venerdì 7 gennaio 2011

Sa morte de sas atidadoras

de Larentu Pusceddu

Su mudimine inghiriat su mortu. Si ascurtas chin atentzione intendes sos pensamentos de sas pessones de s'inghiriu. Peri sos tunchios paret chi apan unu significcu. A bortas sintzeros, bessidos dae su coro; ateros fartzos intzidiados dae su teatru de sa morte. Sos bichinos e connoschentes osserban atentos cada moimentu, cada tzinnida de sos ocros de sos custrintos, cada respiru, cada isulfida. Un'antziana parente, chi sa morte galu no at chircadu, setida che una matrona, paret un'istatua.
Tando arrivat su preidereddu. Etat s'abasanta, lezet carchi passu de sa bibbia e si ch'andat. Sos frores in pes de mortu sun infustos e inutiles, destinados a s'allepizu. Como sun sos preideros poetas a versos isortos, chena sentidu e passione, sos eredes de sas atitadoras, cantadoras chi an apidu in dode, su donu de sa paraula e de sa poesia improvisada. Cantas diferentzia dae sos ritos de chimbant'annos fachet. Tando sus mortoriu ait regulas chi non faddian. Riccu o poveru, onestu o bandidu, femina o omine, betzu o criattura, aian su dirittu a sas paraulas, a sas cantones de s'atitadora.
Tando s'inghiriu fit una corona niedda de parentes aposentados in s'iscuru. Arrivat sa cantadora e cun versos a quartinas retrogadas pesat sos bantidos de su mortu, su dolore chi lassat, sos orfanos abandonados, sa balla isfidiada, sa betzesa fatale, sa traschia de su dolore. E in sas rimas b'at semper paraulas de bantidu peri pro su furone, a su mortore, a su galeristu mortu in sa presone. Differentzias? Sa sintzeridade de su dolore aunzadu dae s'atitu. Urulos chi si pesan a su chelu. Sas feminas s'abanzan, si ch'istratzan sos pilos e s'iscuden sas cossas. Sos omines faeddan a s'iscusia e contan de sa vida de su mortu.
Arrivat a murrunzu su vicariu, cun sa cara prus murina de sa morte. Etat s'abasanta, ma non lezet sa bibbia, preicat contra sos usos paganos de s'anticoriu de custa terra antica. S'abasanta infudet solu su baule. E preica oe, preica cras, sun resessidos a ch'isperder sas atitadoras, comente su diluviu at isperdidu in sa terra sos peccadores mannos. Osserbo su ch'est oe e penso a su chi fit deris. B'est sa diferentzia, manna cantu su coro de s'umanidade. Oe su prantu secretu non accrarat su dolore, su cantu anticu non consolas sas animas addolortzidas e sas precadorias sun murmutos de riu istiale, mesu siccu. Fit menzus tanto? Est menzus oe? Sa risposta la podides dare vois.
Pro mene est una sola: sa morte cheret pranta, patida e rispettada e cantada cun amore, chena fartzitudine.

La lingua friulana e il giacobino pentito

Qualcuno, forse, ricorderà il rumore fatto nell'agosto del 2009 da un articolo di L'Espresso, partito lancia in resta contro il “dialetto” friulano, con contorno di altrui sciocchezze sul sardo e sulle altre lingue tutelate sì dalla Repubblica ma non dai radical chic. Solo in questo blog, le bestialità del settimanale si ebbero un centinaio di commenti. L'articolo aveva come occhiello “Follie federaliste” e per autore Tommaso Cerno, sloveno-friulano. Ebbene – ed è per questo che vale la riesumazione – Cerno ha deciso di tradurre in friulano, per l'occasione nobilitato come lingua, un suo romanzo in italiano.
Cerno conosce il friulano ed è coautore, insieme ad un suo zio appassionato di quella lingua, della traduzione. Segnalo l'episodio come un esempio di resipiscenza che potrebbe far da modello a tanti nostri scrittori. Nel testo friulano egli ha visto qualcosa di nuovo, di originale, come ha detto in una intervista, qualcosa che poteva, secondo la sua sensibilità, servire al friulano e al Friuli per guardare avanti. Gli amici friulani che mi hanno segnalato il dietro front del giornalista di L'Espresso forse non saranno contenti di questo mio giudizio benevolo e ne avrebbero il diritto: il suo articolo anti “dialetto”, pubblicato su uno dei settimanali più influenti a sinistra e, per complesso di inferiorità, a destra, è stato apripista in Friuli di una canea contro la tutela della lingua friulana.
Questa, secondo la scuola di pensiero di cui il Cerno è epigono, dovrebbe “essere coltivata nell’ambito familiare privato e nelle osterie o al massimo con la pubblicazione di tanto in tanto di un bel romanzo. Per costoro ogni altra iniziativa magari con impegno di risorse pubbliche (come la tabellonistica stradale con le indicazioni anche in friulano) è inutile, uno spreco di risorse, per taluni anche blasfema (Alberto Fabris su Il Messaggero veneto, 4 gennaio). Qualcosa, insomma, che ben conosciamo anche qui da noi. Perdonino gli amici friulani, ma siamo ancora in clima di festa e di predisposizione alla bontà. In fondo, la loro indignazione per le bestialità scritte potrebbe averne redento l'autore. E, chi sa?, mostrato una strada percorribile da altri.

giovedì 6 gennaio 2011

Cavallette e orgoglio ferito

di Augusto Secchi

Un ramo dell'albero deradicato di Irs ha fatto sapere che non fa più parte di quell'albero. L'altro ramo, dopo aver vestito i panni chiassosi di Assange, è in attesa di rilanciare. Il popolo degli amareggiati, come sempre quando c'è una scissione, deve mettersi il cuore in pace e decidere da che parte stare. Questo, verosimilmente, è il pensiero che circola nella testa dei due rami.
Nella testa dei disincantati il cervello - lo dice la storia di altre scissioni - gira diversamente. A volte, prima di riprendersi da quel disincanto, passano anni a flagellarsi nel limbo della delusione e dello scoramento. Spesso, invece, vanno a rimpolpare quella grande schiera di schede elettorali immacolate.
E poi, alla prossima tornata elettorale, dovranno sorbirsi gli appelli degli intellettuali, dei candidati e dei duri e puri che, novelli Gramsci, li inviteranno a parteggiare, impegnarsi, trasfondere il proprio sangue in difesa di un'idea. Un'idea che loro, questo si dimenticheranno di dirlo, hanno calpestato in nome di qualcosa su cui non mi soffermerò perché non ho voglia di rimestare il pastone fatto di: «Io sono per questo, e io per quest'altro, noi eravamo per una strategia senza capipopolo, e noi per una che andasse in mezzo alla gente eccetera eccetera». Entrambi, su questo sono prodigiosamente affiatati, hanno disperso tutto ciò che hanno creato con puerili: «Io con quello? Mai!».
È una triste verità, bisogna ammetterlo, forse un flagello che ci è arrivato con le cavallette dell'Apologo del giudice bandito o, come in molti amano ripetere, con il cavallo di Carlo Quinto dipinto da Tiziano. Ciò che non sono riusciti a capire è che assieme a quei consensi ottenuti con fatica hanno perso, tutti, in credibilità. Incapaci di mettersi d'accordo partendo dal solido tronco di un'idea comune, non potranno certamente ritrovare, nei loro sostenitori sconfortati, tutta quell'energia che hanno dilapidato sollevando, come gli istrici, gli aculei e l'animosità del loro orgoglio ferito.

martedì 4 gennaio 2011

I pastori, l’immondezza e gli extracomunitari

di Francu Pilloni

Cosa c’entrano i pastori, i pastori sardi in specie, con l’immondezza?
Niente e molto.
Niente, perché poco o nulla hanno a che fare col problema dei rifiuti solidi urbani delle città;
molto, perché da millenni traducono naturalmente in buon letame tutti i rifiuti che producono.
E cosa c’entra allora l’immondezza con gli extracomunitari?
Dipende dai punti di vista.
Infatti gli extracomunitari nella maggior parte delle volte vengono gettati sulle nostre coste dal mare; i rifiuti, specialmente quelli più pericolosi, notoriamente vengono gettati nel mare.
È vero che esiste una scuola di pensiero che vedrebbe bene gli extracomunitari rigettati nel mare (la teoria dei respingimenti), un auspicio tipo “Iddio me li tolga dai piedi” e poi succeda quello che Iddio ha deciso per gli umani. Una teoria localmente abbinata e parallela a quella che prevede per i rifiuti tossici l’auspicio di “Iddio me li tolga dai piedi”, vadano dove devono andare o, poeticamente espresso, come la povera foglia frale trascinata dal vento che, è appurato, è sempre di tramontana, da nord verso sud.
Vi è ancora una similitudine fra l’immondizia e gli extracomunitari ed è questa: una volta accertatane l’esistenza, si impacchetta il tutto, si carica su mezzi gommati e si porta là dove deve essere scaricato, peraltro non senza causare malumori o proteste.
A questo punto termina l’analogia e inizia la sottile distinzione: per l’immondezza le grida esprimono rifiuto per aver ricevuto lo scarico vicino ai centri abitati di loro interesse; per gli extracomunitari esprimono rabbia e indignazione perché non ne hanno scaricato abbastanza nei centri di loro interesse.
E questo succede perché, ecco di nuovo l’affinità, se è un business l’immondezza per chi l’accoglie e per chi la ricicla, allo stesso modo è un business l’accoglienza e il ricircolo dell’extracomunitario.
Ma allora i pastori, quelli sardi in particolare, c’entrano almeno qualcosa con gli extracomunitari?
Per lo Stato, quello italiano s’intende, sì e non.
Sì, perché quando sbarcano trovano qualcuno delle forze dell’ordine pronto a riceverli.
Non, perché agli extracomunitari porgono subito generi di conforto e consegnano loro vestiti e scarpe decenti; ai pastori, a quelli sardi nello specifico, porgono invece un assaggio di manganello per far capire di che pasta è fatta la Patria e chi detta le sue leggi. In questo modo, Cicerone docet, seppure non più mastrucati, i pastori ripercorrono emotivamente le vicissitudini dei testi d’accusa di Scauro, vengono espoliati non solo della loro fiera dignità ma dei diritti basilari di cittadinanza democratica.
Eppure avevano toccato terra a Civitavecchia, non a Bandar ‘Abbàs.

Ma a me, di tutto questo, cosa importa?
Non sono pastore, non sono immondezza, non sono extracomunitario. Sono solamente un sardo e non mi muovo da qua. Soprattutto un sardo avvilito sono. E se mi dovessi muovere… Dio mio, se mi muovo!

lunedì 3 gennaio 2011

Le bollicine di Norace

di Efisio Loi

Deve essere stato il “cenone”, bisogna che mi rassegni e mi limiti nel mangiare e nel bere, soprattutto di notte. Fatto sta che, gira e rigira fra le lenzuola, “intr’ ‘e billa e sonnu”, in stato semicomatoso, quando l’arsura ti fa intravedere polle di acqua fresca a cui inutilmente aneli, poco prima dell’alba, mi compare, calice in una mano e “magnum” nell’altra, proprio lui, Norace. A giudicare dall’abbigliamento e dall’andatura da marinaro sulla tolda durante una tempesta, anche egli doveva essere reduce di un festino di fine anno. Chi sa l’arrivo di quale anno festeggiava e chi sa con chi.
Intendias is novas de su Palatziu?” Mi apostrofa come saluto; la elle rotacizzata alla francese, mi fa capire che voglia mettermi a mio agio parlandomi in isilese. “Custa ‘orta, is novas non funti malas” continua facendomi cenno colla bottiglia, se per caso gradissi, “Totus is famìllias – riempie il bicchiere e se lo beve, con aria ispirata, lasciandomi a bocca asciutta – totus is famillias, in custa’ diis, ant arriciu de sa Regioni Autonoma De Sa Sardinnia, a frimma de su Presidenti Ugo Cappellacci, cun is augurius suus, una lìttera intitulada ‘La Regione per te, tu per la Sardegna’. M’as a nàrriri, arratza de novidadi: is elezionis funt acanta, seus in tempus de festas e po arriri no’ ant a bòlliri a dhis ponniri su pei in brenti. Tenis arrexoni, perou castiadia su de tres de is cìncui grandu’ ‘temas’ chi funti de importu mannu po sa terra nosta e donniunu, apitzus de custus temas, podit fari meda impenniendusia su prus chi podit. Dhu at iscritu: “RISCOPRI IL MITO DELLA SARDEGNA”. Non m’as a narri chi est pagu?
Ehia, non nci at abbisòngiu chi fuedhis, ti dhu lìgiu in faci su chi ses pentzendi: ca una cosa est sa propaganda, ateru est a dhas fari, is cosas. Ma fintzas a immoi, candu mai est sutzèdiu chi storia, tradizione, lingua, patrimonio culturale, dhus apant amostaus che ainas po ndi ‘ogari treballu e arrichesa? Pentzadia pagu pagu: storia, costumàntzias, cultura, non si podint acostar’a su dinari, a su bendi e còmpora, iat a essiri cumenti a pònniri a deus cun margiani. De candu s’agatat omini, dònnia cosa at tentu unu prètziu, e chini at bendiu e chini at comporau. Ma po non pagar’a caru o po ndi tenniri a gratis, anti incumentzau a acapiari is canis a sartitzu narendudidhis ca, de-i cussu sartitzu, non faiat a ndi papari.
Castiadia unu pagu a gir’ a giru e naramia chini funti cussus chi faint su prus burdellu mannu contras a sa mercificazione de sa cultura. Non funti propriu cussus chi finzas a oi anti tentu in poderi sa cultura e sa storia? Su chi mi fait prus crosidadi, perou, funti is calledhus chi ‘olint abarrai acapiaus a sartitzu; a narri sa beridadi, is chi apedhant de prusu funti propriu custus; is caporionis dhus intzullint feti. Est berus puru ca sa cosa, candu si nci girat a  'polìtica', arrennescit che mellus arma contras a su guvernu e, a su chi biu, is printzipalis de is partidus contrarius inci àviant fintzas a crobetura po s’amostar’inpari cun is piciochedhus.
Sa bella esti ca, po ndi sciri e chini tenit arrexoni e chini no’, at a tocar’ a abetari a longu meda. Po immoi si ndi podit iscerai feti unu morighingiu, auma auma, de is chi non bolint a cambiari nudha de cument’est posta sa cosa; genti chi, fintzas a pagu tempus, fiat totu unu bocimia ca t'òciu, immoi cicat de si ponnir’ inparis po obiari a su cambiamentu. Baborcu puru, totunduna, s’est postu a fari s’aconciacollas, cichendu de parar’òbias a su Padanu chi megat de dhi fari fracheta in totu su nord de s’Italia. Po mori chi at iscorriau cun Fini, un’atru chi a cambiari no’ dh’andat meda, su Cavalleri est torrendi a si giostrari a Casini cun s’agiudu de calancunu munsennori.
Su fat’istada ca, seghendidha a crutzu, dusu funti is cumonis chi si dha megant de giogar’a manu a manu. In s’unu e in s’ateru si dhui podit agatari genti vadosa e burrumballa ma sa cosa prus curiosa est ca totus e-a i’ dusu, si dichiarant po su cambiamentu ca sa genti cumuna ‘olit cambiari e bastat e de aici, is chi funti a favori de lassari totu cument’esti, nci arrennescint a ndi dha tirari a part’insoru.
M’as a narriri: ‘E a nosu ita sind’importada? Chi si scorrint s’unu cun s’atru, ca nos’atrus s’arrangiaus po contu nostu’. Ca ehi’, ca ehi’… Atentzioni perou, est a biri cumenti s’arrangiaus.”
Nel dire così si siede a pie’ di letto con un sospiro e si versa un altro calice. Accavalla le gambe, beve un sorso e schiocca la lingua (le “bollicine” devono essere di suo gradimento) prima di continuare:
Dhui seus imbodhiaus che is macarronis de Pauli, in custu trumentu malu e non fait a narri s’impichinti, ca seus acapiaus a sa propriu funi e non feti de centucincuant’annus a-i custu chi est intrendi, ma de prima meda e, po sindi scapiari deunudotu, at a tocar’ a dha trumentar’ ancora a longu.
Po parti mia, ndi seu cotu e istracotu de cosas aici. No’ iscastant meda de su chi fut sutzediu a is tempus nostus, candu iant incumentzau a far’a crantus is ‘menhir’, cumenti dhis narais bosatrus, po ndi pesari ‘tumbas’ e ‘nuraxis’ (funti sempri fuedhus de ‘osatrus) e ‘is intelletualis’ non fuant totus a un’origa. Pagu mali ca tandu sa genti non fut’amalesada e abbastanta unus cantu brebus a trotu po ndi dha torrar’ a corti. Tandus puru, perou, asuta asuta, ndi dhu aiat chi poniat fogu e, prus che a totu, sa genti, candu est abituada a una cosa, no’est facili a ndiha spicigai de su connotu po dh’ obbrigari a far’atras cosas.  
Fortuna etotu ca is sinnus de tenniri a contu non cambianta de una di’ a s’atra cumenti sutzedit immoi ca parit obbrigatoriu a cambiari pedhi cument'e a su coloru, de un’ora a s’atra. In s’antigoriu de is tempus mius, candu unu stedhu sindi sparessiat a sa vista e non torrada a bessiri, donnia notti, cumenti iat fatu po milla e mill’annus, o candu su soli invecias de abarrari frimu cun is istedhus chi dh’acumpangianta in sa bessida, cambiendudidhus sempri a su propriu modu aintru de s’annu, sindi scostiada prus’ e prusu cun s’andari de su tempus, tandu giai ca sa cosa fut gravi. Po ti ndi donai un’idea, pentza a candu nd’est arrutu su muru de Berlinu: funti passaus prus de bint’annusu e ancora si nd’intendidi su dorrocu, sentza de isciri cumenti at a andar’a acabbari.
Non fait a pentzari ca su chi est sutzedendu in bixinau non si pertochidi, candu totu su mundu est totu unu bixinau feti. Cun chini s’at a cumbenniri a istari? Cun chini bolit cambiari o cun chini bolit lassar’is cosas aici cumenti funti etotu? E cal’est su cambiamentu? Cumenti eus a fari po non si fari pigar’a cixiri?
Iat a parri custa sa chistioni de importu pru’ mannu – E intanto si versava il terzo bicchiere mentre io lo guardavo incantato e sbalordito (e sì, che mi ci dovrei essere abituato!) da non accorgermi che un certo chiarore cominciava a trapelare dagli scurini accostati – iat a parri ca bessius de-i custu disatinu de innui nd’est propiu fintzas e Berlusconi cun totu sa crisi ‘globali’, totu torrit a girari cumenti s’ispetada. Ma no’ est aici. Nci at atru chi…”
Non terminò la frase che il gallo cantò e “Nuraxiscu” dileguò con gli annessi e connessi relitti della ‘festa’, lasciandomi con la bocca e la mente impastate.

giovedì 30 dicembre 2010

Auguri a tutti, ma soprattutto alla lingua sarda

L'anno si conclude con brutte notizie dal mondo variegato dell'indipendentismo sardo (nazionalista, sardista, non nazionalista). Non penso solo alla implosione di iRS, certo il fenomeno più rumoroso, ma alla più generale perdita di senso identitario che questa fetta non piccola dell'opinione pubblica sta devolvendo, paradossalmente, agli schieramenti “italiani” o a loro parti. Della questione della lingua sarda, fondamentale per il radicamento del sentimento nazionale comunque lo si intenda, si occupano quasi esclusivamente settori del mondo politico, il governo sardo, il movimento per la lingua sarda e le sue articolazioni.
L'indipendentismo è in preda a un economicismo che paradossalmente fa il verso della politica tradizionale nel momento in cui essa sembra volersene liberare. Dal Partito sardo, lo schieramento più consistente, a iRS, a Sardigna natzione, ai Rosso mori, qualcosa che si aggira intorno al 15-18 per cento, hanno tutti messo fra parentesi la questione della lingua. Ma anche quella della cultura nazionale, nella prevenzione secondo cui sarebbe un lusso occuparsi di lingua e cultura “locali” in presenza di crisi economiche. Così, c'è chi si è specializzato nei rapporti economici e finanziari fra Regione sarda a Stato italiano, chi nel conflitto con una tutt'altro che certa volontà dell'Italia di scaricare sulla Sardegna una parte almeno della sua politica nucleare, chi ha della modernità dell'economia una visione etero diretta, chi pensa che di lingua sarda si possa parlare in termini di inconciliabilità fra le sue “varianti”, quasi un contrasto fra le due nazioni del sud e del nord.
Tutti problemi seri, naturalmente, salvo quello, ridicolo, della partizione della Sardegna in due nazioni linguistiche. Il fatto è che nessuno di questi problemi è capaci di definire una politica non dico indipendentista ma neppure autonoma. Si è mai sentito, fuori delle caricature alla Grosz, qualcuno dire che vorrebbe una Sardegna povera e succube? Dove sta la specialità di una politica culturale che metta l'Isola al centro delle proprie attenzioni, se non negli elementi propri della sua specialità, con la lingua al primo posto? Non tutti, ma la gran parte delle donne e degli uomini che si richiamano ai valori dell'indipendenza sono coscienti di questi fondamenti.
Il dramma è che per quasi tutti, salvo i pochi che ritengono la lingua un epifenomeno non fondante né importante, il sardo (e insieme ad esso il gallurese, il sassarese, il tarbarchino e l'algherere) esistono e, se proprio corrono rischi, come li corre il sistema economico, pazienza: una volta conquistata l'indipendenza, ci si potrà occupare di lingua. Per questo, prima si mette mano alle emergenze economiche e finanziarie e poi, una volta superate, ci si potrà permettere di interessarsi di frivolezze. Se qualcuno si vorrà prendere il gusto di guardare nel sito del Consiglio regionale le proposte di legge (di iniziativa consiliare), i disegni di legge (di iniziativa del Governo), le mozioni, gli ordini del giorno, le interrogazioni, le interpellanza, vedrà come la questione della lingua sia quasi inesistente. Tutta l'iniziativa legislativa e ispettiva ruota intorno a problemi riconducibili all'economia con differenze di toni e di prospettiva, a seconda che sia dell'opposizione o della maggioranza. Il fatto che in Consiglio esistano consiglieri indipendentisti e nazionalitari, che dieci di essi abbiano votato per l'indipendenza della Sardegna, tredici si siano astenuti, non è assolutamente percepibile dall'atteggiamento sulla questione della lingua sarda. Quasi che essa sia un sovrappiù nella proposta avanzata da dieci deputati regionali e non osteggiata da altri tredici.
Il Governo sardo ha inserito nel Piano regionale di sviluppo un concetto di straordinario interesse per la salvezza della lingua, nel quale si afferma che essa è un motore di sviluppo economico. Perché non andare a verificare se questa affermazione corrisponde a una volontà o è solo una espressione enfatica? L'ex presidente della Regione, Renato Soru, poco prima di dimettersi e di chiamare gli elettori alle urne, presentò una legge di politica linguistica di grande interesse. Il suo partito, a due anni dal voto, non la ha ripresentata. Nessuno vieta ai consiglieri indipendentisti o nazionalitari, ai movimenti indipendentisti fuori dal Parlamento sardo di fare propria la proposta soriana, modificarla se lo ritengono, o premere sull'ex presidente perché la faccia mettere all'ordine del giorno del Consiglio.

Domani se ne va il 2010. Sarebbe un buon auspicio che il 2011 sia l'anno in cui indipendentisti, nazionalisti, nazionalitari, autonomisti prendano coscienza che la lingua sarda e le altre alloglotte hanno bisogno di interventi urgenti. Auguri.