giovedì 30 ottobre 2008

Che cosa resterà della protesta studentesca?

Che cosa resterà della protesta studentesca, alla fine? Un fatto di straordinaria importanza: la riscoperta da parte di grandi masse di giovani della passione politica e, soprattutto, della possibilità che un pluralismo di idee e atteggiamenti non comporti di per sé lo scontro. Questo va al di là del fatto che, consciamente o per ripetizione di slogan di parte, troppi se la siano presa con un obiettivo sbagliato: la piccola riforma della scuola elementare e media, con qualcosa, insomma, che con l'università c'entra nulla.
Vedere moltissimi studenti alle prese con la lettura della Legge finanziaria oltre che dell'allora decreto Gelmini fa superare il fastidio dell'assistere ai tentativi di consiglieri regionali, deputati, politici antigovernativi di catturare la benevolenza dei giovani, solleticando la loro voglia di rivolta. E anche quello del vedere baroni e aspiranti baroni universitari flirtare con studenti considerati, a volte con perfida sapienza, massa di manovra per la conservazione dell'acquisito.
Ho letto di lezioni in piazza, più comizi (a stare alle frasi riportate su giornali) che dottrina e di altre che denotano la non curanza della terra in cui si esercita, quasi che si volesse accuratamente evitare di legare la protesta a ragioni di identità. Ha ragione, per dire, Andrea Lai (Ma i baroni continuano a essere intoccabili, su questo blog) a lamentare che il torto della assenza della lingua sarda nell'Università, che prende soldi dalla legge dello stato di tutela delle lingue minoritarie e da quella della Regione n. 26, non è solo dei baroni ma anche di chi doveva controllare - la Regione - e non l'ha fatto. Qualche tempo fa avrei contestato con convinzione a Lai che il Piano triennale della Regione questo sopruso ha denunciato, prevendo che d'ora in poi i soldi saranno dati non genericamente alla "cultura sarda", ma alla lingua.
Ora temo che si sia trattato di un escamotage sardistico, visto che la Regione ha preferito protestare contro i tagli della finanziaria statale anziché usare il grimaldello del nostro essere minoranza linguistica per scardinare alla radice la politica dei tagli nei confronti della scuola e dell'università sarde. Vado dicendo ogni volta che posso che le classi dirigenti sarde, da quella politica a quella intellettuale a quella sindacale, hanno indecentemente omesso di ricordare al governo italiano che la scuola di una minoranza linguistica (vedi il Sud Tirolo) non può essere trattata come la scuola della maggioranza linguistica italiana. E di pretendere, quindi, il rispetto concreto di tale condizione peculiare. Si è al massimo lamentata del fatto che i tagli influiranno sulla tenuta dei piccoli paesi, una peculiarità (l'unica prospettata) che tale non è: sono 2800 i piccoli centri a rischio in tutto il territorio della Repubblica.
Io spero che alla fine di questa bella loro riscoperta della politica, i giovani sardi sapranno presentare il conto sia ai partiti che oggi (alla vigilia delle elezioni europee) li corteggiano sia all'insieme della politica che di loro ha fatto a meno per lunghissimi anni sia di quelli dei loro professori che per difendere "s'issoro" li hanno portati sull'orlo della desardizzazione più completa. Magari usando i soldi che lo Stato e la Regione ha dato loro per suscitare stima nella lingua e nella cultura sarda.

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