mercoledì 30 settembre 2009

I telamoni di Monte Prama

di Franco Laner

Dichiaro subito, nel titolo, che le statue di Monte Prama sono telamoni.
La questione, in sé, potrebbe essere di poco conto. Invece investe il nocciolo della questione archeologica in Sardegna. E’ paradigma della fuorviante concezione militaristica, che non si riesce ad arginare e che sciaguratamente permea ogni ricerca e studio sulla civiltà nuragica.
Investe però anche temi di stretta attualità del dibattito culturale e politico sardo che ancora fa perno sull’archeologia per legittimare rivendicazioni di un passato epico (Atlantide, Shardana, statuaria che anticipa la Grecia…).
Non è bastata la batosta che Taramelli, archeologo, ma anche senatore, inferse con l’ideologia del sardo fiero ed austero, valoroso e guerresco, nuragico. Archeologia come strumento di persuasione subdola e retorica, in sintesi: carne da macello. A volte visito l’Ossario dei caduti della prima guerra a Cortina, paese in cui sono nato. Elenchi interminabili di 9707 ragazzi con cognome che troppo spesso termina con u.
Monte Prama è anche la cifra di come una disciplina non sia più in grado di uno scatto di orgoglio che la tolga dalla palude in cui è sprofondata.

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martedì 29 settembre 2009

Unas propostas pro sa limba a sa Regione

Su Comitadu pro sa limba sarda at addoviadu eris in Casteddu unos giornalistas e lis at faeddadu de sas initziativas suas pro chi sa limba sarda, paris cun sas àteras limbas de Sardigna, siant cunsideradas unu motore pro s'isvilupu econòmicu e sotziale de sa Terra nostra. Mario Carboni, Frantziscu Casula, Diegu Corraine, Micheli Pinna e eo amus amaniadu unos emendamentos a su Pranu regionale de isvilupu, pro fàghere a manera chi sa limba sarda bi siet numenada.
Pro nàrrere, in uve su documentu de sa Regione narat chi “Le risorse reali della Sardegna sono le imprese, la cultura e il territorio” diat dèpere èssere iscritu: Le risorse reali della Sardegna sono le imprese, la lingua e la cultura e il territorio”. Si tratat, est craru, de unu reconnoschimentu simbòlicu chi, però, iscòbiat s'intentu de sa maioria de pònnere mente a s'impinnu leadu dae su presidente de sa Regione. “Il momento identitario, quale momento di riflessione su se stessi e sul "comune sentire" del popolo sardo” est iscritu in su programma de Ugo Cappellacci “costituisce la fonte dalla quale far derivare i successivi” mamentos de s'istrategia de isvilupu.
Su Comitadu, chi at a pedire un'addòviu cun su presidente de sa Regione, at finas disinnadu de pedire a su guvernu sardu de cunsiderare s'imparonzu de su sardu e in sardu in su mamentu chi est a puntu de torrare a cuntratare cun su governu italianu s'acordu fatu dae Baire e da Gelmini pro gastare 20 miliones de euros pro agiudare sos precàrios sardos. Cuncordande cun sos dirigentes iscolàsticos, si podent pesare càtedras pro su sardu (e in ue sunt faeddadas su gadduresu, su tataresu, s'aligheresu e su tabarchinu) pro duos annos.
Si, in prus, a custos 20 miliones si prendet su dinare chi s'Istadu est prontu a ispèndere bastante chi sas iscolas si ponzant de acordu, sos precàrios ant a pòdere imparare su sardu e in sardu totu sas matèrias, comente previdit sa leze, non pro unu o duos annos ma pro semper. Si sunt fatos sos contos: una polìtica linguìstica de gasi pesat belle 1500 postos de traballu noos e istàbiles, in prus de segurare a sos pitzinnos de non s'intèndere istranzos in terra insoro. Sos mèdios e su dinare b'est. A dolu mannu no est semper chi b'at sa boluntade de colare dae s'assistentzialismu a su fràigu de unu traballu beru.

In sas fotos: su sìmbolu de su Comitadu, sa presidèntzia de s'addòviu (in una foto de Giorgio Winklers)

Attenti: c'è chi vuol cancellare il sardo dalle lingue tutelate

di Luca Campanotto

Vi propongo un gemellaggio tra minoranze linguistiche deboli e regioni a Statuto speciale messe in second'ordine. Mi spiego meglio, inviandoLe un link.
Si tratta di un articolo di Libero preso da un link del blog www.com482.org (pubblicato relativamente ai dialetti, col sospetto che diatro a certe proposte di legge sui dialetti veneti del F-VG si nascondano subdoli tentativi di annacquamento della posizione della lingua friulana).
Nell'articolo si sostiene che la lingua sarda e ladino-friulano sarebbero dialetti italiani (evidentemente perché, attualmente, è politicamente scorretto che risultino riconosciute minoranze senza Stato così numerose e con un territorio di insediamento così esteso).
Si manifesta grande ostilità nei confronti della L. 482/99. Si cita la recente sentenza della Consulta come se avesse messo in discussione la dignità linguistica del friulano. Personalmente mi preoccupo per il sardo: contrariamente all'ordinamento speciale sovralegislativo del Friuli-Venezia Giulia (implicitamente art. 3 L. Cost. 1/63 ed espressamente D. Lgs. att. Stat. Spec. 223/02), non mi consta che l'ordinamento speciale della Regione sarda rechi un riconoscimento sovralegislativo della lingua sarda, che di conseguenza risulta limitato all'art. 2 della L. 482/99, la stessa dalla quale qualche giornale, nemmeno tanto implicitamente, vorrebbe venisse espunto.
Non ho parole. Siamo ai livelli della Turchia. Loro i Curdi li chiamavano "Turchi delle montagne". Ma questa gente ha una vaga idea di che cosa sia la glottologia? Non è possibile fare classificazioni linguistiche sulla base di convenienze politiche.

Caro Campanotto, grazie della segnalazione. La stupidità e l'ignoranza non ha confini politici. Prima sono stati L'Espresso e il Corriere della Sera a sparare a palle incatenate contro la sua lingua, il friulano. E già in molti ci chiedevamo: possibile che l'idiozia alberghi solo dalle parti del centrosinistra? No evidentemente. Ed eccone la prova. Lei si chiede se certi giornalisti sanno dove sta di casa la glottologia. Per saperlo, bisognerebbe saper leggere e purtroppo non è detto che chi sa mettere frasi in fila sappia anche leggere. E ragionare. Anche io, come moltissimi sardofoni, sono preoccupato per l'imbastardimento dell'italiano. Ma pensare che il friulano o il sardo siano responsabili di quel degrado è una semplice idiozia da glottofagi. Mai mi sarei immaginato di essere un giorno colto dal raptus di gridare ai quatto venti: "Bossi, salvaci tu dagli imbecilli".
[zfp]

venerdì 25 settembre 2009

Un pugilatore o un raccoglitore di sughero? Chiedo aiuto

di Franco Laner

Sono in difficoltà e come la scorsa volta sulla pintadera chiedo un parere, perché sono sicuro che si vede meglio con più occhi, soprattutto se gli occhi sono quelli della mente e dell’esperienza, specie in questo caso. Si tratta di un bronzetto, abbastanza famoso, definito “Pugilatore”. Ci sono altri due pugilatori, trovati o esposti a Vulci, o forse esposti a Roma, ma non cambia. Di uno di questi mostro il disegno che l’Angela De Montis ha fatto nel suo bel libro “Il popolo di bronzo”
Ora la mia perplessità. Non riesco a vedere un pugilatore con lo scudo, per di più sopra la testa. L’indizio invece che possa essere un pugilatore è deducibile dal fatto che il pugno della mano destra è protetto, ma protetto è anche l’avambraccio, fino al gomito.
E’ molto importante definire questo bronzetto, perché è in relazione strettissima con le statue di Monte Prama. Massimo Pittau a questo proposito, ne “Il Sardus Pater”, critica la definizione e vede più che uno scudo un panno di un fedele, in segno di deferenza di fronte alla divinità. Lo stesso Tronchetti (!) ammette l’incertezza della definizione.
Vi assicuro che per me sta diventando una ossessione. Rigetto con forza che sia un pugilatore con uno scudo in testa! Ma chi raffigura? Il braccio fasciato mi ha dapprima indotto a pensare ad un falconiere. Ma il braccio è alzato e i falconieri non credo abbiano uno scudo o un panno per richiamare o proteggersi… Resta un’altra idea, che mi piace molto.
Il bronzetto, anzi i bronzetti, sono degli estrattori di sughero!
Nessuno degli “scudi” ha una forma di scudo. La forma si avvicina di più ad una corteccia. E il braccio fasciato? Per togliere la corteccia è necessaria una scure, ma mi si dice che si può entrare con l’avambraccio nello spacco e far leva con pugno e gomito, con forza distribuita per non danneggiare la corteccia. La pressione viene cioè distribuita anziché concentrata dal manico della scure. Ho cercato conferma, presso i musei etnologici, che non escludono tale possibilità. Ma mi piacerebbe avere o qualche conferma o una motivata smentita!
Chi mi dà una mano??? (Mi basta la mano, non un pugno in testa!)

Nella foto: Il pugilatore da Vulci nel disegno di Angela De Montis. Nel mio sito il disegno con le scritte leggibili, la foto del bronzetto di Vulci, la foto di quello cosiddetto del pugilatore di Dorgali. [zfp]

giovedì 24 settembre 2009

Losa e Su Nuraxi: scritte diverse, anzi praticamente uguali

Nell’articolo precedente sulla scritta (la cosiddetta ‘sigla’) del nuraghe Su Nuraxi di Barumini abbiamo visto che la seconda lettera, a partire con lettura regressiva (da destra verso sinistra, non andava intesa come ‘beth’, cioè un segno alfabetico greco arcaico (VIII –VII sec. A.C.) ma come un grafema che, in virtù del ricorso alla ‘legatura’, di segni ne conteneva due: un ‘gimel (‘g’ consonante velare sonora) e un ‘lamed’ (‘l’ consonante liquida).
Abbiamo potuto osservare inoltre che la ‘epsilon’, grazie alla documentazione di noti testi in protocananeo (vedi la figura affianco: Iscrizione di Izbet Sartah. D a Naveh 1982, p.37) era da intendersi come un chiaro ‘hē’ dell’alfabeto semitico. Di conseguenza la lettura della scritta risultava non più BE ma ‘hagal' הגל, esito che ci ha indotto a prendere in considerazione, per poter ben capire l’espressione graffita, un notissimo passo della Genesi (quello del patto di amicizia tra Labano e Giacobbe ed il ‘mucchio di pietre della testimonianza’ o GALED גלאד, chiamato anche MISPA מצפה ovvero ‘vedetta’, ‘osservatorio’.
Ciò per comoda sintesi per chi ci segue.
Come accade spesso però nell’esame delle originali e talvolta straordinarie scritte elaborate dagli scribi nuragici, la lettura di esse non si esaurisce così presto e così facilmente. Bisogna in molti casi procedere con un ulteriore sforzo di riflessione per risolvere il ‘rebus’ (questo tipo di scrittura si chiama proprio ‘a rebus’) che si ha davanti, per vedere se nella forma o nell’aspetto delle lettere, nella particolare disposizione o nella quantità di esse, si trovi ulteriore contenuto o senso.
E’ Massimo Pittau che, ancora, intuisce e in qualche modo ci indirizza sulla strada giusta affermando che la prima lettera graffita sulla pietra di Su Nuraxi di Barumini (ritenuta però erroneamente del greco arcaico, è in forma di ‘serpentina’. E’ proprio così e nessuno potrebbe negarlo. Ma perché il serpente? Che ci sta a fare? Cosa vuol dire un serpente disegnato preceduto da un ‘he’ e dalla voce ‘GAL’?
La spiegazione del non piccolo particolare del ‘curioso’ documento credo che vada trovata sulla base di due considerazioni abbastanza semplici: la prima riguarda la documentazione scritta ‘nuragica’ in genere, la seconda il nostro testo (HAGAL) con la sua sintassi.
Si è visto infatti che i documenti nuragici registrano spesso la figura del ‘serpente’, riportata questa persino attraverso l’allusione alla disposizione particolare dei significanti (cioè le lettere alfabetiche tracciate in modo da rendere delle ‘figure’) come accade nelle raffinate tavolette di Tzricotu di Cabras (lettura bustrofedica a serpente). E si è visto ancora, sempre per via documentaria, che il serpente allude, ormai senza ombra di dubbio alcuno, alla divinità con nome/nomi EL–YHWH.
Si è visto però anche che la sequenza HGL, una volta tradotta dal semitico, ci offre come significato ‘il mucchio di pietre’.
Il ‘mucchio di pietre’ di ‘chi’ o di ‘che cosa’? Qualcuno potrebbe pensare che questo ‘chi’ o questo ‘che cosa’ siano stati lasciati (volutamente) in sospeso e che spetti alla nostra intelligenza il comprenderlo. In realtà le cose non stanno proprio così perché la scritta ‘il mucchio di pietre’ si completa, con vero (perché esauriente) significato solo con la lettura del logogramma ‘serpentello, che dobbiamo aggiungere alle prime due parole. Infatti possiamo intendere il tutto, senza impedimenti od obbiezioni di sorta dal punto di vista sintattico, ‘il (= Lui) mucchio di pietre del serpente’, dato che il semitico, come si sa, fa a meno delle preposizioni per rendere il complemento di specificazione. IL GALED biblico (il mucchio di pietre della testimonianza), che ci riguarda così da vicino, è l’esempio più pronto a portata di mano. E possiamo intendere così, ovvero aggiungendo ‘serpente’ (in semitico NAHAS) anche perché, per la prima considerazione suesposta possediamo il dato sicuro che il serpente è simbolo forte della divinità del pantheon cananeo e poi del Dio del monoteismo ebraico storico; ma anche della divinità della ‘religio’ dei sardi dell’età del bronzo e del ferro (e non solo, a mio parere).
Ma c’è un altro modo per essere ancora più convincenti nell’esposizione (‘matematici’, in qualche modo, come direbbe Murru): se non si lascia il dato di Barumini isolato e lo si osserva e confronta invece, con molta attenzione (direi acribia) con il modus scribendi consueto dei ‘nuragici’, all’interno cioè del loro particolare ‘sistema’ o ‘codice’. Infatti sulla base abbastanza rassicurante di circa 50 (cinquanta) documenti epigrafici ora a nostra disposizione, si riesce a comprendere che le ‘edubbe’ sarde educano gli scribi–sacerdoti al rispetto (pressoché rigoroso) di alcune ‘regole’ nella composizione e nella realizzazione dei testi ‘sacri’ scritti. Regole o norme che rendono tipicamente ‘sardo’ o ‘sardiano’  il codice di scrittura, per quanto esso, come tante volte ho sottolineato, tragga la linfa dai sistemi convenzionali esterni semitici di natura ‘consonantica’ . Per queste ‘regole’di scuola (o scribali) chi componeva un testo scritto doveva badare in particolare (dico in particolare):
1) Al ‘decus’: alla compostezza, all’armonia, alla pregnanza, all’efficacia nella sintesi, cioè, in un parola, alla ‘bellezza’ della composizione.
2) Al ‘mix’ dei significanti ( scrittura logo-pittografica, lineare, ecc.) e alle cosiddette ‘legature’
3) Alla quantità dei significanti (segni che danno i ‘significati’, i numeri ‘sacri’: in genere il 3, il 5, il 7, il 9 ed il 12)
Nessuno di detti procedimenti ha significato ‘laico’ – per così dire – perché tutti rientrano nella sfera del ‘sacro’ in quanto tutti e tre tendono a realizzare delle scritte che sono sempre (dico sempre, stando alla documentazione) religiose; mirano ad offrire un omaggio devozionale alla divinità, un attestato di assoluto rispetto per la sua particolare essenza o natura e per le sue qualità straordinarie o ‘mostruose’. Non è certo necessario impegnarsi con la spiegazione della prima norma. Con la seconda, attraverso la forza della scrittura ‘magica’, non subito intelligibile e chiara (per dirla brevemente in questa sede) si vuol alludere, in tutta evidenza, alla ‘manifestazione’ della divinità o al modo assai complesso di rapportarsi di essa con l’intelligenza degli uomini. Con la terza lo scriba ci fa capire che la divinità è pura astrazione e di conseguenza il modo migliore di rendere in qualche modo la sua essenza perfetta (santa) è quello di ricorrere alla matematica (ai numeri e alle figure geometriche).
Tutto ciò potrà apparire un po’ difficile da capire, poco credibile per la concezione ‘barbarica’, ancora assai diffusa, che si ha della cultura e della civiltà nuragica.
Chi legge allora potrà comprendere meglio, crediamo, osservando la tabella - clicca sul link - che mette a confronto i due ‘documenti’ lapidei (solo questi, ma l’operazione si può estendere tranquillamente a tutti gli altri) del Nuraghe Losa di Abbasanta e del nuraghe Su Nuraxi di Barumini. Quelli che (per chi ha avuto la pazienza di seguirci) abbiamo esaminato proprio in questi giorni.

Sono questi,come si può vedere, due documenti con scritte assai differenti perché, stando all’apparenza, non si assomigliano per nulla riguardo all’organizzazione del testo, alla forma e alla tipologia delle ‘lettere’. Eppure, se li osserviamo per benino e li studiamo con tutto il rigore necessario, si rivelano molto simili nella loro concezione. Anzi, quasi identici. Chi mai lo direbbe!

martedì 22 settembre 2009

Venti mesi di silenzio sugli "etruschi di Allai"

Venti mesi a oggi, i carabinieri inviati dalla Sovrintendeza al Comune di Allai sequestrano una notevole quantità di reperti archeologici fra i quali il bel dischetto scritto a caratteri etruschi che si vede qui accanto. Furono trovati, come i lettori di questo blog ricorderanno, nei dintorni del Nuraghe Crocores, sepolto dalle acque della diga sul Tirso e quell'anno restituito alla vista dalla siccità. Il professor Gigi Sanna, che li vide, riconobbe la scrittura incisa sui reperti, sassi di fiume, come etrusca. Una funzionaria della Sovrintendeza, senza per altro averli visti, non ebbe dubbi e disse ad un giornalista che si trattava di falsi.
In questi venti mesi, benché della vicenda si siano occupati oltre a questo blog, forum e quotidiani, dalla torre eburnea sovrintendenziale, è venuto solo il silenzio. Insieme ad una ventina di persone, il 12 gennaio di quest'anno scrissi una lettera al ministro Bondi, sollecitando il suo interessamento alla vicenda. La sua segreteria rispose il 16 marzo con questa lettera:
Mi riferisco alla questione da Lei evidenziata all’On.le Ministro riguardante i ciottoli del lago
Omodeo nel Comune di Allai.
Desidero comunicarLe al riguardo che la vicenda è all’attenzione della Procura della Repubblica di
Oristano e non mi è possibile, al momento, fornirLe chiarimenti in proposito.
Tuttavia Lei ed i firmatari della mail potrete richiedere notizie direttamente alla suddetta Procura.
Con i più cordiali saluti.
F.to FrancescaTemperini - Segretario Particolare Ministro
.”
Sono trascorsi ancora sette mesi e più e dal magistrato che si occupa delle vincenda, il dottor De Falco, a quel che si sa, nessuna nuova. Non si sa – del resto il Ministero non poteva certo dirlo in una lettera – che cosa Bondi abbia chiesto alla Procura: se indagare sul silenzio della Sovrintendenza o se verificare l'autenticità dei reperti. E non si sa quali convincimenti, e su quali fondamenti, la magistratura si stia facendo o si sia fatta.
Chi sa se qualche etruscologo – che penso il magistrato abbia consultato o si appresti a consultare – se la sentirà di turbare la quiete, introducendo nella storia codificata una turbativa di tanta portata? Che ci facevano nel cuore della Sardegna quelle scritte etrusche, non in lapidi funerarie ma in sassolini come quelli che i bambini usano per giocare? E, soprattutto, che vi faveva quel dischetto di Crocores, così mirabilmente inciso con lettere etrusche che sembra una copia indigena del Disco di Magliano? Che etruschi e sardi si conoscessero e si frequentassero intono al IX secolo, è testimoniato anche dal bronzetto sardo trovato in una tomba a Vulci (quello della foto), ma non esageriamo. La vulgata dice che il guerriero o la donna siano stati comprati da un ricco aristocratico etrusco. Ma il fatto che addirittura etruschi fossero con i loro sassolini scritti lungo il fiume Tirso non va proprio: forse bisognerebbe rivedere qualche pagina di storia. Meglio convincere un magistrato, che di archeologi si deve fidare, che quelle iscrizioni sono false. O no?

lunedì 21 settembre 2009

All'origine della nostra autodisistima

“Non che continuare a battere sulla questione che sia stata la “Sardegna istituzionale” a “conquistare tutta l’Italia” ci faccia apparire meno coglioni autocolonizzati e sottomessi...” è il commento di Pietro Murru all'articolo di Francesco Cesare Casula.
Come darli torto? C'è nel commento una visione cupa e pessimista dello stato delle cose e una sorta di contemplativa rassegnazione davanti a una autodisistima (ma non è una pandemia, caro Murru) che colpisce moltissimi sardi. Personalmente sono assai meno pessimista, ma non riesco a non essere preoccupato per questa disistima. Cerco così di rintracciane alcune ragioni. La prima e più ovvia, pensando che l'uomo è anche quel che sa, è che a battere sulla questione posta da Casula sono in pochissimi e inascoltati. Ciò significa una cosa: l'autostima non può essere alimentata dalla conoscenza del ruolo che storicamente ha avuto la Sardegna.
Per un romanzo che conto di infliggere ai miei 24 lettori (25 li aveva un collega famoso anche per la bizzarra abitudine di sciacquare i panni in Arno) sto rileggendo la vulgata risorgimentale e leggendo documenti autentici di cui ignoravo l'esistenza. Ho lasciato da parte i libri scolastici grondanti enfasi e retorica davvero insultanti e sto leggendo testi meno agiografici. Per esempio quella “Storia di Italia” di Montanelli che vendette centinaia di migliaia di copie insieme al giornale cui fu allegato. Il Regno di Sardegna vi compare di sghimbescio e al suo posto compare il Piemonte. “Il Piemonte si era impegnato...”, “Una richiesta di annessione al Piemonte...”, etc, quando nei documenti diplomatici si parla di Sardegna.
Parlando degli accordi di Plombières fra Cavour e Napoleone, scrive, per esempio: “Insieme al Piemonte, la Lombardia, il Veneto, le Legazioni e le Romagne avrebbero formato un unico Stato sotto la corona dei Savoia”. Nella lettera che Cavour scrisse al Re dopo aver sottoscritto quegli accordi, non si parla mai di Piemonte, ma solo ed unicamente di Sardegna, che era il nome dello Stato. “Incominciò (l'Imperatore, ndr) col dire che era deciso di aiutare la Sardegna con tutte le sue forze in una guerra contro l'Austria”, “... anche per reclamare l'annessione di quei Ducati alla Sardegna”, “La Francia fornirebbe 200.000 uomini; la Sardegna e le altre province d'Italia gli altri 100.000”, del Piemonte si parla solo come entità geografica non come Stato.
Se i nostri ragazzi a scuola, e i più grandi nelle letture più impegnative, non sanno alcunché del ruolo della Sardegna (dal 1324 secondo il professor Casula e il Diritto) nella costruzione dello Stato chiamato Italia da 148 anni, quale stima basata sulla conoscenza possono coltivare? Se persino un ex ministro colto come Padoa Schioppa cancella il Regno di Sardegna, facendo “nascere” lo Stato nel 1861 (quelle betise! hai ragione Cesare), dove può albergare la conoscenza della storia che in tutti i popoli è la condizione dell'autostima? Pensi, caro Murru, a quale potenza dirompente di cancellazione dell'identità ebbe la derisione dei nuraghi implicita nell'editto delle chiudende. “Quel mucchio di pietre” servì a costituire la propietà perfetta delle “tancas serradas a muru”.
L'operazione tesa a cancellare la memoria del nuragismo è riuscita solo molto parzialmente, grazie a importanti nuove conoscenze, fra cui quelle introdotte a partire dalle opere di Lilliu fino a quelle di Gigi Sanna. Anche la folclorizzazione della lingua sarda e della cultura sarda è riuscita non del tutto. Non è un caso, credo, che l'autostima cresca e si affermi in questi due domini. Nella conoscenza della storia moderna e contemporanea siamo messi male: da lì vengono solo impulsi alla disistima del nostro essere sardi e una sorta di rassegnazione al non contare un tubo, a essere cioè colonizzati senza rimedio.
Ma il rimedio c'è, io credo, anche se non di immediata attuazione. Non rassegnarsi e batterci con tutte le nostre forze perché la scuola formi cittadini e non coloni. Parte dei nostri contemporanei continueranno a sentirsi “coglioni autocolonizzati e sottomessi”, ma figli e nipoti no. È una lotta quasi disperata, visto che il complesso politico e culturale intende insistere con il “Grande inganno” su cui sta per uscire un libro di Francesco Cesare Casula. Ma è l'unica cosa che l'ottimismo della volontà ci spinge a fare.

domenica 20 settembre 2009

Stato, Nazione, Padoa Schioppa e l'acqua calda

di Francesco Cesare Casula

Nella famosa poesia del Belli, il marchesino Eufemio si affannava a dimostrare «con ferma voce e signoril coraggio…che paggio e maggio scrivonsi con due g come cugino».
Con altrettanto «signoril coraggio», Tommaso Padoa-Schioppa (anche lui nobile) si è affannato a dimostrare nel fondo del Corriere della Sera di oggi, domenica 20 settembre, che la Nazione è differente dallo Stato (ha scoperto l’acqua calda!), e che, nel 2011, si dovrebbe celebrare lo Stato, nato secondo lui nel 1861, e non la Nazione italiana che preesisterebbe allo Stato fin dai tempi di Dante. E tutto questo – scrive – l’ha imparato a scuola.
Se questa bêtise me l’avesse detta un mio allievo all’Università, l’avrei bocciato. L’Italia cantata dai pensatori peninsulari, dal Machiavelli in giù, o dai poeti da Dante in giù, non è l’Italia nazionale ma l’Italia statuale che poi, nel Risorgimento, si realizza non per opera degli Stati italiani preunitari ma dello Stato sardo che li ingloba.
Se si desse retta all’assunto di Tommaso Padoa-Schioppa, Dante Alighieri non sarebbe stato un suddito della Repubblica di Firenze in esilio a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, ma un italiano al confino, perché, tanto, sia qui che là l’idem era il medesimo; e Cristoforo Colombo, genovese, avrebbe fraternizzato coi concorrenti Veneziani suoi contemporanei in quanto italiani come lui; e Giacomo Leopardi, papalino, sarebbe andato a Pisa, nel Granducato di Toscana, a scrivere “A Silvia”, senza esibire il passaporto (invece, lo esibì), perché considerato italiano in terra di italiani (non parliamo dei Sardi giudicali del Duecento o dei Siciliani spagnolizzati del Cinquecento accomunati ai Laziali, ai Lombardi, ai Romagnoli dallo stesso idem nazionale – ovviamente inesistente – nel Dizionario degli Italiani della Treccani!).
La Nazione italiana, cioè l’amalgama di Abruzzesi, Calabresi, Campani, Emiliani, Romagnoli, Friulani, Giuliani, Laziali, Liguri, Lombardi, Lucani, Marchigiani, Molisani, Piemontesi, Pugliesi, Sardi, Siciliani, Toscani, Trentini, Alto Atesini, Umbri, Valdostani e Veneti ha inizio coartatamente dopo il 1861 e non si è ancora realizzata (e, forse, se diventeremo una Nazione plurietnica con l’assorbimento delle culture aliene degli immigrati non di realizzerà mai, e cadrà il motto «fatta l’Italia facciamo gli Italiani»). Mi piace ricordare, per esempio. che mia nonna, morta nel 1958, non parlava e non capiva una parola d’italiano, e non sapeva niente della Penisola. Come si può affermare che era italiana?

Ma, adesso, a noi interessa di più la seconda parte dell’articolo. Concordo che fra due anni si debba celebrare lo Stato, ma non lo Stato di Tommaso Padoa Schioppa il quale confonde l’organizzazione interna dello Stato, che reputa malata nel sociale, nell’economia, nella terra, nelle acque, nella cultura, nella scienza e nella religione (vero!), con la personalità dello Stato viva e vitale dal 19 giugno 1324, da quando nacque in Sardegna a Cagliari-Bonaria (e non mi fate ripetere tutta la tiritera).
Il 17 marzo 1861 la Sardegna istituzionale finì di conquistare tutta l’Italia, volente o nolente (non ci fu, allora, la cosiddetta Unità, la quale si raggiunge a parità di condizioni; ma una serie di annessioni fatte dal Regno di Sardegna). Eppure gli Italiani geografici, essendo in maggioranza, hanno rigirato la frittata. Col Grande Inganno hanno stabilito, quella maledetta domenica di marzo, che «lo Stato si chiamerà d’ora in poi Italia, e che Italia vorrà dire Penisola italiana che tutti devono studiare a scuola e riverire nella società».
E noi Sardi, di Nazione sarda, che abbiamo fatto lo Stato con il nostro sangue, il nostro sudore e le nostre miserie, come siamo trattati? Dopo avercela messa in qual posto, col cambio del nome al nostro Stato, non siamo nemmeno inseriti nelle celebrazioni del centocinquantenario della cosiddetta Unità.
Ma, forse, ci sta bene perché siamo una massa di coglioni autocolonizzati e sottomessi.

sabato 19 settembre 2009

Costituente per lo Statuto. Non sarà per prender tempo?

Lentamente, ma al dunque con continuità, comincia a svilupparsi il dibattito su i due corni dello stesso problema: il nuovo Statuto speciale e la riforma federale della Repubblica. Della Repubblica e non dello Stato, anche se non molti attori del dibattito sembrano essersi accorti che il Titolo V della Costituzione oggi dice: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Il significa che è la Repubblica a “contenere” le regioni e lo stato, fra loro equiordinati, e che spetta ad essi federarsi. Ma lasciamo stare.
Merito della ripresa (inspiegabilmente interrotta) è di Gianfranco Sabatini con due articoli nel sito “Democrazia oggi”. L'uno dal titolo scioccamente offensivo “La nuova Carta de Logu: un contributo allo spirito sfascista dell’Italia” che non rende onore al ragionamento dell'amico Sabatini, l'altro più pacato: “No, cari amici, nella Noa Carta de Logu non c’è solidarietà”. Entrambi, come si capisce, dedicati alla proposta di nuovo Statuto speciale nella cui redazione anche chi scrive ha avuto un ruolo; entrambi non sono condivisibili. Ma il merito resta.
Della questione si sono occupati il direttore dell'Unione sarda, sposando l'idea di una Assemblea costituente per la scrittura dello Statuto, la presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo, il Riformatore Massimo Fantola e il Sardista Paolo Maninchedda, entrambi favorevoli all'Assemblea costituente. Ieri poi, a Santa Margherita di Pula, il convegno sul federalismo fiscale con gli interventi dei presidenti delle regioni Cappellacci, Formigoni, Bassolino.
Insomma, le cose sembrano in movimento. C'è un clima diverso da quello in cui naufragò nel 1988 la proposta del Partito sardo d'azione autore di un eccellente articolato che prevedeva la massima estensione possibile delle competenze e dei poteri. Fu accolto da una bordata di critiche non da parte dei partiti suoi alleati ma dei loro “intellettuali organici”. Qualche titolo dell'epoca: “Oltre lo stato unitario ma senza progetto” (Costantino Cossu), “Qualche potere pronto per l'uso” (Fulvio Dettori), “Storia di una terra felice ed inestistente” (Antonello Mattone), “Nel lucido cilindro un vecchio coniglio” (Angelo De Murtas). Va detto che La Nuova, che lanciò un “dibattito” sulla proposta, non ospitò alcuna voce favorevole. Uno spreco di parole e di energie, perché ad affondare il bel progetto non fu il fuoco nemico, ma quello amico, interno al Psd'az.
Clima diverso, anche perché il federalismo fiscale ha smesso di essere un lontano spauracchio e perché di nuovo Statuto parlano i sindacati, alcuni partiti e persino qualche intellettuale. C'è, però, un rischio: quello di perderci in defatiganti discussioni sullo strumento per l'elaborazione della nostra Carta fondamentale anziché sul che cosa metterci dentro. All'Assemblea costituente, riproposta da Massimo Fantola e da Paolo Maninchedda, fui molto affezionato fin dal 1996 quando fui fra i promotori dell'idea. Sono passati tredici anni ed è già tramontata la possibilità, che qualche anno fa pareva concreta, di averla. Al di là della buona fede di Fantola e di Maninchedda, battersi per una Assemblea costituente oggi solleverebbe il sospetto che non si voglia affrontare la questione di un nuovo Statuto speciale. Una brutta gatta da pelare, sicuramente, per la necessità di svelare coram populo che cosa si intenda davvero per autonomia speciale in tempi di crisi dello Stato nazionale e di incombente federalismo.
Una proposta c'è, quella che l'amico Sabatini (e la redazione di Democrazia oggi, con quel titolo significativo del pensiero di quella sinistra) duramente critica. Ma c'è e fu appoggiata anche dai Riformatori di Fantola. L'idea iniziale – che spero sia rispolverata – era quella di sottoporla alla discussione, alla modifica e alla firma del popolo sardo. Chi temesse un parto nella testa di Minerva (e per questo vuole il coinvolgimento popolare attraverso la Costituente) quale migliore occasione avrebbe se non favorire il dibattito insieme al popolo sardo, chiamato a farsi promotore di una legge di inziativa popolare?

Nella foto: Il logo del Comitato per lo Statuto

venerdì 18 settembre 2009

Lucia Baire: unu saludu a is Sherpas de Supramonte

de Roberto Bolognesi

“Alla scuola è affidato l’ulteriore compito di integrare le variegate diversità culturali ed etniche presenti nella nostra terra.” Dae su saludu a sos iscolanos sardos fatu dae s'assessora de sa Cultura, Lucia Baire

Lampu, dimo’!
Como ja faghet a nos ponner de acordu totus: is Sherpas de su Supramonte, is Kirghisos de sa steppa de sa Marmidda, is Balubas de sa padente de su Cixerri, impari a is Inuits de Nord de sa Nurra, a is Maoris de is isulas de Gaddura e a is Nambikwaras de Carloforte.
Como amus a imparare dae sa scola ca semus totu Sardos!
E ite dialu, fit ora chi arribbessit a s’Assessoradu a sa Curtura una persone chi de diversidade curturale nde cumprendet!
S’assessora Baire at cumpresu ca su probblema nostru est sa diversidade etnica e curturale e ca, in custu tempus de crisi economica—iseta un pagu, ma Berlusconi non nos narat semper ca sa crisi est totu una chistione de psicologia? Boh?!—tocat a nos integrare.
Ma comente amus a fagher, nois sardos, a nos integrare in sa sotziedade sarda?
S’assessora non l’at nadu—bastat a bi pensare unu pagu—b’at una manera ebbía pro sa scola de nos fagher integrare in sa sotziedade sarda: cussa de imparare a is pipios sardos sa curtura e sa limba de sa Sardinnia.
Ma tando non cumprendo propriu proite s’assessora de limba non nde faeddat e ne-mancu de curtura sarda.
Ma forsis so sballiende totu!
Pensende-bi, Kirghisos in Marmidda non bi nd’at!
E tando?
De ite est faeddende s’assessora?
Est faeddende de is immigrados?
Balla! Custa non mi l’isetaía: tenimus un’assessora de destra, ma internatzionalista prus de Bertinotti?
Ite dialu limba sarda e curtura sarda!
Semus totus uguales, my friensd: Sardos, Rumenos e Nieddos; Catolicos, Protestantes, Musulmanos e Ateos…
No! Ne-mancu custu mi paret cosa de creer...
De su pagu ca isco de issa, non creo chi cergiat integrare sa religione sua cun sa curtura de sos ateros...
Insomma, a sa fine abarrat una cosa ebbía chi podimus pensare: s’assessora at postu custos faeddos unu infatu de s’ateru, chentza de pensare a su chi cherent narrer.
Pensende-bi, custa frasia est comente una de cussas bellas piciocas chi si bient in televisione—in sa televisione italiana, est craru!—e non narant mai nudda, proite ca non tenent nudda de narrer.

In su programma eletorale de Ugo Cappellacci, in su discursu chi at fatu pro sa die de sa Sardigna e in su pro sos sessanta annos de su Consìgiu regionale, sa chistione de s'amparu e promotzione de sa limba sarda teniat unu rilievu mannu. Su matessi rilievu at tentu sa chistione in su discursu de sa presidente de su Consìgiu Claudia Lombardo, chi, in prus, in un'artìculu in s'Unione sarda at punnadu a costitutzionalizare sa limba sarda in s'Istatutu nou. Petzi eris, faveddende de sa manifestatzione “La Sardegna incontra Roma”, sa presidente at iscritu: “La nostra bandiera, il nostro popolo, la nostra lingua sono i segni distintivi ben riconoscibili che identificano i sardi in qualsiasi latitudine del pianeta”.
In custas dies, a bandas de su saludu a sos iscolanos in ue s'assessora Baire s'ismèntigat de sa limba sarda, comente narat Bolognesi, consigeris de s'ala de Cappellacci e Lombardo ant presentadu duas propostas de lege pro s'iscola. In una si faeddat de “formatzione sighida” de sos mastros de iscola in unu bene de matèrias, dae s'informàtica a s'educatzione isportiva. De limba sarda, mancu s'arrastu. In s'àtera si punnat a pesare in sos pitzinnos una cultura europea. In custa cultura, s'ischit, parte de importu tenent sas diversidades linguìsticas (Sa carta europea, sa decrarazione de Istrasburgo, e gasi e gasi). In sa proposta de lege, de custa chistione de bundu, galu una bia mancu s'arrastu.
Est ladinu chi in su tzentrudestra, gasi e totu comente in su tzentrumanca, b'at a chie istimat sa limba sarda e a chie pensat chi si nde potzat fàghere a mancu. E est craru chi, a bi so ca, non bastant sas lìnias polìticas de sos presidentes de sa Regione e de su Cunsìgiu: bi cherent atziones polìticas chi pongiant in contu chi assessores e cunsigeris sunt in su Parlamentu sardu ca ant naradu chi eja a su programma fatu dae chie s'est candidadu a guvernare sa Regione sarda. Si non sunt prus de acordu, pro onestade lu depent nàrrere, prontos a nde patire sas torradas polìticas e personales. A imbolicare sos eletores no est cosa de agguantare.
[zfp]

giovedì 17 settembre 2009

Quella libertà di stampa minacciata da giornalisti (2)

Ho scritto ieri della crisi di autorevolezza di molta parte della stampa come sintomo preoccupante della crisi della libertà di stampa. Quando diventa non più credibile, per sciatteria, vocazione a misinformare (a informare a metà), faziosità subdola (perché presentata come racconto dei fatti e non loro interpretazione), per la riduzione a spettacolo dei fatti, per una carica di allarmismo gratuito, è allora che la disaffezione dei lettori mette in crisi la libertà di stampa. Allora non c'è alcun bisogno di leggi liberticide, è il suicidio che avviene.
Le due foto qui pubblicate non hanno importanza per i fatti né per i protagonisti. E, a ben vedere, poca importanza ha l'evidente faziosità politica che, questa sì, potrebbe avere giustificazione nella linea editoriale di un quotidiano. Non è, insommma, faziosità gratuita, per quanto segno del poco rispetto per la capacità dei lettori di farsi un'opinione non pilotata. Il guaio vero sta nella diversa considerazione ed evidenza che si ha della notizia allarmistica e di quella che fa cessare l'allarme, o almeno tenta di farlo. Questa, del resto, nascosta in un titoletto minuscolo, grande un quinto di quello che ha strillato l'allarme.
Del resto, mentre all'allarme sono state dedicate 722 parole, alla smentita che allarme ci sia sono dedicate 59 parole in tutto.

mercoledì 16 settembre 2009

Quella libertà di stampa minacciata da giornalisti

Moltissimi miei colleghi, insieme alla sinistra, manifesteranno il 19 a favore della libertà di stampa che gli uni e l'altra temono in pericolo. Francamente non penso che la libertà di informazione sia oggi a rischio, ma con lo spirito sono con chi manifesterà. Ci sarò, per così dire, a futura memoria, temendo quel giorno nefasto in cui dovessero andare al governo italiano persone come Di Pietro che, in questi giorni, sta dando il meglio di sé in quanto a sub-cultura giustizialista, con non leggere sfumature forcaiole.
La libertà di stampa ho scritto da qualche parte ha un nemico poderoso che non sta in leggi liberticide, oggi non alle viste, ma nella perdita di credibilità e di autorevolezza di parte della stampa. Non si comprano più i giornali per sapere che cosa è successo, ma per abitudine. Una abitudine che, temo, non tarderà a trasformarsi in disaffezione se il mio mestiere non cambierà radicalmente, tornando, se possibile, a informare senza trasformare tutto in spettacolo e/o allarmismo.
Un esempio minimo è in queste due foto che hanno bisogno di introduzione. E' successo che un ponte appena costruito, certo non ottimamente, sotto un possente temporale abbia subito un piccolo cedimento al bordo della carregiata. La cosa è successa ad Orosei, che l'anno scorso è finita sotto l'acqua che Giove pluvio ha scaricato in maniera davvero esagerata. Il ricordo di quell'avvenimento si è sedimentato nelle migliaia di persone che sotto la tempesta di pioggia ha perso beni e patrimoni.
Immaginatevi il patema d'animo con cui le persone hanno visto le due locandine dei quotidiani sardi annunciando l'una un rischio, l'altra il disastro imminente. Gli articoli sul cedimento non erano affatto allarmistici come le locandine, ma mentre queste erano immediatamente visibili e allarmanti, gli articoli andavano letti dopo, comunque, essere stati acquistati sull'onda dell'emozione per il disastro annunciato. Che non c'è stato. Lo stesso giornale che aveva strillato l'allarme, il giorno dopo ha relegato la notizia della cessata paura in quattro righe di un minuscolo trafiletto in gergo chiamato "tappabuchi".
Cosa minima, va da sé. Ma è anche questa la "libertà" che si vorrebbe tutelare? La libertà di mandare in vacca la credibilità dei giornali?

martedì 15 settembre 2009

Tira brutta aria intorno alla lingua sarda

Vorrei sbagliarmi, ma non sento spirare aria buona intorno alla lingua sarda e – non è superfluo ripeterlo – al gallurese, al sassarese, al tabarchino e al catalano d'Alghero, anche se questa lingua gode di una tutela specifica da parte dello Stato. Dividerei in due categorie le mie preoccupazioni che solo Sardus pater sa quanto vorrei infondate: in ambito istituzionale e in ambito sociale e politico. Comincio da queste ultime.
Nelle consultazioni con province, comuni, parti sociali sul nuovo Piano regionale di sviluppo, a quel che risulta dai resonconti dell'addetto stampa dell'assessore La Spisa, non c'è stata una sola persona che abbia fatto rilevare una cosa molto banale: se la promozione della lingua non è assunta come possibile motore di sviluppo, essa è destinata alla marginalità e al ruolo di abbellimento da acquistare solo nel caso in cui sul fondo del barile sia rimasta qualche monetina. Su Comitadu pro sa limba sarda (1.679 iscritti ad ora) ha ricordato questa “banalità” anche all'assessore La Spisa, in una lettera in cui si chiede alla Regione di riconoscere nel suo Piano la funzione economica della lingua. Che la mancata risposta dipenda dal fatto che gli amministratori, con il loro silenzio, hanno dato a intendere che si tratta di un dettaglio di poco conto?
I venti milioni di euro che per suo conto la Regione ha destinato a salvare per un anno i precari della scuola potevano e forse ancora possono essere un'occasione anche per proporre alle scuole percorsi formativi di e in lingua sarda (e delle altre lingue nei territori interessati) e di storia della Sardegna. Stando alle cronache delle manifestazioni dei precari sardi, non mi sembra proprio che ci sia una gara a proporre progetti in questo senso che, del resto, potrebbero instaurare un circolo virtuoso che renda necessari questi progetti negli anni avvenire e almeno opportuna una continuità didattica. D'altra parte, l'autonomia scolastica sconsiglia l'assessore dall'imporre una scelta del genere.
Ai dirigenti scolastici è arrivata una circolare (rintracciabile comunque in internet) che rende disponibili soldi della legge 482 per la realizzazione di progetti nel campo dello studio delle lingue minoritarie come il sardo. Vi si parla di insegnamento della e nella lingua di minoranza, della progettazione per due anni di proposte formative che interessino almeno tre scuole. Insomma è una proposta avanzata e dotata di risorse. Ho solo pallidi riflessi di quanto succede nelle scuole, ma questi non segnalano una corsa a fare tali progetti per l'insegnamento del e in sardo.
Leggo in una intervista con il sardista Paolo Maninchedda, anch'egli destinatario muto della lettera de su Comitadu, del suo interesse per un nuovo Statuto che dovrebbe essere frutto di una Assemblea costituente (bisognerà riparlarne) che potrebbe persino portare all'indipendenza. Curioso, e molto desolante visto il partito cui appartiene, l'abbozzo di programma per l'indipendenza: economia e fiscalità. Nemmeno per dovere d'ufficio – il sardo è nel programma del Psd'az – una sola parola sulla lingua sarda che, mi pare, dovrebbe essere elemento fondante della nazione di cui si vuole l'indipendenza.
Insomma, fosse per i soggetti che ho citato, la lingua sarda potrebbe essere pronta per il feretro, su cui naturalmente piangere calde lacrime. Perché, sia chiaro, tutti sono per il sardo, purché se la campi da solo e non pretenda finanziamenti. Su questo blog si è lungamente discusso sul programma elettorale che ha portato alla elezione di Ugo Cappellacci. E si è anche salutato con prudente soddisfazione il fatto che sia il presidente della Regione, sia quella del Consiglio, sia l'assessore Baire hanno più volte affermato la centralità della lingua sarda nella politica identitaria del nuovo governo. Il finanziamento dell'Atlante toponomastico è certamente un buon segno. Non vorrei che fosse considerato sufficiente e che, in un revival di economicismo, favorito certamente dalla pesante crisi industriale della nostra Isola, si pensasse che la lingua può aspettare tempi migliori, quando le varie crisi siano state risolte. O che, peggio, si continui a finanziare, spacciati come valorizzazione della lingua, le consuete ricerche – fatte e scritte in italiano – sui proverbi dei nonni. Si continui, cioè, a considerare la lingua un epifenomeno della cultura, qualcosa che sta alla cultura come il succedaneo del caffè sta ad una gustosa miscela di Arabica.

Nella foto: l'assessore della Cultura Lucia Baire

lunedì 14 settembre 2009

Lìtera a sa polìtica: "Sa limba sarda motore de isvilupu"

Custa lìtera est istada mandada dae su Comitadu pro sa limba sarda (1.664 iscritos a oe) a su Presidente de sa Giunta regionale Ugo Cappellacci, sa Presidente de su Consìgiu regionale Claudia Lombardo, a s'Assessore a sa Cultura Lucia Bayre, a su Presidente III Commissione Programmatzione e bilànciu Paolo Maninchedda e a su Presidente VIII Commissione Cultura Attilio Dedoni


Sende chi torrat a comintzare s’atividade legislativa e de guvernu de sa Regione sarda, e prus a notu s’aprovu prevìdidu de su pianu regionale de Isvilupu, su Comitadu pro sa limba sarda oferit a s’atentu bostru una filera de cunsideros e de propostas.
In su programma de su Presidente Cappellacci est istada prevìdida un’àndala noa subra sa base de tres momentos pretzisos in sa lògica e in su tempus: “su momentu identitàriu, su pianu de Isvilupu nou, su de torrare a iscrìere sas règulas cun sa reforma de s’Istatutu ispetziale e s’organizatzione noa de sa regione”. De custa manera sunt istados leados a preferu, a manera programmàtica, sos temas de sa limba, de sa cultura e de s’identidade ca sunt “fatores de distintividade” e ca dant importu de giudu a sos temas de s’arraighinadura de su sentidu de apartenèntzia.
In su Pianu regionale de isvilupu, a su chi connoschimus, non b’at peruna referèntzia a una polìtica linguìstica chi potzat, gasi comente est prevìdidu in su programma eletorale, fàghere profetu a s’isvilupu de sa terra nostra. E puru, in su programma sunt prevìdidos, a manera crara, “intzentivos pro sa valorizatzione de sa limba e de sa cutura chi favoressant s’editoria, sas artes, sos assòtzios, su marketing, sa comunicatzione, s’informatzione e ogni atividade chi sustèngiat sa sienda identitària de sos sardos”.
Inoghe no est difìtzile a cumprèndere duas voluntades: su de regulare cun polìticas adeguadas siat sa limba siat sa cultura de sos sardos e su de las fàghere, s’una e s’àtera, sugetos e ogetos de economia. Sa polìtica de s’assistèntzia a sa limba e a sa cultura no est istada in de badas, in su tempus coladu. At produidu resurtos de primore, finas si una teoria betza e sena fundamentu subra sa limba comente epifenòmenu de sa cultura, belle che unu sutaprodotu suo, at in fines custrintu sa limba sarda a èssere bortadura de prodotos in italianu e no at avaloradu meda sa limba comente sienda etotu.
Bidu chi, gasi comente si cumprendet dae su programma eletorale, si cheret annoare su chi finas a como est istadu fatu, su Comitadu pro sa limba sarda, aprètziat chi su primu passu detzisivu siat a reconnòschere, printzipiende dae su Pianu regionale de isvilupu, sa potentzialidade chi tenet sa limba sarda,e paris cun issa sa cultura de sa Sardigna, pro favorèssere sa crèschida econòmica e sotziale de s’Ìsula. In Europa bi sunt esèmpios de custas potentzialidades, si sunt favorèssidas dae una polìtica linguìstica pretzisa e non destinada a abarrare in s’oru de sa cultura, in sas fainas de polìtica econòmica.
Semus cumbintos chi est a sighire, adatende·los a sa realidade nostra e a custos tempos de resursas menguantes, sos esèmpios de sa Catalùnnia, de sos Paisos bascos, de sa Galìtzia, pro mentovare sos prus famados. Pro custu, su Comitadu pro sa limba sarda proponet chi su Pianu de isvilupu regionale reconnoscat sa limba sarda e sa cultura de sos sardos comente motore de isvilupu econòmicu e gasi l’incluat cun mesuras programmàticas e econòmicas adeguadas. Custu est unu reconnoschimentu chi, a manera naturale, tocat de sustènnere cun cussos intzentivos de sos cales faeddat su programma regionale e chi ant a pòdere èssere apostivigados in sa Lege finantziària imbeniente.
Vostè at a cumprèndere, cun tzertesa, s’importu istòricu chi tenet, pro sa limba sarda, su de la reconnòschere in unu documentu de programmatzione de s’economia nostra.
Diamus torrare gràtzias si nos ais a retzire

Inoghe su testu in italianu/Qui il testo in italiano

PS - Custa lìtera est istada mandada e retzida unas chidas faghet e leat in paràula sos impinnos chi su guvernu nou de sa Regione at pigadu presentende-si pro pedire sos botos de sos sardos. Su chi su Comitadu pedit cun custa lìtera, chi no at tentu galu un'imposta, no est dinare, est un'impinnu polìticu a cunsiderare sa limba sarda e sas àteras limbas de Sardigna comente sìngiu de s'identidade. Comente at naradu su presidente de sa Regione. Comente fia narende, non b'at àpidu mancu imposta, nen pro su chi eja nen pro su chi nono. [zfp]

domenica 13 settembre 2009

Quando l'italiano fu proibito in Sardegna

di Francesco Cesare Casula

Caro Gianfranco,
vorrei partecipare al dibattito che sul tuo blog si sta sviluppando intorno alle questioni della lingua sarda con alcune considerazioni che traggo dal mio “Dizionario Storico Sardo”. Conto con questo di essere utile alla discussione.
Già in periodo iberico e sabaudo del Regno di Sardegna erano riconosciute cinque lingue parlate nell’isola. Nel 1776 Francesco Gemelli scriveva nella sua opera intitolata Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura: «Cinque linguaggi parlansi in Sardegna, lo spagnuolo, l’italiano, il sardo, l’algarese, e ‘l sassarese. I primi due per ragione del passato e del presente dominio, e delle passate e presenti scuole intendonsi e parlansi da tutte le pulite persone nelle città, e ancor ne’ villaggi. Il sardo è comune a tutto il Regno, e dividesi in due precipui dialetti, sardo campidanese e sardo del capo di sopra. L’algarese è un dialetto del catalano, perché colonia di catalani è Algheri; e finalmente il sassarese che si parla in Sassari, in Tempio e in Castel sardo, è un dialetto del toscano, reliquia del dominio de’ Pisani. Lo spagnuolo va perdendo terreno a misura che prende piede l’italiano, il quale ha dispossessato il primo delle scuole, e de’ tribunali: gli altri mantengonsi, e manterrannosi, ma vanno dall’italiano, e principalmente dal dialetto piemontese adottando de’ vocaboli come in addietro prendevanli dallo spagnuolo...».
In Sardegna, l'italiano fu lingua di governo negli Stati signorili medioevali dei Gherardesca (Sulcis e Sigerro), dei Malaspina (Planargia), dei Doria (Nulauro e Anglona); nella Repubblica comunale di Sassari, pazionata con la Repubblica di Genova; nonché nei territori oltremarini della Repubblica di Pisa (Cagliaritano e Gallura).
Dopo la fine di queste entità, in qualche zona permase l’uso dell’italiano pure in epoca iberica del Regno di Sardegna, tanto che nel 1558 tale uso fu abolito nel Parlamento presieduto dal viceré Alvaro de Madrigal con la seguente motivazione (in traduzione dal catalano): «Poiché nel presente Regno di Sardegna ci sono alcune città, come Villa di Chiesa (Iglesias) e Bosa, che hanno Brevi, coi quali si reggono, scritti in lingua pisana o italiana, così come la città di Sassari ha alcuni capitoli (degli Statuti) in lingua genovese o italiana; e che, per quanto si vede, non conviene né è giusto che leggi del Regno stiano in lingua straniera, lo “stamento” militare del Parlamento supplica (il re) che sia provveduto e decretato che detti capitoli siano tradotti in lingua sarda o catalana, senza mutarne la sostanza; e che tutto il resto in lingua italiana sia abolito, in modo che non ne rimanga memoria.».
L’italiano, già auspicato dal viceré Alessandro Doria del Maso nel 1723, fu reintrodotto ufficialmente nelle scuole dell’isola con regio biglietto del 25 luglio 1760, in periodo piemontese del Regno di Sardegna, con la seguente motivazione: «Dovendosi per tali insegnamenti adoperare fra le lingue più colte quella che si è meno lontana dal materno dialetto, e ad un tempo la più corrispondente alle pubbliche convenienze, si è determinato di usare nelle scuole predette l’italiana, siccome quella appunto che non essendo più diversa dalla sarda di quello che fosse la castigliana, poiché anzi la maggior parte dei sardi più colti già la possiede; resta altresì la più opportuna per maggiormente agevolare il commercio ed aumentare gli scambievoli comodi; ed i Piemontesi che verranno nel Regno, non avranno a studiare una nuova lingua per meglio abilitarsi al servizio del pubblico e dei sardi, i quali in tal modo potranno essere impiegati anche in continente».
Nasce dal latino volgare, sostanzialmente unitaria, a ridosso del Mille con le due varianti di pronuncia satem e kentum: la prima, a sud, e, la seconda, a nord della catena montuosa del Montiferru-Marghine.
Come in tutta l’Europa cristiana di cultura latina, anche in Sardegna le premesse di un’unica lingua “volgare” si maturarono fra il IX e il X secolo in concomitanza con la nascita dei quattro regni giudicali di Càlari, Torres, Gallura e Arborèa.
Non vi è dubbio che se la Sardegna, allora, si fosse organizzata in un unico Stato la lingua sarebbe stata singola, magari con alcune variazioni dialettali coltivate in contrade e valli remote. E, in quella lingua unitaria, si sarebbe insegnato nelle scuole parrocchiali e vescovili dell’isola, sostitutive o aggiuntive delle scuole laiche; si sarebbero composti i codici negli scriptoria monastici basiliani e poi benedettini; si sarebbero redatti i documenti e le cartas bullatas della cancelleria di governo.
Invece, le frontiere dei quattro regni di Càlari, Torres, Gallura e Arborèa, similmente alle dita divaricate di una mano, crearono quattro entità politiche differenziate nelle leggi, nelle istituzioni, nelle scelte economiche e culturali; nonché quattro barriere linguistiche che, con l’evoluzione di qualche secolo, avrebbero dato, come risultato ultimo, quattro lingue nazionali compiute e diverse: il Calaritano, il Logudorese, il Gallurese e l’Arborense, ciascuna coi propri canoni grammaticali e sintattici, coi propri dialetti interni, con la propria letteratura, ecc.
Purtroppo, tre dei quattro regni giudicali (Càlari, Torres e Gallura) caddero ad opera di forze aliene nella seconda metà del Duecento; l’Arborèa terminò per patti nel 1420, ed il suo territorio fu incamerato nel Regno catalano-aragonese di Sardegna; sicché, le loro lingue vennero “tagliate”, non tanto perché i vincitori le proibirono, quanto perché tutto l’apparato governativo e burocratico, laico e religioso, operò con proprio idioma nazionale catalano, lasciando al popolo ignorante le sue parlate indigene le quali, per non essersi maturate in lingue, si possono considerare semplici dialetti, cioè varianti del “volgare” sardo di base.
Abbattuti definitivamente nel XV i confini ex giudicali calaritani, turritani e galluresi, e giudicali arborensi, anche le aree delle parlate sarde si sfecero, si sfumarono, si mischiarono. La lingua nazionale dell’Arborèa scomparve quasi del tutto, fagocitata dal moderno Campidanese (o vecchio Calaritano) forte dell’autorità governativa iberica che operava nella città di Cagliari e che, in qualche modo, si avvaleva, oltre che del catalano e del castigliano, anche del sardo popolare per farsi intendere. Il Logudorese si mantenne più o meno puro attorno a àrdara, antico epicentro del Regno di Torres. Il Gallurese fece perno su Olbia-Terranova, ultima residenza dei sovrani del luogo.

sabato 12 settembre 2009

L'iscrizione di Su Nuraxi? Ecco che cos'è

di Gigi Sanna

L’ultimo a citare e a parlare della brevissima iscrizione del nuraghe Su Nuraxi di Barumini, di cui brevemente tratteremo, è stato recentemente Massimo Pittau nel suo ‘Sardus Pater’ ( 2009, p.56 fig.13) nel capitoletto dedicato alle scritte, ritenute dallo studioso nuragiche o sardiane per lingua, ma in caratteri latini o greci. Detta iscrizione, incisa profondamente, si trova nell’ingresso sopraelevato del monumento nella porta costruita in direzione NORD-EST.
Forte della sua conoscenza dell’epigrafia greca Pittau legge subito (procedendo in modo progressivo) BE dal momento che quelli tracciati li individua come due chiari grafemi dell’alfabeto greco arcaico; più precisamente “lettere corinzio – megariche” dal momento che il ‘beta’ è tracciato a ‘serpentina’. Inoltre, dato ancora il fatto che la sequenza B +E non può suggerirgli nulla di significativo in greco dal punto di vista lessicale, ritiene il BE appartenente alla lingua nuragica: ‘forse una ‘sigla’, dice. Infine, considerata l’arcaicità delle due (presunte) lettere alfabetiche greche colloca detta ‘sigla’ nuragica nel periodo della prima colonizzazione greca (VIII – VII sec. a C.).
Insomma, i ‘nuragici’ o ‘sardiani’, a partire almeno da una certa data, scrivevano di sicuro, servendosi però di volta in volta non di un alfabeto proprio ma di sistemi presi in prestito da altri popoli alfabetizzati (greco, romano, etrusco). A parte l’errore sulla tipologia dei caratteri e, conseguentemente, di riferimento temporale , Pittau però istintivamente coglie nel segno riguardo al messaggio in lingua ‘sardiana’ scritto sul masso di Su Nuraxi. Infatti la cosiddetta ‘sigla’ della lingua protosarda, di significato apparentemente così oscuro, è scritta con ogni probabilità in lingua ‘sardiana’ semitica (quella del culto, regolarmente adoperata dagli scribi - sacerdoti del tempio) e con caratteri di tipologia semitica, impiegati chiaramente con modalità tipiche della scrittura semitica arcaica.

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venerdì 11 settembre 2009

150 anni e li dimostra tutti

di Michele Pinna

Alle origini della politica linguistica in Sardegna c’è una storia letteraria, una storia linguistica, la storia di un popolo, la storia di una nazione, c’è la Sardegna, c’è un movimento politico e culturale che dagli anni Settanta del Novecento ha posto con forza il problema linguistico come problema fondamentale dell’identità dei sardi e della loro appartenenza comunitaria alla nazione sarda. Strettamente connesso al problema linguistico come problema della nazione e del popolo sardo emerge il problema dell’indipendenza della Sardegna. Un problema, cioè, che pone in discussione le attuali modalità di appartenenza della nazione sarda allo Stato italiano.
È un problema che discute sulla legittimità stessa dello Stato italiano come Stato annessionista e inglobante che, a partire da un nucleo territoriale arbitrario, e da una dinastia investita dall’alto, ha dato vita ad uno Stato: lo Stato italiano. Il problema non si risolve neanche dentro quei percorsi storiografici e dentro quelle filosofie della storia che vedono la Sardegna come il nucleo territoriale originario, a seguito del passaggio ai Savoia, dopo il trattato di Londra, che ha dato vita allo Stato italiano. C’è da chiedersi, infatti se i sardi, il popolo sardo, al di là delle decisioni prese dalle classi dirigenti isolane, subalterne e irresponsabili, volessero dar vita ad uno Stato italiano e se volessero farlo con le modalità con cui lo hanno fatto i Savoia e le classi dirigenti piemontesi con la complicità subalterna e irresponsabile di quelle sarde. Crediamo proprio di no.

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mercoledì 9 settembre 2009

Contro o pro Berlusconi? Non mi prenderete vivo

Uno che ponga, come faccio io, la nazione sarda come punto di vista da cui guardare le realtà politica, sociale, culturale e linguistica si fa amici e avversari, come chiunque, del resto, assuma un particolare punto di vista. C'è chi ritiene che ci sia, sul crinale della scelta, una contraddizione primaria fra destra e sinistra, secondo altri la contraddizione primaria è quella della lotta di classe e c'è chi la situa fra indipendenza e autonomia e così via dicendo. Io penso che in Sardegna la più importante contraddizione sia quella nazionale, quella che pone sul crinale la questione nazionale sarda e che consente di tirare una metaforica linea per terra per invitare tutti a schierarsi chi per la piena sovranità della Sardegna, chi per una autonomia controllata dallo Stato italiano.
Entrambi gli schieramenti hanno, naturalmente, piena legittimità e buoni argomenti per sostenere la propria scelta e, anche, elementi solidi per ritenere che la convivenza pacifica fra le due posizioni sia non solo possibile ma irrinunciabile. Il primo ha il dovere di mostrare che la prosperità dei sardi è strettamente legata alla massima espansione possibile dell'autogoverno; il secondo di sostenere che senza un mix di autonomia e centralismo, per la Sardegna non c'è futuro. Non siamo, si capisce, a una scelta radicale fra indipendenza e dipendenza, che in termini di lotta democratica e pacifica si può fare solo con un referendum d'autodeterminazione, siamo dentro una ricerca di compatibilità fra l'unità della Repubblica e il diritto internazionale all'autodeterminazione.
A costo di essere troppo didascalico, vorrei ricordare che esistono, in fatto di diritto all'autodeterminazione, due fonti, entrambe adottate dallo Stato italiano: il patto dell'Onu che non pone limiti a questo diritto di tutti i popoli e l'Atto unico di Helsinki che riconosce tale diritto ma lo combina con quello degli stati alla loro integrità territoriale. Entrambe le strade, almeno fino a quando i due trattati saranno in vigore, sono aperte e sceglierne una piuttosto che l'altra comporta una seria consapevolezza del come stia il popolo sardo in termini di unità, autostima, coraggio istituzionale. Per farla breve, insomma, io sono dell'idea che debba svolgersi all'interno della contraddizione nazionale la scelta, diciamo così, di posizionamento.
Pur essendo della prima metà del secolo scorso, mi ritengo e, anzi, sono un contemporaneo e so benissimo che moltissimi sardi si appassionano allo scontro Belusconi sì-Berlusconi no, come del resto a quelli che lo hanno preceduto: Prodi sì-Prodi no, De Mita sì-De Mita no, scendendo per li rami fino a De Gasperi sì-De Gasperi no. È un nostro sport antico quello di schierarsi con questo o con quel principe in lotta alla Corte di Madrid. Gran parte dei miei amici, in carne ed ossa o solamente telemateci, sono di sinistra e vorrebbero convincermi alla necessità e urgenza di stare con o contro uno dei principi che si guerreggiano alla corte di Roma. Ad alcuni basterebbe una adesione morale al loro progetto di regicidio non cruento; per altri non c'è altra soluzione se non quella del “o con noi o contro di noi”. A tutti rispondo: “Su questo non mi prenderete vivo”, pur essendo disposto a partecipare, con il mio punto di vista, al dibattito su che cosa, dei provvedimenti presi a Roma, convenga o non convenga alla Sardegna o le sia indifferente.
Per dire: mi va benissimo che il governo italiano abbia deciso di dare all'Aquila una dimostrazione del possibile nella ricostruzione post-terremoto, non mi dispero perché il G8 non si è fatto alla Maddalena, sono ovviamente imbufalito alla sola idea che si possa solo pensare di installare una centrale nucleare in Sardegna. Ma francamente la rincorsa a frugare nelle mutande altrui ha per me lo stesso valore delle critiche fatte a Comesichiama Casini e a Gianfranco Fini per i loro divorzi, fatti da cattolici praticanti. Al massimo, al Bar degli amici se ne può sghignazzare fra, naturalmente, i più informati, come per le storie di fellatio di Clinton, delle corna incrociate dei Sarkosy, degli amorazzi di Kennedy, delle scappatelle di François Mitterrand.
Per meglio esprimere che cosa intendo per un punto di vista guida delle scelte, racconto una testimonianza personale. Nel maggio 68, quando De Gaulle sparì per qualche giorno da Parigi, mi ritrovai nella hall dell'Humanité, il quotidiano del Pcf, proprio mentre parlava il segretario Maurice Thorez. “Camarades, la question du pouvoir est maintenant posée”, disse, compagni la questione del potere è ora posta. L'entusiasmo degli astanti, e mio, salì alla stelle. La cose, come si sa, andarono diversamente e vinse De Gaulle. Fu un carissimo amico, anch'egli comunista, messo ai margini perché firmatario del Manifesto dei 121 contro la guerra in Algeria, a farmi riflettere.
Durante quella lotta di liberazione, il Pcf fu sempre schierato contro gli algerini e essendo al potere dopo la guerra mondiale fu parte attivissima nella repressione sanguinosa dei primi sussulti della lotta di liberazione. L'occupazione dell'Algeria e la fine della guerra fu decisa da De Gaulle che, nell'occasione si scontrò, è vero, con la destra ma anche con il Pcf che fino all'ultimo gridò: “Algerie française”. Non amai mai De Gaulle, ma cominciai a prendere le distanze dal Pcf e dai “partiti fratelli” che mai, allora, ne presero le distanze su una questione per me cruciale.

martedì 8 settembre 2009

Prime ti ignorin, dopo ti ridin, dopo ti combatin. Dopo tu tu vincis! (*)

di Christian Romanini
 
Non volevo scrivere. Un proverbio friulano dice che “è inutile tentare di insegnare a un asino: si perde tempo e si infastidisce l’animale”.
Ma mi è tornata sott’occhio una frase di una persona speciale, che non parlava inutilmente.
"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Diceva Gandhi.
Ebbene, se avesse avuto la possibilità di vivere fino ad oggi, penso che ci avrebbe fatto presente che siamo vicini alla vittoria!
Infatti si è scatenato un attacco frontale, vergognoso contro la lingua friulana, che ritengo sia lo specchio di un popolo e per questo l’attacco arriva dritto al Friuli e ai Friulani.
Non solo ci sono certi politici che si perdono a criticare iniziative che invece nel resto d’Europa sono prese come modello (vedi il Grant dizionari bilengâl talian furlan, trad. Grande dizionario bilingue italiano friulano - ndr, che l’università di Stoccolma utilizzerà come impianto informatico per un vocabolario italiano svedese). Un intervento che è stato finanziato con fondi destinati alla politica linguistica (sul Messaggero Veneto del 04.09.2009, Sergio Cecotti, già presidente della Regione, dichiara «anche prendendo l’anno di massimo finanziamento, stiamo parlando di meno del 0,0003% del Pil. I politicanti che impiegano quote significative del loro tempo a prendersela con un presunto spreco dell’ordine del decimo di millesimo di punto percentuale vanno classificati nella categoria dei buffoni»).
E non solo la politica (con la “p” minuscola) parla a vanvera. Sia “L’Espresso” sia "Io Donna" (inserto del Corriere della Sera) hanno armato il fucile della malinformazione e hanno iniziato a sparare contro il Friuli, i Friulani e la lingua friulana.
Ad essere buoni, anche se un giornale serio non dovrebbe essere giustificato, si potrebbe dire “Vabbè, hanno le redazioni lontane, magari non conoscono la nostra realtà e sono caduti in errore ed erano in buona fede”. Ma questo ragionamento nell’epoca dell’informazione globale non dovrebbe neanche esistere… inoltre quando in un’inchiesta che ricorda l’interrogazione di un politico in consiglio regionale che accusava di sprechi il suddetto Gdbtf, il giornalista si “dimentica” di scrivere anche che il tutto si è concluso in una grande “bolla di sapone” e con tanto di dimostrazione che il lavoro è sottopagato e invece le risorse per progetti simili fatti altrove sono molto più alti, la qualità di certi articoli si commenta da sola…
Senza contare che sono anni che l’Europa sostiene la difesa dei diritti linguistici riconoscendo le lingue dei popoli (esiste anche Eblul, un ufficio europeo per la tutela delle lingue meno diffuse), e più di qualche volta ha richiamato l’Italia per le inadempienze in questo settore (non parliamo poi dei “grandi finanziamenti” alla L.483/99 che di grande ha solo una continua e drastica riduzione).
Ebbene, proprio perché lo stato italiano si conferma molto in ritardo su questi temi (a dire il vero, non solo su questi…) non mi sento di dover festeggiare chissà che: da tempo il Presidente della Repubblica invita a ricordare in modo degno i 150 anni dell’Unità d’Italia. Mi sarebbe piaciuto che con la stessa forza, lui che ne è il garante, avesse chiesto il rispetto della Costituzione della Repubblica italiana (compreso l’art 6: La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche).
Mi consolo dunque tornando a Gandhi, perché se dopo anni in cui nel resto d’Italia ignoravano (e forse in molti ancora oggi non sanno) dove fosse il Friuli, continuando a vedere che in tanti non perdono occasione per deriderci e ridicolizzarci, ora hanno iniziato a combatterci con cattiveria: ebbene, come abbiamo resistito finora (sono anni che dicono che il Friulano sarebbe sparito e invece siamo ancora qui), resistiamo ancora un po’ perchè il prossimo passo è vicino e sarà quello decisivo: la vittoria!
 
Ps: tra l’altro, i conquistatori italiani arrivarono nel 1866 in Friuli centro occidentale mentre nel Friuli Orientale fino al 1918 c’era l’Austria… ma questo non importa: quando si tratta di celebrare l’Italia "una d'arme, di lingua, d'altare" tutto è permesso e anche i numeri e le date valgono un tanto al kg.

(titolo originale dell'articolo pubblicato in friulano nel sito di Romanini)

lunedì 7 settembre 2009

Chi ha paura del dialetto cattivo?

Il rispetto formale nei confronti dei “dialetti” che, per un paio di decenni, ha circolato nel ventre molle dello sciovinismo italiano si sta mostrando per quel che era: un onore delle armi a un nemico ormai “spazzato via dalla storia”, come aveva pronosticato Engels. Se un merito ha la Lega Nord, altri non me ne vengono in mente, è quello di aver toccato i nervi scoperti del nazionalismo granditaliano che, per sua definizione non è né di sinistra né di destra. Basta leggere le reazioni alla proposta di produrre “fictions dialettali”.
Da chi normalmente si guarda in cagnesco, una voce sola: “Un’autentica fesseria” (Italo Bocchino, vice presidente dei deputati del Pdl), si “confonde ferragosto con carnevale” (Giorgio Merlo (Pd), vice presidente della commissione Vigilanza Rai), “Le fiction in dialetto sono una buffonata propagandistica” (Marco Rizzo, dei comunisti sinistra popolare), “Sono sciocchezze inutili” (Lando Buzzanca, attore di centro destra). Se non ci fosse dietro lo sciovinismo di cui prima, sarebbe bastato dire: “Vediamo se il mercato le accetta”. E invece c'è.
Alcuni giornali italiani si sono messi alla testa del movimento “antidialettale”, con un salto di qualità. Nel mirino non ci sono più solo i “dialetti” ma anche le lingue delle minoranze storiche che sempre lingue sono state nella coscienza dei loro parlanti e che, in più, tali sono state riconosciute dalla Repubblica. Da quella stessa, nel nome della cui unità tanto sbraitano i giornali di sinistra (L'Espresso e L'Unità) e “indipendenti” - ma ostili al centrodestra - come Il Corriere della Sera, per non parlare dei quotidiani nordici del gruppo La Repubblica-L'Espresso.
Nel mio sito, chi vuole, troverà l'articolo dell'Espresso che ha aperto le ostilità, quello del settimanale del Corriere “Io donna”, quello dell'Unità. (Ma si troverà anche un pregevole articolo di Tullio De Mauro sull'Unità a difesa delle lingue di minoranza e una bella risposta del friulano Luca Campanotto all'attacco del Corriere alla sua lingua). Perché queste bordate che, per ora, colpiscono i “dialetti” e la lingua friulana? E per quale ragione i giornali declassano a “dialetto” una lingua riconosciuta come tale dal Parlamento italiano durante un governo di sinistra? E, ancora, perché proprio dalla sinistra arrivano le reazioni più velenose? Che mi consti, se non l'unica una delle poche voci fuori dal coro è quella di Piero Fassino, il quale pur dicendosi “contrario a sottoporre tutti gli insegnanti all'esame di dialetto” premette: “Sono favorevole ai dialetti e al loro insegnamento a scuola”.
Una risposta a quest'ultima domanda potrebbe trovarsi nella legittima opposizione della sinistra e dei suoi giornali al governo Berlusconi e, soprattutto, alla Lega che ne fa parte. Forse c'è anche questo, anche se, in realtà, nella foga non si preoccupano di travolgere l'ex presidente di centrosinistra del Friuli, Riccardo Illy. Ma non credo che sia solo questa la ragione. Aleggia sempre, o quasi sempre, una preocupazione sciovinista: quella che l'uso non folcloristico delle lingue regionali (i “dialetti”) e quelle delle nazionalità storiche porti allo sfascio di quel sentimento nazionale che, in verità, tanto nazionale – nel senso di statale – non è, come dimostrano i lamenti delle vestali della cosiddetta “Unità d'Italia” di cui, temono, ci si ricordi troppo poco.
Di qui, una tolleranza nei confronti dei “dialetti” e delle lingue dialettizzate per convenienza di ragionamento che si manifesta fino al momento in cui queste lingue non utilizzano leggi, mezzi finanziari, tecnologie moderne e propaganda interna per due scopi: sottrarle al destino assegnato loro dal “tanto sono destinate a morire” e patrocinarne l'uso pubblico e ufficiale in tutti i settori della società. Gli sciovinisti erano disposti ad accompagnarle alla buon morte per consunzione ma non tollerano che si spendano denari (poco importa se privati o pubblici – si legga l'articolo di Campanotto) per sottrarle alla morte.
La verità – la mia, almeno – è che c'è una diffusa sensazione, in mezzo agli scioviniti che il cosiddetto “sentimento nazionale” non funziona più come pensavano e che, questo sì, ha bisogno di importanti iniezioni di denaro, secondo alcuni persino di pregoni e di obblighi, per essere rivitalizzato. Detto fra noi, chi sa se l'esasperato nazionalismo di Ciampi, filo conduttore del suo settennato come capo dello Stato, non si stia trasformando in un bumerang?

PS - Noi sardi siamo ben più fortunati dei friulani. La lingua friulana è bersaglio di un fuoco nemico esterno, grazie a Cristina Lavinio (vedi la coda della sua ira funesta) noi abbiamo il nostro bel fuoco amico. Contro il friulano sparano a balla incatenata, la nostra a balla sola. Perché non trova compagnia.

sabato 5 settembre 2009

Quando a parlar di lingua si passa per bossiani

Una dozzina di anni fa, mentre camminavo in un corridoio del dipartimento di Linguistica Generale dell’Università di Amsterdam, ho incontrato una collega marchigiana che faceva il dottorato a Utrecht.
Ci siamo salutati e lei mi fa: “Come va la tua ricerca sul dialetto sardo?”
Io l’ho guardata un po’ di traverso e ho risposto: “Prego? Il sardo è una lingua!”
E lei: “Ma tu sei un leghista!”
Mi sono voltato e me ne sono andato senza salutarla. Sono un buon incassatore, ma a tutto c’è un limite.
Questa collega -ovviamente di sinistra, come la maggior parte dei linguisti- pretendeva di imporre la sua verità politica (lo stato italiano non aveva ancora riconosciuto il sardo come lingua minoritaria) sulla verità scientifica (i linguisti non italiani riconoscevano da decenni lo status di lingua a se del sardo).
Io, rifiutando la sua verità politica, mi ero meritato l’anatema.
Conosco per fortuna diversi linguisti italiani che sono di sinistra e -proprio perché di sinistra- a favore della diversità linguistica.
Conosco anche altri linguisti italiani che sono a favore della diversità linguistica, per esempio, in Giappone (giuro che è vero!), ma non si sono mai resi conto che in Italia esistono tante lingue minoritarie.

Leghe totu
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venerdì 4 settembre 2009

Chi ha imbrogliato Caronte?

di Herbert Sauren

Conoscerete certo il mito greco, e poi romano, di Caronte, il batelliere che attraversa con il suo batello il fiume Stige e che trasporta i morti nel mondo degli inferi. I nomi sono greci, ma può darsi che il miti sia più antico. Caronte chiede un soldo per passaggio e fa attenzione a che il cerbero non divori i poveri morti. Nei testi di Glozel, si trova l'immagine del batello e il cerbero in agguato.
La scrittura comincia alla pastoia. Bisogna girare il disegno di 180 agradi per leggere le due colonne dell'iscrizione. Il disegno di un animale, forse il cerbero, mostra la sua testa sul fondo della barca, ma questa testa è rovesciata rispetto alla scrittura. Si può immaginare che le linee all'interno non segnino il fondo della barca ma il fiume, limite dell'altro mondo.
Il cerbero si trova a sinistra, all'ingresso dell'Ade, impedisce l'ingresso senza che si paghi. Il pagamento deve essere fatto con un obolo, una moneta d'argento. L'iscrizione A si trova a destra, nel mondo dei vivi, l'iscrizione B a sinistra, nell'Ade. Si possono trovare maggiori informazioni con vocabolario, epigrafia nel sito www.museedeglozel.com/Documents/HSauren.pdf.
Ciò che voglio raccontare si trova nella linea B: il zuz, “obolo” secondo il dizionario di Hoftijzer, J., Jongeling, K., è la moneta d'argento conosciuta da molte leggende della moneta preromana battuta nella Penisola iberica. Il metallo era l'argento. Bene, si cercò di imbrogliare Caronte, si fabbricarono monete fatte d'argilla, J. Untermann, 1990, 137, C. 25.1.
L'abitudine di donare una moneta nella bocca del morto di trova in una fattura di un becchino: J. Untermann, 1990, F. 9.3. Il disco d'argilla di 1,5/1,7 cm di diametro, Gabinete Numismático de
Catalunña, Barcelona, 30238 (1963), J. Untermann, 1990, 37, C. 1.22, scrive il iyar, che aveva il valore uguale all'obolo d'argento. Le legende sul dritto e sul rovescio provano che la moneta serviva come moneta, sia occasionalmente. Il diametro corrisponde a quello delle monete di bronzo.
Sul dritto si trova l'emittente, “la corte reale”. Il rovescio da il valore numerico, il nome della moneta e il responsabile dell'emissione.
Non so se si poteva imbrogliare Caronte nella notte scura degli inferi, né so se i poveri cercavano di fare il possibile con l'imitazione in argilla. E se il becchino rimpiazzava l'argento con l'argilla, cercando di arrotondare il proprio salario per il lavoro, sgradevole e mal pagato. Caronte non se ne è mai lamentato, il morto non è tornato, dunque ha traversato lo Stige, l'abitudine di consegnare un obolo ai morti è continuata fino al Medio Evo.

Nella foto: GLO-58.1: Una tavoletta trovata nella tomba II a forma di barca, la barca di Caronte e la trascrizione: “Non c'è amicizia nella notte, è l'obolo d'argento”

Il testo integrale (in francese)

giovedì 3 settembre 2009

Il Corriere s'allea con L'Espresso contro (per ora) il friulano

Dopo il gruppo dell'Espresso, non poteva mancare il concorrente gruppo Corriere della Sera nello sbertucciamento del friulano: "Parlare "furlan" è un fiume di sprechi" annuncia il quotidiano milanese riferendo di una inchiesta del suo settimanale "Io donna". E denuncia come scandalo: "Friuli, si spendono milioni di euro per tradurre Brecht e realizzare il T9 per sms in marilenghe".
Chi vuole leggere gli sproloqui di tali Giulia Calligaro e Raffaele Oriani, lo può fare cliccando qui. Su questo blog e nella mia pagina di facebook, si è aperta una discussione dai toni spesso accesi fra chi, chissà perché, gioirebbe della scomparsa delle lingue minorizzate come il friulano e il sardo e chi naturalmente contrasta questa visione totalitaria e nazionalista. Questo è il segno, credo, che da una parte (diciamo la nostra) si è sottovalutata la virulenza del nazionalismo granditaliano che permea di sé anche la parte colta dell'opinione pubblica italiana, e dall'altra c'è in questi settori l'inconsulto terrore che il multilinguismo possa essere l'anticamera dello sfascio dello Stato.
Mi chiedo, ma si tratta di una domanda evidentemente retorica, su che cosa si fondi la cosiddetta "Unità d'Italia" e il "sentimento nazionale" che si sostiene tanto condiviso, se non sulla voglia di negare, reprimere le diversità pur garantite dalla Costituzione e sul disprezzo delle lingue non italiane parlate nelle nazionalità della Repubblica.

mercoledì 2 settembre 2009

Parchi statalisti: e i nodi s'impigliano nel pettine

Alcuni dei nodi stretti sull'ambiente sardo dalla legge che istituisce i “parchi nazionali” stanno venendo al pettine, mescolati a questioni di ordinaria politica politicante. Queste ultime riguardano lo spoil system che starebbe, secondo uno scadalizzato quotidiano, per abbattersi sul direttore del Parco dell'Asinara. Chi, al cambio di una maggioranza, fa bottino di tutti i posti di potere, non può, pena il ridicolo, indignarsi se un altra maggioranza fa lo stesso. L'unico rimpianto, se così posso dire, è che lo spoil system colpirebbe questa volta un caro amico come Carlo Forteleoni, uomo di non consueta cultura, finissimo intellettuale e tecnico di grande prestigio, nominato direttore del Parco dell'Asinara dall'allora ministro dell'Ambiente Matteoli. Ma, appunto, si tratta di un cruccio personale.
Questo parco, come quello della Maddalena, entrambi soggiacciono ad una delle leggi più accentratrici che in tempo di Repubblica siano mai state partorite da mente umana, quella di Edo Ronchi e più. È la legge 394 del 1991 che istituisce i parchi statali e regola quelli regionali e che le comunità del Gennargentu hanno da sempre contestato fino a farla fallire, naturalmente nei territori interessati al tentativo.
Dove, invece, fu applicata, come nell'Asinara e alla Maddalena, poco a poco vengono a galla il voluti difetti di fondo: l'accentramento delle decisioni in capo ad un uomo del governo italiano, nominato d'intesa fra Stato e Regione, la filosofia vincolistica da riserva indiana e la subordinazione dei parchi a scelte di schieramento politico. Quando governa il centrosinistra, il direttore è di centrosinistra, quando governa il centrodestra il direttore è nprmalmente di quello schieramento. A volte, come nel caso di Forteleoni, si tratta comunque di un bravissimo tecnico, a volte – e qui non faccio nomi – si tratta di uomini politici senza particolari competenze ambientali.
Lo si chiami spoil system o sistemazione di schieramento, così sono andate le cose. Un ente parco di nomina politica, un direttore di nomina politica, spesso fatte indipendentemente da reali e solide conoscenze dei terreni e delle comunità da amministrare nel nome del Parco. Ma a questo conduce la famigerata legge 394 e chi ne ha voluto l'applicazione non mi sembra particolarmente titolato a piangerne le conseguenze, del resto previste e prevedibili.
Certo, in più delle prevedibili possono capitare episodi, come la nomina di un commissario motu propriu del governo italiano, che non parlano di corretti rapporti fra Regione sarda e Stato. C'è chi dice che Roma non poteva procedere alla nomina del commissario straordinario del Parco nazionale dell’Asinara, Silvio Vetrano, senza intesa con la Regione. C'è chi dice che la legge non prevede intesa per la nomina di un commissario; resta il fatto che la decisione del ministro dell'Ambiente del governo Berlusconi è uno sgarbo fatto alla Regione. Il suo presidente dovrebbe segnalarlo alla sua amica di partito Prestigiacomo. E già che c'è, cominciare con lei un discorso sulla inattualità della legge 394 in tempi di federalismo annunciato.