mercoledì 4 novembre 2009

Una pietra tombale sulla falsità della pietra tombale di Allai

di Massimo Pittau

Caro Gianfranco,
a dichiarare la “non autenticità” della iscrizione etrusca trovata ad Allai da Armando Saba e da me presentata e illustrata in una relazione nel convegno "L'Africa Romana" del 1991 (Atti vol. 9/II, Sassari 1992) è stato un solo personaggio e per di più incompetente, Lidio Gasperini, professore di epigrafia latina e non di epigrafia etrusca nell’Università di Roma. La qual cosa egli ha finito col riconoscere, quando, nella diatriba sorta tra me e lui, egli concluse dicendo: «Agli specialisti di epigrafia etrusca di pronunziarsi!». Con la quale frase egli ha implicitamente riconosciuto di essersi intromesso nella questione senza una effettiva “competenza specialista nella materia”.
Quella mia relazione è stata da me presentata subito dopo nel Sodalizio Glottologico Milanese – uno dei più autorevoli di tutta Europa – è stata discussa e poi è entrata regolarmente nei suoi Atti ufficiali (vol. XXXIII-XXXIV, 1992 e 1993, Milano 1994, pagg. 200-210).
Sulle altre iscrizioni che sempre il Saba dice di aver trovato nel greto del Tirso non intendo intervenire, dato che l’argomento ormai è diventato oggetto di un procedimento giudziario.
Approfitto di questa occasione per rivolgermi ai soliti invidiosi/detrattori, che mi criticano alle spalle, senza però osare mai di scrivere qualcosa (tra i Sardi sono numerosi gli specialisti di tale nobile attività); ad essi preciso che la mia competenza in fatto di lingua etrusca è dimostrata in maniera chiara e decisa dai seguenti fatti:
1) Ho pubblicato ben 8 (otto) libri su quella lingua, fra cui il primo e finora unico esistente Dizionario della Lingua Etrusca (di 525 pagine) e poi il recentissimo Dizionario Comparativo Latino-Etrusco (EDES, Sassari 2009, pagg. 230), cosa che fino al presente nessun altro etruscologo linguista ha mai fatto (questi miei libri circolano in tutta Italia e in Europa; informarsi nella Libreria Koinè di Sassari, tel. 079/275638).
2) Da circa 30 anni quasi tutte le mie relazioni annuali tenute nel citato Sodalizio Glottogico Milanese sono relative alla lingua etrusca, come si può verificare dagli Atti del Sodalizio stesso.
3) Due riviste fiorentine, Il Governo delle cose/idee e Microstoria, pubblicano in ogni loro numero un mio articolo relativo ad appellativi o toponimi italiani di origine etrusca (tutte le mie relazioni e gli articoli compaiono nel mio sito www.pittau.it).
4) Sono stato chiamato a tenere conferenze sulla lingua etrusca in parecchie località della Toscana e del Lazio, a cominciare da Firenze e Lucca per finire a Cervetri.
5) Il «Corriere della Sera» (edizione fiorentina) del 29 settembre scorso, nella sezione “Culture”, mi ha dedicato quasi un’intera pagina, con una mia fotografia, per la mia interpretazione e traduzione della ormai famosa Tabula Cortonensis (si può trovare questo articolo in internet).
I miei invidiosi/detrattori abbiano finalmente il coraggio di farsi avanti per contestare questi fatti.

Caro Massimo, qualcosa ci può trovare in disaccordo, non certo la tua serietà e competenza di studioso. Avendo letto la tua comunicazione al convegno di Nuoro "Sardegna romana", la contestazione non motivata da altrettanta scienza alle tue conclusioni, ed essendo sicuro che il magistrato di Oristano abbia letto l'una e l'altra, sono certo che quanto scrive nel suo rapporto il capitano dei CC di Sassari sia pevenuto. Chi lo abbia indotto a questa prevenzione è da scoprire. Chi sa che non ce la facciamo? [zfp]

martedì 3 novembre 2009

I "falsi di Allai" e, per ora, qualche dubbio di competenza

Qualcuno ricorderà il commento di un anonimo, pubblicato il 28 ottobre, in cui si lanciavano pesanti accuse ad una persona che aveva trovato gli ormai famosi reperti “etruschi” nell'alveo asciutto del Lago Omodeo. “Si tratta di falsi eccome! Armando Saba [il nome è ora in chiaro per le ragioni che si capiranno, NdR] è stato trovato con le mani nella marmellata mentre le creava. Ci rendiamo conto dei danni che può aver fatto nella sua vita? Il bello che molti in buona fede ci hanno creduto ed ecco il risultato”.
Non so, naturalmente, da dove l'anonimo abbia mutuato le sue certezze. Ma queste tornano con il rapporto che il “Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Cultura” di Sassari ha inviato alla Procura di Oristano che, nei giorni scorsi, ha denunciato Armando Saba per una serie di reati fra cui quello di falso. Il rapporto, firmato dal capitano Gianfilippo Manconi, come è naturale che sia visto il ruolo di chi lo firma, sostiene le accuse con quelle che sono ritenute gravi prove a carico dell'impiegato comunale di Allai che trovò questi ed altri reperti archeologici.
Tutto ciò viene fatto in una buona prosa e con abbondanza di enfasi e di derisione, tendendo a dare di Saba un profilo di uomo colpevole. Sarà, naturalmente, il giudice ad appurare se davvero sono stati commessi reati o se, invece, Armando Saba è innocente. Su questo aspetto della vicenda non è legittimo intervenire, pur se il rapporto dipinge una persona assai diversa da quella che amici, conoscenti, amministratori, studiosi conoscono.
Quel che interessa è capire come il capitano dei carabinieri sia arrivato alla conclusione che i reperti trovati siano falsi. È stato il “luminare etruscologo” dr. Marco Rendelli, professore di etruscologia e antichità italiche all'Università di Sassari. a dirlo e a certificarlo (il 4 marzo di quest'anno). Vedremo un altro giorno perché. In effetti, il dr. Rendelli ha un portafoglio di pubblicazioni piuttosto imponente in materia di etruscologia e non solo. Ma invano ne cercheresti una riguardante l'epigrafia che, lo si può leggere persino in Wikipedia, è “la scienza che decifra e mira a datare le epigrafi”. Rendelli, basta vedere, il suo curriculum è un esperto archeologo, autore di molti scavi e non solo in Etruria. Questo non vuol dire che sia anche un esperto epigrafista in grado di stabilire con certezza se le epigrafi di Allai sono vere o false.
Forse, altri, magari sulla base di studi specifici, direbbero il contrario. Questo – come ricorda il rapporto – è capitato, in senso inverso, al professor Massimo Pittau che ha studiato e certificato come autentica una pietra tombale trovata sempre ad Allai dall'autore del saggio storico linguistico “Origine e parentela dei sardi e degli etruschi”. Massimo Pittau illustrò questa ed altre iscrizioni etrusche al IX convegno di studio “L'Africa romana” che si svolse a Nuoro nel dicembre 1991. Durante questo convegno – è scritto nel rapporto - “veniva smentita pubblicamente l'autenticità” dei reperti illustrati da Pittau.
Nella discussione fra esperti, l'uno che assicura della autenticità, altri che la negano – cosa normale in un convegno – interviene di peso l'autore del rapporto che non pare avere dubbi nello sposare, non dice in base a quali personali competenze, la tesi della inautenticità. Pittau è troppo noto e gli è quindi risparmiato un giudizio che “seccamente decretava la falsità dei dieci elementi consegnati dal Saba al sindaco di Allai”.
Ripeto, non ritengo legittimo intervenire circa le accusa che i carabinieri del Nucleo specializzato muovono ad Armando Saba. Questa è materia per un giudice che, esaminate le prove contro e quelle a favore, deciderà. Quel che immagino è che in tribunale non ci si accontenterà di una relazione fatta da un non epigrafista e di un rapporto in cui fra una dichiarazione di autenticità e una di falsità, in relazione alla pietra tombale di Allai, si opta per la falsità su non si sa bene quale oggettività.

Nella foto: La pietra tombale di Allai, nella comunicazione di Massimo Pittau al Comvegno di Nuoro

lunedì 2 novembre 2009

Una lingua nuova per il vecchio popolo sardo

di Franco Pilloni

Parlerò della lingua sarda, premettendo subito che non sono un linguista, né socio- né glotto-, né autentico, né pseudo, e nemmeno riciclato, inventato o sedicente come tanti che si sono occupati della vexata questio nell’ultimo decennio. Cercherò solamente di ragionare sulla lingua sarda parlata, infischiandomi altamente della grafia e di tutto quanto è stato escogitato e proposto da più parti per la maggior desolazione dei sardo-parlanti. La mia proposta, che riconosco non priva di velleità, prende le mosse da constatazioni che parrebbero ovvie ai più, che risultano però, ancora per il momento, non essere state messe in evidenza da nessuno, e tende a far salire di un qualche gradino lo spirito dei sardo-parlanti nella scala della felicità.
La prima e più importante osservazione è quella lampante che indica la vocale “u” come la più rappresentativa della parlata sarda, quella che la connota anche al di fuori del suo contesto, ritrovata spesso in finale di parola, ma anche al centro o come iniziale, certamente in proporzione maggiore nel confronto con le altre lingue sorelle o cugine, come l’italiano, lo spagnolo o il francese. Forse a reggere il paragone resta la lingua romena, e non a caso.
Per pronunciare la vocale u, basta osservarsi davanti allo specchio, bisogna allungare le labbra in avanti, stringerle lasciando un foro modesto ed espirare. In poche parole, è come parlare facendo il broncio, ovvero emettere un mugugno (si osservino, anche in italiano, le due sillabe consecutive con la u, che danno tono e senso alla parola). Ebbene, in sardo i vocaboli maschili, nomi, aggettivi, pronomi, nella stragrande maggioranza non solo terminano in u, ma volgono le o in u anche al loro interno, come populu per dire popolo, poburu per povero, genugu per indicare il ginocchio, fenugu per dire finocchio, tutturu per matterello, duru-duru come ninnananna, e ancora e ancora.
Io credo, ma lo riferisco come mia impressione, che la dimostrazione più eclatante di questo fenomeno linguistico e antropologico insieme sia quella della scelta del vocabolo che riporta a quel complesso moto dell’animo che in italiano indichiamo con “rammarico”, in francese e inglese con “regret” (più o meno accentato), ma in sardo con “surrungiu”. Una parola con un suono emotivamente pregno, provare a pronunciarla con quella doppia erre fortissima com’è nella parlata corrente dei sardi, sonora certo ma che costringe ad allungare vieppiù il broncio, così che l’espressione del viso riflette compiutamente il significato della parola. Surrungiu: una parola, un suono che fa triste anche uno che è morto dal ridere!
Una seconda constatazione viene dalla cultura popolare o, se si vuole, dall’esperienza scientifica secondo le quali il bisogno crea l’organo o, sempre se si vuole, l’uso rafforza lo strumento, in questo caso i muscoli facciali interessati ad atteggiare la mimica alla pronuncia della vocale u. Per questo motivo, quei muscoli, anche da rilassati, restano i più tonici fra le varie decine che regolano i movimenti facciali, a causa dell’uso continuo e sproporzionato rispetto a tutti gli altri, così che il viso stesso, nella sua espressione più usuale e permanente, diviene quello di chi è preparato, atteggiato, predisposto a pronunciare una bella u. Un sardo-parlante è surrungiosu, rammaricato quindi, e appare visibilmente come una persona che soffre, che non distoglie l’attenzione su quanto lo tiene in sofferenza e, ammesso e non concesso che abbia cullato l’intenzione di far buon viso a cattiva sorte, gli verrà fuori un sorriso o un riso che di allegro ha poco o proprio niente. Si sta parlando evidentemente del famigerato “riso sardonico”, una locuzione che ha attraversato inopinatamente popoli e culture, oltre che secoli di storia, ed è giunta improvvidamente nuda alla meta, carica di molte supposizioni e di nessuna certezza sull’effettivo significato, identificato come un’espressione del viso, e delle labbra in particolare, atteggiato a riso ma che indicherebbe una interna devastante sofferenza, un sarcasmo portato all’eccesso, una finzione che si illude di illudere l’osservatore, ma che non convince neppure il soggetto. Questa era la maschera facciale, secondo un’antica leggenda, che, al ritorno dalla sua missione di morte, assumeva l’incaricato del dirupamento del vecchio del clan, diventato ormai peso morto, evidentemente visto solo una bocca da sfamare. L’aiuto pare che gli venisse dall’aver assunto un’erba velenosa che cresce spontanea nelle gore umide e nelle rive dei ruscelli di Sardegna, che produceva (e ancora produce) spasmi facciali tali da poter essere interpretate come risate, grottesche quanto basta per essere in linea con il tenore della missione portata a buon termine.
Ecco allora come la lingua parlata da una popolazione può influire su di essa determinandone l’indole, oltre che il grado di soddisfazione che essa trae da quello che possiede, da quanto si adopera a fare e a costruire, dai risultati medesimi dell’operare combinati con quanto il destino ha predisposto. In una parola sola, la parlata determina la felicità di un popolo.
Si spiega come, quando un sardo-parlante, predisposto a un’espressione grave del viso, se non proprio di rammarico, incontra un altro sardo-parlante, fra di essi vi è uno scambio di informazioni non certo euforiche tramite il linguaggio del corpo. E quando si contraccambiano le informazioni di rito (Come va? Come stai?), si risponde con un mezzo sorriso, quando tutto va per il meglio, ma con un uhm! sulle labbra, un sorriso col broncio dunque che più che sardo pare sardonico. Quando infatti si vuole esagerare con l’ottimismo, non si va mai oltre un “no inc’est mali”, “non c’è male”, seguito immancabilmente da un “po is oras”, “per queste ore” alla lettera, indice indiscutibile della coscienza della precarietà della vita che per il futuro non può non riservare che il peggio. “Non c’è male, ma bada che lo sto dicendo in riferimento al momento presente, non ti illudo per il dopo”.
E se si facesse fatica a credere al rammarico dei sardo-parlanti per l’incombere dell’infelicità individuale e collettiva (comunque può venire a piovere, anche se vedi splendere il sole!), ci si metta alla prova con quel gioco per cui due si guardano in faccia senza parlare, dove perde colui a cui scappa da ridere per primo. Se avrete la sfortuna di essere di fronte a un sardo-parlante, prima di tutto ricordatevi di non scommettere più di quanto basta per una bevuta, dato che vi chiederete immediatamente che cosa ha da essere così serio e imbronciato il vostro avversario, di cosa si stia rammaricando, … bene, avete già dato la stura alle vostre fantasie interpretative che vi porteranno al disastro in quanto vi presenteranno una situazione comica irrefrenabile, quando quello lì, giusto di fronte a voi, sembra avere il cervello surgelato, oltre che la faccia triste.
Cambiare la lingua ai sardo-parlanti dunque è un doveroso atto di governo per salvarli dalla tristezza e dall’afflizione, dal surrungiu, dal rammarico costante e sempiterno derivante dalle innumerevoli u dell’isolana parlata. Ma c’è di più: in tempi problematici per l’economia italiana, europea e mondiale, un viso da surrungiu è quanto meno politicamente scorretto, oltre che controproducente, come ripete spesso (anche troppo) e volentieri Colui che più ha, più sa, più può, più parla, più … tutto, poiché la crisi si combatte prima di tutto con l’ottimismo e col sorriso.
Parole queste che non contengono neppure l’ombra di una vocale imbroncievole come la u.

domenica 1 novembre 2009

Quindi tornammo a riveder... la Stele. Di Nora

Dalla prima lettura di De Rossi nel 1774 (un anno dopo la scoperta) all'ultima fatta per questo blog da Herbert Sauren nel 2008, la Stele di Nora ha avuto moltissimi interpreti. Chentu concas e chentu berritas, secondo la scherzosa metafora di Antonio Pinna, vice direttore dell’Università Pontificia di Cagliari, che ieri ha presentato l'ultima fatica di Gigi Sanna, traduttrice di “La stele di Nora – Il Dio, il dono, il santo”.
Gran parte di essi ha ritenuto che il documento ritrovato nel 1773 fosse scritto in alfabeto fenicio da coloni partiti da un presunta Fenicia e arrivati in Sardegna intorno al IX secolo avanti Cristo, dove nel secolo successivo “scrissero” la stele. Sennonché – ed ecco la prima considerazione di Sanna – la lingua usata è di tipo ben più antico dei primi anni del primo Millennio. E il lessico è “semitico ebraico con venature di una lingua sarda indoeuropea”.
L'altra considerazione è che non esiste una sola scrittura, ma tre: una destrorsa, una a cornice intorno alla stele e un verticale che procede dall'alto verso il basso. Anche i tipi sono tre: pittografici, lineari, logografici o numerici. Insomma lo scriba che ha inciso questa famosa pietra ha nascosto dei bei rebus nella sua scrittura, ciascuno di non semplice lettura e comprensione. Fatto sta che nella Stele si parla di Tharros, di Cornus, di Nora naturalmente, del Padre Shardana e di suo figlio, il santo Lefis, che altri non sarebbe se non quell'Efis da sempre venerato a Nora.
Questa non è, né vuole essere, una recensione del libro di Gigi Sanna, che va letto con grande attenzione come richiede una novità che non lascerà nulla come prima. Con attenzione e spirito critico, che del resto hanno avuto anche i due presentatori del libro, ma, spero non con saccente disattenzione.
Del resto, è stata la saccenteria, chiusa tutto attorno ad un silenzio tombale sulle scoperte di scritture nuragiche fatte in questi anni, che ha impedito fino ad ora di prendere in considerazione letture della Stele diverse da quelle consegnate alla tradizione fenicista. Una delle chiavi interpretative usate da Sanna è la scritta nuragica sul cosiddetto coccio di Orani, che torna con le tavolette nuragiche di Tzricotu e via via con le decine di scritte (oramai 52) trovate nel salti e nei nuraghi. Negandole, ignorandole, facendo spallucce, continuando a dire che le scritte nuragiche non ci sono perché non ci possono essere, l'archeologia e l'epigrafia sarda hanno tagliato i ponti sulla comprensione di tanti reperti: quello di Nora in primis.

PS – La grande sala del Consiglio comunale di Oristano, quella stessa in cui nel 1921 nacque il Partito sardo d'azione, ieri era piena di persone che per quasi due ore e mezza hanno seguito in silenzio le non facili relazioni di  Antonio Pinna e Gigi Sanna. Una gran quantità di persone non è riuscita a trovare posto. Da qualche tempo, le questioni legate alla preistoria, alla protostoria e, a questo punto alla storia (vista la quantità di documenti scritti), della nostra Terra appassionano una crescente quantità di persone. Sia quando si parla di nuove scoperte sia quando si tratta di dibattiti sul conosciuto. Forse il mondo accademico e quello legato alla Soprintendenza di questo dovrebbero prendere atto ed attrezzarsi di conseguenza. [zfp]

Nel disegno, una vignetta di Franco Tabacco

sabato 31 ottobre 2009

Vestali della Costituzione strabiche e dimenticarelle

La Costituzione italiana, così come tutte le carte fondamentali, di tutto ha forse bisogno tranne che di vestali che vegliano sulla sua integrità e immutabilità. E tanto meno ha bisogno di vestali strabiche o smemorate. Chi ha cambiato un suo intero titolo, il V, da solo e con una maggioranza risicatissima, può, in coscienza, dire oggi guai a chi la tocca? A parte i modi utilizzati (una sostanziale modifica fatta con appena 4 voti di maggioranza), personalmente fui d'accordo e al referendum confermativo votai a favore della sua entrata in vigore, come la maggioranza degli elettori. E oggi sono soddisfatto che, a parte alcune incongruenze che sempre si potranno correggere), quel nuovo Titolo V assicuri, per esempio, maggiori autonomie e limitazioni allo strapotere centralista.
Una decina di anni fa, la Costituzione fu insomma cambiata dal centrosinistra che sentì la necessità di adeguarla ai tempi. Oggi quella stessa parte si inalbera perché la stessa necessità sente l'attuale maggioranza e promuove convegni e manifestazioni per quella difesa della Costituzione che, quando era al governo, non attuò. Si dirà che questi sono i meccanismi della politica, come agli stessi ingranaggi appartenne l'opposizione del centrodestra alla riforma costituzionale voluta dagli avversari. I toni delle attuali vestali non sono diversi da quelli usate dalle guardiane del tempio di allora.
Trovo scarsamente coinvolgente il bisticcio fra le parti opposte, anche se, francamente, trovo esagitate le accuse di allora e le indignazioni di oggi. Lo sfascio della Repubblica non c'è stato con la riforma del centrosinistra, non ci sarà con la riforma, se mai ci sarà, del centrodestra. Se sfascio ci sarà, sarà semmai dovuto alla resistenza dei giacobini di entrambe la parti al passaggio dal cosiddetto federalismo fiscale a un vero federalismo, ma questo è un altro conto. Quel che trovo deprimente in questa specie di lotta politica, non sono tanto i toni usati, quanto l'imbroglio delle carte.
Il gioco è oggi spostato sulla questione dei “principi fondamentali” trasformati in tabù. Questi non si toccano, proclamano le nuove vestali. E poi dimenticano che appena un anno fa, in carica il governo Prodi, queste stesse vestali distratte e dimenticarelle fecero approvare dalla Camera, 361 sì, 75 no, 28 astenuti, una legge costituzionale che cambiava l'articolo 12, contenente l'ultimo dei principi fondamentali. Non fece in tempo a passare al Senato per la seconda delle quattro approvazioni solo perché il governo cadde e si andò a nuove elezioni. La modifica, proposta dal centrosinistra, salvo Rifondazione comunista, con l'aiuto del centrodestra, salvo la Lega, prevedeva una sola frase: “L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali”.
Aggiungeva, cioè, qualcosa ai principi fondamentali che i costituenti non avevano inserito quando elaborarono e approvarono la Costituzione. Alla faccia della immutabilità della Carta e dei sui principi fondamentali.

venerdì 30 ottobre 2009

Così Orune fu trascinato nel fango razzista. Ne esca, per favore

Dalle nostre parti le uniche bestie sono gli immigrati romeni. Loro si che lo stupro l’hanno nel sangue”. Le parti di cui parla l'autore di questa infamia sono quelle di Orune. E il pensatore, Salvatore Carai, è un orunese, approdato a Montalto di Castro dove è stato eletto sindaco. Giustamente, Guido Melis ne chiede l'espulsione dal partito, il Pd, che a sindaco l'ha candidato e fatto eleggere.
C'è una ragione di decenza politica in cui non è lecito intromettersi, riguardando il costume di un partito. Ma c'è una questione che riguarda la comunità orunese nel suo insieme, offesa dal fatto che il nome di Orune possa essere associato, come hanno fatto i media italiani, a un personaggio di tal fatta. Orune dovrebbe, credo, espellerlo dalla comunità, dire che non è più un suo figlio.
Pochi di noi, penso, hanno associato la Sardegna e il paese del Nuorese all'autore di un fatto capitato qualche tempo fa, quando il sindaco di Montalto di Castro aveva offerto il patrocinio gratuito del Comune a otto ragazzi accusati di aver stuprato una ragazza del paese. In quella occasione, secondo quanto si racconta, gran parte di quella gente aveva plaudito alla decisione di Carai di proteggere, così, un suo nipote, implicato nello stupro di gruppo. Aveva condiviso il pagamento di un difensore a carico del Comune perché “quella ragazza era una poco di buono, è stata lei ad attirare nella pineta i ragazzi che poi ha accusato dello stupro”.
A questa brutta pagina di indifferenza collettiva, si è aggiunta qualche giorno fa la professione di razzismo del sindaco, “sardo barbaricino di Orune”, come si trova scritto nel sito dell'Osservatorio sul razzismo in Italia. La presidenza del Senato della Romania ha protestato con il governo italiano, un deputato del Pd ha proposto l'epulsione di Carai, ora la parola passa alla comunità orunese.

giovedì 29 ottobre 2009

Quello Statuto sardo sempre più lontano e dimenticato

La commissione regionale sulle riforme è rimasto senza presidente. Mariolino Floris, che avrebbe dovuto dirigere la discussione dei commissari sulle riforme istituzionali e quella dello Statuto regionale in primo luogo, ha dato le dimissioni. Il processo federalista è in atto – è la sua denuncia – e qui tutto è fermo. Come dargli torto? Lo schieramento di centrodestra cui Floris appartiene ha avuto la non banale intuizione di appoggiare la proposta di Nuovo statuto speciale, sa Carta de logu noa de Sardigna, subito dopo l'affossamento della Consulta voluta da Soru.
Si trattava di un club di saggi che avrebbe dovuto essere incaricato di scrivere la Carta fondamentale della nostra autonomia. Il centrodestra capì allora come più dello strumento per elaborare uno statuto fosse importante elaborarlo per poi presentarlo alla discussione dei cittadini sardi e alla conseguente sottoscrizione di una proposta di legge di iniziativa popolare. “E' necessario dare voce al popolo sardo perché, alla fine di un profondo dibattito, consegni ai Parlamenti della Repubblica e della Regione la sua volontà di acquisire tutti i poteri e tutte le competenze di cui ha bisogno per trasformare la Sardegna in una terra prospera” era scritto nell'appello poi sottoscritto dai presidenti dei gruppi del centrodestra in Consiglio regionale, oltre che da numerosi membri del Parlamento italiano.
La proposta del Comitato tale era, una proposta cioè da sottopporre alla discussione, alle critiche, ai miglioramenti di chiunque avesse voluto prender parte a un processo davvero esaltante. Vinte le elezioni, per bocca del presidente della Regione, il centrodestra ha assunto l'impegno di aprire una stagione costituente tenendo conto anche di quel progetto che aveva sottoscritto. Sono trascorsi nove mesi dalle elezioni e quasi otto da quell'impegno programmatico. In tutta onestà, nessuno può dire che sono troppi otto su sessanta mesi di durata di una legislatura. Ma il clima politico non è di quelli che fanno presagire un recupero.
Io non so che cosa abbia spinto Mario Floris a scrivere che “sono venute meno le condizioni politico-programmatiche che mi avevano fatto accettare l’incarico” di presidente della commissione riforme. Non so, cioè, se egli abbia sentore che il problema non sono gli otto mesi trascorsi invano, ma altro. Provo a immaginare che cosa sia questo “altro”. A cominciare dal fatto che si sia ripreso, come è successo nella passata legislatura, a parlare più di strumenti per scrivere che del che cosa scrivere. Ognuno capisce che quando si pone una questione del genere, la voglia di affrontare le questioni di sostanza non è poi così lancinante.
Fatto sta che prima i Riformatori (che pure avevano sottoscritto la proposta del Comitato) e poi il Psd'az (che a elaborare la proposta non aveva voluto partecipare) hanno rilanciato l'idea di affidare la scrittura della Carta fondamentale ad una Assemblea costituente. I sardisti, in più, hanno preteso che la creazione della Costituente facesse parte del programma di governo. L'idea è ottima in linea di principio, diventa dilatoria se si pensa ai tempi necessari perché sia realizzata. Se anche la Corte costituzionale non bocciasse una legge sarda in merito, passerebbe troppo tempo.
A questo si aggiunge che. non so se d'accordo con il suo partito, Paolo Maninchedda ha bocciato la proposta del Comitato per lo Statuto, definendola “inadeguata e arretrata, nella concezione e nell’articolazione”, senza dire quale potrebbe essere un'altra adeguata e avanzata. Non lo ha fatto nel momento della critica, ha continuato a non farlo nei giorni successivi, impegnato com'è a prendere le distanze dalla maggioranza e, non immotivatamente, dall'assessore della Culture. Sono tensioni all'interno della maggioranza, come spesso accade quando sono alle viste nuove importanti elezioni come quelle della Provincia di Cagliari. Insomma, non è il clima più adatto per mettersi a discutere di Nuovo statuto. Spero proprio di sbagliarmi, ma l'avvertimento implicito nell'atto di Floris non sarà in grado di accelerare il processo.