domenica 29 novembre 2009

La pietra nuragica di Losa. Tre soli simboli ed un universo concettuale


di Gigi Sanna

Sull’importanza della pietra rinvenuta presso il Nuraghe Losa di Abbasanta abbiamo già cominciato a dire qualcosa, come qualcuno forse ricorderà. E’ un documento straordinario di scrittura nuragica, con ‘alfabeto’ e senso che ci porta diritti diritti all’antica religione siro-palestinese, alle fonti documentarie di essa (Negev) nel XV–XIV secolo a.C. E forse anche prima di questo periodo.
Ma la prima lettura, quella da sinistra verso destra con il lessico ‘EL NAHAS HE’, con i tre simboli forti (’Aleph, Lamed, Nahas), con la chiara voce ‘EL’, con i logogrammi e i pittogrammi acrofonici, con le lettere ‘agglutinate, non è l’unica. Come altri documenti della scrittura epigrafica nuragica (stupendi ed insuperabili quelli di Tzricotu di Cabras, di Is Locci –Santus e la Stele di Nora) la scritta deve essere attentamente esaminata perché ‘il rebus’ espressivo è sempre presente. E l’errore più grave che si può commettere con un testo nuragico è quello di essere ermeneuticamente soddisfatti e chiudere subito la ‘partita’ interpretativa. Di lasciare, per dir così, ‘indecodificata’, molta (e spesso la più importante) parte del senso.

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La vignetta è di Franco Tabacco

sabato 28 novembre 2009

Un trans del VII secolo avanti Cristo

di Alberto Areddu
 
Mentre la matassa del caso Marrazzo si va vieppiù avviluppando, coi suoi risvolti drammatici a seguito di due omicidi (e il ritrovamento di migliaia di files, forse compromettenti) mi vado domandando, ritornando alla questione d'ambito estetico-culturale che teneva banco, prima degli ultimi impreveduti sviluppi, se una questione trans non ci sia sempre stata, e solo oggi grazie ai ritrovati della moderna scienza sia "naturalmente" esplosa. In questa statuetta ritrovata a Ittiri all'inizio del Novecento, nota appunto come "l'aulete di Ittiri", la cosa che colpisce non è tanto o solamente la evidente itifallicità del suonatore di una protolaunedda, quanto il fatto -purtroppo dalle varie foto on line è difficile evidenziare questa realtà- che ha pure il seno ben rilevato.
Chi se ne è interessato ha parlato di ermafroditismo a sfondo dionisiaco: cioè non si vuole tanto raffigurare un individuo che assommi le due metà del creato, quanto rappresentare in una sola immagine (in linguistica si direbbe: olofrasticamente), un'intera scena: "a seguito del suono delle launeddas, l'uomo si eccita e può compiere l'atto con la sua metà femminile (esterna)". 
Tuttavia il Taramelli, che segnalava la statuetta nel 1907, annotava che a tale data erano già state scoperte altre 10 statuette ermafroditiche, e non in contesti o rappresentazioni paniche. C' è allora una domanda da porci: non sarà che l'ermafroditismo (come probabilmente dal punto di vista sanitario la cecità, o in genere le malattie agli occhi) presentava dei casi piuttosto frequenti in Sardegna e che allora come oggi sollecitava la fantasia maschile? 
Di casi inversi, cioè di ginandrismo, invece pare non ci siano testimonianze, ovviamente sarebbe  stato  anche difficile rappresentare delle amazzoni (alla lettera: donne senza seno) armate, quand'anche il contesto nuragico (che rappresenta la donna sempre come madre, moglie o maga) lo avesse accettato, ma invero di questo non ho piena certezza.
La musica dello strumento- pare strano pensare che a tanto potessero le launeddas- esercitava verosimilmente l' effetto stordente e liberatorio degli istinti che oggi è svolto dalla cocaina, anche se ci giurerei era meno costosa. Sarebbe interessante conoscere dai genetisti e antropologi se effettivamente in Sardegna ci sia mai stato un qualche rilievo del transgenderismo, magari nascosto e sottilmente sublimato nell'animo di quei masciufemina (che non finivano come oggi, a fare i parrucchieri bensì gli uomini di chiesa) di cui l'aneddotica popolare è ricca.
Insomma i trans o gli aspiranti trans ci sono sempre stati anche in contesti rudi e rupestri come i nostri, e Marrazzo che ci pare così scriteriatamente moderno nelle sue frequentazioni, in realtà fa uscire da sé, in qualche modo, una lontana costante di "eterno trangenderino" che apparteneva all'uomo prima che il naturalismo di cui fa faceva parte venisse sommerso dall' affermarsi dell'homo economicus, il quale sottomettendo gli archetipi alle prospettive del guadagno, finiva però spesso per generare ricchezza goduta e non sudata, conducendo alla degradazione morale e umana; di una simile degradazione approfittò, nei primi secoli della nostra era,  la moralità sessuofobica del Cristianesimo secondo cui era ed è meglio reprimere o al limite nascondere istinti reputati innaturali.
Sarà per questo che spero vivamente che Ratzinger, a cui Marrazzo sta rivolgendo le sue preci, non lo perdoni affatto: perché non c'è nulla da farsi perdonare.

PS - Scritto e pubblicato questo articolo, ho trovato in La civiltà della Sardegna, di Christian Zervos, un'immagine confacente, che rende ragione alla presenza di un seno femminile, anche se è in bianco e nero.

giovedì 26 novembre 2009

De interpretandi ratione. Sui principi della epigrafia

di Massimo Pittau

Sono ormai parecchi gli amici e conoscenti, sardi e anche forestieri, che mi hanno chiesto o mi stanno chiedendo, a voce o per iscritto, il mio parere riguardo alle scoperte – vere o presunte – di iscrizioni antiche che si starebbero effettuando in Sardegna e riguardo alle loro interpretazioni. Mi sento pertanto in dovere di esprimere oggi pubblicamente il mio meditato parere sull’argomento, precisando però che intendo condurre un discorso generale sulla «epigrafia» o “scienza ed arte della interpretazione delle iscrizioni”; discorso generale che deliberatamente vuole prescindere dai casi specifici che si sono verificati di recente in Sardegna e che hanno aperto numerose e anche vivaci discussioni. Il mio pertanto è un discorso condotto molto più sui “principi metodologici” generali e molto meno sui “fatti od eventi reali”. Ho deciso di assumere questo atteggiamento per una precisa ragione: in alcuni casi sono stati coinvolti alcuni miei conoscenti e amici, per i quali sento lo stretto dovere di non affermare alcunché che possa mettere in dubbio la loro preparazione scientifica e la loro probità professionale, che anzi anche io intendo qui affermare e sottolineare.
Orbene, in base agli insegnamenti che mi sono stati dati già durante i miei studi universitari e in base a una mia pratica della materia epigrafica che va avanti ormai da una trentina d’anni, io sono convinto che siano queste seguenti le condizioni necessarie e sufficienti perché una interpretazione epigrafica abbia i caratteri della scientificità:

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La scrittura nuragica e gli archetipi dei circuiti cerebrali

di Maria Rita Piras

Caro Gianfranco,
Vorrei intervenire nel dibattito del tuo blog a proposito degli archetipi dei miei pazienti. Da oltre 30 anni lavoro con persone affette da disturbi cognitivi conseguenti a danno cerebrale. In particolare, fra i deficit delle funzioni corticali superiori, ho studiato le afasie, le dislessie e le disgrafie che sono disturbi del linguaggio orale e scritto. Lo studio scientifico della Neuropsicologia Clinica nasce con la dimostrazione da parte del neurologo francese Paul Broca che il linguaggio viene elaborato in aree specifiche del cervello, con la descrizione di un paziente che in seguito ad un ictus cerebrale localizzato nel lobo frontale dell’emisfero sinistro aveva perso il linguaggio articolato.
Da allora lo studio delle lesioni cerebrali è stato un prezioso strumento per la comprensione del funzionamento del cervello normale e gli attuali neuro scienziati, con metodi scientifici rigorosi, portano avanti l’indagine sulle basi neurobiologiche della cognizione umana partendo dall’osservazione di soggetti cerebrolesi. Il linguaggio è una funzione complessa non solo nella sua integrità, ma anche nella sua compromissione. Nelle malattie degenerative del cervello come la Malattia di Alzheimer si ha spesso una compromissione del linguaggio sia orale che scritto, ma una “mente malata” non è più semplice o più elementare: la perdita di una funzione cognitiva non è una attività caotica, ma segue leggi rigorose e complesse, perché complessa è l’organizzazione della nostra mente, anche nella patologia.
La scrittura è una funzione simbolica che nel corso dell’evoluzione della nostra specie è stata acquisita tardivamente, cosi come viene acquisita tardivamente dal bambino rispetto al linguaggio orale nel corso del normale sviluppo cognitivo. Il linguaggio scritto, a differenza di quello orale, deve essere insegnato e richiede l’apprendimento di nuovi simboli, comportando una modificazione dell’architettura cognitiva della mente, grazie al costituirsi di nuove reti neurali associative. La scrittura è anche una funzione “fragile” che, per la complessità e l’estensione delle reti associative che la supportano, può essere danneggiata nel corso di malattie degenerative come l’Alzheimer. In questa malattia si perde progressivamente la capacità simbolica, attività che ci rende umani, e si perdono fra gli altri simboli, anche quelli che mediano il linguaggio scritto.
Ma anche nella malattia la mente sa essere creativa e i simboli persi nell’oblio della patologia vengono sostituiti da nuovi simboli che per la loro struttura richiamano i primi, i più antichi alfabeti che l’uomo ha inventato agli albori della civiltà. L’analogia che ho riscontrato con la scrittura nuragica che Gigi Sanna con rigore scientifico ci sta rivelando, non è casuale: la scrittura nuragica racchiude in se i simboli arcaici di una civiltà fra le più antiche, come se questi primi simboli inventati dalla mente umana fossero espressione di archetipi insiti nei nostri circuiti cerebrali. Ma l’arcaicità non implica semplicità, anzi i sempre più numerosi documenti nuragici scritti dimostrano una cultura raffinata e tecniche di scrittura complesse che possono essere decodificate grazie a modelli matematici. Nuovi strumenti sono necessari nel campo dell’epigrafia, dell’archeologia e di tutto ciò che costituisce la “cultura materiale”.
La comprensione di tutto ciò che è prodotto della mente non può prescindere dall’intervento di altre discipline, quali le neuroscienze, l’antropologia, la linguistica, l’intelligenza artificiale, la biofisica, la matematica, la filosofia. Non è facile comprendere le produzioni archetipiche dei miei pazienti, posso rilevarle, descriverle, fornirne delle interpretazioni alla luce delle attuali conoscenze, fare delle ipotesi, ma come dice Emerson Pugh : “Se il cervello umano fosse cosi semplice da poterlo capire, saremmo noi stessi cosi semplici da non poterlo capire”. Cari saluti.

Sondaggio: libero accesso agli anonimi. Così si è deciso

Si resta così. I settanta votanti nel sondaggio e i 19 intervenuti nel blog hanno deciso: qui gli anonimi continuano ad essere ammessi. Il piccolo sondaggio (per la verità poco partecipato, segno che ai lettori non importa granché) ha consegnato questi risultati: per 42 (60%) va bene così, per 8 (11%) non vanno esclusi né gli anonimi né i troll; per 7 (10%) in eguale misura bisognerebbe escludere gli anonimi e moderare le discussioni; per 6 (8%) va chiusa la porta ai troll. Così è deciso e così sarà. Salvo il fatto che dalla partecipazione alle discussioni sono esentati – e cancellati – i perdigiorno e i maleducati.

mercoledì 25 novembre 2009

Soliloquio sul ritorno i la Sarditat mia

di Davide Casu

Non ricordo quando fu il giorno che vidi le opere di Amedeo Modigliani la prima volta, rammento però che del suo genio non compresi nulla, tanto che per molti anni buttai quelle poche immagini serbate in uno dei miei magazzini bui della memoria dicciottenne... e me ne dimenticai sin quando, giá nel proseguo degli studi, cominciai a prendere in mano i testi di "Derrida”. Può essere che non vi sia relazione alcuna “mì”, forse, apparentemente magari!
Ho sempre avuto, però, una speciale predilezione per infischiarmene di ció che leggo e farlo suonare dalle mie corde e Derrida quindi giá non c'era... Però, non so spiegarlo in altra maniera, ora vedevo davvero Modigliani, e lo guardavo faccia a faccia. Immagino fosse per quella sua irrepetibile facoltá di individuare, in quelle sue linee sintetiche, gli archetipi di ciò che è umano, o come la chiamava lui: “della razza”; Derrida che aveva decostruito le mie certezze me ne fece dono.
Cominciavo, a pari passo, a fare mente sul bimbo che fui, l'unico sardo che sono stato in vita mia. Stavo giá a Torino e risuonava nella mia testa una frase martellante che supponeva, quando in me c’era ancora il verde e oro di campi, che non avessi mai pensato che avrei potuto credere nella sinuositá del pensiero né in quella della cittá... ma lo stavo facendo e, grazie a Modigliani, si faceva spazio il bimbo “gitat” a Surigheddu, “lluny de l’Alguer” ma vicino alla terra, la terra quella materiale, lei tra le mie mani, mio padre col suo sguardo limpido che solo a chi sta in pace puó appartenere.
Non ero stato capace, negli anni, di comprendere il perchè “mon pare” fosse un uomo sereno; me ne avvidi solo quando lasciai sa Sardinnia e col tempo, tra le letture e lo schifo della cittá, mi ero contaminato anch'io, e ancora quel bimbo, l'unico sardo che fui, l'animale che avevo ucciso per creare l'uomo che sono diventato, cominciò a puntare il dito verso la terra sarda. Strana cosa: di solito gli adulti sono avvezzi ad immaginare se stessi accompagnando il loro alterego infante per le strade della vita, mentre per me era il contrario...
Cos'era ciò che mi chiamava? Istinto, radici, lingua, storia?... Non solo: era la terra, quella che zappava mio padre e tutto quanto da essa generava: la primordialitá dell'esistenza in quelle azioni sistematiche di babbo, l'animalitá insita in quella purezza che straripava abbondante dai suoi occhi... ed il bimbo, quell'animale che ora pretendeva tornare “en casa”, lui che aveva pisciato tutto il suo territorio e dal quale io lo avevo strappato... a su mere sou.
Manca un mese al ritorno e mi chiedo dove sia la sarditá se non v'è terra, la terra sarda, con la sua chimica, la sua materia organica… Me lo chiedo ora che mi accingo a “torrare”..... Dov'è la sarditá se non c'è quella realtá, non il concetto che è cosa artificiosa, ma se non c'è quella realtá rudimentale dello svolgersi della vita, se non sussiste quell'azione atavica e tribale del vivere vero, ossia legato all'esistenza e non all'abitare. Se così non stanno le cose, starei ritornando in Sardegna? O posso anche rimanere in “terra anzena”?... Forse sospetto od avverto che sono la, sull'orlo tra vivere e definitivamente destinarmi ad abitare soltanto, in una Sardegna qualsiasi, che puó stare di qua come in qualsiasi altra cordinata di questo globo...

lunedì 23 novembre 2009

L'industrializzazione è alla frutta. Politica e sindacato anche

Vogliamo finalmente dire, senza infingimenti, che stanno arrivando al pettine tutti i nodi della sbagliata industrializzazione della Sardegna? E che siamo nel bel mezzo di un marasma politico e sindacale che sembra senza uscita? Da un lato c'è l'incapacità (o forse solo l'impossibilità) dei governi italiano e sardo di trovare una via di uscita nei meccanismi del mercato mondiale della chimica e dell'alluminio. Dall'altro il cinismo della politica e di parte del sindacato che non resiste alla tentazione di usare la disperazione per fini collaterali e di scatenare guerre interne ed esterne alla maggioranza di governo, in Italia e in Sardegna.
Sullo sfondo, il dramma di migliaia di lavoratori portati all'esasperazione dai pericoli che vedono immediati per la loro occupazione, dalla incertezza circa possibili soluzioni, dalle risposte che governi non statalisti (almeno in economia) non sanno dare, dal cinismo di coloro ai quali non par vero poter scaricare su chi governa responsabilità che sono, politicamente ma soprattutto culturalmente, anche loro. Mi ha colpito favorevolmente, in questi giorni di scontro intorno alle vicende industriali della Sardegna, l'appello di un sindacalista della Cgil di Sassari. Antonio Rudas, segretario provinciale di quel sindacato, ha fatto appello ad un ampio movimento di popolo, “superando le anacronistiche divisioni sindacali e partitiche. Abbiamo bisogno di uno scatto di orgoglio alto, di un vero e proprio moto popolare. È arrivato il momento, ancora una volta, di fare i conti con la nostra storia”.
Già nel passato, Rudas aveva invitato a “fare i conti con la nostra storia”, affermando che classi dirigenti responsabili avrebbero dovuto prender atto che la chimica sarda è arrivata al capolinea e che da subito bisogna mettersi in testa di elaborare un nuovo modello di sviluppo della Sardegna. Anche la produzione di alluminio in Sardegna è arrivata al capolinea, visto che costa troppo produrlo con i prezzi dell'energia di cui l'alluminio è non consumatore, ma divoratore (500 mila euro al giorno, spende l'Alcoa, quanto una famigliola consumerebbe in 5.000 mesi).
La retorica industrialista e operaista che soffiò sulla nostra Isola negli anni della cosiddetta Rinascita, e subito dopo, non fu solo dei governi sardi di allora, democristiani, ma, politicamente e soprattutto culturalmente, anche della sinistra e del sindacato oltrecché della intellettualità metropolitana, immemore, essa per lo più marxista, della feroce critica di Marx all'ideologia. Sull'altare di quel feticcio, si sacrificò (si tentò di farlo) l'identità considerata nemica del progresso, si accettò che da fuori della Sardegna si decidesse di paracadutare industrie fortemente inquinanti ed altre fondate sul consumo abnorme di energia elettrica e persino – c'è chi lo ha dimenticato – una fabbrica di bioproteine (fortunatamente messa da parte perché produttrice di tumori) e una per la liofilizzazione del caffè brasiliano. Chi lo trova, legga o rilegga “Il golpe di Ottana” di Giovanni Columbu: qualche editore potrebbe pur ristamparlo, a memoria di chi era grande allora e ad ammonimento di chi allora non lo era.
Le culture politiche di oggi non possono far finta che questo disastro industriale non fosse annunciato, né a destra, né a sinistra, né in qualsiasi altro inutile punto cardinale della politica sarda. Alle classi dirigenti sarde, dalla partitica alla sindacale alla imprenditoriale e, se ci fosse, a quella culturale spetta un compito diverso da quello ricavatosi di “polli di Renzo”. Prendere atto che l'industrializzazione esistente è, complessivamente intesa, alla frutta, che bisogna favorire la nascita di quel movimento di popolo di cui parla Rudas, che bisogna fare l'impossibile per salvare lavoro e dignità alle migliaia di persone che stanno per perdere l'uno e l'altra. E che da subito è necessario lavorare a un modello di sviluppo nuovo, quel “nuovo modello di civiltà” che Eliseo Spiga patrocinava come strumento per uscire da questa barbarie prevedibile e prevista.
Un sintomo di disumanizzazione? Il rifiuto degli operai dell'Alcoa di far uscire dalla fabbrica materiali indispensabile al funzionamento di una fabbrica romana i cui operai nulla hanno detto sulla disperazione dei loro colleghi sardi. Un circolo vizioso che manda alla malora la tanto ideologizzata solidarietà operaia e tutto l'operaismo che l'ha nutrita.