La cultura di centrodestra, salvo pochissime eccezioni e mai sui mass media, in Sardegna non si esprime sul rapporto tra Regione sarda e Stato italiano. Lo fa la politica, a volte per criticare o condannare l’acquiescenza del centrosinistra alle scelte governative, a volte – come ultimamente – per appoggiare una proposta di pieno autogoverno del popolo e della Nazione sarda.
Sul piano culturale, dunque, il dibattito interessa la intellettualità di centrosinistra e quella nazionalista. Dibattito è parola inappropriata, visto che l’intellighentsia di centrosinistra, sempre molto autocontemplativa, non dialoga: asserisce. Non prende in considerazione le posizioni degli intellettuali nazionalisti, fosse solo per criticarle, semplicemente le ignora. Chi ha la verità non sente bisogno di verificare le sue certezze con gli altri. Se no che verità sarebbe.
Grazie all’unico quotidiano, La Nuova Sardegna, che di queste cose si occupa con una certa regolarità (l’altro, L’Unione sarda, si occupa quasi solo d’altro), gli intellettuali di centrosinistra hanno la possibilità di disegnare la loro Sardegna del futuro nella quale è messa al bando l’identità. Non è un caso che lo stesso giornale ha eletto a rappresentanti nel mondo della Sardegna letteraria i più fieri denigratori dell’identità: i Fois, i Soriga, i Tedde, le Pitzorno. Di questa vi consiglio di leggere un testo, compreso in un libro, esaltato dal giornale e pubblicato anche nel mio sito.
Naturalmente, e indipendentemente dalle loro simpatie o militanze politiche nel centrosinistra, non sono compresi nei rappresentanti della letteratura sarda i tanti scrittori in sardo, magari veltroniani o socialisti ma col difetto di essere “identitari”.
Senza che i più se ne accorgessero - e con una accelerazione coincidente con il sentire urgente un nuovo Statuto di autogoverno - la cultura (la politica non ne è ancora pienamente consapevole) sta disegnando una società in cui la divisione passa non tanto fra centrodestra e centrosinistra quanto tra nazionalismo grande-italiano e sardità, variamente coniugata in autonomismo, federalismo, nazionalismo.
Ultimamente, con il garbo che lo contraddistingue, Salvatore Mannunzu ha sostenuto sulla Nuova che lo Statuto sardo deve essere adeguato alla Sardegna del XXI secolo, nel quale adeguamento, pare di capire, lo scrittore ed ex parlamentare del Pci non comprende il fatto che oggi esiste un diritto dei popoli all’autodeterminazione (sia pure nel rispetto dell’integrità della Repubblica) che nel febbraio del 1948 non esisteva. E per Mannunzu tutto o quasi deve essere giocato sul terreno dell’abbandono dell’identità.
La sociologa Antonietta Mazzette, sempre sulla Nuova, sostiene intanto che “l’uso del termine identità associato a specialità deve essere cauto e potrebbe persino risultare dannoso se riferito ad un ipotetico (sic) passato più o meno mitizzato”. Comunque sia, se di nuovo Statuto si deve parlare, tutto deve fondarsi sulla insularità e sulla qualità ambientale. La specialità della Sardegna, insomma, sia fondata – se proprio non se ne può fare a meno – sulla geografia e sull’ecologia, ma non su l’identità e, dunque, la lingua, la cultura, il sentimento nazionale.
Nulla di male, se prendessimo atto, tutti quanti, che i termini della battaglia culturale, politica e oggi elettorale, sono questi: una difesa della dipendenza da una parte, la volontà di autogoverno dall’altra. Qui, sinistra, centro, destra non c’entrano proprio: tutti e tre specchietti per le allodole. Le quali, come si sa, una volta abbacinate finiscono in padella.
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