lunedì 27 giugno 2011

Flotta sarda, una alzata di schiena

di Augusto Secchi

A memoria d’uomo una standing ovation così inaspettata non si era mai vista: i passeggeri di un traghetto proveniente da Vado Ligure che, all’apertura del portellone nella banchina di Porto Torres, applaudivano con le mani e le braccia sollevate al cielo, commossi e soddisfatti. Gli stessi passeggeri, intervistati dai soliti cronisti che si attendevano le ordinarie leggende sulle cotolette immangiabili e sui topi grandi come conigli e affamati come caimani, si sono sentiti rispondere che il mangiare era ottimo e abbondante, le cabine pulite e profumate, i mozzi assurdamente gentili e disponibili.
Dopo aver appurato che il traghetto era il Dimonios e non “La nave dei folli” dipinta da Hieronymus Bosch, l’intervistatore ha capito che stava assistendo a un evento che, probabilmente, avrebbe raccontato ai nipotini quando sarebbero stati in età di intendere. Gli unici che non hanno inteso l’entusiasmo, o che hanno fatto finta di non intenderlo, sono stati gli armatori che invece di fare il passo indietro a cui sono stati ripetutamente invitati da più parti, sono andati in escandescenze e hanno minacciato di denunciare il tutto a Bruxelles.
“Perché ci vogliono denunciare?” ha chiesto mio nonno sistemandosi la protesi acustica che non voleva sentirne di stare incollata all’orecchio. “Perché, anche se in ritardo, ci siamo ricordati che abbiamo una schiena” ho risposto io sollevando un po’ la voce. Dopo avermi urlato che non era il caso di urlare, e che lui non era sordo, con voce da comizio mi ha raccontato, con malcelato orgoglio, la storia di un’altra alzata di schiena, quella della Sardamare - una compagnia di navigazione tutta sarda - per la quale lui, giovane battagliero, aveva tifato. Un’alzata di schiena che però era naufragata assieme alle sue navi per colpa di un’Italia, già matrigna, che doveva garantire il regime di monopolio alla Tirrenia, come ci ricorda un interessante articolo, di Salvatore Tola, meritoriamente riproposto in questi giorni sul sito dell’Istituto Bellini e in altri siti.
A quel punto mio nonno, pur continuando ad armeggiare con la protesi che ronzava come uno sciame d’api, con una voce da banditore è riuscito a dirmi: “l’entusiasmo di quegli anni, te lo assicuro, è identico all’applauso tributato oggi dai passeggeri all’apertura del portellone del traghetto Dimonios della Saremar. Ma io, anche se idealmente mi sono unito a quell’applauso, non sono molto tranquillo. Ho il timore che anche questa volta interverrà qualche politico “patrigno” che, preso per la giacchetta dai poteri forti, impedirà a quest’alzata di schiena di diventare sistema, perfetto meccanismo che possa garantire finalmente il diritto alla mobilità di noi sardi per tutto l’anno”. “E’ anche la mia paura”, ho urlato io sistemandogli la protesi ribelle.

domenica 26 giugno 2011

Ajò a s'istrumpa: amenità estive in Barbagia

di Tonino Bussu

Una bella giornata di giugno, il giorno di San Giovanni, nel paese c’era qualche scampolo di festa molto sottotono, causa la crisi dei pastori per il prezzo del latte e per l’economia in genere, siamo saliti a San Basilio in un campo di lecci fitto fitto in mezzo ai massi affioranti intorno al massiccio e imponente cono granitico della montagna sacra per gli ollolaesi.
C’era una televisione francese, parigina, che voleva riprendere scene di istrumpa, l’antica lotta sarda per eccellenza, vi erano gli organizzatori, guidati da Piero Frau, presidente della Federazione di s’Istrumpa, c’erano i lottatori, tutti maschi, come la tradizione impone, ma di età varia.
Infatti si sono esibiti bambini in costume sardo piccolissimi, ragazzi e giovani che hanno dato dimostrazioni di abilità, forza, all’aria aperta, su un tappeto spesso di fogliame di leccio accumulatosi negli anni e che sostituiva in modo eccellente qualunque moderno tappeto sintetico.
Mentre giovani e giovanissimi, in rigoroso velluto e camicia bianca, si esibivano, vi erano tra gli spettatori  anche attempati istrumpadores, così si chiamano i lottatori di s’istrumpa.
E questi hanno ricordato i loro tempi quando s’istrumpa era praticata quasi quotidianamente , negli ovili, nelle aie, nelle tosature, nelle feste campestri e le sfide erano lunghe e interminabili spesso accompagnate dalla morra sarda, come è successo anche in questa occasione poco prima di pranzo e dopo.
Oggi si lotta in questo modo, diceva un vecchio lottatore, ci si avvinghia e si cerca di piegarsi per non essere battuti.
Ai miei tempi ci si avvinghiava in modo più stretto e ed era un corpo a corpo più ravvicinato.
Vedi, mi diceva, qualcuno pratica lo sgambetto, ma non sempre vince. Io, quando mi capitava un avversario che tentava di mettermi lo sgambetto, approfittavo dell’attimo fuggente in cui sollevava la gamba, gli facevo perdere l’equilibrio e lo buttavo giù.
Era infatti un momento importantissimo per mostrare l’abilità, non bastava la forza, non bastava l’altezza, era sa trassa, un concentrato di abilità e destrezza che faceva la differenza e che permetteva e favoriva la vittoria.
I commenti, sempre in lingua sarda, era molto interessanti, potevano essere utili consigli per i gherradores, sembrava svolgere il ruolo dell’allenatore per una squadra di calcio, e sarebbe stato opportuno farli anche con un microfono perché sentissero tutti e ne facessero tesoro soprattutto sos gherradores.
Mi sono reso conto, ancora una volta, dell’importanza che s’istrumpa venga raccontata, seguita, incoraggiata, sostenuta in lingua sarda, che è la lingua con cui questa lotta è stata sempre trattata nei tempi antichi, quand’era in voga e quando era veramente popolare e praticata quasi da tutti, mentre raggiungeva i momenti più significativi durante gli incontri per le visite di leva per il servizio militare.
Per i gherradores allora era come partecipare a un’antica saga, ad imprese eroiche e le loro gesta erano cantate e tramandate  nella memoria popolare e citate come esempi da imitare.. 
 Anche perché in quell’occasione i gherradores erano simboli del paese di provenienza e la loro vittoria era la vittoria della loro comunità per cui l’orgoglio maggiore, atterrando  l’avversario, era la consapevolezza di battere, vincere  non una persona sola, ma un intero paese.
E i nomi dei gherradores vincitori correvano nella bocca di tutti con tutte le loro gesta, le loro mosse, la loro abilità nello stendere l’avversario: tutti gesti e movimenti che servivano di lezione per i prossimi gherradores, era veri e propri momenti di formazione che rimanevano impressi negli occhi e nella mente dei giovani che li avrebbero ricordati per tutta la vita e che avrebbero fatto parte della storia sociale e civile  scritta nei libri della tradizione orale dell’immaginario collettivo di ogni comunità.
Questi ragazzi gherran, lottano bene, ma sono troppo influenzati dallo judo o da altri sport moderni- continuava s’istrumpadore attempato trasformatosi in critico sportivo.
E ricordava abilissimi lottatori che sfidavano, durante il servizio militare, graduati e superiori i quali, praticando diverse arti marziali, pensavano di essere ben piazzati, forti, sicuri e imbattibili, ma non riuscivano a vincere questi sardi, a volte anche minuti, ma tutto muscoli, forgiati nel duro e diuturno lavoro nella conduzione del gregge, nel governo dei cavalli e dell’ovile.
Un giovane di 22 anni circa aveva sfidato, durante il servizio militare, un suo superiore pur allenato e lo aveva vinto.
Ma tu hai fatto sport?-chiese il militare superiore al giovane.
No, mai fatto sport! E gli raccontò la sua vita da pastore e quello capì che la formazione nell’ovile creava dei lottatori  che già dalla stretta di mano manifestavano una forza inconsueta e superiore.
Tu, dopo il militare, dovresti abbandonare le pecore e avrai sicuramente una brillante carriera da sportivo- sentenziò il superiore.
Ma il giovane aveva solo voglia di rientrare perché il padre e il gregge lo aspettavano.
E certe volte non contava l’età o il peso, ma l’abilità.
E, sempre il vecchio gherradore, mi ha raccontato di un giovane di 16 anni che un giorno nei pascoli di Nuoro ha sfidato un orunese di vent’anni e l’ha vinto.
Quest’ultimo non ha sopportato la vittoria di quel ragazzo ed è scappato dall’ovile rescindendo il contratto di servizio con il pastore.
Altri tempi, tempi anche di intolleranza perché anche allora vi erano quelli che non sapevano perdere e non sopportavano l’affronto soprattutto dai più giovani di loro.
Durante il pranzo,  a base di squisite pietanze sarde, preparate da ottimi cuochi, a base di vrente o zurrette, gnocchetti locali e pecora in cappotto, pietanze aiutate nella digestione da un corposo quanto gustoso cannonau rosso cupo e da una aromatica acquavite locale,  si discuteva della crisi, del mangiare, dell’abbondanza dei pasti che oramai facevano più male che bene, est faghende male s’abrentu, e si confrontava la crisi di oggi con quella di una volta, quando i pasti erano d’obbligo molto parchi, anche durante le feste.
Mi ricordo che andammo con mia madre a San Cosimo, a cavallo, e ci portammo gli gnocchetti  pronti- raccontava un pastore attempato- A pranzo li abbiamo tirati fuori e li abbiamo divisi in porzioni con un coltello perché si erano quasi solidificati.
Non tutti avevano nemmeno la pastiera o il contenitore per il cibo- continuò-. Una signora lì, dal venditore ambulante, aveva acquistato un orinale e, dovendo servire un recipiente per un pasto, lo tirò fuori e, dopo aver garantito che ancora non era stato usato per la bisogna, fu accolto con favore anche se l’uso era improprio. E nessuno fece lo schizzinoso-concluse.
Eh, gana bona cheret! – at commentato un altro.
E allora si ricordarono le ristrettezze di un tempo, in confronto la crisi di oggi è uno scherzo, e i ricordi ci riportarono nel 1945, l’anno dell’invasione biblica delle cavallette.
In quell’anno, raccontava un altro, ero un bambino di cinque, andavo in campagna con mia mamma e una mia zia, io cavalcavo l’asinello e lungo la strada c’erano cataste di cavallette così alte che alla fine l’asino è affondato tra queste che gli coprivano completamente le zampe; e infatti a un certo punto non riusciva a muoversi, era completamente paralizzato!
Io cominciai a gridare, mia madre prese le briglie dell’asino e lo tirava, mentre mia zia lo sospingeva da dietro e solo dopo tanta fatica riuscimmo a liberarlo da quella massa vivente di insetti che era peggiore delle sabbie mobili.
Intanto la morra improvvisata continuava, e nel frattempo anche il regista, incoraggiato dagli istrumpadores, abbandonò il suo consueto ruolo e inscenò una dimostrazione di istrumpa.
Ci provò varie volte perché ormai ci aveva preso gusto. Chissà che tornando a Parigi non abbia l’occasione di incontrare gli amici bretoni, che di istrumpa se ne intendono, e magari perfeziona quella lotta vista e provata in Barbagia.

giovedì 23 giugno 2011

Il Festival di Gavoi senza limba. E dunque, senza Sardegna.

di Francesco Casula

Anche l’ottavo Festival di Gavoi, che inizierà il 30 Giugno prossimo, sarà senza Limba: parlerà tutte le lingue del mondo ma non quella sarda. Così come nei sette precedenti infatti è stata rigorosamente esclusa la letteratura in Sardo. Ed è spiegabile solo dentro una ottica biecamente italocentrica ed esterofila. Vanno bene infatti le star della letteratura spagnola (come Alicia Giménez-Bartlett  scrittrice di romanzi polizieschi o Ildefonso Falcones autore, fra l’altro, di La cattedrale del mare) o della letteratura tedesca come il pluripremiato Uwe Timm.
Vanno anche bene gli scrittori italiani e quelli sardi in lingua italiana: peraltro, sempre i soliti noti. Ma perché escludere la letteratura in limba? Perché ha prodotto poco? Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? E non dice niente a Fois e agli organizzatori del festival di Gavoi la produzione in sardo degli ultimi trent’anni ma segnatamente degli ultimi dieci? Eccola:nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi; nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57; nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. E parlo solo di quelle censite. Molte delle quali di gran vaglia. Certo, la lingua sarda, deve crescere. Ma sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità concrete per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana. E per poter essere conosciuta e apprezzata: il festival di Gavoi poteva essere una formidabile occasione in tal senso. E’ stata brutalmente censurata. Perché?
Probabilmente perhcè Fois e gli altri organizzatori del festival non credono a una produzione letteraria in limba che esprima una specifica e particolare sensibilità locale, ovvero “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come autorevolmente è stato scritto. E dunque non credono ad Autori che –ha sostenuto il compianto Antonello Satta- “sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”. Dimenticandosi, fra l’altro, che a riconoscere una Letteratura in limba è persino  “uno straniero”: un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente  come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”
Bene. Marcello Fois e gli altri sodali sono liberi di pensarla così. Ma almeno dovrebbero sapere e convenire che l’idea di una letteratura italiana che comprenda esclusivamente le opere scritte in italiano può considerarsi ormai tramontata. Il concetto stesso di letteratura italiana si è dilatato sino a comprendere l’insieme delle opere scritte in tutto il territorio dello Stato italiano, indipendentemente dal codice linguistico utilizzato. Pertanto le letterature “regionali”, un tempo considerate minori, sono diventate le diverse componenti di un quadro “nazionale” più vasto. Ciò che sostanzialmente deve essere riconsiderato è il rapporto fra il “centro” e le  “periferie”, dal momento che – come scrive in Geografia e storia della letteratura italiana, Carlo Dionisetti, il principale teorico di questi studi,- “la storia della marginalità reca un contributo essenziale alla storia totale in costruzione, perché si manda lo storico, senza tregua, dal centro alla periferia e dalla periferia al centro”. In tal modo, finalmente i fenomeni letterari possono essere considerati per il loro valore artistico, estetico, storico e culturale e non in base a un sistema linguistico. Oltretutto la furia italiota, italocentrica e cosmopolita gioca brutti scherzi: le star letterarie straniere vanno bene, ma escludere gli scrittori sardi in limba è segno di becero provincialismo non di apertura al mondo.
Ma del resto, non sono forse stati scienziati come Einstein e scrittori come Honorè de Balzac e Tolstoi –per non parlare dei nostri Giuseppe Dessì e Cicitu Masala- ad affermare “Descrivi il tuo paese e sarai universale”?

mercoledì 22 giugno 2011

I rattoppi di uno Stato in crisi di identità

Sarà perché la Santa Alleanza Giacobina è al di là di ogni possibile sopportazione, ma trovo la levata di scudi contro il trasferimento al Nord di quattro ministeri più straziante dell'idea leghista che una nuova repubblica federale abbia bisogno di tale trasferimento. Straziante, questa rivolta bipartisan, ma anche sintomatica delle lacerazioni forse insanabili dello Stato unitario e della decadenza di una “unità nazionale” alimentata con accanimento terapeutico.
Le forze in gioco in questa decadenza non sono rappresentate da piccole élite di cui la SAG possa prendersi gioco, non solo perché la Lega ha il consenso di un elettore ogni dieci di tutto lo Stato e molto di più nella cosiddetta Padania, ma perché da essa dipende la sopravvivenza di questo Governo, il cui ministro degli Interni non ha fatto mistero, domenica, di volere una Padania indipendente. Alla parte opposta c'è il sindaco di Roma, della capitale cioè che si vorrebbe depotenziare, e la presidente della Regione Lazio, entrambi di origine post-fascista e di sicuri sentimenti giacobini, al pari del cosiddetto Terzo polo e di parte importante del Pd ed alleati. In mezzo, il corpo molliccio del Pdl, combattuto fra il richiamo nazionalista granditaliano e l'urgenza di salvare il salvabile.
Più che portare al Nord dei ministeri, la richiesta leghista ha – mi pare – la funzione di far detonare le contraddizioni vere, reali che soprattutto in questo 150° si è cercato di nascondere sotto il tappeto tessuto di enfasi e retorica. Il Meridione italiano rinfaccia al Nord di essersi arricchito attraverso una politica di spoliazione delle risorse economiche, finanziarie e umane (le stragi commesse dal Regio esercito sardo fino al 1861 e italiano dopo il 17 marzo). Per decenni, i massacri sono stati nascosti o ingentiliti come frutto degli scontri fra legalità e brigantaggio. Ora i meridionali dicono: basta.
Il Nord italiano rinfaccia al Meridione di essere una palla al piede, di aver succhiato una quantità enorme di denaro senza sviluppare una propria virtuosità economica e si citano in questi giorni le cifre di questo disastro: ogni cittadino della provincia di Milano paga di Irpef allo Stato 6.357 euro ogni anno, 5.000 in più di quanto paghi un cittadino della Provincia di Lametia Terme, 2.000 più di ogni romano. E, dicono, i padani, non solo i leghisti: ora basta.
Fra questi “basta” si gioca non tanto una incomprensione fatta di reciproci malumori e lamentele, ma una inconciliabilità diventata azione politica, come dimostrano le grida di “secessione” dei leghisti a Pontida, le minacce di reazioni parlamentari a Roma, la creazione di movimenti sudisti all'interno del centrodestra oltre quello sicilianista di Lombardo. Al momento, e soprattutto dopo la vittoria alle amministrative e in attesa dell'alternanza sperata nelle prossime elezioni, il centrosinistra si presenta come baluardo dell'idea unitarista. E non è detto che proprio questa sua proiezione ideale di custode della Costituzione tale e quale non coalizzi, alla fine, il consenso di quanti pongono il “sentimento nazionale” al primo posto. Molto più di quanto possano fare finiani, rutelliani e casiniani con il loro Polo della Nazione.
Si tratta di vedere, ammesso che così sia, se l'empito nazionalista del centrosinistra alla fine dei conti renda più coeso lo Stato o e, invece, favorisca la sua dissoluzione: Nordismo e Sudismo non mi paiono semplici operazioni elettorali, non più almeno. E la Sardegna? Secondo l'amico Torchitorio anche nella nostra terra c'è qualcosa che si muove sia nell'uno sia nell'altro schieramento che rimescola le carte di una dipendenza pluridecennale succhiata con il latte materno dell'unità nazionale, addolcito da una autonomia già vecchia quando nacque. L'indipendentismo e il nazionalismo che in Sardegna ha una matura tradizione hanno sì regalato cultura della sovranità a gran parte degli schieramenti politici, ma non sono mai riusciti a gestirla in proprio, salvo negli anni Ottanta quando sprecò l'occasione rinseguendo miti non propri.
Sarebbe una cosa normale – per di più conosciuta e sperimentata in altre nazioni senza stato – che accompagnassero la crisi dello Stato “statale” e l'affermarsi della sovranità nazionale senza pre-determinare a priori quale sia lo schieramento (centrosinistra o centrodestra, tanto per capirci) più ricettivo le istanze di sovranità. Come diceva un antico saggio, la migliore maniera per conoscere il sapore di una mela è assaggiarla.

martedì 21 giugno 2011

Nos depeus permìtiri de tènniri unu bisu bellu

Anna Cristina Serra
de Anna Cristina Serra


Apu ligiu deu puru, mancai de “tecnolesa “ e unu pagu in ritardu, totu su chi est sussedendu a fùrriu de sa lsc e àteru e ti domandu su prexeri de mi donai ospitalidadi in custa domu tua de ancà passant medas boxis e ancà deu puru ia a bolli’, cun umiltadi manna, donai tretu a sa mia.
Nc’apu postu unu pagu a pigai parti a s’arrexonamentu ca mi pìtziat meda e diaderus a biri ancora is Sardus stochigendusì a pari ma, a nai su chi sciu e apu biu e bìviu, est unu doveri. Scriu de tant’annus (giai 20 prus o mancu) in sardu (depu aciùngiri campidanesu?) apu pigau parti a medas e medas cuncursus de poesia , apu adobiau logudoresus, nuoresus, gadduresus, tabarchinus, catalanus, sassaresus, maddaleninus e aici sighendu e apu sperimentau ca sa limba fut e est una maîa chi podit torrai sùlidu a su tretu prus fungudu de custa identidadi nostra pratzia in centumilla arritzolus. Nudda s’at ispantau de is diversidadis nostras, antzis richesa manna po totus!. Andendu andendu eus sperimentau puru ca iat èssiri stétia pretzisa una manera sceti de scriri su sardu po cantu medas de nosu essant postu menti a is régulas ortogràficas donadas de s’Ozieri a is calis abellu-abellu si seus uniformaus. Duncas sa necessidadi de una régula ortogràfica ùnica ddeus inténdia totus (o giai) e nd’eus arrexonau medas bortas (is chi scrieus e arrexonaus in limba sarda).
Duncas pretzisa po is chi scrînt: no sciu po Maninchedda e po is professoris de s’Universidadi de Sassari chi fortzis custa limba no dda scrint e mancu dda chistionant! E poneus puru chi custa LSC (sperimentali, si podit aconciai cun su contribbutu de totus, nemus est obbrigau a dda chistionai ni a dda scriri, est una limba aministrativa, serbit a sa Regioni po is documentus in bessida etc etc : tocat a nai custas cosas poita a pitzus de sa LSC s’at nau unu muntoni de fràulas...) no andit beni: poita no si podit milliorai impari, cun s’agiudu de totus? Poita depeus permìtiri chi invecis de tènniri unu bisu bellu: cussu chi cras is Sardus potzant èssiri un’àtera borta totus unius si depeus invecis pentzai ancora pratzius e cumandaus? Custu est in coru miu su bisu po sa LSC (o sa limba de totus ancà totus impari cras eus a lòmpiri) e pentzu chi no siat unu bisu de su coru miu sceti.
Apu ligiu fintzas ca po calancuna studiosa “lingua o dialetto” est sa própiu cosa: fortzis po issa e po calancunu de is cumpangius sûs académicus chi ponint sa lingua in pitzus de una tella de losa, dda sperrant, dda setzionant, dda faint in pimpiridas: dd’esàminant, nant, ca issu funt is scientziaus de sa limba e connoscint totus is regulas ma fortzis no connoscint sa de su coru ca a custa limba, medas de issus, no dda stimant e de nosu e de su cras de fillus nostrus no ndi ddis frigat nudda! E a pustis narat puru chi depit èssiri sa Regioni a fàiri is regulas: ellus e chini depit èssiri, s’Universidadi de Sassari? A chini rapresentat s’Universidadi de Sassari? A mimi no e mancu, creu, a is amigus mius poetas e scritoris, chi sceti de unu pagu de tempus a custa parti ant tentu logu, tretu e dinnidadi in is “pentzamentus” de sa Regioni. E ddu depint a s’atentzioni de su Diretori: cussu chi nci bolint bogai poita is personas intelligentis strubbant. Dosinò mi depint nai ita nexi tenit su Diretori de s’Ufìtziu po sa Limba Sarda. Cussu de èssiri una persona onesta, chi fait beni su trabballu sû e chi issu puru, fortzis creit in-d-unu bisu e at trabballau e trabballat po biri sa genti sua unia e no pratzia e ddu fait cun sa castiada spùndia facias a su mundu e no a conca indùllia? Mi depint nai ancora cali àtera nexi tenit. Cussa de àiri circau de fàiri una politica linguistica po cras? De àiri giustamente pregontau is contus de comenti si spendit su dinai de sa Regioni chi est su dinai nostru puru? Deu no ddu cumprendu. E no cumprendu nimancu ita nc’intrit sa lsc cun su Pianu triennali po sa limba! At’èssiri chi calancunu bolit spendi’ su dinai po fai’ àteru?
Po cantu costat a mimi mai comente in cust’ùrtimus annus is gennas de s’Ufitziu po sa Limba sarda funt stétias abertas a nosu e a su mundu. Deu no mi seu mai inténdia foras, ddoi seu sempri andada cumbidada e no cumbidada ca cussa est domu mia puru e po su chi fàtzu is chi ddoi funt inguni ddoi funt po rapresentai fintzas e a mimi e, a nai sa beridadi, m’ant sempri ascurtau e ant tentu in contu su chi apu nau mancai deu no apa mai scritu unu fueddu in limba sarda comuna: mi praxit s’idea de una limba sarda po totus, custu giai. E is àterus, is cumponentis de is Académias po custu o po cuddu sardu podint nai su própiu? Funt andaus e nci ddus ant bogaus? No ddus ant arricìus? Deu no creu, giai chi apu biu ca ddoi at logu po totus ca sa limba est de totus no sceti de s’Universidadi de Sassari o de is Académias o de calancunu eia e de àterus no.
A pustis un’àtera crosidadi: ia a bolli’ sciri s’Académia de sa Lingua (una Académia calisisiat, ca parit chi nci nd’apat a su mancu duas) cali limbazu sardu campidanesu at “arregulau”: su de Caputerra, su de Santu ‘Idu, su de Sant’Antiogu, su de Meana su de Sèneghe o su de Curcuris? M’est fetu a origas ca ant imperau su limbazu de is cantadoris mannus campidanesus ma iant a dèpiri sciri ca in medas biddas, a dolu mannu nostru, is cantadoris campidanesus no ddoi funt mancu mai passaus o si ddoi funt passaus no ant lassau s’arrastu de cussu limbazu. Ma custa puru iat a podi’ essi‘ una proposta de pigai in cunsideru e giungi’ a is àteras po chi sa limba de totus siat ancora prus manna. E un’àteru pentzamentu: ma no iat a essi’ mellus a ndi normai una de limba invecis de medas chi, a su própiu, no podit pònniri de acórdiu mancu is campidanesus etotu medas de is calis no si podint riconnosciri in cussu chistionu? E m’iat a fai’ prexeri puru a isciri, giai chi su trabballu insoru est stétiu aprovau de sa Provintzia de Casteddu, si po is progetus de cras ant a depi’ pigai su parri’ de s’Assessori a sa cultura nou: deu no ddu connosciu e at èssiri siguramenti bonu, capassu, at a tenni’ minescimentus mannus in àteru ma po cantu pertocat sa difesa de sa limba e de s’identidadi de su populu nostru lassaimì sa libbertadi de tènniri calancuna duda chi sa cosa ndi ddi potzat bènniri de intrànnias: a cali Babbus sûs innoi depit torrai alientu, cali fillus sûs, de oi e benidoris, innoi depit amparai?
Cumpadessei si seu stétia atrivia ma funt dudas chi m’ingraiant su coru. Medas cosas nc’at ancora de nai e speru chi no manchit un’adóbiu po ddas pòdiri acrarai ma, chi potzu, a ùrtimu e a fini, ia a bolli’ ghetai una boxi própiu a issus, a is amigus mius campidanesus cun amigàntzia e stima nendiddis: no si lasseis incantai de is sirenas frassas comente cussas chi boliant collunai a Ulisse (ca tanti eis giai cumpréndiu ca a is sirenas chi bolint incantai a bosàterus de su campidanesu no ndi ddis frigat nudda) ma comente a issu torrai a puntai sa vela de sa nai facias a domu de bosàterus chi est sa domu de totus is Sardus chi creint di èssiri unu pópulu, una Terra, una limba ca totu s’àteru s’aconciat in viagiu. 

domenica 19 giugno 2011

Sa Fiandra, su de 28 istados de Europa?

In Europa b’at chie est traballende a beru pro s’indipendèntzia sua.
Sa Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA, Alliàntzia Neo-Fiaminga) est unu partidu polìticu fiamingu nàschidu dae s’isorvimentu de sa Volksunie in su 2001. Su N-VA est devènnidu, in su mese de làmpadas de su 2010, su partidu prus rapresentadu in sa Càmera de sos Rapresentantes de s’Istadu federale belga, cun su 29,5% de sos votos, 27 parlamentares, de 150 chi sunt presentes in sa Camera de sos deputados. Unu resurtadu chi perunu movimentu indipendentista fiamingu fiat mai resessidu a otènnere.
S’idea fundamentale de sa N-VA est s’indipendèntzia de sa Fiandra, in intro de s’Unione europea. In manera polìtica e democràtica e non rivolutzionària, est craru, comente cunfirmat finas su programa chi ponet sa paghe comente prioridade assoluta.
S’idea de sa N-VA no est una fantasia ne unu disìgiu, ma una possibilidade reale, ca comente narat Bart de Wever, su presidente suo,  s’Istadu belga «s’est ispoporende» a bellu a bellu, s’est sorvende, s’est cambiende in fumu. Difatis, est dae su 22 de abrile de su 2010 chi su Bèlgiu non resessit a formare unu guvernu!
Su Bèlgiu est membru de sa UE, in manera formale, ma a nàrrere sa giusta, in pràtica, in intro suo, b’at petzi duas entidades a contu issoro: sa Vallònia e sa Fiandra. 
Est finas craru chi chie no nde cheret prus s’intesa de su Bèlgiu est mescamente sa parte fiaminga. S’ùnicu partidu vallone antibelga est su Rattachement Wallonie France, chi non leat prus de su 1% de sos votos.
B’at prus de una possibilidade de praticare custa voluntade indipendentista fiaminga, a pàrrere de sos espertos.
Una est chi, decrarende s’indipendèntzia sua, sa Fiandra diat essire dae sa UE, lassende su nùmene Bèlgiu e sas istruturas istitutzionales a sa Vallònia. Finas ca, connoschende sa paga istima chi sos Fiamingos ant semper tentu pro s’Istadu belga chi at semper afogadu sa limba e s’identidade fiaminga, sende chi comente istadu federale li deviat assegurare paridade, non benit bene a crèere chi siant sos Fiamingos a pretèndere de si mantènnere a sa sola su Bèlgiu! Cosa chi imbetzes diat agradare de prus a sos Vallones!
Un’àtera possibilidade est chi su Bèlgiu, in antis de iscumpàrrere, detzidat de si nch’essire dae sa UE (cosa possìbile pro su Tratadu de Lisbona e s’art. 50 suo). A pustis, sas duas realidades istatales noas diant presentare sa candidadura issoro pro intrare, cada una a contu suo, in sa UE. Comente est capitadu cun sa Repùblica tzeca e s’Islovàchia.

Dae Eja

sabato 18 giugno 2011

Si indaghi su come l'Università spende per la lingua sarda

Murale su una parete di
Radiu Supramonte, Nuoro 1979
di Mario Carboni

Caro Gianfranco,
ho letto le tue note alle affermazioni di Paolo Maninchedda sulla lingua sarda. Premesso che ogni idea e affermazione sono legittime, mi chiedo quale sia la linea di politica linguistica del Psd'Az, se coincida con quella di Maninchedda o sia diversa. Mi chiedo anche qual è la linea di politica linguistica di tutti gli altri partiti presenti in Consiglio e quella delle aggregazioni di centro, destra o sinistra che si fronteggiano, e non ho risposta.
Tuttavia anche le organizzazioni fuori dal Consiglio regionale, comprese quelle dei neo indipendentisti non ne hanno una e quindi si riconferma il ruolo dei singoli che credono nella lingua sarda, dell'associazionismo non partitico ed in particolare de Su comitadu pro sa limba sarda del quale facciamo parte dalla sua nascita.
Condivido ciò che scrivi ma mi chiedo come mai proprio ora si affastellino osservazioni, note, dichiarazioni, azioni scoperte e coperte contro la lingua sarda e il processo di sua standardizzazione, normalizzazione, sperimentazione ed uso sopratutto nelle scuole e nell'università, oltre che nelle amministrazioni pubbliche.
Tutte queste manifestazioni, anche le più mastruccate, hanno un carattere reazionario, di pura reazione a chi fa azione pro sa limba sarda, contro un movimento di volontari che certo non ha la verità in tasca ma esiste e non da oggi e in opposizione a chi non vuole che il sardo abbia almeno la stessa dignità dell'italiano, con lo scopo di interrompere il cammino iniziato da Su comitadu pro sa limba sarda nel lontanissimo 1977. Questo movimento è bene sempre ricordarlo, ha utilizzato per primo e con successo la democrazia diretta proponendo la legge popolare sul bilinguismo.
Fu una rivoluzione culturale ed un successo popolare.
Oggi il sardo è lingua propria dei sardi in applicazione della Costituzione (compreso il catalano d'Alghero), la legge regionale 26 riconosce e tutela anche il gallurese, il tabarchino, sassarese.
La Convenzione europea riconosce la lingua sarda come lingua della Minoranza nazionale sarda e ogni anno chiede conto allo Stato della sua applicazione.