Se i nostri antenati non ci avessero lasciato maschere, inquietanti figure, bàrdias ed altri segni originali della loro civiltà irridente, temo che i nostri Carnevale sarebbero quanto di più piatto e globalizzato si possa inventare. Non c’è niente di peggio per un popolo del suo autocolonialismo, quella malattia dello spirito che lo fa colonizzato e contento di esserlo.
Seguendo servizi televisivi e articoli sui giornali, si ha l’impressione che l’inventiva di molti organizzatori di Carnevale paesani e extrapaesani si sia arresa ai modelli esterni, nel patetico tentativo di replicare sfilate viareggine o veneziane. Eppure hanno tutti, nel giro di pochi chilometri, esempi da reinventare modernamente l’originalità di una pratica carnescialesca che affonda le radici nei millenni passati e che, proprio per questo, è apprezzata in tutto il mondo.
Carri che hanno per protagonisti o Prodi o Berlusconi o Grillo o altri abitatori del bestiario politico italiano, altri che partecipano a concorsi di originalità con maschere ispirate ai cartoons americani, filate accompagnate da musiche sudamericane: la saga dell’autocolonialismo è servita. E i Carnevale sardi, la maniera autoctona di essere anticonformisti e trasgressivi, si trasformano in manifestazioni di conformismo e riverenza. Oltre che in folclore, il modo migliore per mettere in museo la cultura, le tradizioni e la civiltà di un popolo.
Oggi, ancora, si offrono vino rosso delle nostre vigne, dolci sardi, carni dei nostri salti. Ma non sarà per molto, temo. Se vincerà la concezione del mondo propria di questi organizzatori di Carnevale, non passerà molto tempo prima che siano offerti cocacola, merendineferrero, amburgermcdonald. Allora sì che saremo moderni.
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