giovedì 31 gennaio 2008

Una Santa Alleanza contro l'autogoverno

S'è creata da tempo una Santa Alleanza, trasversale, politica ma soprattutto culturale, con un pallino in testa: revocare il più possibile le autonomie regionali e comunali e restituire allo Stato centrale e al suo Governo il potere di sostituirsi ad esse. Il gacobinismo e lo statalismo di alcune forze del centro-sinistra hanno trovato alleati nel giacobinismo di intellettuali del centro-destra.
Due episodi di questi giorni: l'intervista con Radio 1 del presidente di Lega ambiente Vittorio Cogliati Dezza e l'editoriale di Angelo Panebianco sul Magazine del Corriere della sera di oggi 31 gennaio.
Il primo sostiene che c'è un "eccesso di deleghe" agli enti locali, in materia di tutela del paesaggio, che devono "tornare allo Stato centrale" perché "ci vuole invece una visione di insieme". Invoca un riequilibrio delle "tendenze federalistiche negative" (proprio così, negative) e afferma che "più i poteri decisionali sono vicini al territorio e più sono sotto le pressioni e le possibilità di influenza". Come dire che l'autonomia va bene purché non pensi di essere autonoma.
L'editorialista del Corriere: "L'autogoverno locale può esistere solo se collegato alla responsabilità". La banalità dell'affermazione non sottintende, come sarebbe giusto, il fatto che tocca agli elettori far pagare ai governanti locali la loro irresponsabilità. No: se la responsabilità "viene a mancare, anche il "privilegio" dell'autogoverno dovrebbe essere, almeno temporaneamente, sospeso". A chi toccherebbe sospendere "l'autogoverno" se non al governo centrale, quintessenza della responsabilità, come dimostrano le vicende dei governi italiani da che se ne abbia memoria. Chi avrebbe il compito di sanzionare i governi irresponsabili? L'Unione europea, l'Onu o chi altro se non gli elettori?
Cogliati Dezza e Panebianco si riconoscono in culture politiche diverse e spesso in conflitto, ma quando si tratta di esprimere disprezzo per l'autogoverno delle comunità, dalle regionali alle comunali, l'unità è presto fatta.

Sessanta annos de autonomia sarda. E mudore in totuve

Mischinedda s'autonomiedda nostra. Sessanta annos oe, 31 de ghennàrgiu, sa Costituente at aprovadu s'Istatutu sardu e nemos paret chi si nde siat amentadu. Nudda b'at (nessi finas a custu mangianu) in su situ de su Guvernu sardu, nudda in cuddu de su Cussìgiu regionale, nudda in sos giornales sardos.
Bae e chirca si carchi mastru de iscola, nessi in una bidda, at naradu a sos istudentes chi cuddu 31 de ghennàrgiu de su 1948, pròpiu a s'urtimada, sos costituentes ant postu sa Sardigna in mesu de sas regiones cun autonomia ispetziale. Carchi ora de istentu in prus e no aiamus tentu mancu custa autonomiedda de su pagu prus o mancu chi nos agatamus.
Lussu aiat naradu chi sos sardos s'isetaiant unu leone e sos costituentes (sos sardos puru, non petzi sos continentales) lis ant integradu una gatu. Mancari gasi, oe diat èssere male fatu a nàrrere chi s'autonomia, pro megianedda chi siat. no at cambiadu nudda in Sardigna. A una cosa nessi est serbida: a nos fàghere cumprèndere chi nos bisòngiat meda ma meda prus de autonomia de sa chi nos ant integradu.
Ite birgùngia, però, chi istitutziones, giornales e iscola siant faghende colare custa die sena mancu un'amentu.

lunedì 28 gennaio 2008

Carnevale per autocolonizzati

Se i nostri antenati non ci avessero lasciato maschere, inquietanti figure, bàrdias ed altri segni originali della loro civiltà irridente, temo che i nostri Carnevale sarebbero quanto di più piatto e globalizzato si possa inventare. Non c’è niente di peggio per un popolo del suo autocolonialismo, quella malattia dello spirito che lo fa colonizzato e contento di esserlo.
Seguendo servizi televisivi e articoli sui giornali, si ha l’impressione che l’inventiva di molti organizzatori di Carnevale paesani e extrapaesani si sia arresa ai modelli esterni, nel patetico tentativo di replicare sfilate viareggine o veneziane. Eppure hanno tutti, nel giro di pochi chilometri, esempi da reinventare modernamente l’originalità di una pratica carnescialesca che affonda le radici nei millenni passati e che, proprio per questo, è apprezzata in tutto il mondo.
Carri che hanno per protagonisti o Prodi o Berlusconi o Grillo o altri abitatori del bestiario politico italiano, altri che partecipano a concorsi di originalità con maschere ispirate ai cartoons americani, filate accompagnate da musiche sudamericane: la saga dell’autocolonialismo è servita. E i Carnevale sardi, la maniera autoctona di essere anticonformisti e trasgressivi, si trasformano in manifestazioni di conformismo e riverenza. Oltre che in folclore, il modo migliore per mettere in museo la cultura, le tradizioni e la civiltà di un popolo.
Oggi, ancora, si offrono vino rosso delle nostre vigne, dolci sardi, carni dei nostri salti. Ma non sarà per molto, temo. Se vincerà la concezione del mondo propria di questi organizzatori di Carnevale, non passerà molto tempo prima che siano offerti cocacola, merendineferrero, amburgermcdonald. Allora sì che saremo moderni.

martedì 22 gennaio 2008

Sequestrati "gli etruschi" di Allai

Il sopralluogo della Sovrintendenza ad Allai (vedi qui), villaggio dell’Oristanese luogo di ritrovamento di reperti che potrebbero essere etruschi, ha avuto l’esito più scontato e temuto. I carabinieri del Nucleo di protezione e tutela dei beni archeologici hanno sequestrato tutto, così come detta la cosiddetta Legge Urbani, una delle leggi più centraliste e stataliste che la modernità abbia partorito.
Al sindaco di Allai, Enzo Tonino Saba, è rimasta in mano una ricevuta con l’elenco dei beni sottratti e in mente la considerazione che lo strapotere delle Soprintendenze e dello Stato sempre più accentratore ha colpito ancora una volta una piccola comunità padrona del suo territorio e esistente alcune migliaia di anni prima che nascesse lo Stato. Neppure ha avuto il conforto di una considerazione dell’esperto etruscologo al seguito dei carabinieri che si è limitato a fotografare i reperti.
Tempo fa, il Comune di Allai presentò alla stampa, alla presenza del presidente della Provincia di Oristano e della sua commissione cultura, i reperti trovati e studiati da un antichista che li giudicò autentici. Del suo parere, del suo lavoro neppure un cenno. Il bello è che il funzionario della Sovrintendenza (Emerenziana Usai) aveva introdotto il “sopralluogo” dicendo che era lì per spirito di collaborazione. Per fortuna. Chi sa che sarebbe successo se avesse avuto uno spirito di contestazione?
Ed ora che cosa succederà del gran numero di reperti che possono benissimo essere etruschi, visto che ad Allai, vent’anni e più, fu trovata una stele etrusca, anch’essa a lungo ignorata dalla Sovrintendenza? Trascorreranno trenta anni prima che se ne riparli, così come è successo per i giganti di Monte Prama e con il santuario nuragico di Su Benatzu di Santadi? E un’altra domanda: fino a quando la Regione ad autonomia speciale della Sardegna si rassegnerà a farsi espropriare dei beni culturali che i sardi, non altri popoli dell’allora inesistente Italia, ci hanno lasciato? Un po’ di schiena dritta è proprio impossibile?

lunedì 21 gennaio 2008

Abusivismo edilizio. Il caso di Orosei

Ha fatto e continua a fare rumore su quotidiani e radio-televisioni sarde l’inizio delle demolizioni di edifici abusivi, particolarmente ad Orosei. Nella lista degli autori di abusi edilizi ci sono 44 nomi, 23 dei quali sono residenti fuori di Orosei, altri sono titolari di attività produttive di rilievo, altri proprietari di più di una casa. Questo per dire che non è generalizzabile la considerazione secondo cui, trattandosi di povera gente, è se non legittimo almeno comprensibile che si costruisca una abitazione anche fuori delle regole, abusiva appunto.

Eppure, la demolizione di questi fabbricati, comprensibile e persino giusta laddove si tratti di sporadici esempi di furbizia, non lo è nel caso di Orosei, dove, raccontano le cronache, le costruzioni abusive sono 900, in gran parte nei pressi del mare. Novecento case sono quanto bastano a 2500-3000 persone, un paese più grande Tonara, di Barumini, di Villasimius, tanto per citarne qualcuno.

Il problema, insomma, non è tanto – e comunque non soltanto – chi fa, ma chi lascia fare. Una amministrazione comunale può anche non accorgersi che in campagna qualcuno costruisca abusivamente un recinto e una baracca d’appoggio. Difficile credere che non si accorga di novecento nuove abitazioni. Per decenni, Orosei è stata zona franca per chi commetteva abusi di piccole dimensioni, in qualche modo autorizzato dai grandi abusi su cui volava la distrazione e la disattenzione di chi doveva essere attento e bloccare.

Oggi, gli abusivi a rischio di punizione sono in rivolta: non capiscono perché la legge si accanisca su di loro in una sorta di decimazione. Chiedono solidarietà alla politica. La ottengono soprattutto da chi, nei decenni passati, si è reso responsabile di questo sfascio. Ma anche – ed ecco l’aspetto più preoccupante – da amministratori che hanno sì la coscienza a posto, ma temono che il pieno rispetto della legalità incida pericolosamente sugli equilibri politici e riconsegni agli artefici del disastro la palma di difensori “del diritto della gente alla casa”.

E così, l’intero Consiglio comunale, in cui siedono responsabili del laissez faire e oppositori del permissivismo, ha minacciato alla unanimità di dimettersi in blocco se le demolizioni continuano.

Un pessimo esempio di correttezza amministrativa.

La Soprintendenza e la cancellazione del tempio nuragico di Santadi

C’era una volta un santuario nuragico, custodito in una grande grotta dalle parti di Santadi. Ora non c’è più e a distruggerlo non sono stati i tombaroli: è stata la Soprintendenza archeologica per la Sardegna. A ricordarlo sono stati, domenica 20 gennaio, due cronisti di L’Unione sarda, riferendo che a tentarne la ricostruzione sarà il Parco geominerario con lo stanziamento di duecentomila euro.

Sarà una ricostruzione sulla base di ricordi e fotografie di come la grotta di Su Benatzu era nel 1968, quando un gruppo di speleologi la esplorò. Allora fra stalattiti e stalagmiti furono trovati un bel tripode, una navicella nuragica, pugnali di bronzo e migliaia di anfore e ciotole. Avvertita, la Soprintendenza, non trovandosi di fronte a qualche resto punico, fenicio o romano, non trovò di meglio che svuotare la grotta, portar via quel che si poteva e staccare dalle concrezioni anfore e ciotole.

Del tesoro, smembrato fra il Museo di Cagliari e quelli di Carbonia e Santadi, decontestualizzato in modo che griderebbe vendetta in qualsiasi regione del mondo appena appena potabile, non si è parlato più per quaranta anni. Fino a quando non la Soprintendenza, ma un ente come il Parco geominerario ha deciso di metter fine allo scandalo e di tentare una ricostruzione – con copie degli oggetti, par di capire – dello straordinario santuario nuragico.

Lo scempio commesso quaranta anni fa dalla Soprintendenza alla Fenicia è, purtroppo, irrimediabile così come, ancora purtroppo, nessuno sarà chiamato a risponderne.

La storia negata - Il caso di Nuoro

Liceo di Nuoro. Sardegna. Gli studenti studiano la storia in un libro di testo che ignora e nega la storia degli antenati di chi studia per conoscere. Inutile cercare segni del della civiltà nuragica, dei nuraghi stessi, delle domos de jana, dei menhir, dei dolmen, delle tombe dei giganti che – lo dicono gli storici di tutto il mondo, mica i sardi – ne fanno una delle civiltà più importanti e originali.

“Sull’isola di Creta e lungo le coste sorsero – scrivono gli autori – le grandi civiltà, quella dei Fenici, dei Greci e poi dei Romani”; la Sardegna spunta qui e là come ospite dei Fenici. E i popoli del mare? “Si trattava, ma è solo un’ipotesi, di popoli provenienti dalle coste del Mediterraneo, dalla Palestina, dalla Sicilia o dalla Sardegna”. Notare la finezza di quel “o”. La citazioni del negazionismo adottato nei confronti della Sardegna potrebbero continuare a lungo.

Il testo è lì, aperto alla adozione o alla non adozione. Se un insegnante lo adotta, delle due una: o è bovinamente convinto che in Sardegna è meglio non riempire la testa dei ragazzi con elementi di storia sarda o lo sceglie – perché bello, ben illustrato o per altro – riservandosi di integrare con il suo insegnamento le deficienze del testo. Nel caso che mi interessa, è vera la prima ipotesi: all’insegnante non è scappata, neppure incidentalmente, una parola che cominciasse con sar o con nur, confida uno studente.

Né tenta di rimediare alla lacuna, che so?, chiamando un archeologo o uno studioso della civiltà nuragica. Al contrario, per meglio indottrinare i suoi alunni alla non esistenza dei nuraghi e altro ciarpame sardo, chiama a fare una conferenza un noto feniciomane. La letio magistralis è prevista fra qualche giorno e non è lecito fare il processo alle intenzioni. Forse sarà lui a dire agli alunni del Classico di Nuoro che in Sardegna, oltre ai fenici, c’erano anche sardi. E a dire, come ama ripetere, che questi sardi, intorno all’VIII secolo aC, avevano scolpito le statue di Monte Prama per dimostrare ai fenici che anche loro erano capaci. Per lui, infatti, i fenici sono la pietra al paragone di tutto. Bella scelta, professore dell’Asproni.

Che cosa farebbe, un capo di istituto, se un suo docente, poniamo in un Liceo di Canicattì, facesse le sue lezioni di storia negando l’esistenza della civiltà romana? Rispetterebbe la libertà di insegnamento o lo farebbe rinchiudere?

giovedì 17 gennaio 2008

Gli etruschi di Allai. La soprintendenza indaga

Ho avuto modo ("Tzicotu e il soprintendente", vedi qui sotto) di segnalare il cambiamento di stile del nuovo soprintendente archeologico ad interim, Azzena. Uscire dal fortino senza porte né finestre della Soprintendenza e mescolarsi con le curiosità di noi poveri mortali è un buon segnale. Ce n’è un altro (indefinibile, come dirò) che va nella direzione giusta.

Riguarda il ritrovamento nelle campagne di Allai di un piccolo giacimento di reperti che, secondo chi li ha trovati, sono riconducibili agli etruschi. Ad Allai, segnalò il professor Massimo Pittau, fu ritrovata una ventina di anni fa una stele scritta specularmente in etrusco e in latino. Denunciò allora Pittau il disinteresse della Soprintendenza. Al ritrovamento di questi nuovi reperti, la reazione di qualche archeo-burocrate, che neppure si prese la briga di andarli a vedere, fu che certamente si trattava di un falso. I cronisti locali si indignarono per questa fatua supponenza, interrogandosi sul come si potesse permettere un funzionario di bollare come falsa una cosa neppure vista.

La notizia è che, intorno al 20 gennaio, la Soprintendenza farà “un sopralluogo” ad Allai. La parola “sopralluogo” tradisce ancora una prevenzione di tipo giudiziario, quasi che il comune di Allai avesse bisogno non di esperti ma di pubblici ministeri e/o giudici per le indagini preliminari, ma già è qualcosa passare dal pregiudizio circa la falsità alla decisione di andare ad indagare.

PS. – Nessun giornalista, dei tanti cui ho spedito la notizia ("La stele di Nora? A Parigi", vedi qui sotto), che io sappia ha segnalato il trasferimento nella capitale francese di uno dei reperti più importanti della storia sarda. Né si è fatto dire se, per caso, il governo sardo fosse stato informato del prestito di un reperto che appartiene alla Sardegna e alla sua storia. Né si è premurato di sapere se questa stele (fenicia come dicono alcuni, tutta sarda come affermano altri) sia stata adeguatamente illustrata nel museo che la ospita o se sia finita nel calderone indistinto di “La Méditerranée des phéniciens”, titolo della mostra dell’Istituto del mondo arabo che la ospiterà sino al 20 aprile.

Chi sa se ai loro colleghi toscani, per dire, sarebbe passato inosservato il prestito di una stele etrusca per una mostra, che so?, sui fenici nel Mediterraneo. Io dubito che sarebbe successo. Ma, si sa, gli etruschi erano etruschi, mica fenici come i sardi.

lunedì 14 gennaio 2008

La stele di Nora? A Parigi

Se doveste, per caso, andare a vedere in questi giorni la stele di Nora, desistete. A meno che non vogliate fare un salto a Parigi. Guardando sabato scorso il telegiornale di France 24, sono stato attratto da un servizio sui fenici nel Mediterraneo, messi in mostra nella capitale francese. Ed eccola lì, la nostra stele, scolpita nel IX secolo avanti Cristo, trovata a Nora, solitamente ospitata dal Museo archeologico di Cagliari e ora finita a fare la comprimaria fenicia in terra gallica.

Chiederci chi abbia deciso di esportare un oggetto (lasciamo stare se fenicio come dicono alcuni o sardo come dicono altri) fabbricato in terra di Shardana quando non esisteva né lo stato italiano né Roma, sarebbe da ingenui. Più intrigante sarebbe sapere se il governo sardo è stato almeno informato del prestito che la sovrintendenza sarda stava facendo al museo parigino. E, se questo non è successo, se il presidente della Regione o la sua assessora alla cultura abbiano protestato.

È vero che, fino ad un nuovo Statuto che cambi l’obbrobrio, lo Stato ha competenza esclusiva in materia di beni culturali, anche quelli prodotti in Sardegna quando l’Italia non era neppure una espressione geografica, ma è anche vero che la stessa Costituzione prevede “intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali” (articolo 118, per chi volesse controllare).

Non lo so, ma vedendo quel che è successo con la subalternità (istituzionale, politica e persino di schieramento) mostrata dalla Regione sarda nella questione dei rifiuti campani smaltiti qui da noi, temo che il governo sardo neppure si è accorto che la sovrintendenza di Cagliari ha prestato un documento che parla di noi, di Shardana e di Tartesso. Non di Italia o di Roma.

lunedì 7 gennaio 2008

Alieni ad Orgosolo

Il modo usato da alcuni giornalisti – non tutti per fortuna – per riferire quanto è capitato ad Orgosolo (l’assassinio di Peppino Marotto e dei fratelli Mattana) solleva inquietanti interrogativi. Il più grave dei quali è: “Si può, in nome della libertà di stampa, correre il rischio di trasformarsi in istigatori all’omicidio?”. E l’altro, non meno angosciante: “La spettacolarizzazione di una tragedia collettiva, alla ricerca di un colpo giornalistico, può spingersi fino a calpestare sentimenti e pietas?”

Non amo le tinte forti, ma qui tento di tradurre in domande la certezza con cui tanti orgolesi ieri hanno con me contestato le prevenute certezze di alcuni giornalisti che, in questi giorni, sono piombati su un paese in piena tragedia. Cerco di sistemare la questione.

Il giorno dopo l’assassinio di Peppino Marotto, alcuni giornalisti hanno trasformato in fatto quell’impasto di dubbi, di voci, di sussurri che sempre nelle piccole comunità segue a delitti, di sangue o anche di ordinaria criminalità. Cercando di capire che cosa sia successo, all’uscita dalla chiesa, nei tzilleri, nelle case, gli abitanti cercano di tirare le fila di qual che sanno, hanno sentito, hanno immaginato. È l’inizio della formazione di una opinione collettiva che, a volte e al termine di un lungo processo, dà un nome e un volto a chi ha commesso un crimine. Non ostante quel che pensano gli alieni i quali, nel giro di una rapida visita prima di tornare in redazione, credono di aver tutto capito, in questo processo sono immersi carabinieri, poliziotti e tutti quelli che hanno il mandato di indagare. Ed essi sanno perfettamente che cosa “la gente” pensa ad alta voce.

Dare per scontato che la comunità indichi con certezza, poche ore dopo il fatto, nomi, cognomi, fisionomie è una sciocchezza. Scriverlo, come è stato fatto, persino spronando sa zustìssia ad agire, ha il risultato non solo di indicare il o i colpevoli: prepara il clima adatto e precostituisce l’ambiente ideale perché altro sangue sia sparso. Poco conta che, in realtà, non sia stato fatto sui giornali il nome di chi “la voce popolare” indicava come l’assassino di Peppino Marotto. Lo conoscevano tutti e particolarmente chi ha saputo utilizzare la messa alla pubblica gogna, soprattutto mediatica, di un individuo, per regolare suoi conti con “l’assassino di Peppino Marotto”. E due vite umane sono state così stroncate. Cosa sia successo non lo sa nessuno, per ora. L’unica cosa certa è che il clima creato mediaticamente è stato utilizzato con diabolica abilità e che, senza questa esposizione pubblica di sussurri ancora silenziosi, forse un’altra famiglia orgolese non sarebbe costretta a piangere i fratelli Mattana.

E a piangerli quasi con vergogna, posto che, mediaticamente parlando, una delle tante ipotesi di indagine (quella che indica in uno dei fratelli Mattana l’assassino di Marotto) è verità quasi acclarata. Con la dignità e il contegno che distingue una famiglia orgolese, quella dei Mattana si è chiusa queste ore in casa, evitando persino di ricevere le condoglianze dei compaesani, la cui intima voglia di capire è finita sui giornali come atto di accusa contro due congiunti, poi assassinati.

E c’è un’altra domanda: la libertà di stampa non dovrebbe riguardare la libertà di raccontare i fatti e auto regolamentarsi, evitando che i fatti siano travolti da circostanze non provate, non verificate e frutto di voci anonime?

mercoledì 2 gennaio 2008

In morte di un amico

Nutrivo un grande e profondo affetto per Peppino Marotto, ucciso una die nòdida come capita nella interminabile storia della vendetta dalle nostre parti. Gli volevo bene per la sua balentia, per il suo essere òmine, per ciò che – può darsi – lo ha portato davanti al suo assassino. I media e il suo schieramento politico lo hanno in questi giorni esaltato come un eroe, distillandone una appartenenza totale che ha finito per allontanare Peppino dal resto della sua gente, quello che non ha e non sente quella appartenenza.
Salvo poi lamentare la scarsa partecipazione degli orgolesi ai suoi funerali pubblici (la compartecipazione privata e intima è stata tutt’altra cosa) e constatare che i necrologi sui giornali sono stati singolarmente appannaggio degli apparati politico e sindacale.

L’uomo che ha speso gran parte della sua vita a promuovere la lingua sarda con bellissime poesie intime e con versi, spesso mediocri, di agitazione politica, non ha avuto in dono neppure un necrologio in sardo da chi, pure, ha esaltato quei versi come strumento di apostolato politico e sindacale.

Quando muore un personaggio come Peppino Marotto, tanto più quando è vittima di un assassino, la retorica è nella ragione delle cose e sarebbe ingiusto rammaricarsene. L’enfasi è dentro l’emozione stessa. Questa volta è successo qualcosa di più inquietante della libera stura data alla retorica. Il fatto che l’assassinio sia capitato ad Orgosolo ha fatto schierare il solito plotone armato di stereotipi, trivialità, luoghi comuni, banalità.

A comandare il plotone, il Corriere della sera ha chiamato lo scrittore bolognese di origini nuoresi Fois, il quale ha immaginato e scritto che la morte di Peppino Marotto è stata programmata ad Orgosolo da una sorta di cupola malavitosa che ha deciso come e quando eseguire la sentenza. Abituato, com’è, a scrivere di Sardegna secondo gli stereotipi che fanno più cassa, non si è forse neppure accorto che il giornale milanese gli aveva chiesto un commento su un omicidio alle falde del Gennargentu e non dell’Etna, su un fatto di banditismo e non di mafia.

Fois è iscritto alla “nouvelle vague letteraria sarda”, popolata di scrittori che si vantano di non essere sardi o di essersi dimessi da sardi e, soprattutto, che disprezzano l’uso del sardo nella scrittura. Anche se, per ragioni di schieramento, sono poi inclini a enfatizzare Peppino Marotto proclamando che egli ha dato il là al “rinascimento sardo”.