lunedì 31 agosto 2009

Scritta vicino al Nuraghe Losa, sempre vista mai guardata

di Gigi Sanna

Caro Gianfranco, 
chissà quante volte anche tu ci sarai passato accanto, senza notarla. Così come me, come i primi archeologi con il primo primitivo piccone, come gli archeologi del pennello di oggi, come le decine e decine di migliaia di persone che ogni anno visitano l’imponente e maestoso Nuraghe Losa. Non è sfuggita invece alla vista acuta di Tonino Mura, il presidente del G.R.S ( Gruppo – archeologico - Ricercatori Sardi). Di che cosa parliamo? Di una pietra singolare, davvero singolare. All’apparenza un masso basaltico (di mezzo metro circa per altezza e larghezza) come tanti altri, quasi informe e senza significato alcuno se non intervenissero a darglielo dei segni, dei ‘grammata’, che, senza alcuna ombra di dubbio, dopo una sfida di millenni (sicuramente vennero tracciati più di 3300 anni fa) appaiono, riportati in netto rilievo, su gran parte della sua superficie:una protome taurina sulla parte superiore a sinistra di chi guarda ed un serpente sulla parte bassa a destra. Ad una attenta osservazione però si nota che I due segni pittografici non sono soli.
Ad essi si aggiunge un terzo più difficile da individuare, quasi ‘nascosto’, che è reso dal vistoso prolungamento del corno sinistro del toro, disegnato ad ‘uncino’ o ad ‘elle ‘ di tipo sinistrorso ruotata a destra di 90 gradi. Ora, per chi conosce almeno un po’ l’epigrafia prefenicia, soprattutto quella cosiddetta protosinaitica, la lettura si presenta abbastanza agevole; non solo di per sé, ovvero per la sua compiutezza e chiarezza grafico-fonetica, ma anche perché il ‘testo’ risulta attestato nelle iscrizioni sinaitiche (v.fig.1) sia con la sequenza ‘toro (‘aleph) – bastone (lamed) sia con il segno del ‘serpente’. Assieme essi hanno, come si sa, un significato ben preciso: i primi due segni infatti offrono il nome di ‘El’ ed il terzo il logogramma ‘nahas’ (serpente). Cioè alla ‘lettera’ dalla lettura ricaviamo: ‘Dio (‘El) Serpente’. Nella pietra di Losa di Abbasanta dunque, troviamo attestata una breve scritta che, inequivocabilmente, conduce, ancora una volta, alla divinità nuragica yhwh ( Yahu> Jaku+ d ) di cui parliamo ormai da diverso tempo, anche con insistenza, dal momento che tutti o quasi tutti i documenti ‘nuragici’ scritti ad essa fanno, in vario modo, riferimento (il prossimo articolo, se me lo concederai, sarà dedicato all’iscrizione ‘semitica’ di Su Nuraxi di Barumini).
La lettura però, a mio parere, sia per letteratura corrente (il tentativo di carpire il significato del nome ‘EL: ugaritico ‘IL. ILI nel Nuraghe di Aidu ‘e Entos di Bortigali) sia per quanto mi sento personalmente di aggiungere per linee essenziali sul documento sardo, non si esaurisce qui.
Innanzitutto si noti il particolare (da non trascurare mai nella scrittura nuragica) del numero, ovvero del ‘tre’ (i tre segni), il numero sacro relativo all’essenza della divinità Yhw. Quindi si osservi un’altra della caratteristiche ormai sufficientemente certe della scrittura arcaica sarda o protosarda, ovvero quella del ricorso molto frequente all’agglutinamento o accorpamento delle lettere di cui abbiamo già parlato, qualche mese fa, in questo stesso Blog. Infine il tipo di lettura ‘regressivo’ cioè che corre da destra verso sinistra (ma in protosinaitico - si tenga presente - ciò non costituisce una norma. Anzi).
I semitisti, come in molti sanno, hanno cercato e cercano di dare un significato al nome ‘El , tradotto generalmente, come ‘dio’. Si pensi ad esempio al biblico ‘El Yhwh’. In realtà, come non pochi sostengono, il nome di ‘El, formato dall’acrofonia delle parole ’aleph e lamed , tende a significare la ‘natura’ o ‘la qualità’ del dio perché suggerisce con l’animale e l’oggetto schematici l’idea di ‘ potere (bastone) del toro’, ovvero più astrattamente il ‘potere, l’autorità di quell’ entità suprema che possiede la forza assolutamente più grande (taurina).
Sempre per letteratura corrente è noto dai documenti epigrafici del Sinai (v.fig.2) che il ‘serpente’, animale cassato e/o (così come il toro e l’uccello, ovvero il ‘toro alato’) declassato, con l’andar del tempo dalla simbologia degli scribi- teologi biblici, è il simbolo più forte di YHWH. Il serpente infatti è in origine icona frequente del dio ebraico delle tempeste, del dio giudice e del dio protettore del suo popolo, del dio guida, salvatore, guaritore ecc. ecc.).
Ciò che mi sento di aggiungere e di proporre è il fatto che l’agglutinamento ’aleph –lamed (toro–bastone) nella pietra di Losa di Abbasanta non vuole essere tanto o solo un ‘prosaico’ vezzo formale dello scriba sardo in quanto esso ha lo scopo di aggiungere carica di senso alla scritta, apparentemente così scarna con i suoi tre significanti pittografici. Tende cioè a sottolineare e a suggerire la straordinarietà o singolarità di quel toro con il corno sinistro così… strano. Una straordinarietà che non può non richiamare, come altre volte ho scritto, soprattutto a proposito delle superbe tavolette di Tzricotu di Cabras, la ‘qualità’ celeste del bue ‘Api’ o Bue ‘alato’ . Così non solo ci troviamo davanti a tre lettere ‘pittografiche ‘ (’aleph, lamed, nahas) ma ci troviamo, grazie alla raffinata allusione del corno–bastone (segno non riscontrabile se non in via del tutto eccezionale in un bue ‘normale’ o terreno ) ma anche davanti a tre ‘aspetti’ dell’essenza della divinità: quello di Toro, di Uccello e di Serpente (v.fig.3). E in questa sede, circa la presenza di questi tre simboli divini (in genere simboli-segni con valore fonetico) credo che non sia proprio il caso di dilungarsi con esempi documentari, quelli che in molti ormai conoscono e riconoscono (tavolette di Tzricotu, anello di Pallosu di S.Vero Milis, Concio di S.Pietro exra muros di Bosa, Vaso di ‘La Prisgiona’ di Arzachena, ‘brassard’ di Is Loccis–Santus di S.Giovanni Suergiu, ecc.).
Caro Gianfranco, ti prendo ancora un po’ di spazio e approfitto della tua cortesia per cercare di spiegare brevemente (e anticipo qui un argomento che tratterò anche per il documento di Barumini) un fatto, relativo alla scrittura, che porta molte persone, dilettanti o non, anche archeologi (sardi e non) di notevole capacità e di buon livello scientifico, a non capire la natura precisa di una certa documentazione che si trovano eventualmente a scoprire e ad esaminare.
Abbiamo visto che la pietra di Losa presenta tre lettere pittografiche. Queste, se individuate bene, non creano difficoltà alcuna circa la loro arcaicità e tipologia, tanto che difficilmente si troverà qualcuno che sostenga, con un minimo di credibilità, che si tratti di lettere romane o greche o etrusche. Supponiamo invece di trovarci con la stessa, identica scritta, non più in caratteri protosinaitici pittografici ma protocananei (si veda ad es., per riconoscerli bene, il famoso ostracon di Izbet Sartah: Naveh 1982 p. 37 fig.31) che, a distanza di alcuni secoli, tendono (seconda metà del Secondo Millennio a.C.) a schematizzare sempre di più i pittogrammi di partenza.
L’esito sarà esattamente quello che riporto nella figura 4. Stavolta, come si può notare, uno non avrebbe esitazioni e giurerebbe di trovarsi di fronte ad un testo in caratteri ‘romani’ e prenderebbe naturalmente per svitato chi proponesse di riportare la scritta, con il suo significato, al XIII o XII secolo a.C. E’ quello che è successo, purtroppo, ad epigrafisti ingenui quanto presuntuosi, anche per il bellissimo e preziosissimo documento, ugualmente lapideo, del Nuraghe Pitzinnu di Abbasanta. Naturalmente esempi di testi con lettere protocananee simili o identiche a quelle romane (e quindi alle nostre attuali), che possono trarre in inganno chi non conosce bene o non è molto attento allo sviluppo storico–formale dei segni alfabetici, se ne possono fare quanti se ne vuole. Quando poi i ‘segni’ vengono agglutinati  (il che accade molto spesso) a ‘rebus’ dagli scribi ‘nuragici’ la possibilità di incorrere in errore (e di prendere fischi per fiaschi) è ancora maggiore.
 
 
P.S. E’ da molto che,per motivi ‘oggettivi’,non posso vedere e leggere i contenuti del Blog. Non posso quindi rispondere a tutti e a tutto per quanto particolarmente mi riguarda. Vedo che qualcuno, come Maurizio, mi ha tirato indirettamente in ballo per quanto riguarda la presenza della ‘scrittura’ nuragica . Io non so se essa sia ‘post-tribale’ o non. Anche perché non mi interessano tanto le classificazioni e le schematizzazioni, in genere scolastiche e che lasciano il tempo che trovano Quello che so che essa c’era e che i documenti sono databili con certezza al periodo cosiddetto ‘nuragico’. Posso dire ancora che sono tutti di ispirazione semitica quanto ad alfabeto e al lessico.Tranne alcuni segni tipicamente ‘sardi’ (il beth ad esempio e lo shin) e qualche parola indoeuropea che compare qua e là. Ma importantissime tutte.
Posso aggiungere infine che tutta la scrittura si presenta come emanazione di scribi –sacerdoti del tempio (il nuraghe). Se Maurizio ci crede sarà .…felice; come scrive. Perché ritiene strano, anzi stranissimo che i costruttori dei nuraghi non scrivessero. Sulle pintadere: caro Franco cercherò, con notevole ritardo, di dire la mia. E punto molto, ma molto sul significato del ‘cinque’. Per Maura: non capisco perché io sia da …temere. Comunque, noto che ha mandato da acuta italianista un post che è bellissimo per lo spirito del Blog di Gianfranco. Il più bel romanzo (a puntate e con una raffinata regia) di Gianfranco è il Blog stesso. Che varia umanità! E che protagonisti! Nel bene e nel male.Per tutti il ‘saluto’ caro che ho suggerito a Franco Laner.


Le foto (dall'alto in basso): La pietra del Nuraghe Losa; (fig.1) Toro più bastone (lamed); (fig.2). Il serpente delle iscrizioni del Sinai; (fig.3) Toro, Lamed, Serpente. Il Dio ‘El; (fig.4) Toro, corno, serpente con scrittura poco o non più pittografica

domenica 30 agosto 2009

Noi sardi, al tempo della preistoria

di Pierluigi Montalbano

In Sardegna, verso metà del secondo millennio a.C., si erano sviluppate forme di civiltà in villaggi sorti intorno a residenze fortificate, in zone in cui la pesca, la pastorizia e l'agricoltura avevano avuto un imponente sviluppo. Di queste civiltà si hanno prove e testimonianze che risalgono fino al sesto millennio a.C.: sono diffusi oggetti di ceramica tardo neolitica, lavorata a mano, sottoposta a procedimenti di lisciatura o incisione e dipinte con forme geometriche non prive di variazione di fantasia.
Queste antichissime testimonianze, di gran lunga precedenti la comparsa dei nuragici, provano la presenza di vita religiosa ed economica in Sardegna già prima del contatto della regione con le grandi civiltà della Mesopotamia. Dimostrano inoltre l'esistenza di un antico sostrato di civiltà indigena con sviluppi autonomi, che ha percorso i presupposti necessari per il diffondersi di centri commerciali che scambiavano i prodotti della pastorizia, dell'artigianato e dell'agricoltura locali.
I centri di scavo ci mostrano prove di elevato tenore di vita con presenza di ceramiche colorate e decorate che rivelano la presenza di grandi ricchezze dei dinasti locali. La presenza di agenzie commerciali si protrasse per molti secoli, comportando progressi nella vita economica e culturale dell’isola: durante il secondo millennio si può parlare di una forma di colonialismo commerciale, che non soltanto lasciava sopravvivere l'assetto politico e sociale precedentemente trovato in Sardegna, ma determinava miglioramenti nella tecnologia in genere e in particolare nella metallurgia, in quanto insieme alle merci venivano importati anche procedimenti tecnici nella fabbricazione dei manufatti.
In questo periodo, forse per influenza Mesopotamica, anche le tradizionali figure religiose abbandonano la stilizzazione neolitica per assumere caratteri maggiormente realistici e antropomorfici, e cominciano ad apparire insieme con altre figure di uomini o di animali. La produzione ceramistica fa pensare ora all'esistenza di una più vasta sfera di acquirenti, con esigenze di gusto più complesse e più sensibili all'arte. Le nuove influenze introducono motivi decorativi inediti accanto alle antiche forme geometriche. Compaiono spirali, linee ondeggianti, grandi anfore e grandi brocche di ceramica non soltanto dipinta ma anche a rilievo e, nello stesso tempo, si introducono nuovi procedimenti di verniciatura e si imitano in argilla oggetti di bronzo, impiegando vernice e modellature che danno alla terracotta dipinta l'agilità, la fantasia e la ricchezza degli oggetti metallici.
La comparsa del vino come bevanda suggerisce tazze particolari e concede all'estro dei modellatori libertà di invenzione nella creazione di brocche con becchi che consentono di versare il liquido, certamente prezioso, senza sprecarlo. Un miglioramento generale del tenore di vita e più articolate esigenze nei consumi presuppongono però una nuova struttura sociale, che non è più concepibile in forma di grosse aziende agricole nelle quali tutti i sudditi lavorano per il sovrano, mediatore rispetto alle forze divine di una religione idolatrica, con una funzione a un tempo magica e sacrale.
Il maggiore sviluppo antropomorfico delle individualità divine indica, a sua volta, che la divinità ha abbandonato le arcaiche forme idolatriche (divinità come potenza generativa della natura) pur restando legata a una forma prevalentemente naturalistica, inerente principalmente al felice sviluppo di tutti i cicli della vita, dell'agricoltura e della pastorizia. Nel fondo religioso persiste, quindi, il concetto della presenza di una divinità femminile come simbolo della fecondità della terra e di ogni cosa animata e inanimata: una Dea Madre.

venerdì 28 agosto 2009

L'Espresso alla carica contro il "dialetto" friulano

La foto qui accanto è del titolo di uno dei più vergognosi attacchi postfascisti alle lingue minorizzate, protette dall'articolo 6 della Costituzione e tutelate da legge dello Stato. Ne è autore un giornalista di L'Espresso, organo dei radical-chic con particolari simpatie giacobine. È chiaro, dall'articolo (sopratitolato "Follie federaliste"), che la lingua friulana, naturalmente definita dialetto, è l'obiettivo di sponda della polemica contro la Lega nord e la sua proposta di valorizzazione dei dialetti. Ciò non toglie che niente di tanto bolso era più uscito dai tempi delle veline di Mussolini contro "i dialetti".
Tutti sappiamo, credo, che il confine fra lingua e dialetto è assai labile. La seconda espressione non è quasi mai usata per descrivere una parlata, ma per irriderla e per toglierle importanza. “La lingua” ho scritto tempo fa riportando una sarcastica definizione “è un dialetto con alle spalle un esercito”. E il friulano, come ogni lingua di nazioni senza stato, esercito non ha. Ha solo una grande tradizione e soprattutto la volontà dei friulani di difenderla e valorizzarla. Niente del ciarpame nemico della democrazia linguistica è risparmiato, dallo “spreco” di denari usati per salvare un “dialetto”, alla derisione degli sforzi fatti per tradurre in “dialetto” grandi opere di cultura.
L'autore dell'articolo postfascista nulla avrebbe da dire perché la Bibbia è tradotta in maltese o in malgascio, sghignazza perché lo è in friulano. E presenta come curiosità folcloristiche e leghiste (“Dante in chiave leghista”) la riduzione della Divina commedia in “versioni gergali”, dal siciliano, al bolognese, al calabrese, al milanese al friulano, appunto. Se gli è sfuggita la bellissima traduzione in sardo fatta da Paulu Monni, non credo sia per simpatia nei confronti del “dialetto” sardo, ma solo per ignoranza.
Il livore è tale che ne fa le spese anche Riccardo Illy, l'ex presidente di centrosinistra del Friuli Venezia Giulia, dall'Espresso cooptato fra i “governatori” migliori. Il suo torto è di aver prodotto “addirittura” una legge di politica linguistica per il friulano, quella che il governo Prodi, ormai dimissionario, aveva bocciato e rinviato alla Corte costituzionale. “C'era il rischio di un regime di bilinguismo obbligatorio denunciarono il governo Prodi, poi quello Berlusconi” è scritto nell'articolo. Le cose non stavano così, ma poco conta. La mistificazione non guarda in faccia a nessuno, quando c'è di assicurare i soci del club giacobino che i “dialetti” non passeranno e che è sempre valida l'espressione “Una nazione, una lingua, un popolo”.

giovedì 27 agosto 2009

Pintaderas: il giallo è risolto

di Franco Laner

Grazie a tutti quelli che hanno risposto al mio articolo, perché la mia era una richiesta di aiuto!
Chi ha pazienza di leggere il capitolo 6 del mio libro in uscita fra qualche mese e che è pubblicato nel sito di Pintore, capirà l’importanza che rivestivano le vostre risposte. Per chi non ha tempo o voglia, cerco di rispondere sinteticamente.
La “Torralba”, trovata al Santu Antine ha 6 buchi in un ramo pentaradiale, 5 in tutti gli altri, e così è stata studiata e rappresentata.
L’anomalia, i 6 buchi, al posto dei prevedibili 5, ha consentito una serie di deduzioni, come quella che la pindadera fosse un calendario, un abaco, un pallottoliere.
E’ però l’unico 6 riscontrabile nelle 8 pintadere “geometriche” trovate in Sardegna (meglio quelle che conosco) e quasi tutte, o tutte, nei nuraghi complessi!
L’altra tipologia, “le decorative”, sono molte ed alcune ancora in uso (esempio Chiaramonti, notizia e foto di Mario Unali).
Come molti hanno osservato, la particolare e casuale luce del secondo scatto, fa vedere che i crateri sono 5. Dunque, 6 i buchi e 5 i crateri. I buchi sono fatti dopo i crateri, prima della cottura dell’argilla. In questa operazione è stato compiuto l’ “errore” il “refuso”, come ha magistralmente annotato Maurizio Feo e come mi aveva sempre detto la Roberta Cabiddu di Villanovaforru che realizza con tecniche antiche splendide pintadere.
E come ho scritto prima dell’indovinello, deducendolo dalla “Isili”, anche se incompleta e pur non avendo prove.
Ovvio che a coloro che hanno osservato che in una ci sono 6 buchi e che nell’altra sono o sembrano 5, spedirò come promesso il libro, appena sarà stampato.
Tutti coloro che hanno questo titolo (o si avvicinano molto!) dovrebbero mandare l’indirizzo completo cliccando qui in modo che possa spedire loro il libro!
Ma ripeto, si potrà, almeno spero, capire di più leggendo il capitolo sulle pintadere. Mancano le figure. Allego solo la foto di alcune pintadere per dare una idea della loro intrinseca bellezza, con la “Bella” in primo piano
Comunque sia affermo che le pintadere sono un tesoro prezioso, originale, altamente simbolico.
Ah, che peccato di non accorgersi di star seduti su un giacimento –il patrimonio archelogico dell’Isola- e non sfruttarlo, né culturalmente né economicamente! Anche un semplice oggetto, come la pintadera, se vivisezionato con amore e strumenti sprovincializzati (sconosciuti agli archelogi sardi ed anche ai pur numerosi politici) darebbe indicazioni non banali.
Come un frammento di uno specchio, la pintadera getta luce e riflessi per la conoscenza della società nuragica, condizione senza la quale i nuraghi continueranno ad essere pensati come fortezza (madre di ogni sciocchezza)!

mercoledì 26 agosto 2009

Che male ha fatto S Francesco per dedicargli quest'ospedale?

Sentendo storie di mala o approssimativa sanità, mi sono a volte chiesto perché l'ospedale di Nuoro sia stato intitolato a San Francesco, invece che poniamo a Erode. Non che il casino sia peculiarità del solo nosocomio nuorese, a stare alle cronache di ordinaria follia che quotidianamente approdano, ma quando le vicende della vita ti fanno testimone, le cose da impersonali si trasformano in conoscenza diretta. E ti rendi conto che c'è qualcosa di perverso nel modo con cui un ospedale è organizzato. Non c'entrano i medici, né c'entrano gli infermieri, di solito sante persone che continuano a lavorare invece di rovesciare il tavolo sulla testa di chi li organizza.
Quale mente maligna può pensare di mandare in ferie gran parte del personale di Pronto soccorso tutto insieme in agosto, quando i potenziali utenti sono tre, quattro volte il consueto? Quale perversione autorizza a lasciare un solo medico, dei sette in organico, ad interessarsi di ortopedia? Che mente ci vuole per organizzare le visite non sulla base della gravità ma su quella del momento di arrivo in una sala già piena di pazienti in attesa di sapere se nell'incidente stradale che hanno avuto, il collo è stato danneggiato?
Intorno alle 13, nel Pronto soccorso (mai l'aggettivo pronto fu così destituito di fondamento) una quarantina di pazienti ha atteso ore qualcuno che si occupasse di loro, assoggetati ad una classifica di gravità sulla base di una tastatina del polso e una stretta di sfigmomanometro all'avambraccio. Che altro, del resto, potevano fare i rari infermieri e medici, prendendo a propria alleata non la loro professionalità ma la santa Provvidenza? Quell'anziano signore colto da una peresi facciale alla parte del cuore? Speriamo non abbia complicazioni, dopo ore di attesa in mezzo ai quaranta. La signora incinta? Speriamo non partorisca nella sala d'attesa del Pronto soccorso. Il giovane incidentanto, sanguinante dall'occhio e dal naso, imbragato su una rigida barella per otto ore? Speriamo non abbia avuto una commozione cerebale e che resista alla tentazione di muoversi e di mangiare qualcosa fino ad una visita che non arriva mai, perché nel reparto una geniale mente organizzativa ha lasciato solo uno solo di sette medici.
Il nuovo assessore della sanità, leggo, ha intenzione di comissariare i responsabili delle Asl. Ma come anche quello di Nuoro? si indignano gli sponsor politici. Pare di sì, a testimonianza che è pur sempre possibile un po' di giustizia, almeno a risarcimento dei patimenti delle persone che un'intera giornata hanno, come il vostro testimone, provato che cosa sia l'improvvisazione al potere.

lunedì 24 agosto 2009

Pintadera A e B: un premio a chi nota le differenze


di Franco Laner

Caro Gianfranco,
sto lavorando su un libro che raccoglie l'eredità di Accabadora, che compie 10 anni.
Il libro avrà titolo "Sa 'ena", un piccolo rigagnolo, però d'acqua pulita, capace di dissetare! (che presunzione!!). Avrei preferito "Su trogliu", ma più di un linguista me  lo ha sconsigliato!
Torno sui nuraghi, sulle Tombe dei Giganti, sui dolmen, pozzi e fonti, ho fatto anche un capitolo sui Telamoni di Monte Prama, sugli antropomorfi e c'è anche un capitolo sulle pintadere, oggetto di convegni, discussioni e soprattutto scoop dell'ing. Nicolino Di Pasquale, che ha dimostrato essere un calendario.
Stessa cosa ha fatto Piero Piscedda ed anche Zedda ha sostenuto che la Pintadera di Santu Antine fosse un "pallottoliere".
Ne ho "trovato" 8 di "geometriche" e altre "decorative". Tutte le geometriche sono assai belle e ruotano attorno al 2+3 e il 5. Solo la Santu Antine introduce una intrigantissima variante. In un ramo pentaradiale ha 6 tacche, anziché le 5 ripetute sulle altre.
L'indovinello è di verificare se qualcuna nota differenza fra queste due foto scattate l'una dopo l'altra?
Nel cercare la foto di questa Pintadera, ho trovato quelle che avevo scattato quando la vidi al Museo di Sassari.
Avevo scelto la A e stavo gettando la B, perché sfuocata, scattata un attimo dopo col flasch. Ma, stupefatto, le due foto sembravano di due pindadere diverse.
Dov'è la straordinaria differenza???
So che ti chiedo molto, ma non potresti pubblicare le due foto e chiedere ai tuoi lettori. Notate qualche differenza fra queste due foto della Pintadera di Torralba, ora logo del Banco di Sassari?
La differenza non è ovviamente sul fatto che la B è sfuocata! Non ho fatto, giuro, alcun ritocco: non saprei nemmeno da che parte cominciare!
A tutti coloro che daranno la risposta esatta Franco Laner invierà a sue spese il suo prossimo libro "Sa 'ena".

La risposta al nazionalismo italiano non è quello sardo

di Roberto Bolognesi

La discussione con GGG per ora si è calmata... [Bolognesi si riferisce agli interventi su questo blog di Giorgio Giovanni Gaias, un giovane militante di Destra, NdR]
Devo dire che GGG è davvero un ragazzo coraggioso e generoso: lo dico senza la minima ironia.
Come è normale a quell'età, però, si lascia trasportare da un idealismo che è tanto bello, quanto pericoloso.
Pericoloso quanto lo era il mio -di verso opposto- alla sua età.
Pericoloso come tutti gli idealismi.
Il concetto di Nazione è bellissimo...
E infatti in nome di questo bellissimo concetto sono stati commessi i crimini più orrendi, perché sono proprio questi bellissimi concetti che permettono a gente come GGG -a meno che non disponga dei "freni" giusti- di mettere a tacere quella che i cristiani chiamano la "coscienza" e io chiamo il buon senso.
In nome dell'Italia, perfino i Garibaldini potevano fucilare i cafoni di Bronte senza entrare in crisi.
Eppure erano "Italiani" che fucilavano altri "Italiani".
Per "salvare il Comunismo" -altro bellissimo concetto- Stalin ha fatto ammazzare più comunisti -senza contare anarchici e socialisti- di tutti i regimi fascisti messi insieme.
In nome di Cristo-altra bellissima figura-i Cristiani hanno ammazzato molti più Cristiani ("eretici" ammazzati dai Cattolici e Cattolici ammazzati dai protestanti) di tutti gli imperatori romani messi insieme.
Gli ideali sono come le droghe pesanti: a qualcuno possono essere utili per espandere la mente, mentre per altri sono pericolosissimi, perché disinibiscono quelle pulsioni distruttive che normalmente sono tenute a bada dai freni "morali" forniti dal buon senso.
Gli ideali forniscono "certezze".
GGG nel suo pezzo -gia pronto?- sulla necessità dell'ingresso dei giovani in politica dice "La battaglia più grande che ci spianerà una volta per tutte la strada che ci porta a un futuro solido e ricco di certezze."
Mamma mia!
Chi vuole un futuro ricco di certezze non sa accettare la realtà -per definizione piena di incertezze- ed è disposto a commettere molte porcherie pur di mettere a tacere la propria paura del mondo!
Poiché il futuro è imprevedibile a causa del numero enorme di variabili che determinano lo svolgersi della storia, il modo migliore per garantirsi il lieto fine è quello di eliminare il numero maggiore di "variabili".
Così Stalin ha cercato di facilitare la nascita dell'UOMO NUOVO, eliminando milioni di uomini "vecchi" che non si lasciavano rieducare.
E chi già sta per scagliarsi per condannare il comunismo in quanto tale, sappia che Stalin non ha fatto altro che riesumare il metodo usato nel medioevo dai cristiani: i pagani che non si convertivano, morivano.
Alla fine il risultato era lo stesso: arrivare a un mondo abitato da soli cristiani.
Per avere la certezza del ritorno di Cristo in terra.
Questa lunga premessa mi serve per dire una cosa semplice: la risposta al nazionalismo italiano, non può essere il nazionalismo sardo. Se vogliamo vincere la sfida della nostra soppravvivenza in quanto popolo sardo, la prima cosa da fare è rinunciare alle "certezze" dei nostri oppressori.
Una delle pochissime certezze che ho è quella di non voler diventare come loro.
E qualche idea (incerta) sul dove vorrei arrivare ce l'ho. Invito anche GGG ad andarsele a cercare su Diariulimba.