mercoledì 12 ottobre 2011

Rapporti tra fenici e nuragici in Sardegna

di Stella del Mattino e della Sera

Ultime news dal convegno di Domus de Maria, 3 settembre 2011.

Marco Rendeli (su Sant’ Imbenia, a sorpresa): “Ah, una cosa che volevo dirvi: le anfore sono tutt’e due locali. Anche l’ anfora più recente che doveva essere di tipo sardo-fenicio non è espressione delle colonie, ma è espressione del contesto locale".
Io: “ Grazie lo stesso professore, ce lo aveva già detto Tzoroddu!

Marco Rendeli (su Sant’ Imbenia, al solito): “E poi qui un piccolo..una piccola imitazione di sigillo orientale”.
Io: “Riferirò al Sanna  che crede ci sia scritto San Yahweh! Dove lo troviamo l’originale orientale?”

Il finale di questa notizia è andato perso

martedì 11 ottobre 2011

La terra dei record. Anche nella scrittura?

di Atropa Belladonna

“In questa regione,  che condivide il medesimo repertorio di immagini, pittogrammi incisi su supporti mobili o su colonne megalitiche (come in Anatolia)  mostrano chiaramente associazioni di segni ed immagini che erano indubbiamente comprensibili dal gruppo o da una parte di esso. In ogni caso, forniscono una chiara evidenza dell’ abilità delle società dell’ epoca di registrare e trasmettere messaggi attraverso una vasta area geografica”. Danielle Stordeur, 2011 (1)

La regione di cui parla l’ archeologa francese, direttrice di ricerca del CNRS, è un’ area di circa 90000 km2 che comprende la regione di Urfa, nel sud-est della Turchia, e la Siria del Nord, nella valle del Medio Eufrate. Sì, la regione della Harran di Abramo. L’ epoca è quella del X-IX millennio a.C., il cosiddetto neolitico pre-ceramico. L' età in cui il simbolismo è già spia di un nuovo modo di pensare e di sentire, quella  "rivoluzione dei simboli" che, secondo Jacques Chauvin, precedette la rivoluzione agricola del neolitico. 
Alcuni dei pittogrammi su supporti mobili  li vedete in figura 1: quattro tavolette di pietra che all’ epoca del loro ritrovamento fecero notizia (2) e finirono, oltre che su pubblicazioni specializzate, anche sulle pagine dei più svariati giornali, dal prestigioso New Scientist fino al Corriere della Sera. Una delle tavolette, la più bella (a sinistra in figura 1), mi è stata segnalata da Romina Saderi, che ringrazio di tutto cuore per questo regalo: stavamo discutendo sulla dea avvoltoio di Chatal Huyuk ed è uscita questa tavoletta. Con le ali spiegate sul mondo di sotto e le gambe aperte, a me ricorda tantissimo la divinità astrale delle tavolette di Tzricotu e delle statue stele di Laconi. 

lunedì 10 ottobre 2011

Su Rennu Nuragico

di Marcello Cabriolu

Stato o organizzazione tribale? Come può un popolo, supposto come organizzato in tribù, essere capace di sferrare attacchi agli imperi per più di duecento anni?

Figura 1.Pugnaletti ad elsa gammata - 
bipenni e colombe divine - Museo
Archeologico di Cagliari
Leggendo tra le righe dei lavori relativi alla lingua sarda, tracciati dal Prof. Massimo Pittau, si è potuto individuare facilmente la composizione etnica dei gruppi umani presenti in Sardegna in epoca storica. Questa elaborazione è stata ampiamente supportata sia dall’epigrafia (es. nuraghe Aidu Entos di Mulargia) che dall’analisi relativa alla toponomastica sarda in piena concordanza con le fonti letterarie. L’elaborazione umana fatta dal prof. Pittau individua una cinquantina di populi e li distribuisce da nord a sud sul territorio insulare, con confini geografici molto precisi. Il prof. Raimondo Zucca, in un capitolo[1] pubblicato su “Storia della Sardegna Antica”, conferma la consistenza, durante l’epoca repubblicana e imperiale di Roma, dei gruppi umani e la localizzazione di ciascun populus. Un’altra traccia precisa è lasciata dalla letteratura classica, riportata dal prof. Giovanni Ugas[2], che individua la cinquantina di principi Tespiadi, come regnanti sugli altrettanti cantoni nuragici[3]. Questa divisione burocratica passa straordinariamente immutata e indenne attraverso i secoli tanto che la ritroviamo molto più tardi, in epoca giudicale, sotto un altro nome: curatorias[4], ovvero la definizione di aree amministrative sostanzialmente corrispondenti[5] ai cantoni nuragici. 


sabato 8 ottobre 2011

Sas feminas de maccumere

di Mikkelj Tzoroddu

La instancabile Bellamente, ci ha suggerito di vedere, “nell’ambito della mostra del libro in Sardegna”, la pagina sulla “prima mostra didattica della documentazione scritta della scrittura nuragica, dal Bronzo Medio al Primo Ferro, organizzata da Gruppo Solene e Associazione Melchiorre Murenu e curata da Gigi Sanna”, dove abbiamo trovato la immagine qui proposta, la quale ci regala una parziale veduta dei betili di Tamuli. 
Sappiamo che essi sono definiti femminili a causa di quelle sporgenze nella loro parte superiore, definite da tutti gli studiosi sardi (più per copia e incolla che per un esame approfondito del soggetto sul piano artistico, storico ed etnologico) “rilievi mammillari”. Noi, invece, in questo istante stiamo realizzando che i tre betili siano sì rappresentazioni di altrettante donne, ma non per la banale considerazione che le sporgenze si riferiscano a delle mammelle, bensì per le movenze, che traspaiono chiaramente trasmettersi da tre donne che avanzano con atto femminile tipicamente aggraziato, quasi permeato d’una ieratica solennità.
Un incedere lento, pur se deciso, di tre feminas che si recano a campu, pro tzappittare (?), dialogando fra loro. È da notare come l’occupazione dello tzappittonzu o sarchiatura, era operazione particolarmente delicata, tesa a rendere ottimale la crescita del grano. Tale occupazione era posta in essere dall’arte e sensibilità della donna, la quale curava amorevolmente la pianta, dalla nascita fino alla maturazione e raccolta del grano. Il grano era [nella salda gestione (paleolitica) della domus e in quella fondamentale dell’ager fertilis operata dalla donna] il mezzo attraverso cui si manifestava la sua supremazia nella sfera alimentare. Il frumento, era preso in consegna dalla signora che, all’esterno ed all’interno della casa, attraverso l’uso della madia, del forno e del focolare, ricavava il principale nutrimento, per gli abitanti la “casa”, ovvero la “famiglia”, ossia la “comunità”, indispensabile per raggiungere il futuro. Quindi, ben a ragione le movenze sono aggraziate, ma solenni, nella coscienza di adempiere ad un rito (non un lavoro) ch’era d’importanza vitale.
In particolare, il dialogo si svolge fra le due donne alla destra nella foto: delle due, quella a sinistra (alla parvenza la più anziana delle tre – se ne interpretiamo la postura leggermente curva in avanti - quindi la saggia del gruppo, oseremmo dire la matriarca, per il modo autorevole con cui sopravanza le altre) sembra affermare un concetto di cui si sente molto sicura, infatti, procedendo nel suo cammino, getta lo sguardo in avanti con atteggiamento che non ammette replica. La figura alla sua sinistra (quasi teatrale nel suo porsi) ostenta un movimento del corpo che inclina tutta la figura verso la sua parte sinistra e, quasi alzando il piede destro, lancia uno sguardo sulla compagna di viaggio, a voler mostrare il suo alto stupore per quanto sentito ma, non si azzarda ad andare oltre, non permettendolo l’alto rispetto per l’autorità che le stava a fianco. La signora che cammina alla destra della coppia dialogante, sembra non partecipare allo scambio di parole, ma tuttavia pare attenta al loro contenuto, che mostra, se non condividere, almeno gelosamente memorizzare. 
Così, crediamo sia molto evidente come le sporgenze siano da considerarsi gli occhi della donna. Reputiamo ciò acclarato dalla posizione che esse assumono nella figura, così alta da escludersi che possano trattarsi di mammelle, ma anche perché in assenza degli occhi, oltre ad essere figure prive d’una più solida connotazione antropomorfa, risulterebbero tristemente rigide nel loro mutismo: pietrificate, appunto. Essendo invece, tali rilievi, dei veri e propri occhi, essi, oltre a restituirci delle figure incorrotte nelle loro proporzioni, mettono la voce a quelle feminas in cammino, che ci parlano con fare solenne dall’eternità.

giovedì 6 ottobre 2011

I toponimi della Sardegna (II)

di Massimo Pittau 

Pure la recente comparsa della mia opera «I Toponimi della Sardegna – Significato e origine» (Sassari 2011, ediz. EDES), nelle cui 1103 pagine ho analizzato circa 21 mila toponimi, ha dato l’occasione ad Alberto G. Areddu (che comunemente si firma Illiricheddu) di attaccarmi a testa bassa come un toro delle corride spagnole. Egli lo fa spesso anche in questo blog.

Io ho conosciuto l’Areddu una quindicina di anni fa e mi ricordo di averlo sempre accolto con cordialità e perfino con simpatia; sentimenti che mi sembrava che egli mi ricambiasse. Invece in questi ultimi anni egli non ha mai lasciato perdere alcuna occasione per attaccarmi, come si faceva nelle giostre medioevali con la “testa del saracino”. E questo è avvenuto da quando egli si è convinto che sia io la causa principale delle sue disgrazie culturali. Ma questo non è affatto vero:
1) Io non ho alcuna colpa del mancato conseguimento da parte dell’Areddu di un posto di “ricercatore” nella Facoltà di Lettere di Sassari, dato che io non facevo parte della commissione e addirittura ero ormai fuori ruolo e in pensione.
2) Io non alcuna colpa del fatto che nessun linguista di professione ha accettato e nemmeno preso in semplice considerazione la sua tesi fondamentale della connessione del protosardo con l’illirico o albanese.
3) Io non ho alcuna colpa del fatto che egli trova difficoltà a far pubblicare dagli editori e dai direttori di riviste le sue opere e i suoi scritti.
4) Mi sembra di aver compreso che egli ce l’abbia a morte con me per la ragione che io non lo cito mai nei miei scritti. Ma come posso citare un autore che mette in Albania «Sofia», la capitale della Bulgaria? che sostiene perfino che in origine Sardò/Sardinia significava «la palude nera, la palude putrida»?

Chiedo vivamente scusa ai miei lettori per questa mia odierna precisazione, ma l’ho fatta semplicemente perché non sembri, col mio silenzio, che io non sia in grado – se lo volessi – di rispondere ai continui attacchi di questo personaggio. D’altronde di recente io l’ho bloccato sulla sua stupefacente tesi che l’antroponimo Efesiu, che compare in una iscrizione etrusca del III/II secolo avanti Cristo, sia di origine bizantina....

martedì 4 ottobre 2011

Pacificatori del passato vs bellicisti (irrealistici)

di DedaloNur

Nel ventesimo secolo l'accademia archeologica ha stranamente ignorato la guerra e in senso più ampio il warfare, nonostante l'ampia documentazione archeologica consistente in “traumata”, armi, sepolture di guerrieri e iconografie guerresche giunti dalla preistoria.
A chi si occupa di archeologia sarda, e nuragica in particolare,  queste parole potrebbero suonare  come un grossolano errore se non una vera e propria provocazione. Fu proprio il Ventesimo secolo a vedere l' affermazione incontrastata delle tesi belliciste del Lilliu intorno alla funzione dei Nuraghi;  a ragion veduta pertanto, chi vorrà, avrà al suo arco numerose frecce da scagliare a chi avventurosamente  parlasse di  “estranietà dell'archeologia sarda alle tematiche  militari”.
Infatti l'incipit è da riferirsi, in generale, (naturalmente, non mancarano le eccezioni) all'archeologia europea continentale, e più in particolare, ai decenni intercorsi alla fine della secondo conflitto mondiale e gli inizi degli anni novanta; è in questo periodo che la guerra preistorica si specchiò in due atteggiamenti opposti; da un lato c'erano coloro che, in buona fede, tendevano a minimizzarla per esempio attraverso il “simbolismo guerresco”: basti pensare che per culture, oggi considerate eminentemente guerresche, come quella norrena del bronzo, la deposizione della spada nella tomba venne studiata più che altro dal punto di vista simbolico e religioso, o “culturale”. Non che gli archeologi europei non parlassero di guerra (e qui ci si riferisce al polo “militarista”), ma quando questo accadde la guerra fu ritratta in modo irrealistico se non  antistorico, magari incanalando nelle  “tesi belliciste”,  tensioni politico militari vissute in prima persona. Il caso di scuola più esemplare è Marija Gimbutas, la quale, come sarà noto, contrappose ad un Antica Europa pacifica e matriarcale una immensa invasione indoeuropea di stampo patriarcale ed ovviamente guerresca. Non mancarono i detrattori che intravidero nell'invasione indoeuropea dell'antica Europa, una rielaborazione psicologica dei traumi vissuti dalla Gimbutas, allorchè l'Unione Sovietica invase la sua Lituania.  L'accusa può suonare come un affronto a colei che rimane una delle più importanti studiose del neolitico europeo.

lunedì 3 ottobre 2011

Le pietre e la luce

Quali segreti nascondono i nuraghi, monumenti simbolodella Sardegna? Cosa spinse gli antichi sardi a costruire queste imponenti torri? Erano davvero fortificazioni per la difesa militare, castelli e residenze di antichi capi? Queste sono le domande che hanno spinto un gruppo di liberi ricercatori sardi a studiare per diversi anni fenomeni di eccezionale rilevanza scientifica. Con un ampio corredo fotografico, il libro cerca di dare una risposta agli interrogativi circa lo scopo di queste antiche costruzioni, il cui messaggio fino ad oggi è rimasto celato nel linguaggio delle pietre e della luce.

Chi come me ebbe la fortuna, lo scorso gennaio, di assistere alla proiezione del filmato registrato al solstizio d' inverno al nuraghe Santa Barbara, non potrà dimenticarlo facilmente.  Il sole entrava da una finestrella e, come un pennarello di luce, disegnava pian piano l' inconfondibile figura di una protome taurina sulla parete interna del nuraghe. Questo e tanto altro, tutto rigorosamente documentato, nel nuovo libro che tutti attendevamo. In bocca al lupo G.R.S.! AB