di
Davide CasuNon ricordo quando fu il giorno che vidi le opere di Amedeo Modigliani la prima volta, rammento però che del suo genio non compresi nulla, tanto che per molti anni buttai quelle poche immagini serbate in uno dei miei magazzini bui della memoria dicciottenne... e me ne dimenticai sin quando, giá nel proseguo degli studi, cominciai a prendere in mano i testi di "Derrida”. Può essere che non vi sia relazione alcuna “mì”, forse, apparentemente magari!
Ho sempre avuto, però, una speciale predilezione per infischiarmene di ció che leggo e farlo suonare dalle mie corde e Derrida quindi giá non c'era... Però, non so spiegarlo in altra maniera, ora vedevo davvero Modigliani, e lo guardavo faccia a faccia. Immagino fosse per quella sua irrepetibile facoltá di individuare, in quelle sue linee sintetiche, gli archetipi di ciò che è umano, o come la chiamava lui: “della razza”; Derrida che aveva decostruito le mie certezze me ne fece dono.
Cominciavo, a pari passo, a fare mente sul bimbo che fui, l'unico sardo che sono stato in vita mia. Stavo giá a Torino e risuonava nella mia testa una frase martellante che supponeva, quando in me c’era ancora il verde e oro di campi, che non avessi mai pensato che avrei potuto credere nella sinuositá del pensiero né in quella della cittá... ma lo stavo facendo e, grazie a Modigliani, si faceva spazio il bimbo “gitat” a Surigheddu, “lluny de l’Alguer” ma vicino alla terra, la terra quella materiale, lei tra le mie mani, mio padre col suo sguardo limpido che solo a chi sta in pace puó appartenere.
Non ero stato capace, negli anni, di comprendere il perchè “mon pare” fosse un uomo sereno; me ne avvidi solo quando lasciai sa Sardinnia e col tempo, tra le letture e lo schifo della cittá, mi ero contaminato anch'io, e ancora quel bimbo, l'unico sardo che fui, l'animale che avevo ucciso per creare l'uomo che sono diventato, cominciò a puntare il dito verso la terra sarda. Strana cosa: di solito gli adulti sono avvezzi ad immaginare se stessi accompagnando il loro alterego infante per le strade della vita, mentre per me era il contrario...
Cos'era ciò che mi chiamava? Istinto, radici, lingua, storia?... Non solo: era la terra, quella che zappava mio padre e tutto quanto da essa generava: la primordialitá dell'esistenza in quelle azioni sistematiche di babbo, l'animalitá insita in quella purezza che straripava abbondante dai suoi occhi... ed il bimbo, quell'animale che ora pretendeva tornare “en casa”, lui che aveva pisciato tutto il suo territorio e dal quale io lo avevo strappato... a su mere sou.
Manca un mese al ritorno e mi chiedo dove sia la sarditá se non v'è terra, la terra sarda, con la sua chimica, la sua materia organica… Me lo chiedo ora che mi accingo a “torrare”..... Dov'è la sarditá se non c'è quella realtá, non il concetto che è cosa artificiosa, ma se non c'è quella realtá rudimentale dello svolgersi della vita, se non sussiste quell'azione atavica e tribale del vivere vero, ossia legato all'esistenza e non all'abitare. Se così non stanno le cose, starei ritornando in Sardegna? O posso anche rimanere in “terra anzena”?... Forse sospetto od avverto che sono la, sull'orlo tra vivere e definitivamente destinarmi ad abitare soltanto, in una Sardegna qualsiasi, che puó stare di qua come in qualsiasi altra cordinata di questo globo...