martedì 27 settembre 2011

Sugli “Archeologi pugilatori”

di Massimo Pittau

Rispondo innanzi tutto a due miei amici che, dopo il mio intervento precedente, mi hanno telefonato.

1) Uno mi ha detto che il «paramano» della spada si chiama «elsa» e non «guaina». Ha ragione, io ero distratto.

2) Il secondo mi chiesto che cosa io pensi del bronzetto di Dorgali, che raffigura un individuo che si mette sul capo un oggetto pieghevole e che per primo è stato definito «Pugilatore», che si starebbe difendendo dai colpi dell’avversario ponendosi sul capo lo scudo. Io comincio col far notare che uno scudo di guerriero è sempre qualcosa di rigido, mentre non è mai flessibile e debole come un panno. In secondo luogo premetto che tutti, dico tutti i bronzetti nuragici hanno un esclusivo valore religioso, dato che non erano altro che ex voto che i fedeli donavano a una divinità o per chiedere una grazia o per ringraziarla per averla già concessa. Secondo me il bronzetto di Dorgali raffigua un fedele che, accostandosi alla divinità, si mette sul capo un panno in segno di deferenza alla divinità stessa. Esattamente come facevano i sacerdoti etruschi, latini e anche di popoli orientali quando effettuavano un sacrificio o entravano in un tempio. Anche nell’ambito del Cristianesimo, fino a un cinquantennio fa, le donne che entravano in una chiesa si mettevano in testa almeno una pezzuola.

3) Evidentemente gli “archeologi pugilatori” nostrani (cominciamo a chiamarli in codesto modo) non hanno mai visto, neppure in televisione, un incontro di pugilato. Se l’avessero visto, avrebbero notato che, quando un pugile si trova in difficoltà di fronte all’avversario, si copre con entrambi i guantoni il viso e il collo – che sono i suoi punti deboli -, mentre nessuno mai si copre il capo con uno o due guantoni per ripararsi da pugni che nessun pugile ha mai dato picchiando dall’alto in basso sulla sommità del capo dell’avversario.

4) L’architetto Franco Laner, facendo semplicemente il suo mestiere, ha dimostrato che le statue di pietra o marmo possono resistere al peso soltanto a patto che questo cada in senso perfettamente perpendicolare; tanto è vero che tutti i Giganti di Monte Prama hanno le due gambe perfettamente perpendicolari e parallele. E invece il Laboratorio di restauro di Sassari dove sono ancora le statue, ha esposto due grandi disegni di due guerrieri che hanno le gambe divaricate, ossia né parallele né perpendicolari, tanto che sembra che facciano la pipì e temano di sporcarsi i calzari. Inoltre la ricostruzione effettuata di qualche statua non solamente falsifica l’esatta direzione delle linee dei frammenti, ma va pure contro le leggi della statica, rispetto a supposti scudi che, se fossero stati veramente tali, sarebbero crollati per il loro grande peso.

Infine i guerrieri dei due disegni hanno un elmo fornito di due lunghissime corna, che sembrano zanne di elefante. Ma come sarebbe stato possibile questo con la friabile pietra arenaria di cui sono fatte tutte le statue?

5) Fanco Laner ha fatto un accenno benevolo alla mia solita “ironia”, ma non è stato esatto in questo; la mia non è “ironia”, bensì è “mortificazione”, grande mortificazione di fronte alle balordaggini che migliaia di alunni delle scuole sarde e centinaia di turisti forestieri odono tutte le volte che entrano in un museo o visitano un sito archeologico della Sardegna, con l’illustrazione delle guide imbeccate dagli archeologi ufficiali: la balordaggine dei “guerrieri pugilatori”, la balordaggine dei pugilatori che si difendono con lo scudo flessibile, la balordaggine delle prese di luce e d’aria dei nuraghi spacciate per “feritoie” attraverso cui i Nuragici avrebbero “sparato le loro frecce e i loro proiettili”, la balordaggine della “garitta della sentinella” che avrebbe atteso, all’ingresso del nuraghe, che vi entrassero i nemici per ucciderli uno dopo l’altro.
E lo ripeto: ma i Nuragici erano degli “imbecilli” oppure ....?

lunedì 26 settembre 2011

L’isola dei demòni

di Mikkelj Tzoroddu


Sollecitato dalla fantasia dell’egregio Pilloni, mi sono dovuto documentare sul mondo delle isole. Ne ho identificato una, davvero interessante e piena di sorprese, diversa da quella, così copiosamente fornita di particolari, descritta da Francu. O forse è la stessa? Forse cambia soltanto il punto d’osservazione? Di questa isola (circondata da tante altre) voglio intanto descrivere la nascita. Nel momento in cui essa emise il primo vagito esistevano di già tante isole, ben formate in tutta la loro possanza ed essenza, da moltissimi secoli e quindi fornite di meccanismi ben collaudati, quali il senso dello stato, il rispetto delle leggi da parte di tutti, un innato senso civico, il rispetto del prossimo. La sfortuna della nostra isola, che fu poi chiamata l’isola dei biscotti (duri come pietre), fu di non esser nata isola e di non poterlo mai diventare. Però, essa aveva prinzeugen, il nobile cavaliere, che andò a combattere in difesa di una isola vera (adagiata sulle sponde di un bellissimo fiume blu) dall’assalto di altri isolani, davvero mostruosi e pressoché imbattibili nel corpo a corpo, avendo il dono di possedere otto mani: infatti in poco più di mille anni avevano conquistato un’isola grande quanto la metà del mondo. Ora, accadde che nella circostanza, questi ottomani venissero sconfitti proprio dal grandissimo soldato della nascente isola dei biscotti. Allora, riconoscente, la isola vera (insieme alle altre che governavano il mondo) concesse all’isola del soldato (governata dal cugino), di possedere la più grande isola del mediterraneo, la quale dopo un passato fra i più fulgidi che si ricordi a memoria d’uomo paleolitico, era caduta in depressione. Ma, il vero regalo per l’isola dei biscotti (i quali di li a poco avrebbero preso il nome di savoiardi) era costituito dal fatto che la più grande isola del mediterraneo portava in dote un titolo che l’isola dei biscotti non si sarebbe mai nemmeno sognata di possedere. Esso, era titolo esclusivo delle più grandi isole: il regno. Fu così che l’isola del nulla, pardon, dei biscotti, divenne regno con il nome di isola più grande del mediterraneo. Ora, si sa che nella storia e nella vita le scorciatoie portano disastri, infatti, questi regali non erano sufficienti a rendere l’isola dei biscotti un’isola all’altezza delle altre. Mancava tutta l’esperienza plurisecolare maturata in tutte le discipline umanistiche e scientifiche, di già sostanzioso bagaglio delle vere isole. Per questo motivo si verificò ciò che vediamo accadere nelle aule universitarie, ove una persona senza meriti venga posta ad elargire l’insegnamento che non è in grado di riversare: il meschino è continua vittima dei lazzi di discenti e colleghi e persino dei sagaci lettori che si avventurino nella lettura del contenuto ameno di loro libri. Anche la nostra isola dal titolo posticcio, fu vittima dei soprusi delle isole vere e ciò accade ancora oggi a distanza di tre secoli. Nel frattempo, la nuova isola “regno” si evolse, ebbe i suoi movimenti e, ad un certo punto vi prese il sopravvento una congrega conosciuta come i falsi e cortesi. 

domenica 25 settembre 2011

Emporio fenicio di Tharros: still missing

di Stella del Mattino e della Sera
Continuano senza successo le ricerche dell’ emporio fenicio di Tharros. Nonostante gli encomiabili sforzi degli scavatori, di oggi di ieri e di sempre, l’ ostinato mercatino non salta fuori. Difficile valutare spinose questioni: c’ era concorrenza o sinergia con quello di sant’ Imbenia del lunedì? O era forse consorziato con quello di Nurdole? Gli scienziati non si pronunciano. Il coinvolgimento dei centri summenzionati pare innegabile, ne fa testo il ritrovamento in entrambi di due scarabei egizi, come ci racconta Raimondo “Momo” Zucca, in una intervista esclusiva:  “Questo emporio fenicio di Tharros dovrebbe essere responsabile della diffusione nel «cantone» nuragico del Campidano di San Marco de Sinis del prestigioso scaraboide della tomba XXV di Monte Prama, uno dei pochi aegyptiaká attestati in centri indigeni sardi, assieme agli scarabei egizi  dell’empórion di Sant’Imbenia e del santuario nuragico di Nurdole-Orani”.  Io: “Ma quale emporio fenicio di Tharros, se ancora non lo avete localizzato?” . Zucca:” Appare plausibile che lo scalo portuale tharrense si debba individuare nel bacino occidentale della laguna di Mistras, delimitato dalla lingua sabbiosa di Sa Mistraredda.  Se tale situazione di scalo rimontasse, come è possibile, già all’Età del Bronzo Recente-Finale e alla Prima Età del Ferro, apparirebbe possibile ricercare l’empórion fenicio in ambito indigeno a monte del bacino occidentale di Mistras.” Io: “Ma non le pare azzardato sostenere che lo scarabeo di Monti Pramma, di recente ridatato al XII-XI secolo, sia stato diffuso da un emporio di cui non conoscete l’ esistenza? E non le pare strano che sia stato trovato uno scarabeo egizio nel santuario nuragico di Nurdole?”. Zucca “No”.
Nel frattempo si intensifica l’ azione del GCS&A (gruppo Cialtroni Sardi & Affini), contro il renaming del golfo di Oristano in “Golfo dei Fenici”. Essi si dicono in particolar modo esterrefatti dalla cartina del “ popolamento del Sinis nella seconda metà del II millennio a.C. (carta a sinistra) e nei
primi secoli del I millennio a.C. (carta a destra) “ di recente pubblicata in Tharros Felix IV. Il GCS&A ha inviato una lettera di protesta al sindaco di Tharros richiedendo, su solide basi cartografiche, il renaming dell’ area in “Bimare dei Nuraghi”. Come finirà?

venerdì 23 settembre 2011

Il rame e la rigenerazione della vita


di Giorgio Valdes

L’introduzione della lavorazione del rame in Sardegna si fa risalire al 2800/2700 a.C. circa e pertanto in corrispondenza della fine del neolitico recente e della cultura di Ozieri.
I Pelasgi chiamavano il rame pacur o bacur, parole che non presentano alcuna affinità con il termine sardo ràmini o con quelli in uso tempo fa, come:  ràmine, arramini, ramu (dal vocabolario del canonico Giovanni Spano), ma che possono invece ricollegarsi alla parola tardo latina cuprum (precedentemente chiamato aes), che rimanda all’isola di Cipro, uno dei più importanti luoghi di estrazione, talché i romani usavano chiamare il metallo proveniente da quell’isola come aes cyprium o aes cuprum.
E’ opinione diffusa, specie tra i cultori del classicismo ad ogni costo, che la parola rame origini dal latino parlato aramen, a sua volta derivato dalla citata parola aes.
Ma a parte la radice aes, da dove è saltato fuori il suffisso ramen?
Non solo, ma è credibile che i sardi, i quali conoscevano questo metallo e la sua lavorazione quanto meno dagli inizi del terzo millennio a.C., non gli avessero assegnato alcun nome, aspettando che fossero i latini ad attribuirglielo, più di 2000 anni più tardi ?
Si tratta ovviamente di una tesi poco credibile e quindi, per prospettare un’ipotesi più realistica sull’origine del vocabolo, occorre fare una piccola digressione, osservando che nello stesso periodo della  presunta comparsa in Sardegna di questo metallo, in Egitto terminava il periodo predinastico ed iniziava quello dell’Antico Regno  (III dinastia).

giovedì 22 settembre 2011

SENZA TITOLO

di Francu Pilloni

Lo scritto esce senza titolo, perché il padrone del blog è attualmente “distratto” per così dire da altre incombenze. Gli avrei suggerito due titoli, “Un perdente di successo” e “L’isola dei cani”, per lasciargli la responsabilità di decidere. F.P.

Per iniziare a capirci, occorre tener presente che i suoni che escono di bocca come parole possono avere significato diverso a diverse latitudini e longitudini, così come hors in Italia non fa pensare certo al cavallo, così “isola”, nel nostro caso, è ciascuna popolazione che si è data liberamente delle regole, indipendentemente dal fatto che i confini del suo territorio siano bagnati o asciutti, mentre “penisola” è un’isola anch’essa che, come nave in porto, è indiscutibilmente ancorata e assicurata ben strettamente con “altro”, in modo tale che ne vengono pregiudicati i movimenti.
Mi pare significativo il parallelo dell’Italia con l’Europa.
Allo stesso modo è “cane” ogni individuo con più o meno zampe che si ritrova un guinzaglio al collo con terminale in mani altrui, talché ogni volta che altri muove la mano il “cane” muove la testa per dire sì ovvero no, secondo bisogno.
Quando un “cane” simula di aver perso il guinzaglio, dice di se stesso di essere un “responsabile”.
In conseguenza di queste precisazioni, non è detto che nell’isola dei cani vivano solamente dei quadrupedi latranti, ma vi prosperano anche bipedi che guaiscono e nutrono tribù di pulci che, anche nell’isola, sono parassiti saltellanti, identici in tutto e per tutto al conosciuto.
Quanto al “perdente di successo” niente da spiegare se non il fatto che il perdente sono io, Maggiore Polli dei Servizi Segreti Deviati, colui che ha giocato a essere contro una prima volta, l’ha confermato con fatuità una seconda, s’è ostinato per una terza, rovinando in tal modo la statistica di gradimento del Premier che si è fermata al 99, 999 per cento. Sono diventato così il ricercato n. 1, oggetto di ludibrio e di sarcasmo, comunque l’incompreso che non si è arreso e che, per forza di cose, è diventato celebre quando il Capo del Governo dell’Isola confezionò un Decreto Legge ad personam, esiliandomi per incompatibilità ambientale.

mercoledì 21 settembre 2011

Franco Laner presenta SA´ENA

Origine del toponimo Bonarcado

di Massimo Pittau

Bonarcado (Bonárcado) (villaggio del Montiferro in provincia di Oristano). L’abitante Bonarcadesu.-

Se non conoscessimo le forme che questo toponimo ha avuto in epoca medioevale, sarebbe impossibile a chiunque prospettarne una etimologia esatta. Ebbene, queste forme sono Bonarcanto, Bonarchanto, Bonarkanto, Bonarckanto del Condaghe di Santa Maria di Bonarcado(ad es. num. 172), le quali riportano con sicurezza al greco bizantino Panáchrantos «Tutta pura, Purissima, Immacolata», attributo della Vergine Maria, la quale è venerata in un piccolo santuario del villaggio, che risale all'epoca bizantina (LCSB 34).
Per il vero questo vocabolo greco-bizantino, non più compreso dai Sardi, è stato da loro sottoposto a una paretimologia ed interpretato come Monarcatu«Monarcato» (perfino il citato condaghe è intitolato in questo modo) e Bon'accattu «buon accatto o ritrovamento» (DICS I 117), quest'ultima denominazione riferita alla leggenda del rinvenimento del simulacro della Vergine fra i cespugli che circondano il santuario.-
Ovviamente il villaggio è citato numerosissime volte nel condaghe che prende nome dal santuario, anche come Bonarcatu, Vonarcatu, Bonarcadu, ecc. E numerose volte è pure ricordato nel Codex Dilomaticus Sardiniae (CDS)e nel Codice Diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna (CDSS). Ancora parecchie volte è citato fra le parrocchie della diocesi di Arborea che nella metà del sec. XIV versavano le decime alla curia romana (RDS). Ed ovviamente è citato nella Chorographia Sardiniae (194.13) di G. F. Fara (anni 1580-1589) come oppidum Bonarcadi.**

**Estratto dall'opera di M. Pittau, "I Toponimi della Sardegna (2)" - I Macrotoponimi, Sassari 2011, Edit. EDES (pagg. 785-786).