lunedì 25 gennaio 2010

Aspettando il giorno di Monti Prama, i maestri...

di Francu Pilloni

Sto aspettando, senza ansia, Sa dì de sa Sardigna. E non per vedere se a Monti Prama questa volta saremo sempre e solo in tre, oppure in trecento. Spero che non cada di domenica, perché eviterebbe al maestro di comunicare che non si va a scuola e si fa vacanza. Qualche scolaro chiederà perché non si va a scuola e questa domanda è una manna (piovuta dai banchi) per il maestro il quale si rammarica, o almeno dovrebbe, se qualche bambino invece gli chiede perché si va a scuola.
Allora il maestro (o la maestra, sempre e comunque) lascia perdere la programmazione giornaliera o settimanale (ma perché avranno tolto la spontaneità all’insegnamento?) e forse anche il campiello culturale che gli è stato assegnato nel modulo, e parla degli eventi di quel lontano 1793, che hanno indotto il Consiglio Regionale a un passo così significativo.
Di certo vuol inquadrare il momento storico in una cornice mondiale degli eventi e parla di tre “rivoluzioni”, nel senso che hanno messo sottosopra le cose esistenti, fossero pure valori culturali o etici e non solamente quelli politici ed economici: Illuminismo, Rivoluzione nordamericana e francese. Tutte cose che in Sardegna erano conosciute eccome! Specialmente la Grande Rivoluzione, la Rivoluzione per antonomasia, quella francese che, scoppiata 4 anni prima al grido di Libertà, Fraternità, Eguaglianza, era ancora in evoluzione, ma certo non si tace che i coloni nordamericani si erano ribellati di fronte alla prepotenza dei padroni politici di qua dell’Atlantico.
Finito il preambolo, gli o le toccherà entrare nel merito di quello che oggi viene sempre più chiamato “Biennio rosso” della Sardegna. Non può esimersi dal dire che la nostra isola era passata dal dominio spagnolo a quello sabaudo, in virtù di un patto stipulato altrove non solo sulla testa di noi Sardi, ma di tutti i popoli chi vi furono coinvolti. Praticamente, tutti gli Europei.
Il maestro si accorge subito che non può dire biennio rosso, perché non ci fu una goccia di sangue sparsa per le vie di Cagliari, né sul piazzale del porto dove accompagnarono i “piemontesi”, aiutandoli a caricare sulla nave i tanti e ingombranti bagagli.
“Come quelli che ci portiamo in vacanza?” chiederà un bambino tutto preso del racconto, “No, di più, di più!”.
Né, suppongo, erano ancora in uso le astrazioni di rosso, di bianco o di nero, che scematizzano l’appartenenza politica e/o culturale. Anche le camice rosse di Garibaldi erano di là da venire.
Allora si limiterà a dire che tutti i “piemontesi” servitori dello stato furono cacciati e il parlamento sardo, non senza grandi discussioni, elaborò una serie di richieste da sottoporre al re. Chiarito che non misero a morte il monarca, né lo sfiduciarono, i “rivoluzionari del 1793” mandarono dei delegati a con ben cinque richieste da sottoporre all’attenzione del re.
Le ottennero? Beh, non bisogna vergognarsi di dire che i delegati del parlamento sardo (per correttezza ortografica dovrei scriverlo con l’iniziale maiuscola, ma va bene lo stesso) vissero per giorni e giorni, e s’intende dire settimane, mesi e anni, in anticamera aspettando che sua maestà (stesso discorso ortografico, me lo permetto perché sono in pensione) li ricevesse non tanto per soddisfare le richieste, ma solamente perché ne fosse informato. Di fatto, i delegati invecchiarono nelle anticamere del palazzo regio di Torino e le loro consorti, di fatto, furono vere e proprie “vedove bianche”.
“Ma cosa successe poi?”, c’è sempre qualcuno che lo chiede, anche alla fine di una favola che pareva davvero terminata. Accadde, si dovrà per forza dire; che i “piemontesi” tornarono ai loro posti di comando, che i capi della “rivoluzione” ebbero i loro contentini: uno, ad esempio, fu fatto direttore delle imposte e i Cagliaritani vi si affezionarono tanto, che lo ammazzarono nel buio di una strada di Castello, senza che nessuno abbia mai pagato per questo (meglio no fare neppure il nome. A che pro? Forse che i Sardi, e i Cagliaritani in particolare, danno i nomi di questi “eroi” ai loro figli?).
“Ma cosa dovevano chiedere al re?”, si può stare tranquilli, che a qualcuno non è passato inosservato quello “svicolare” del maestro sull’argomento.
Si possono raccontare fandonie ai bambini?
Si dirà che chiedevano esattamente il contrario di ciò che si gridava nella Rivoluzione Francese: i baroni, i feudatari che possedevano la terra in Sardegna (da costoro era fatto il parlamento sardo, anche se non esclusivamente, ma meglio sorvolare) volevano conservare i privilegi di cui godevano sotto la monarchia spagnola, i privilegi dell’età feudale.
“Ma allora…?”, e lo sconcerto apparirà nitido sul viso pulito di una alunna.
A questo punto, bisogna salvarsi in corner.
Sapete voi quando, cioè in che giorno, in che mese e in che anno, Francesco Ignazio Mannu scrisse, o almeno iniziò a scrivere, o si può supporre che abbia concepito l’idea di scrivere, l’ inno Su patriottu sardu a sos feudatarios?
No. Fu pubblicato a Cagliari trent’anni dopo, anche se si dice che una stampa clandestina fosse già stata fatta in Corsica. Dunque è solo un mezza verità dire che in quella data ricordiamo anche la nascita dell’Inno nazionale sardo. Quello che è oggi considerato tale, che pure parla di barones e di tirannia. Soggetti che, sappiamo tutti, sono ancora in circolazione, non ostante l’euro.
E questa è pura verità.

11 commenti:

Franco Laner ha detto...

Ho seguito anch'io la storia del Maestro, come gli scolari, perché A SETTE ANNI I XE PUTEI, A SETTANTA ANCORA QUEI. E mi chiedo se l'orgoglio indipendentista e nazionalista si possa fondare sulle balle. E mi rispondo di si. E se la balla è bella, convincente e utile, benvengano le balle! O c'è un confine fra realtà e immaginario? Alla fine conta solo ciò che vogliamo sentirci dire!
Franco

Oliver Perra ha detto...

Gent. Sig. Laner

io che di "orgoglio indipendentista" non ne possiedo perchè l'indipendentismo è -secondo me- questione di progetti politici, non di rivendicazioni "identitarie", le rispondo pacificamente che penso la storia sia molto più complessa e stratificata, tanto che focalizzarsi solo sulle "5 richieste" e il ruolo della nobiltà sia fuorviante. Quello che seguì dopo, nella Rivoluzione Sarda, fu lo scontro di diverse istanze: tra queste l'entrata in scena di una nascente borghesia imprenditoriale sarda (rappresentata, tra gli altri, dall'Angioy) che chiedeva di poter partecipare ai processi decisionali.
Saluti

Anonimo ha detto...

In Sàrdara in scola ant frigau a totus: ant furriau a festa custa dii nodida... festa ca no bandant a scola, ita iais pensau? Aici no si depint mancu scimingiai sa conca a si documentai circhendi àterus libbrus biu ca in su de adotzioni ministeriali no ddu est nudda. Incapas medas docentis pensant chi totu custu, a parti su valori chi ddi podeus donai, siat sceti òpera de fantasia. De su restu in is lìbbrus chi tenint no ddu est nudda... insaras no esistit!
Totu berus su chi at nau Pilloni. Est berus puru perou ca cun d-una de is cìncui pregontas iant domandau puru unu ministèriu po is afàrius de sa Sardìnnia. Certu custu puru seguramenti no fut pensau po su beni de su pòpulu. Tocat a nai ca a dònnia manera su chi fut sighiu avatu de nci ai bogau a is savojas calincuna importàntzia dda iat tenta. Mancai su chi ndi fut sighiu no fut cosa bòfia e programada de incarreru. Una borta chi sa stula iat pigau fogu no fiànt arrennèscius prus a ddu studai o a ddu cuntrollai ca ddoi fut tropu fàmini e arrennegu. Ma Angioy calincuna cosa dda iat fata, iat circau puru po cantu ndi sciu de ndi sciusciai s'aparìciu feudali, o assumancu nc'iat pensau. Asuba de su fatu chi boliat sa repùbblica, cumenti iat nau apustis in Frància, custu no ddu scideus. Chi is fatus de su tempus siant stètius importantis no pensu chi si potzat dennegai. No fessit po àteru che po totu is mortus chi nci fiànt stètius de chi Angioy si fut fuiu in Francia, in s'arreprimidura mala de parti de Efis Pintor e su giugi Giusepi Valentino. Seguramenti totu custu calincuna cosa in sa cuscièntzia dda iant lassada, sinnu mannu fut seguramenti s'innu sardu.
Totu custus fatus ndi funt lòmpius avatu de is 5 pregontas, chi serbiant sceti a is canis mannus sardus de insaras, ma chi fiànt che callelleddus (mellus a no nai catzeddus ca calincunu podit cumprendi mali) cunfrontu a is canis prus mannus e grassus continentalis... ma insaras no est pròpiu cambiau nudda!

Pàulu Pisu

p.atzori ha detto...

Al di là delle verità contenute nel parziale resoconto, da profano di cose storiche, mi pare che in prospettiva Francu Pilloni tenda solo a giustificare la successiva rinuncia (1847) all’antica autonomia garantita attraverso gli Stamenti. Persino Pietrino Soddu recentemente ha affermato che i sardi sbagliarono nel 1847 ( mi scuserà Soddu per il “persino”).
Gli Stamenti non bisogna dimenticare che erano tre( ecclesiastico, militare, popolare?) – dunque Pilloni non parlamento, ma Parlamenti sardi - e che i villaggi erano rappresentati, tant’è che nelle piazze delle chiese si è provveduto da secoli a nominare i rappresentanti in Parlamento con precisi mandati. I designati erano sì notabili, ma erano tenuti a fare gli interessi delle loro comunità, non come adesso!
Questo si può apprendere dalla lettura del testo di Antonio Marongiu: I Parlamenti di Sardegna nella Storia e nel Diritto Pubblico Comparato, Arnaldo Forni Editore, 2009.
Ritengo dunque che Pilloni abbia riproposto schemi italioti superati e che ripropongono i sardi inferiori agli altri. Riscattiamoci per favore e mandiamo in pensione il complesso d'inferiorità. I sardi sono in grado di autogovernarsi. Cordialmente, Piero

p.atzori ha detto...

L’analisi comparativa dei Parlamenti condotta da Antonio Marongiu (1902-1989), che ricoprì la cattedra di Storia delle istituzioni politiche a La Sapienza negli anni sessanta del secolo scorso, accademico dei Lincei, molto trascurato nell’isola, con parole sue:

“mostra che i Parlamenti sardi adempirono, nei limiti in cui ciò era consentito dai tempi, il loro compito, e non meritavano perciò il biasimo spesso loro impartito da critici sommari e parziali. Va pertanto considerata erronea l’affermazione che i nostri Parlamenti non rappresentassero se non un espediente di governo dei Sovrani per tener meglio soggette le popolazioni isolane. E’ vero invece che, non soltanto in Sardegna e in Sicilia, ma anche negli Stati liberi da ogni e qualunque soggezione straniera – come l’Inghilterra –, i Parlamenti non adirono mai, fuorché nei periodi rivoluzionari dove la violenza vince sulle regole del diritto, ergersi contro i Sovrani;
… condannare gli istituti parlamentari del Medio Evo e dell’evo moderno soltanto perché essi non si fecero anzi tempo promotori della riforma egalitaria che si ebbe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo è perciò errore storico che si condanna da sé.”

p.atzori ha detto...

Conclude Marongiu con queste parole:
"Per tutto il tempo in cui il nostro istituto ebbe vita i Bracci rappresentarono regolarmente, anche se non costituiti per elezione, le popolazioni isolane. Il Parlamento fu organo rappresentativo non soltanto sotto il profilo giuridico, ma anche sotto l’aspetto propriamente politico. E la sua storia interessa non solo lo studioso di problemi giuridici e politici, ma anche chi voglia rendersi conto dello stato della evoluzione civile del popolo sardo durante il lungo periodo della dominazione straniera."

Dunque rispetto per chi ha fatto la sua parte nell'interesse generale, nei limiti loro imposti.
Piuttosto siamo noi a dover dare prova di valore prendendo in mano il nostro destino, con, senza, contro la stessa nostra Italia, se si frappone.

p.atzori ha detto...

mi auguro che ci si svegli dal torpore che ha preso i nostri spiriti dal 1847 ad oggi e che ci si dia presto un Parlamento degno di noi, non l'attuale parlamentino regionale. La Storia per quel che mi consta dice che sotto ovrano i nostri padri tutelavano gli interessi dell'isola decisamente meglio di quanto noi oggi riusciamo a fare da italiani. Stavo per scrivere "vestiti da italiani", ma F.C.Casula mi ha insegnato che se mettiamo in fila gli italiani noi siamo i primi. Magari con il ruolo di carne da macello, ma lo Stato italiano è un nostro prodotto. Piero

p.atzori ha detto...

dunque ai nostri bambini dobbiamo insegnare solo e nient'altro che la verità storica, che non è fatta solo di vergogna. I nostri padri hanno avuto i loro torti ma dobbiamo contestualizzare i loro atteggiamenti. Pilloni si rilegga la lezione che Maurice Le Lannou impartì agli universitari sardi nel 1950. Disse loro in sostanza di non accogliere le ingiuste leggende che girano per il mediterraneo propagate dagli ingiusti oppressori riproponendo parole di Domenico Alberto Azuni.

Anonimo ha detto...

Francu Pilloni scrive:

Gentile sig. P. Atzori.
Forse lei è un prof o un capo d’istituto, ma io non la conosco e dunque la chiamo signore per senso di rispetto indeterminato, come vuole la buona educazione.
So che lei segue costantemente questo blog e mi rammarico perché le sono sfuggite alcune situazioni in cui qualcuno che non mi conosce affatto ha cercato di attribuirmi ideologie o posizioni politiche e culturali che neppure m’immaginavo. Lei entra nel mazzo a buon diritto. E mi dispiace per il fatto che ciò dimostra che lei non ha compreso bene quello che ho scritto. Probabilmente però est nexi mia, anche se altri ne hanno ben compreso lo spirito.
Io sono solo un ex maestro di scuola (sa cosa dicono i francesi? Tonto come un maestro di scuola!), nel 1950 avevo otto anni e, per quanto precoce, non andavo ancora all’Università. Ciò non ostante, e pur non avendo mai letto Le Lannou (me ne faccio una colpa, ma non si può leggere tutto quello che si è scritto nel mondo), probabilmente per caso e non per merito, sono approdato a conclusioni più o meno analoghe.
Nel merito, io so la storia del “biennio rosso” per averla sentita in una conferenza da Luciano Carta, che ha scritto anche un bellissimo e documentatissimo libro sugli Stamenti Sardi. I quali erano sì tre, ma il primo era quello nobiliare, non popolare come le pare di ricordare, e i nobili non sono mai stati elettivi (e a mio modo di vedere neanche “eletti”).
Lei dice, fra le altre cose, anzi fa dire al Morongiu: “condannare gli istituti parlamentari del Medio Evo e dell’evo moderno soltanto perché essi non si fecero anzi tempo promotori della riforma egalitaria che si ebbe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo è perciò errore storico che si condanna da sé.”
Anzi tempo? Mi scusi, ma il 1793 non è l’ultimo decennio del XVIII secolo? Non si era già attuata la Rivoluzione americana e quella francese? L’ho scritto, sig. Atzori.
Non stiamo parlando di Mariano IV di Arborea che aveva dato al suo popolo una costituzione (Sa Carta de Logu) ben prima della molto più celebrata Magna Charta d’Oltremanica, che è solo un patto fra il re e i nobili (il popolo non era previsto). Non era il tempo in cui nei paesi la popolazione si riuniva nel piazzale della Chiesa per indicare i notabili, i delegati del popolo, come avvenne anche per sottoscrivere la pace fra gli Arborea e la Corona d’Aragona.
Parlavamo del 1793, il periodo in cui in Sardegna era sovrana la fame, il vescovo di Ales impegnò i tesori della Cattedrale (i suoi personali li vendette) per acquistare cibo per le popolazioni. Era mons. Pilo, quel prete. Le risulta che fra le cinque domande ci fosse qualcosa che anche di sguincio potesse riguardare i problemi del popolo sardo?
Per quanto riguarda la “fusione perfetta” del 1847, per la quale ha decretato la mia convinta asserzione, le dirò che la penso esattamente come Cicito Masala: quella legge fu una autentica …. (ci legga pure una parolaccia).
Infine, poiché non voglio andare troppo per le lunghe, io ho terminato dicendo che “barones e tirannia” ce li ritroviamo ancora in circolazione; lei invece auspica “ … che ci si dia presto un Parlamento degno di noi, non l'attuale parlamentino regionale”.
Come tutti sappiamo, a comandare a Cagliari oggi ci sono i figli dei contadini e dei minatori, non più i “barones”. È così?
Non mi conosce, ma la prego di pensare a me come a un sardo che cammina a testa alta. Anche di fronte a Dio. Non mi piego e non mi spezzo. O, come diceva appunto Cicito, hap’ a essi puru bintu ma no cumbintu.
Coi miei rispetti.

p.atzori ha detto...

Gent.mo Francu Pilloni,
Ho letto più di un suo intervento e ho capito che lei è persona sensibile che interpreta con onestà il sentire sardo. Per questo ho accolto come una scivolata il suo intervento. Lei dichiara di aspettare senza ansia sa Die. Anch’io nutro dubbi sulla scelta del 28 aprile. Mi dispiacerebbe però venir associato a coloro che persistono in un atteggiamento di rinuncia o addirittura si dimostrano ostili a dedicare alla Sardegna una qualunque giornata. Mi è parso di riscontrare nelle sue righe, oltre alla preoccupazione di non dire fandonie ai bambini, anche un certo atteggiamento rinunciatario. Forse mi sono sbagliato.
Sarebbe comunque bene approfondire le varie posizioni. A tal proposito riporto qui sotto una pagina dove si è commentata sa Die, con opinioni contrapposte.
http://www.insardegna.eu/opinioni/societa/sa-die-globalizzazione-identita-e-disvalori/view

Non ho poi potuto fare a meno di rispondere alla provocazione della scrittura con la minuscola dell’antico Parlamento sardo. Qui rimango dell’avviso che lei, come molti, risenta ancora della propaganda italiota di fine ottocento. Antonio Marongiu ci rende chiaro quanto Francesco Sulis, deputato al Parlamento italiano di fine ottocento, relativizzasse e sminuisse il ruolo dell’antico Parlamento, così come lei ripete acriticamente oggi. Credo sia lo stesso schema mentale che produsse la richiesta di Fusione perfetta del 1847.

"I Parlamenti erano costituiti nei tre bracci, militare, ecclesiastico e reale, dei nobili cioè e dei cavalieri, del clero e dei procuratori delle città e delle ville." (A.Marongiu)
A pag. 110 del testo: Ghilarza, note di Storia civile ed ecclesiastica, Sac. Michele Licheri, Tip.Gallizzi, 1900, trovo scritto:
Principiando gli atti della lite con Abbasanta (1594), leggonsi i particolari della elezione di Antonio Pes a Sindaco Procuratore di Ghilarza. Essa è fatta, come usavasi in tali elezioni, col voto universale dei paesani, in Consiglio Maggiore, nella piazza della Chiesa parr.le, en la plasa de la iglesia del glorios sant Macary.

Antonio Pes dunque riceveva un mandato dall’intero paese a cui doveva poi rispondere.
Oggi, invece, in regime democratico abbiamo candidati imposti dai partiti, partitocrazia e schifezze varie, eletti che pensano più al proprio tornaconto che all’interesse delle nostre comunità. Ecco perché mi sono permesso di rovesciare altrettanto provocatoriamente le parti, scrivendo in minuscolo non il vecchio ma il nuovo Parlamento.

Le dico infine che sottoporrò all’attenzione del mio collega Federico Francioni queste pagine chiedendogli di intervenire lui che crede fermamente alla scelta del 28 aprile come Die de sa Sardigna.
Il testo di Luciano Carta che lei cita purtroppo non l’ho letto, spero di poterlo fare al più presto. Sa io insegno umilmente Scienze alle superiori e ho 10 anni meno di lei. Cordialmente, Piero Atzori

Anonimo ha detto...

Francu Pilloni scrive:

Caro Piero Atzori,
certe volte a me capita di voler sfondare una porta che poi risulta già aperta. Maurizio Feo ha detto che è tutta colpa del testosterone.
Vedo che qualche volta capita anche agli altri, in buona fede.
Io non ho dato un giudizio su tutte le vicende secolari degli Stamenti Sardi, ma solo di quel periodo preciso. E non creda che Luciano Carta la pensi come me, sono io che mi sono fatto questa opinione. In quella situazione, i Savoia ci fecero un figurone (e non sa quanto mi secca ammetterlo!).
Certo che sono d'accordo su una giornata dell'identità. E do ragione al primo intervenuto, Franco Laner, che dice che qualche volta bisogna inventarsi una storia.
La mia balla era appunto che in quel 28 aprile Mannu scrisse il suo inno, che è il vero inno nazionale sardo.
Tanto ci basta e ci consola.
Con amicizia.