Era dai tempi di Almirante e della destra più patriottarda che in Italia non si sentivano frasi come quelle pronunciate dal candidato del Pd alla presidenza del governo italiano. Nella sua lettera a Berlusconi, Veltroni chiede la sottoscrizione di
"questi quattro fondamentali principi: la difesa dell'unità nazionale, che è il bene più prezioso che abbiamo, il legame che ci fa sentire italiani e orgogliosi di esserlo; il rifiuto di ogni forma di violenza, attuata o anche solo predicata, e per questo portatrice di divisione e di odio; la fedeltà ai principi contenuti nella prima parte della nostra Costituzione, fedeltà che non solo non contraddice, ma dovrà guidare, ogni impegno di adeguamento della seconda parte della Carta; il riconoscimento e il rispetto della nostra storia, della nostra identità nazionale e dei suoi simboli, a cominciare dal tricolore e dall'inno di Mameli".
Secondo molti giornali, Veltroni tenterebbe così di attirare a sé il voto di quegli elettori di An che sono ancora sedotti dal nazionalismo neo-fascista e degli elettori di "La destra" di Sorace. Dubitando che il loro schieramento possa superare lo sbarramento dell'8 per cento al Senato, questi potrebbero sentirsi sicuri di essere rappresentati dalla svolta nazionalista di Veltroni e magari farci un pensierino sulla opportunità di non disperdere il voto. In campagna elettorale, tutto o quasi tutto è consentito ed è legittimo il tentativo fatto dal leader del Pd. I voti, come i denari, non puzzano.
Ma ci sono nell'appello cose che rischiano di introdurre in Italia, ed anche in Sardegna e nelle altre nazioni della Repubblica italiana, elementi di scontro anziché di convivenza fra lo Stato napoleonico desiderato da Veltroni e i diversi popoli della Repubblica. Il "rispetto della nostra storia, della nostra identità nazionale e dei suoi simboli" esclude, in questa visione nazionalista granditaliana, il rispetto della storia sarda e della storia degli altri popoli dell'Italia geografica, storie che hanno invece diritto non solo al rispetto ma anche a una tutela attiva. Lo stesso valga per i simboli nazionali (la bandiera sarda, quella veneta, quella sud tirolese, quella valdostana, ma anche quella siciliana) che in una visione meno totalizzante di quella veltroniana possono e devono essere rispettati al pari del tricolore.
Chiedere, nel momento in cui in Sardegna e in altri territori della Repubblica si discute di nuovi rapporti fra regioni, Italia e Europa, e quando anche in Italia si pensa a una assemblea costituente, la fedeltà ai principi fondamentali, significa mettere pesanti ipoteche alla riforma della Costituzione. Non è vero, fra l'altro, che questa prima parte sia intangibile: nella scorsa legislatura la Camera ha approvato la modifica dell'articolo 12 (l'ultimo dei fondamentali) per introdurre la norma secondo cui l'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica. La proposta fu di una deputata di Alleanza nazionale ma fu fatta propria da tutto il giacobinismo presente alla Camera, con l'opposizione di soli quattro deputati sardi, due del centrosinistra e due del centrodestra. Se questa riforma non è legge non dipende, però, dalla "fedeltà" invocata da Veltroni ma dalla - almeno per questo - fortunata fine della legislatura. Altrimenti questa fedeltà sarebbe stata bellamente violata.
Naturalmente, nulla da dire circa il rifiuto della violenza "attuata o solo predicata" sia che ci si riferisca a Bossi sia che si condannino le violenze verbali e non solo pronunciate contro i nemici dello schieramento opposto.
Ma, al di là di queste considerazioni, possono accettare e condividere questo rigurgito di giacobinismo e di nazionalismo grande italiano, coloro che in Sardegna ritengono compatibile la militanza nel Pd con la difesa della Nazione sarda? Coloro che si sono invocati e si invocano al "diritto dei popoli all'autodeterminazione" quando si tratti di Kosovo e di Tibet?
PS - La stessa domanda vorrei porre all'ex consigliere regionale sardista Beniamino Scarpa, approdato al Pd proprio il giorno che Veltroni gridava il serrate le fila intorno alla intangibilità dello Stato napoleonico.
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