Non è che ora, dopo la sberla presa dai “centristi” ad Oristano (meritatamente conquistata dal centro sinistra), il principe democristiano Giorgio Oppi, diventerà improvvisamente buono? E che, come ritiene l'amico Vito Biolchini, sia ben accolto a casa dei migliori? Gli basterà un benefico lavacro democratico (nel senso del Pd) per far dimenticare le accuse di clientelismo mossegli fino ad ieri? Per quel poco che conta il mio giudizio, Oppi è un politico eccezionalmente rappresentativo della politica politicante, comunque e dovunque si schieri. E se il Pd vorrà imbarcarselo, buon pro gli faccia, ma per l'amordiddio risparmi cipria e cerone.
I consiglieri regionali del partito di Oppi, l'Udc, hanno condiviso e approvato l'ordine del giorno sardista che diceva: “Il Consiglio regionale, preso atto delle ripetute violazioni dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione da parte del Governo e dello Stato italiano nei confronti della Regione Sardegna, delibera di avviare una sessione speciale di lavori, aperta ai rappresentanti della società sarda, per la verifica dei rapporti di lealtà istituzionale, sociale e civile con lo Stato, che dovrebbero essere a fondamento della presenza e della permanenza della Regione Sardegna nella Repubblica italiana”. Lo hanno fatto senza chiarire se sono insieme sovranisti sardi e militanti del “Partito della Nazione” in costruzione in quella Italia rispetto alla quale si vorrebbero sovrani. So che, se mai Oppi mi leggesse, la risposta sarebbe: “Puro nominalismo”.
Nel progetto sovranista di Paolo Maninchedda di cui quell'ordine del giorno rappresenta una sorta di incipit, c'è un aspetto che non mi era chiaro: la somma di Udc, Idv, Sel, Psd'az, Api e Fli. Come dire la somma di carciofi, carote, pomodori che – ci hanno insegnato fin dalle medie – non si possono sommare. Una sua intervista con l'Unione sarda, a me, chiarisce alcune cose. E mi rincuora in un antico mio sogno: una Sardegna, normale nazione senza stato, in cui le distinzioni e i contrasti avvengono non fra una sinistra e una destra italo-dipendenti, ma fra fautori della sovranità della Sardegna e suoi avversari. Entrambi, sia chiaro, portatori di legittime idee e prospettive politiche, ma non affogate in un minestrone preparato fuori dalla Sardegna da una compagnia di catering italiana. La sinistra e la destra, se mai avessero ancora diritto di cittadinanza nella politica, sono dislocazioni ideali rispetto a un punto di vista. Voglio dire, come situare l'insieme di quanti hanno votato quell'ordine del giorno, Psd'az, Udc, Sel, Idv, Api, Fli? C'è chi se l'è cavata con un anatema lanciato contro i vendoliani che “fanno il gioco della destra”. Appunto, un anatema.
Nella sua intervista, Paolo Maninchedda chiarisce. Prevede “un progetto credibile. Non fondato sull’eroismo indipendentista, di chi pensa più a perpetuare la sua immagine che a costruire uno Stato. Bisogna avere il coraggio di chiedere, in campagna elettorale, un mandato per fare cose dure: sacrifici per rendere la Sardegna più civile, colta, laboriosa. Serve un grande patto solidaristico: forse dovremo dire a chi ha uno stipendio buono che non si potrà creare occupazione senza rinunciare a qualcosa.” E, inoltre, immaginando una battaglia politica il cui “discrimine non sia centrodestra contro centrosinistra, ma Sardegna contro Italia. Federalisti europeisti contro unionisti”.
E fuga un dubbio, quello da cui ero partito: “Se si fa un accordo tra segreterie, la gente non lo capisce. Altro è se si crea qualcosa dal basso, anche con chi ha ruoli di partito ma fuori dalle liturgie partitiche.” Sarà così? Davvero chi altro non vede se non le liturgie partitiche si rassegnerebbe a partecipare ad un progetto sovranista che non lo veda come principale azionista? La politica che abbiamo conosciuto sconsiglierebbe di farci affidamento. Ma è anche vero che questa politica così praticata ha cominciato a prendere sberle terribili.
1 commento:
O ZF, ti depo scrier gai ca in atera manera non at fatu. M'est arribbada una mail a "nomine tuo". Scrie-mi in privadu.
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