "La battaglia più grande che ci spianerà una volta per tutte la strada che ci porta a un futuro solido e ricco di certezze."
Mamma mia!
Chi vuole un futuro ricco di certezze non sa accettare la realtà -per definizione piena di incertezze- ed è disposto a commettere molte porcherie pur di mettere a tacere la propria paura del mondo!
Poiché il futuro è imprevedibile a causa del numero enorme di variabili che determinano lo svolgersi della storia, il modo migliore per garantirsi il lieto fine è quello di eliminare il numero maggiore di "variabili".
Così Stalin ha cercato di facilitare la nascita dell'UOMO NUOVO, eliminando milioni di uomini "vecchi" che non si lasciavano rieducare.
E chi già sta per scagliarsi per condannare il comunismo in quanto tale, sappia che Stalin non ha fatto altro che riesumare il metodo usato nel medioevo dai cristiani: i pagani che non si convertivano, morivano.
Alla fine il risultato era lo stesso: arrivare a un mondo abitato da soli cristiani.
Per avere la certezza del ritorno di Cristo in terra.
Questa lunga premessa mi serve per dire una cosa semplice: la risposta al nazionalismo italiano, non può essere il nazionalismo sardo. Se vogliamo vincere la sfida della nostra soppravvivenza in quanto popolo sardo, la prima cosa da fare è rinunciare alle "certezze" dei nostri oppressori.
Una delle pochissime certezze che ho è quella di non voler diventare come loro.
E qualche idea (incerta) sul dove vorrei arrivare ce l'ho. Invito anche GGG ad andarsele a cercare su Diariulimba.

sabato 22 agosto 2009

Il grande inganno dell'unità "d'Italia"

di Francesco Cesare Casula

Sono stanco, non ho più parole: da oltre vent’anni vado dicendo le stesse cose, ampiamente dimostrabili, ma nessuno mi sta a sentire, perché noiose per menti pigre o perché non combaciano con ciò che si è appreso e si apprende dalla scuola, dai giornali, dai libri, dalla radio, dalla televisione, da tutto il sentimento nazionale. Perciò, vengo snobbato. Mi vien voglia di gridare: basta. Se ne avete vaghezza, andate a leggere “La terza via della storia. Il caso Italia” e, se lo capite, portatelo avanti – voi, e non più io – nelle conseguenze politiche, che sono dirompenti (aprono la strada ad un’autonomia speciale ed unica o, addirittura, potrebbero portare alla lotta per un indipendentismo sovrano, se disattesi nei nostri diritti).
Ma non ci credo. Noi sardi non abbiamo palle: siamo nati sottomessi e sottomessi moriremo.
Comunque, oggi, per l’affetto e la stima che ho nei confronti di Gianfranco Pintore, il quale unico intellettuale molto di me ha recepito e incanalato nel filone letterario, provo a ridire in parole povere la storia: la nostra storia sardo-italiana, non come materia scolastica ma come materia filosofica, cioè come modo di pensare.
Se si prende un atlante si vedrà che tutto il mondo è frazionato in Stati, con tanto di confini, popolazioni dentro i confini, rispondenti ognuna a leggi proprie. Lo Stato è un concetto inventato dall’uomo fin dalla sua nascita, fin dal periodo delle caverne, e condiziona tutta la sua vita. Eppure, nessuno storico ne fa la storia. Se si immagina uno Stato come un’automobile, gli storici fanno la storia del guidatore, ovverosia dei governanti statali, siano essi re o principi o presidenti, ecc.; oppure fanno la storia dei passeggeri, ovverosia del popolo, con tutte le guerre, le rivoluzioni, gli affanni, le gioie e le miserie da esso patite. Nessuno pensa però, a fare la storia dell’auto, ovverosia dello Stato, senza il quale non ci sarebbe né il guidatore né i ci sarebbero i passeggeri.
Rapportate questo banale esempio al “caso Italia/Sardegna”. Qual è la Storia, la nascita e lo sviluppo dello Stato oggi chiamato Repubblica Italiana? Il Diritto parla chiaro: «L’attuale Stato italiano non è altro che l’antico Regno di Sardegna ampliato nei suoi confini». Quindi, non c’è mai stata un’unità d’Italia ma uno Stato, chiamato Regno di Sardegna, nato in Sardegna, a Cagliari-Bonaria il 19 giugno 1324, che per annessione ha incamerato dal 1848 al 1861 tutti gli Stati della Penisola italiana (non si deve credere alle mie parole ma si deve credere al Diritto che specifica bene cosa vuol dire unità fra Stati e cosa vuol dire annessione di Stati).
Il 17 marzo 1961, visto che l’automobile si era ingrandita enormemente inglobando le ecumeni delle fagocitate automobili peninsulari, il guidatore dello Stato sardo (cioè Vittorio Emanuele II di Sardegna, imbeccato dal Cavour) pensò bene di cambiargli il nome, da Regno di Sardegna a Regno d’Italia.
Ed è così che, col cambio del nome allo Stato la domenica mattina del 17 marzo 1861, ha inizio il “Grande Inganno” che coinvolge ed inficia non solo la storia nazionale ma tutto il modo di pensare della società oggi detta italiana.
In verità, il cambio del nome di uno Stato non è una cosa arbitraria, incostituzionale. Sia il nome sia il titolo sia la simbologia statuale appartengono alla categoria degli “attributi di personalità” dello Stato, i quali possono essere modificati o addirittura aboliti senza che lo Stato ne soffra o cambi la propria condizione giuridica. Nel corso della storia ciò è avvenuto tante volte in tutto il mondo: nel 1302 il Regno di Sicilia cambiò il nome in Regno di Trinacria, nel 1789 il Regno di Francia cambiò il titolo e il nome in Repubblica Francese, dal 1939 al 1947 la Spagna non ebbe né titolo né nome, chiamandosi semplicemente El Estado.
Il cambio del nome nel 1861, da Regno di Sardegna in Regno d’Italia fu, probabilmente, una cosa giusta e sensata, in quanto la maggior parte della ecumène statale era ora rappresentata dalla penisola italiana.
Ciò che, invece, fu e resta ingiusto e inaccettabile è che col cambio del nome si sia cambiata anche la storia istituzionale, politica e sociale dello Stato, e che con esso cambio si sia introdotto nella società l’inganno che il binomio Italia-Penisola voglia dire Italia-Stato, ed il mito che tutto ciò che era dello Stivale prima del 1861 faccia parte da sempre di un’unica vicenda territoriale, di un unico idem sentire, di un’unica cittadinanza e nazionalità che nella sostanza tradisce il reale percorso statuale oggi detto italiano.
Da quella mattina del 17 marzo 1861, infatti, la storia dello Stato non è più la storia del Regno di Sardegna, iniziato nel 1324 e pregnato per 537 anni dal sangue e dal sudore dei sardi isolani e continentali ma la storia della penisola italiana, dagli etruschi ai romani, dai longobardi ai normanni, dai veneziani, toscani, napoletani ai piemontesi. Per cui, a scuola, dove si plasma e s’indirizza la società del domani, s’insegna la battaglia di Legnano o la disfida di Barletta affatto ininfluenti nella formazione dello Stato, e non la battaglia di Lutocisterna o la battaglia di Sanluri senza le quali, oggi, non ci sarebbe quell’entità per la quale tutti noi, insulari e peninsulari, lavoriamo, preghiamo, combattiamo e paghiamo le tasse.
Tutto quello che ho detto è dimostrabilissimo attraverso fonti archivistiche, cartografiche, iconografiche, ecc. Ma a nessuno importa. Non importa ai sardi e non importa ai connazionali continentali, perché ho sollecitato il Sindaco di Cagliari a far votare in consiglio la dichiarazione della città come prima capitale dello Stato oggi detto italiano, senza risultato; ha invitato la Regione a dichiarare la Sardegna come matrice dello Stato sardo-italiano, senza averne risposta; ho chiesto ai deputati sardi, di Destra e di Sinistra, di presentare una mozione al Parlamento bicamerale nazionale (hanno risposto solo Delogu e Fantola), senza ottenerne alcun riscontro. Risultato: noi che rappresentiamo la nascita, l’infanzia e la giovinezza dello Stato non siamo nemmeno inseriti nelle celebrazioni del centocinquantenario della cosiddetta Unità d’Italia. In compenso, viviamo contenti fra campanacci, coltelli, cestini e tappeti. Viva la Sardegna.

Nelle foto: il trattato fra Sardegna e Francia e quando i codici dello Stato erano sardi

venerdì 21 agosto 2009

"Unità d'Italia", quante mistificazioni nel tuo nome

Cinquanta anni fa, nel 1961, il centenario della cosiddetta Unità d'Italia si svolse senza polemiche, a quel che ricordo e a quel che consta dai ricordi raccolti in Internet. Le celebrazioni del 150°, previste per l'anno venturo, no. E c'è qualche vestale, già in gramaglie anzitempo, che sta lanciando strilli per la sottovalutazione in cui si vorrebbero avvolgere le celebrazioni. Crisi del “sentimento nazionale”, dello “amor di patria”? Può darsi, come può darsi che la retorica europeista abbia fagocitato la retorica nazionalista.
Ma penso piuttosto ad un'altra spiegazione, che naturalmente non esclude l'altra. Il fatto è che intorno al 1961, l'indottrinamento nazionalista era, a scuola e altrove, totalizzante e che conoscere non dico la storia vera, ma altre possibili interpretazioni della storia, era possibile solo a un ristrettissimo numero di specialisti. Oggi non è più così. Internet, con tutte le sue contraddizioni e, a volte, approssimazioni, offre a chi voglia conoscere possibilità quasi illimitate. Della strage di Bronte da parte dei garibaldini, per dire, solo gli esperti sapevano. Così dei brogli incredibili che segnarono i plebisciti a Firenze e Modena. Così del fatto che il Regno di Sardegna conquistò manu militari gran parte del futuro stato “unitario”, col pretesto che i popoli erano ansiosi di essere annessi.
Solo un inutile revanscismo, va da sé, potrebbe utilizzare la storia nascosta per inficiare un fatto ormai consolidato dalla storia. Ma allora perché nasconderla o tentare di mistificarla? Perché, per esempio, si è costretti a leggere nel sito della Predidenza del Consiglio dedicato al 150° una ricostruzione degli avvenimenti del 1861 in cui non si accenna neppure al fatto che il Regno di Italia è nato dal cambio di nome del Regno di Sardegna? Di mistificazioni, alcune delle quali davvero offensive dell'altrui intelligenza, è denso il piagnisteo dei nazionalisti-giacobini (di ogni sponda, per altro) sulla “triste sorte” del 150° della cosiddetta unità d'Italia.
Difficile dire quale degli interventi di nazionalisti succedutisi in questa estate piagnona (in questo ambito) sia il più mistificante, quello che più di altri mostra i nervi più scoperti. Ma il più scandaloso è certo l'articolo di Vittorio Messori su Il Corriere del 19 agosto: “L’italiano, una lingua democratica”. Scrive, fra l'altro, lo scrittore vaticanista: “Due sole, grandi lingue, divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti: il tedesco e l’italiano”. Se questa è serietà storica, immaginatevi il resto. L'italianizzazione forzata del sardo, quella del sudtirolese? Mai avvenute, per Messori. I maestri e professori che multavano gli alunni sardoparlanti (i più democratici, perché altri picchiavano)? Non ci sono mai stati.
Com'è che i parlanti lingue diverse dall'italiano e dialetti si sono convertiti alla lingua italiana? “Da noi, ancor più che in Germania, l’idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll’accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale.” È così che l'Italia – fantastica il nostro - “ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una “nazione”.”
Diceva Gramsci: “Che i libri siano una nazione e non solamente un elemento di cultura, ci vuole molta retorica per sostenerlo”. E di retorica, in quest'articolo (e in molti altri che l'hanno preceduto) ce n'è in quantità industriale. Non voglio, però, togliervi il gusto di immergervi nella sesquipedale mistificazione del Messori, cliccate qui.
Interessante è capire perché intellettuali di grido, politici non privi di conoscenze culturali, a parte i patriottardi isterici, si riducono a mistificare la storia e la geografia al di là della decenza. Non si tratta, ovviamente, di punti di vista diversi, in grado di suscitare dibattiti anche accesi ma partendo da realtà di fatto incontrovertibili: sono furti dell'intelligenza. Il problema sta nella mistificazione, nell'occultamento della realtà, nel giocare alle tre carte con la storia. Perché? di che cosa si ha paura, tanta paura da mettere in forse la credibilità altrimenti conquistata pur di sostenere anche il falso?
Chi lo sa? Certo è che se sua la difesa deve essere affidata a mezzucci del genere, la cosiddetta unità d'Italia deve essere messa proprio maluccio.

giovedì 20 agosto 2009

Nuragici, chi erano costoro?

di Maurizio Feo

Noi li chiamiamo così, nuragici. Loro sicuramente chiamavano se stessi in modo diverso, con un nome a noi ignoto. Forse, come diversissimi gruppi umani hanno fatto in passato (mostrando una ripetitiva e comune propensione all’autocelebrazione), usavano un’espressione come “uomini liberi”, oppure “uomini eletti”. In uno studio genetico ormai non più recentissimo (1998), L. L. Cavalli Sforza descrive un albero filogenetico in cui la Sardegna si separa dalle altre popolazioni già alla seconda divisione. Questo implica già le grandi differenze che descriveremo meglio. Si tratta di un’isola, la Sardegna, di 24.000 km2, che dista circa 200 km sia dalle coste italiane che da quelle africane. È molto vicina alla Corsica, ma le due popolazioni isolane sono molto diverse dal punto di vista etnico e dal punto di vista delle vicende storiche in cui si sono formate.
Ma proprio la posizione geografica della Corsica può avere avuto un ruolo importante nel primo popolamento della Sardegna, in quanto, grazie alla posizione dell’arcipelago toscano, dalla penisola si può anche tuttora “navigare a vista”.
Chi furono i primi abitanti della Sardegna? Non furono quelli che chiamiamo “Nuragici”.

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mercoledì 19 agosto 2009

Fonne, Onne e s'autofagia sarda

B'at a giru una tropa de castigados chi nche ghetat a terra sos cartellos cun su nùmene sardu de meda biddas. Chi apa bidu deo est capitadu in Ulìana, in Durgali e in Oniai, ma mi contant amigos chi est capitadu in aterue puru. Pro su beru, non bi diat àere bisonzu de una tropa, bastat unu ballaloi motorizadu e bastantemente inimigu de sa Sardigna pro fàghere sa balentia. Una balentia, de àteru, chi costat dinare a totus, giai chi cussos cartellos in sardu sunt pagados cun sas impostas nostras e, ma custu mi ponet unu parmu de lardu, de sos ballalois.
Cale siat sa tirria chi moghet custos remitanos est malu a lu cumprèndere, bi diat chèrrere unu psichiatra, ispetzialista in autofagia. A un'àtera gasta pertenent sos chi in Fonne ant mudadu, comente si biet in sa foto, su cartellu in Onne. Fortzis una gasta de autocolonialistas o fortzis de amantiosos de su particularismu. Comente si podet bìere in sa foto (ma aterue, in Fonne, est sa matessi cosa) su cartellu in italianu no est tocadu: Fonni fiat e Fonni abarrat. Comente a nàrrere chi sos autores de su càmbiu nudda ant ite nàrrere pro su nùmene italianu postu dae istranzos, cuntestant su nùmene sardu.
Tocat de ischire chi in Fonne comente in totue, est istada sa Comuna a detzidire chi su nùmene sardu de sa bidda fiat custu, nemos l'at imperadu comente, a s'imbesse, est capitadu cun s'italianu. Si est beru chi sos fonnesos cando nùmenant sa bidda issoro narant Onne, est beru puru chi si unu fonnesu tucat a sa bidda sua narat “ando a Fonne”, sinzulende, duncas, chi sa paràula Fonne b'est e est impreada. Siat ite si siat, sunt istados sos amministradores a detzidire intre Fonne e Onne, faghende un'isseberu lezìtimu. Nemos dae foras bi l'at imperadu.
Nemos aiat tentu nudda ite nàrrere si sos amministradores aiant naradu: “Ponimus Onne”. Nemos francu a chie, a de note, fiat coladu un unu pinzellu ponende una “F” in antis de ONNE, craru, aberende s'àidu a chie, semper a de note, aiat coladu una manu de tinta bianca pro nche iscantzellare sa “F”. E gai sighende, pro mustrare chi tenent resone sos inimigos de su sardu, cando narant chi su sardu est a su prus una limba orale chi non si podet iscrìere. Est una vitòria issoro e de chie, pro annos, at tropedidu s'imparonzu de su sardu in iscola, che a totu sas limbas fatu de règulas e de normas.
E a pensare chi bastant bator pessones armadas de pinzellu pro abutinare su chi sa maioria de sos sardos cheret: una limba normale chi fatzat a l'iscrìere e a la bìere in sos caminos e in totue.

martedì 18 agosto 2009

Ancore nuragiche e paradigma in crisi

Fra un bel seno e un festival di jazz, un tondo sedere muliebre e una sagra dell'unghia incarnita, in quest'estate dedicata alla desardizzazione della Sardegna, ha fatto capolino sui quotidiani e in Tv una notizia bizzarra: trovate in fondo al mare due ancore nuragiche. A corredo anche un'altra notizia: ancore nuragiche erano state trovate anche nel mare di Pula e di Capo Comino. Toh, ma non si era detto che i nuragici non conoscevano la navigazione, che anzi si guardavano bene dall'avere rapporti con il mare?
Delle due una: o si tratta di una scoperta davvero sconvolgente (nel senso che sconvolge certezze inossidabili) o di una bufala, come suppongono i coltivatori di quelle certezze. Fra questi, uno (che però ha la stessa credibilità di un ippopotamo in un fiordo norvegese) il quale in un forum scrive che lo scopritore delle ancore, Rubens d'Oriano “si deve essere ubriacato” e, al solito, le attribuisce ai fenici. Del resto è comprensibile: quelle ancore nuragiche dovevano servire a delle navi nuragiche, ma siccome è certo che i nuragici non navigavano, si crea un corto circuito davvero brutto, capace di far saltare in aria costruzioni ideologiche considerate solidissime.
Leggevo in questi giorni un saggio di Roberto Sirigu “Archeologia preistorica e protostorica in Sardegna”, nel quale è fra l'altro scritto: “la prima domanda che dovremo porci in relazione alla ricostruzione storica che abbiamo qui proposto non è se essa sia (e se sì, in che misura) ‘vera’, quanto piuttosto rispetto a quale/i interesse/i e di quale/i soggetto/i essa sia pertinente. Detto ancora più esplicitamente: quale soggetto (collettivo) ha elaborato la ‘storia’ della ‘preistoria’ sarda e per soddisfare quali interessi?”. Una domanda, questa del cui prodest, che è da sempre al centro di questo blog, quando vi si parla sia di archeologia sia di lingua sarda.
Già, qual è il soggetto collettivo che ha elaborato una storia della civiltà nuragica? E quali erano e sono gli interessi che ha dovuto soddisfare? Quali erano e sono gli interessi di quanti hanno piegato la protostoria della Sardegna ad una verità che partiva da un paradigma: i nuragici non navigavano? O dall'altro paradigma secondo cui “i nuragici non avevano scrittura”? Sempre Siligu scrive: “Se vogliamo che il nostro agire professionale possa meritarsi l’appellativo di ‘scientifico’ non possiamo e non dobbiamo lasciarci irretire dalla confortevole e rassicurante fascinazione di nessun alveo paradigmatico per il solo fatto che esso ci appare attualmente ‘in vigore’.”
Io avrei delle risposte: gli interessi viaggiano sulle gambe degli uomini, oltre che delle istituzioni. Si guardi agli uomini e alle istituzioni che decidono e le risposte fluiranno senza molte difficoltà.

lunedì 10 agosto 2009

Archeologia in noir. In sardu e in italiano

In unu logu denegadu de Sardigna, un’archeòloga in pessu laureada, imbenit paris cun amigos suos una losa iscrita cun lìteras de bator limbas antigas meda. Sarbana si sabit chi su chi at agatadu est de importu mannu: diat èssere a garbu de soluvertare s’istòria de s’iscritura antiga in su Mediterraneu e ispèrdere tzertesas codificadas e pregiusìtzios.
Su fatu istat in custos si sunt inraighinadas carrera acadèmicas, baronias universitàrias e pro finas sa polìtica culturale de sa burocratzia istatale. Pro chi s’iscoberta non peset s’interessu chi li deghet, Ministeru de sos benes culturales e Subrintendèntzia archeològica punnant a ispramare a Sarbana e l’incausant cara a sa giustìtzia.
A s’archeòloga abarrat petzi de s’invocare a un’archeòlogu fiorentinu mannu de tempus e de fama e a un’epigrafista bascu.

Sa Losa de Osana est in sas librerias de Sardigna

Pro lèghere s'incipit

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In uno dei non luoghi dell’Isola, una giovane archeologa scopre insieme a degli amici, una lapide scritta con le lettere di quattro lingue antichissime. Sarbana capisce che lo straordinario ritrovamento potrebbe sconvolgere la storia della scrittura antica nel Mediterraneo e demolire consolidati luoghi comuni e pregiudizi.
Il fatto è che su questi si sono fondate carriere accademiche, baronie universitarie e persino la politica culturale della burocrazia statale. Per impedire che la scoperta susciti l’interesse che merita, Ministero dei beni culturali e Soprintendenza archeologica cercano di intimidire l’archeologa e la denunciano ai carabinieri.
A Sarbana non resta che rivolgersi, con il suo compagno archeologo, a un vecchio etruscologo fiorentino e a un epigrafista basco.

La stele di Osana è nelle librerie di Sardegna

Per leggere l'incipit

domenica 9 agosto 2009

La lingua sarda "non univoca" dell'on Cuccureddu

“Nella nostra isola non esiste una lingua sarda univoca. Ci sono troppe sfumature che non possono essere ricondotte verso un unico vocabolario”: parola di Franco Cuccureddu, consigliere regionale e rappresentante nell’Isola del Movimento per l’autonomia. Lo ha detto a un giornalista dell’Unione sarda che pubblica oggi una interessante inchiesta sui riflessi qui delle proposte della Lega sulle bandiere regionali e le lingue locali. Felice si sventolare i Quattro mori, Cuccureddu cade sulla lingua, tanto da farci augurare che sia stato il giornalista a fraintenderne le parole.
Facciamo finta, però, che quello riportato sia il suo pensiero. C’è allora da disperarsi per due ragioni: la prima è per la banalità, mista a mistificazioni, di quanto ha detto; la seconda, forse più grave, è per la fonte. Un consigliere regionale che rappresenta un partito autonomista nel governo che ha più volte affermato di voler tutelare e promuovere la lingua sarda e, insieme ad essa, le altre lingue alloglotte della Sardegna.
“Non esiste una lingua sarda univoca” sentenzia chi dovrebbe sapere che la lingua sarda è “univoca”. È quella, per dire, che è tutelata dalla Regione dal 1997 e dalla Repubblica attraverso la legge 482. Forse voleva dire che non è standardizzata e normalizzata, ma a parte che anche in politica le parole vanno usate appropriatamente, dovrebbe sapere che lo standard della lingua sarda esiste, è stato deliberato dal governo precedente e a Cuccureddu spetterebbe al massimo di agire per l’abrogazione di quella delibera. O forse, lo si capisce dalla seconda parte della frase, vorrebbe dire che in Sardegna, oltre al sardo, c’è il gallurese, il sassarere, il catalano d’Alghero, il tabarchino e che, quindi, a non essere “univoche” sono le cinque lingue parlate nell’Isola. Una spiegazione sarebbe comunque peggiore dell’altra.
Per non dire delle “sfumature che non possono essere ricondotte verso un unico vocabolario”. Insignificante dirlo per la sua ovvietà, criminoso solo il pensare che si possano ricondurre ad un unico vocabolario cinque lingue diverse, parenti solo alla lontana o addirittura neppure conoscenti. Non sarebbe il caso che prima di parlare di cose tanto complicate come sono quelle della lingua, uno s’informasse? C’è anche un’alternativa: tacere. Spesso si fanno figure migliori.
Ci sarebbe da dire, anche, che sventolare i Quattro mori per andare contro il sardo è una bella pretesa, ma temo che questo aggiunga confusione.

sabato 8 agosto 2009

Il nervo scoperto dei nazionalisti granditaliani

La questione delle identità degli ex stati italiani, oggi divisi in regioni non tutte naturali, tocca il nervo scoperto del giacobinismo nazionalista italiano. Lo tocca così dolorosamente da provocare la reazione del meglio della sua cultura, da Ciampi a Ernesto Galli della Loggia a Claudio Magris. Anche nel campo della politica, il giacobinismo si ricompatta saltando a piè pari divisioni di partito e di sensibilità culturali per cui Alessandra Mussolini e Dario Franceschini dicono più o meno le stesse cose.
È un sintomo, questo, alla vigilia del 150° della cosiddetta Unità d’Italia, della crisi dello Stato nazione, della artificiale e provocata coincidenza, cioè, di Stato e di Nazione. Questo mito è in crisi proprio perché mito, e non basta a salvarlo il fatto che sia fondato su un indottrinamento di sei generazioni di bambini fattisi grandi nell’idea che siano bastate annessioni, plebisciti truccati, conquiste militari a cancellare identità forti come quelle del Lombardo Veneto, del Regno delle due Sicilie, del Granducato di Toscana, e così via elencando.
La Lega, con la sua grossolana approssimazione, con tutta la sua carica di xenofobia – a volte reale, a volte solo presunta – ha in fondo solo toccato quel nervo scoperto. La sua campagna per i dialetti e la storia locale, quella ultima a favore della costituzionalizzazione delle bandiere regionali e nazionali, indipendentemente dagli esiti legislativi, ha il risultato di segnalare ai cittadini della Repubblica (la cui unità non a caso non è messa in discussione credibilmente) che quasi tutti loro conoscono non la storia di questa parte d'Europa ma le storie di un mito. Non è un caso che il fondamento sardo della nascita del Regno d’Italia sia tenuto nascosto. Così come è nascosto nelle scuole di ogni ordine e grado come andò davvero la questione dei plebisciti, raccontando però della “adesione al regno costituzionale di Vittorio Emanuele decisa da milioni di cittadini con voto universale”, come proclamò Ciampi da Presidente della Repubblica.
Una cosa davvero diversa da quanto risulta, per esempio, dal racconto di un ambiguo agente segreto sabaudo, tal Curletti, che così raccontò la sua esperienza di inviato a Modena: “Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti”.
Lungi da me avere sentimenti revanscisti o inutilmente recriminatori per come andarono le vicende storiche, le quali, come si sa, non possono essere revocate. Ma rivendicare il diritto di passare dalla costruzione mitica alla conoscenza della storia, questo sì. Capire come e perché le identità si siano perpetuate in Sardegna e in Sicilia, per dire, e debbano essere rispettate e tutelate non significa attentare all’unità della Repubblica, per altro fattibile purché con metodi democratici e pacifici, ma svelare la mitologia dell’Unità d’Italia. Libero, naturalmente, chi preferisce il mito alla storia.
La palpata energica del nervo scoperto produce effetti prevedibili di arroccamento nel nazionalismo unitarista. E reazioni scomposte che non si limitano, com’è nel diritto di ciascuno, alla “critica dell’identità” ma traboccano nel sarcasmo, nel dileggio e nell’offesa ai contenuti dell’identità. Se non sempre, quasi sempre, all’insegna della mistificazione e del pressapochismo ideologico. Così, nel pur altrimenti attento Gianni Filippini, le bandiere regionali si trasformano in “tanti vessillini locali da far sventolare al posto del simbolo dell'unità nazionale”. Mistificatorio perché nella proposta leghista “i vessillini” sventolerebbero insieme alla bandiera italiana, inutilmente offensivo nei confronti di simboli come i Quattro mori, Trinacria, Leone di San Marco, etc, che hanno storie nobili almeno quanto la bandiera italiana.
Gettare il ridicolo è il modo scelto anche dall’altrimenti bravo Claudio Magris per lenire il dolore del nervo toccato. Si va dalla baggianata secondo cui, così facendo, le varie regioni espellerebbero dalla propria cultura culture diverse, “Dante e Verga? Non li voglio, Mi son de Trieste” sintetizza un geniale titolista, alla volgarissima irrisione: l’inno di Mameli sostituito da “No go la ciave del portòn”. Così, in una furia grandenazionalista, Magris, definito “erede della grande tradizione culturale triestina”, liquida l’identità triestina. In fondo, non è molto meglio chiamare “vessillino” la bandiera sarda o quella veneta o sudtirolese o anche qualsiasi simbolo un popolo o una popolazione scelga come rappresentazione di sé.
Ma, in definitiva, la cosiddetta Unità d’Italia questo è: annessione delle identità a una nazione inesistente, non ostante da 150 anni, fatta l’Italia i nazionalisti si sforzino di fare gli italiani, fatto lo Stato vogliano farlo coincidere con una sola nazione.

giovedì 6 agosto 2009

"Gnocchetto sardo", what is?

S'assessore regionale Andrea Prato, òmine chi nant chi est politicamente acurtzu a sa Lega, eris in Roma at tratadu cun su ministru suo, isse puru de sa Lega, pro li dare sa Dop a s'iscartzofa sarda, cussa ispinosa, e a su "Gnocchetto di Sardegna". Gnocchetto? What is? Ite buzinu est lo "gnocchetto?" No ant a èssere is malloreddus, no? Custu m'amentat cudda sienda chi, unos annos como, aiat postu in sas butecas de su tzircundàriu "pane con ciccioli". Sa sienda s'est sapida deretu chi fiat su risu de sa gente, nch'at imboladu sos imbòligos de plàstica e at torradu a fàghere pane cun gherda.
Lu conto, bene agurende chi Andrea Prato pòngiat fatu a sa sienda chi so narende e chi pedat a Bruxelles sa Dop pro is malloreddus. Gasi, pro no èssere su risu de sos sardos chi, marranu, in buteca ant a tènnere sa tentatzione de lu cunfùndere cun sa fèmina dello gnocchetto.

Contro le bandiere regionali c'è chi pensa alla guerra civile. Esagerati

Non è che, a volte, ritornano; sono sempre lì, pronti ad imbracciare il terribile archibugio del mito e dell’ignoranza, ogni qualvolta a qualcuno viene in mente di rispettare le autonomie regionali e/o nazionali. Anche questa volta la congrega dei tardo-giacobini se la prende con la Lega e con la sua proposta di costituzionalizzare le bandiere e gli inni regionali. E io sento un irrefrenabile istinto a scegliere fra i leghisti e il becerume nazionalista granditaliano, al quale mai potrò perdonare di avermi messo davanti a una scelta del genere.
Le reazioni contrarie, provenienti da ogni punto cardinale della politica italiana, sono improntate non solo al disprezzo, che comunque appartiene alla categoria delle culture politiche, ma soprattutto all’ignoranza e alla mistificazione. Su La Repubblica, Michele Serra ricorda, forse per via del cognome, che i sardi sono “i soli ad avercela davvero, una bandiera nazionale, i Quattro mori”, e paventa che il risultato della proposta leghista sia "alla fine la cancellazione delle differenze vere, delle radici autentiche” come quelle della Sardegna e dell’Alto Adige. Insomma, noi sardi potremmo persino rimenare contenti di questo autorevole riconoscimento.
E invece no, e non solo perché il Serra si è dimenticato delle bandiere valdostana, siciliana, friulana, per dire, ma soprattutto perché, in questo risibile sforzo di dividere chi ha diritto e chi non ha diritto, alla fine si confonde sull’autonomismo. “Proprio la Lombardia è un caso clamoroso di autonomismo artificiale, inventato di sana pianta, e nella costruzione nazionale fu la regione più vicina, non solo geograficamente, al disegno annessionista dei Savoia”. Un ripasso veloce veloce della storia avrebbe forse suggerito prudenza: i Savoia non erano allora re d’Italia, erano re di Sardegna e la Lombardia fu annessa alla Sardegna non ad un’Italia che non solo non era nazione ma non esisteva neppure come stato. Ricordate? L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani, come a dire che lo Stato (il suo apparato burocratico e amministrativo) c’è, la Nazione no. Brutta bestia, la storia, quando ci si accontenta dei miti nazionalistici esibiti per la necessità di inventarsi una nazione che non c’è o che, al massimo, è una “nazionalità artificiale e organizzata”, secondo la definizione di Mario Albertini.
Ma, almeno, per quanto riguarda la Sardegna, Serra riconosce la sua “bandiera nazionale”. Il giornale concorrente, Il Corriere della Sera, no: per qualche suo redattore, la bandiera sarda è uno “stemma”. E dire che sarebbe bastato entrare nel sito della Regione per sapere che quello “stemma” è per legge la bandiera della Sardegna che va esposta “ogni qualvolta sia esposta la bandiera della Repubblica”. Giornalismo corretto imporrebbe di scrivere dopo aver verificato i fatti.
E se questo è l’approccio dei due maggiori quotidiani italiani (ma anche il sardo L’Unione non scherza: “gli inni lombardo, toscano o sardo, supererebbero per rango l'inno di Mameli”) figurarsi quello dei lettori. Nel sondaggio del Corriere (“Bandiere e inni ufficiali per le Regioni: siete d’accordo?”, il 74,1 per cento si dice contrario, il 25,1 a favore. Nel forum di La Repubblica, la stragrande maggioranza dei commenti è diretta conseguenza della campagna nazionalista granditaliana. Uno per tutti: “Sono veramente stufo, probabilmente finiremo i nostri giorni con una guerra civile”.
E questo sui giornali, fatti da persone che hanno l’obbligo della conoscenza. Immaginatevi le reazioni del tardo-giacobinismo dei leader di partito, a destra e a sinistra, che questo obbligo non hanno.

mercoledì 5 agosto 2009

Su sardu sena goi né gai né aici né cussì né axì

de Mauru Maxia

In su Comitadu Limba Sarda est tzertu chi b’apat gente de importu ma bi nde mancat medas chi bi diant dèpere èssere. Forsi custas assèntzias non sunt chene motivu.
Cando si faghent propostas chi prevident impinnos de dinari pùblicu si depet nàrrer cantu est su dinari netzessàriu e dae ue nde benit custu dinari. Petzi gasi si diventat interlocutores cun sos sugetos chi tenent responsabilidades amministrativas e pùlitigas.
Su puntu de partèntzia est chi su sardu est unu de sos fundamentos de s’autonomia nostra e andat postu intro de sas cosas prioritàrias de sa pulìtiga regionale de cale si siat ischieramentu. Subra a custu fatu non bi depet àere né goi né gai né aici né cussì né axì. In Sardigna su sardu non tenet un’importu minore de s’inglesu e de su frantzesu si est beru chi sa lege lu ponet a paris cun s’italianu e totu. Pro cussu est chi sa limba sarda, paris cun sas alloglossias, devet àere risorsas non mancu de su dinari (dinari nostru) chi ispendimus pro cussas limbas.
Sa RAS, si est beru chi lu cheret, podet e depet pònnere su sardu (e sas alloglossias) in su currìculu de sas iscolas intro de sa riserva de su 20% de su currìculu natzionale chi est disponìbile in sas iscolas autònomas. Finas a oe s’at tentadu de fàghere insinniare su sardu a sas mastras e a sos professores chi, però, non nde cherent mancu s’intesa sino in pagos casos de volontariadu chi connoschimus bene.
In s’insinniamentu de su sardu (e de sas alloglossias) si depet partire dae sos faeddos locales, mancari in unu cadru unitariu, a manera chi si resessat a unire totu sas fortzas. Sa base populare chi cheret s’insinniamentu de su sardu tenet nùmeros prus mannos de su partidu prus mannu chi tenimus oe in Sardigna. Est de custa base chi si depet tènnere contu, non de tzertas élites chi in sos giornales narant cosas diferentes.
Pro su sardu curriculare in sas iscolas si depet pessare a mastros e professores de ruolu formados bene, megius si sunt laureados in limba e literatura sarda. S’ispesa netzessària si podet calculare in unos 18-20 miliones a s’annu (dipendet dae s’antzianidade de sos mastros/professores) e tenet contu de una càtedra de insinniamentu in cada iscola de s’ìsula. Diat pòdere pàrrere chi siat dinari meda ma no est prus de cussu chi s’istadu ispendet pro fàghere imparare su frantzesu a sos sardos e est meda prus pagu de cussu chi ispendimus (sempre dinari nostru) pro s’inglesu.
Antiannu s’assessora Mongiu in sa cunferèntzia de sa limba sarda de Macumere s’est bantada chi sa RAS at ispesu una barca de miliones (meda prus de 20) pro “Sardegna speaks English” e pro àteras atividades chi bell’e pagu ant artziadu su livellu de sas connoschentzias de sos iscolanos sardos. Custas e totu sunt sas fontes de finantziamentu chi sa RAS, si est beru chi bi tenet a sa limba nostra, podet impreare. Ma no est su dinari su chi mancat (bastat de lègere su bilantzu regionale pro s’abbìdere de cantu dinari si disperdat in cosas de prus pagu importu) sino sa voluntade pùlitiga. Sa cosa prus difìtzile est a istanare sos pulìtigos, peri cussos chi nachi cherent s’indipendentzia ma chi, e no est dae meda, ant nadu chi “a me del sardo non me ne importa nulla”. Si custa voluntade isbandierada dae sos pulìtigos non dat proa cuncreta cun sos fatos, est pretzisu de pianificare una initziativa populare chi tengiat contu de sos risultados de sa cherta regionale subra a sa limba e impònnere a sa RAS (de manca e de dresta) chi si fatat sa voluntade de sos Sardos e non de sos grupos de podere chi finas a oe ant fatu e sunt sighende a fàghere su chi cherent.
Si custu Comitadu (o un’àteru prus allargadu chi nde podet nàschere) s’at a mòvere sighende custas àndalas est capatze chi si ingrusset meda finas a èssere unu interlocutore seriu de s’amministratzione regionale. Si gasi no at a èssere, non b’at a colare tempus meda chi àteros comitados s’ant a propònnere comente interlocutores cuncurrentes. E a cussu puntu sa limba nostra at àere pèrdidu àteros annos de vida.
In sa foto: unu mamentu de s'addòviu de su Comitadu pro sa limba sarda cun sos giornalistas, eris in Casteddu.


Mauru istimadu, ite nàrrere si non chi so de acordu dae sa segunda allega a s'ùrtima. Pro sa prima, tenet contu chi totu est naschidu cun unu tam-tam in Internet. Petzi deo apo mandadu belle 2000 mail pro cumbidare totus a intrare a su Comitadu chi, tenes resone, capet pagos de sos amantiosos de sa limba chi sunt a gradu de li dare a s'amparu de sa limba sarda unu contributu che a su tuo, a primore aberu. Est pro custu chi inoghe puru apo pedidu a chie cheret de intrare a su Comitadu. Bastat de incarcare inoghe, iscriende nùmene, sambenadu, bidda e arte.

lunedì 3 agosto 2009

Est naschidu su Comitadu pro sa limba sarda. E si moghet

Su comitadu pro sa limba sarda, naschidu 33 annos como pro ghetare sa proposta de leze populare pro su bilinguismu, est torradu a bida custas dies coladas e at mandadu custa lìtera a sos presidentes de su Cunsizu regionale e de sa Regione, a sos assessores de sa Cultura e de sa Programmatzione, a sas Commissiones regionales cumpetentes:

Su Comitadu pro sa limba sarda, riassumendosi il compito di rilanciare la battaglia per il bilinguismo e per l’ufficializzazione del sardo nell’imminenza della discussione del Collegato alla Finanziaria 2009, sottopone all’attenzione delle SV l’opportunità e l’urgenza che fin da ora alla lingua sarda e alle altre quattro lingue parlate nei territori di pertinenza, gallurese, sassarese, catalano d’Alghero, tabarchino, sia riservata la dovuta attenzione e siano assicurati adeguati finanziamenti al fine prioritario di:
1) applicare il Piano Triennale linguistico con le modifiche più opportune per accrescerne l’efficacia d’intervento e con il mantenimento degli stanziamenti a favore della cultura assicurati dalla legge 14 sui beni culturali (patrimonio immateriale) e dall’ISRE
2) provvedere al forte coordinamento regionale per tutta la politica linguistica che eviti la caduta in localismi
3) impegnare nel collegato alla finanziaria che si sta per approvare in Consiglio maggiori risorse finanziarie nel sardo nella Pubblica Amministrazione e nella Scuola
4) assumere l’impegno politico di finanziare decorosamente (almeno 4 o 5 milioni di euro) la politica linguistica a partire dal bilancio 2010 di prossima scrittura
5) assumere l’impegno a continuare nella sperimentazione amministrativa di uno standard della lingua sarda, favorire la standardizzazione delle varietà alloglotte e formulare una proposta di grafia ortografica per la difesa di tutti i dialetti della lingua sarda e delle lingue alloglotte
6) assumere l’impegno a riconoscere nello Statuto speciale il sardo come lingua unitaria e, ovviamente, e a tutelare le 4 lingue alloglotte nei territori di riferimento.

Sos firmatàrios de sa lìtera sunt:

Giovanni Lilliu, presidente di Su Comitadu pro sa limba sarda, coautore della Proposta di iniziativa popolare per il bilinguismo
Mario Carboni, coautore della Proposta di iniziativa popolare per il bilinguismo
Gianfranco Pintore, scrittore, giornalista, coautore della Proposta di iniziativa popolare per il bilinguismo
Paola Alcioni, scrittrice, poetessa
Roberto Bolognesi, docente presso l'Università di Groenigen e di Amsterdam
Francesco Casula, scrittore, storico
Diego Corraine, responsabile Ufìtziu de sa limba sarda, Ogliastra
Nanni Falconi, scrittore
Antonimaria Pala, scrittore
Paolo Pillonca, scrittore, giornalista
Michele Pinna, presidente Istituto Bellieni, Sassari
Lorenzo Pusceddu, scrittore, poeta
Anna Cristina Serra, poetessa

Cras manzanu a ora de sas 10.30, in s'hotel Regina Margherita de Casteddu (arborada de Regina Margherita), su Comitadu at a addoviare sos giornalistas pro arresonare de s'initziativa. Giai una trintina de intelletuales sardos si sunt iscritos a su Comitadu. A chie si cheret sinzare, lu podet fàghere mandende una mail incarchende inoghe e ponende nùmene, sambenadu, bidda e arte sua.

domenica 2 agosto 2009

In quei 20 milioni c'è posto per il sardo a scuola

Ci sono 20 milioni di euro stanziati dalla Regione per assicurare il lavoro di un anno ai precari della scuola. Spetta ora agli insegnanti e ai dirigenti scolastici far sì che i cittadini sardi non considerino questa spesa un semplice, per quanto opportuno, aiuto ai precari. E lo considerino, invece, un investimento che la società sarda fa per metter freno alla scandalosa espulsione dalla scuola della lingua, della storia e della cultura della Sardegna.
Francamente, io non so se, accordandosi con il governo italiano, l’assessore Baire avesse in mente di consigliare i precari sardi di non sprecare i soldi dei sardi (12,5 euro a testa, dai neonati ai vegliardi) zappando la terra già molle. Se, insomma, abbia voluto suggerire ai precari e ai dirigenti scolastici di radicare questi posti di lavoro su qualcosa di permanente com’è l’insegnamento della lingua sarda (e delle altre quattro alloglotte), oggi assente nella stragrande maggioranza delle scuole.
Quel che si capisce leggendo i giornali è che questi 20 milioni di euro sono destinati ad insegnamenti curriculari. Per quel che ne capisco, quel “dovrà trattarsi esclusivamente di materie curricolari, quindi per quelle non attinenti al corso di studi non ci saranno spazi né fondi” significa che i dirigenti scolastici, nella loro autonomia, per aver soldi dalla Regione dovranno inserire una determinata materia nei progetti formativi della loro scuola.
Non solo il buon senso, ma anche una legge dello Stato, art. 4 della legge 492, consente l’insegnamento del sardo e in sardo. Alcuni insegnanti non hanno atteso questa legge per farlo. Gli altri non hanno più alibi: i soldi ci sono, le disposizioni di legge anche. Sta ai dirigenti scolastici, ma anche e soprattutto ai precari, spingere affinché il posto di lavoro che per quest’anno è assicurato sia permanente come si conviene a una regione che ha la più forte minoranza linguistica della Repubblica e che ha diritto a imparare, parlare, leggere, vedere la propria lingua.

Com’è naturale, l’opposizione critica duramente la decisione dell’assessore Baire di stringere un accordo con il ministro della PI sulla spesa di 20 milioni per la scuola. È un suo diritto ed è un suo dovere. Anche se, su un aspetto, l’ex assessore Mongiu e la candidata al Pd Barracciu avrebbero dovuto assaporare la sottile ebbrezza del tacere per non essere colte in castagna. La prima e la seconda rimproverano il governo regionale di farsi “scippare soldi dallo Stato e si lascia facilmente convincere ad usare quelli che ha a disposizione per sopperire alle mancanze di questo Governo nazionale” (Mongiu), “adesso è addirittura la Regione a coprire le spese che il Governo ha il dovere di affrontare” (Barracciu).
Naturalmente non ho alcuna intenzione di entrare, terzo incomodo, nello scontro. Ma mi rode quando qualcuno cerca di prenderci in giro. Così nel bilancio 2008, si legge che la Regione si è fatta scippare 155.621.000 euro per i Beni culturali che sono notoriamente dello Stato (anche il governo Cappellacci qualche scippettino lo subisce, ma di 18.585.000 euro); per il restauro e catalogazione dei beni culturali dello Stato, la giunta Soru ha regalato allo Stato quasi 44 milioni di euro (15 mila l’attuale governo). E per l’istruzione, che, come giustamente dice la signora Barracciu, è spesa che il governo italiano “ha il dovere di affrontare”, la Mongiu si è fatta scippare 419.874.000 euro dallo Stato (un po’ più della metà l’assessore Baire: 243.000.000). In compenso, per la lingua sarda, la Giunta Soru ha stanziato la bellezza di 1.270.000 euro, un novantesimo di quanto ha speso per i beni culturali proprietà dello Stato.
Ah, la voluttà del far finta di niente, quando si hanno scheletri nell’armadio.

sabato 1 agosto 2009

"I Shardana" in uno scambio epistolare con Porrino

di Giuanne Masala

Mi fa piacere che si riparli dei Shardana di Porrino, dopo 50 anni e dopo tanto lavoro da parte mia e da parte di altri. Naturalmente tanti auguri anche a Leonardo Melis e all'opera del prossimo agosto che speriamo venga replicata.
Per adesso la speranza è che il 14 e il 16 gennaio i sardi affollino in Teatro Lirico e che convincano le autorità culturali ad inserire l'opera nella prossima nel 2010-2011 non più nella stagione concertistica ma nella stagione lirica, e con diverse repliche, perché è lì che deve essere rappresentata. Vi mando alcune citazioni, che è sempre importante rendere finalmente pubbliche...

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I dialetti di una nazione mai nata

di Michele Pinna

Dopo l’uscita della Lega sull’introduzione dei dialetti, della storia e delle tradizioni regionali nei test di accesso per gli insegnanti e per gli impiegati nella scuola e negli uffici, la stampa di regime e gli intellettuali blasonati si sono subito mobilitati per alzare gli scudi in difesa dell’italiano e per lanciare accuse di razzismo e di strumentalizzazione in chiave padana dinanzi ad una verità, per quanto maldestramente e forse anche insufficientemente motivata e formulata dalla proposta leghista, sacrosanta.
Dal Risorgimento ai nostri giorni, per quanto rimossa ed esorcizzata, la verità che l’Italia sia una nazione mai nata, nonostante il crogiolo delle cento Città e dei mille dialetti sia stato compresso dentro una macchina infernale chiamata Stato e di una lingua chiamata “italiano” da una monarchia incapace e da una classe dirigente, quella piemontese, rapace, questa verità ogni tanto, quasi ciclicamente, riaffiora e mette in crisi il sistema. Senza scomodare Gramsci, che la questione della lingua, quando si pone, sia una questione che rimandi ad altro, di molto più profondo e di molto più endemico, è ormai palese e persino ovvio.
Che fatta l’Italia sarebbe stato necessario “fare gli italiani” ce lo hanno fatto studiare e ripetere fino alla nausea nei banchi della scuola elementare. O buon D’Azeglio. Ma gl’italiani dove sono? In Italia no! Povera Italia. E la lezione di Tagliavini, di Dionisotti, di De Mauro? L’emerito accademico della Crusca, il professor Sabbattini finge di non saperne nulla e la mette sul folclorico. In un giornale di qualche giorno fa sostiene “conosco il mio dialetto ma non saprei insegnarlo”. La cosa è persino banale. Non saper insegnare un dialetto non significa che non lo si possa insegnare. Ma a parte questo ciò che conta è il principio.
La fobia, la resistenza tutta ideologica ad accettare e a riconoscere la vera natura e la vera struttura culturale della penisola italica. E’ una natura che non nasce con la Lega. L’unico merito che la Lega ha, grazie ai suoi numeri e alla sua forza mediatica, è che di cose note e arcinote, nello stagno perbenista e conformista di un’Italietta che, culturalmente non conta più nulla da nessuna parte, riesce a trasformarle in notizia. Notizie che comunque aiutano anche la battaglia storica per introdurre a scuola e nei percorsi ufficiali le lingue minoritarie già riconosciute per legge come il sardo.
E se fossi al posto del presidente del Friuli e di qualche altro non farei tanto lo schizzinoso sulla proposta di Bossi. Il Friuli che si vede respinta una banalissima legge dalla Consulta per l’ufficializzazione del friulano non dovrebbe riflettere sulla inutilità attuale degli Statuti cosiddetti speciali?
La proposta di Bossi, invece, la assumerei come un inizio, un inizio un po’ picaresco e un po’ ruspante ma dirompente. Ora spetta a noi saper aggiustare il tiro e saper portare acqua al nostro mulino. Piaccia o non piaccia ai cruscanti e agli intellettuali organici all’idea di un’Italia di carta pesta.