domenica 15 agosto 2010

Il David a Firenze, i Nuraghi a noi

Non so se il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, sia consapevole di aver fatto un buco profondo nella diga dello statalismo. Ma con la sua rivendicazione della proprietà fiorentina del David del Michelangelo una bella crepa l'ha creata. Costringendo il Ministero dei Beni culturali, che gli dice “No, il David è dello Stato”, a un triplo salto mortale nel nome di una vulgata storica che tale è, una vulgata.
Secondo i legali di Bondi, il Comune di Firenze “nasce in epoca granducale, tra il 1771 e il 1783, e quindi non può essere considerato l'erede diretto della Repubblica fiorentina che nel 1504 pagò i 400 fiorini per saldare il debito contratto con Michelangelo dagli operai dell'opera del Duomo e dai Consoli dell'Arte della Lana che avevano commissionato il David per la cattedrale”.
Non è eredità della Repubblica fiorentina, insomma, perché allo Stato-città d’epoca comunale era subentrata la Signoria dei Medici, poi secoli dopo, il Granducato dei Lorena. "È una successione fra Stati, fino alla loro riunificazione nel Regno d’Italia, che non lascia spazio alla sopravvivenza di alcuna autonomia locale".
Il parere, è chiaro, è di avvocati che di per sé non hanno obbligo di conoscenza della storia, ma se nella storia si addentrano avrebbero quanto meno l'obbligo di usarla almeno da studenti liceali. Per dire, se esiste una successione fra lo Stato dei Lorena e l'Italia esisterà pure una successione fra la città-stato di Firenze, la Signoria dei Medici e il Granducato di Toscana, o no? Non c'è bisogno di scomodare la Dottrina della statualità del nostro amico Cesare Casula, basta non immaginarsi una storia fai da te.
Parlano poi, i due avvocati dello Stato, di “riunificazione nel Regno d'Italia”. Riunificare significa tornare a unificare qualcosa che fu disunito. E neppure la più ardimentosa vulgata nazionalista arriva a dire che l'Italia fu unita, poi disunita e, infine, riunificata. E poi dove? Unificata nel Regno d'Italia, come fantasticano i legali storici, o nel Regno di Sardegna, come in realtà successe? Disse un imputato orunese al suo avvocato che lo difendeva altrettanto malamente: “Dassade s'avoca', si duncas nos intregant s'ergàstolu”.
Ma, tutto sommato, queste sono rogne del Ministero dei beni culturali e del sindaco di Firenze. Mi interesserebbe di più che la Regione sarda approfittasse della breccia aperta da Matteo Renzi e delle argomentazioni del Ministero dei beni culturali. La preistoria, la protostoria e la storia della Sardegna offrono non poche ragioni per dire: questo patrimonio è nostro, non dello Stato. Mettiamo che sia vero quel che sostiene il Ministero di Bondi, e che, cioè, non c'è continuità fra la Repubblica fiorentina del 1504 e i successivi stati della Toscana che, effettivamente, cambiarono nome un paio di volte. Per la stessa logica, non esiste continuità fra il Regno di Sardegna e il Regno d'Italia.
Continuità ci fu, nel nome, fra il Regno di Sardegna del 1324, quello dominato dai catalani, dagli spagnoli, dai Savoia, ma solo fino al 17 marzo 1861? Dopo nacque un nuovo Stato o lo Stato rimase quel che era, cambiando solo il nome? E il giugno 1946 morto il Regno d'Italia, nacque il nuovo Stato denominato Repubblica italiana? E, infine, dove sono i documenti che certificano “successioni fra Stati”?
Il Ministero dei beni culturali e i suoi legali hanno messo lo Stato in un bel cul de sac. Buona fortuna e... grazie sindaco di Firenze.

1 commento:

elio ha detto...

@ Gianfranco Pintore

Caro Gianfranco, gli avvocati, anche quelli dello Stato, vanno sul filo del Diritto, non su quello della Storia. Eppure la Dottrina della Statualità di F.C. Casula, nel campo del Diritto sta, non nel campo sportivo.
La questione dell’utilizzo del patrimonio culturale, comunque, a mio modo di vedere, non si risolve con uno spostamento di competenze, dallo Stato alla Regione. Spostamento che, come hai ben illustrato, si prospetta terreno fertile per chi, per professione, spacca il capello in quattro e, storia o non storia, fa l’interesse del cliente (figuriamoci se è lo Stato). Con la velocità del nostro sistema giudiziario, hai voglia.
Il problema è nel titolo di proprietà. Sarà perché sono un malfidato ma il concetto di ‘servizio per il bene comune’ mi fa venire l’orticaria. Se una preghiera mi è lecito fare: mostratemi un esempio, uno solo, di buona amministrazione della cosa pubblica nel nostro avventurato Paese.
In democrazia è così, c’è poco da fare: gli amministratori, a qualsiasi livello, sono dei politici che fondano il loro ‘status’ sul consenso. Non per niente Churchill diceva, cito a mente, che “la democrazia è il peggiore di tutti i sistemi politici – aggiungendo subito dopo – se si escludono tutti gli altri”.
Ai nostri tempi per il consenso, e lo vediamo giorno per giorno, si fa qualsiasi cosa. Ecco perché la gestione del patrimonio culturale la vedo mal messa, in mano ai politici. È pur vero, come hai avuto modo di dirmi, non da molto, che i politici sia meglio averli ‘a portata di mano’: più lontani sono, più danni riescono a fare. Ma non basta. La ‘mala bestia’ della politica bisogna rinchiuderla in spazi quanto più stretti possibile e pretendere che faccia il suo essenziale compito che è quello di controllo del libero operare dei cittadini.
Mi sembra evidente dove io voglia arrivare: anche il patrimonio dei beni culturali se lo gestisca il libero cittadino che si organizza e rischia del suo e lo Stato, la Regione, i Comuni, in un sistema di sussidiarietà, nel rispetto della legge, controllino senza transigere. È un’ utopia? Forse sì. Ma se non impariamo a navigare nel mare infido della democrazia, troveremmo, prima o poi, qualcuno che ci metterà le briglie al collo. Come è spesso successo. D’ altra parte, anche oggi, se non sono briglie, come le vogliamo chiamare? Fiocchetti?