sabato 4 luglio 2009

Macchè vittimismo, è solo un'idea di Sardegna che vuol conoscersi

Un professore bavarese, che qui si firma Sardopator, solleva una serie di questioni molto intriganti, del che lo ringrazio di cuore. Costringe me – e credo gran parte di noi – a mettere nel bagaglio culturale termini nuovi. Per dirne una, sapevo dei tentativi di Nelson di “acquistare” la Sardegna, non sapevo delle mire del Granduca di Baviera. Egli dice che in età sabauda “la Sardegna vista da fuori non era mai l'isola ma soltanto la parte di terraferma”.
E questo torna con quanto scritto da Cesare Casula e, semmai, rinforza la sua dottrina della sovranità e la constatazione che Sardegna fu il nome dello Stato fino al 1861. Potrei aggiungere che fino al 1859, gli studenti di tutti gli stati sardi imparavano a scuola, per esempio, che la Sardegna confinava al nord con la Francia, che i fiumi della Sardegna erano il Po, il Tirso, la Dora Baltea, che le città della Sardegna erano Torino, Cagliari, Mondovì, Sassari. E anche che il reazionario Solaro della Margarita scriveva: “Eccettuate le cinque grandi Potenze e la Spagna, a nessun'altra crederei dovesse andare la Sardegna seconda, e precederne molte per l'importanza politica”. Insomma, fino al 1861, Sardegna era il nome dello Stato che oramai si era annesso gran parte della penisola italiana. Mi chiedo: se questa questione è ininfluente, perché nasconderla?
Ma non è questo che più mi intriga nei post di Sardopator, quanto il rapporto fra nazionalismo e storia a cui egli è “allergico” almeno quanto lo sia io: “l'orgoglio nazionale basato sulla storia è sempre una cosa pericolosissima”. Non escludo che qualcuno, in Sardegna, cada in questa trappola, fra questi non ci sono io né i miei amici. Il problema è un altro, per capire il quale è necessario, però, ricordare che il nazionalismo pericoloso è quello degli stati – quello italiano compreso – che nega le nazioni esistenti nel loro interno. È massimamente pericoloso perché, insieme alle nazioni (la sarda, la friulana, la bretone, la corsa, etc), negano la loro storia, la loro cultura, la loro lingua.
Per non restare nel vago e non essere sospettato di inutile vittimismo, invito Sardopator e chiunque voglia a guardare il Curriculum archeologico del Corso di laurea in Beni culturali dell’Università di Cagliari (http://193.206.224.50/beni_culturali_2008_2009.pdf). Vi vedrà che c’è solo un esame che riguarda la preistoria e la protostoria della Sardegna e, per l’indirizzo preistorico, due esami di Preistoria e protostoria e di Paleoetnologia (non è specificato se generale o applicata alla Sardegna). Senza pensare male, è comunque evidente che i fatti riguardanti una civiltà originale autoctona sono relegati in un cantuccio. Sorte diversa è riservata, per dire, all’etruscologia (nominata così) all’Università di Firenze, dove gli esami in materia sono quattro nei tre anni.
Il sospetto che qualcosa non vada riguardo alla nuragologia (mai nominata per altro) spinge molti e me fra questi a interrogarsi sulla formazione delle conoscenze. Di qui la voglia di conoscere da dove veniamo, dove mettiamo le nostre radici culturali, di non accontentarci – alcuni, anche su questo blog lo fanno – dell’indagine sul conosciuto, riproposto entro binari che non permettono deviazioni verso l’ancora sconosciuto, come se la ripetizione all’infinito dell’errore possa trasformarlo in verità scientifica. Certo, lo so anch’io che il rischio della costruzione della nazione attraverso l’archeologia e, soprattutto, la preistoria, è in agguato.
Un rischio che vorrei tutti scansassimo, ma che certo non è evitabile attraverso l’absconditum o la riserva archeologica destinata agli addetti ai lavori.
Ha idea Sardopator di quanti siti scavati, ritrovamenti, nuove acquisizioni non vengono neppure pubblicati. E quante pubblicazioni, in era di internet e di comunicazione anche scientifica istantanea, vengono relegate nei sacrari dei fascicoli per addetti ai lavori? È chiaro che in internet, allora, corrano la curiosità, le tesi non accettate dalla “comunità degli addetti ai lavori”, studi seri insieme a studi che seri non sono, interrogativi che sconfinano nella fantarcheologia insieme ad interrogativi terribilmente seri, come alcuni che anche questo blog pubblica.
Sardopator si chiede e chiede a noi anche: “Perché sempre ritirarsi in un passato fantasioso invece di essere fiero dei contributi della piccola Sardegna alla cultura mondiale di OGGI”? E fa un elenco di artisti e scrittori, alcuni dei quali seriamente impegnati a portare la cultura sarda nel mondo, altri impegnati a dare al mondo l’immagine della Sardegna che “al mondo” piace, che compra volentieri perché ci trova proprio la Sardegna come la vulgata la descrive. Se il bronzetto nuragico appartiene alla categoria degli stereotipi, che cosa sono i luoghi comuni sulla violenza della società pastorale, sul bandito buono ma solo nel passato, la macerazione sulla scarsa disponibilità dei sardi alla modernità, le storie di un sesso sempre arcaico e mai gioioso… se non stereotipi che vendono bene nel mercato sardesco e anti sardesco?
Non credo sia un caso che Sardopator non citi un solo autore in lingua sarda (o in gallurese, sassarese, algherese, tabarchino). Ce ne sono tanti quanti sono quelli in italiano, dieci più dieci meno. Non li cita, credo, perché non ne ha conoscenza, non certo per malanimo. Personalmente non credo a un complotto negazionista. La spiegazione è molto più banale: l’industria culturale che produce questa discriminazione è la stessa, guarda caso, che ha preconcetti nei confronti della protostoria sarda, che intervista i sardo parlanti in italiano e solo in italiano raccoglie le risposte, che rifiuta di spendere i soldi pubblici per l’insegnamento del sardo all’università, che restituisce allo Stato centinaia di migliaia di euro destinati al sardo veicolare nell’università.
Una ricerca sociolinguistica delle Università sarde, pur condotta con interviste in italiano, ha dato questi risultati: il 68,4 dei cittadini parla il sardo (il gallurese, il sassarese, l’algherese, il tabarchino), il 29 non lo parla ma lo capisce, solo il 2,6 per cento né lo parla né lo capisce. Si dà il caso che l’industria culturale sia in mano a questo 2,6 per cento. Non c’è in questo alcuna autocommiserazione, ci mancherebbe. Anzi la soddisfazione per aver sconfitto, spero in maniera permanente, chi appena trentanni fa aveva cantato la morte della lingua sarda come retaggio di arcaismo e impedimento alla modernità. Se ce l’abbiamo fatta a sconfiggere il canto funebre per la lingua sarda, ce la faremo a sconfiggere chi vuol negare la conoscibilità della storia sarda. Cominciando, se è il caso, dal tentativo di rendere conoscibile la preistoria e la protostoria, ma continuando con le vicende che da lì partono per arrivare ai tempi nostri.
Ho visto, non senza soddisfazione, che comincia un qualche interesse per la Sardegna medioevale e moderna, scontando, va da sé, la paura di chi, trovandosi di fronte ad acquisizioni nuove, si rinchiude intorno al conosciuto scolastico o invoca la supremazia dell’ideologia sulla realtà, della quale, direbbe Monsignor Della Casa, se ne fotte.
Nessun vittimismo, mi creda, Sardopator, solo un’idea diversa della Sardegna, quello scoglio che fece gola anche a Nelson, ai giacobini francesi e, ho imparato oggi, al Granduca di Baviera. E che rimane orgogliosamente sarda.

17 commenti:

Anonimo ha detto...

Corretto che, nella ricerca sociolinguistica, il 68,4% degli intervistati ha detto di saper parlare una varietà locale. Per completezza, forse, si potrebbe anche aggiungere che il 66,2% degli intervistati ha detto di parlare ai figli e alle figlie in italiano; solo il 16,5% dice di usare le varietà locali coi figli e il 15,6% con le figlie (sia l'italiano che le varietà locali sono indicati dal 17,3% coi figli e dal 18,2% con le figlie).
Detto così fa un effetto un tantino diverso.

zfrantziscu ha detto...

A primore, bio chi bos seis postu unu parmu de lardu pro sa cuntentesa. Làstima chi s'atitu bostru non b'intret nudda cun su chi so narende. E pòngio iscummissa chi bos ponet de mùtria mala, ischende chi sos pitzinnos imparent su sardu foras de famìlia. Si no esseret gasi, crasa chi b'aiat belle su 70 pro chentu faeddende su sardu.
Timo chi pro s'interru depies isetare.

Anonimo ha detto...

Riflettevo Zuanne su questo passaggio: --il rapporto fra nazionalismo e storia a cui egli è “allergico” almeno quanto lo sia io: “l'orgoglio nazionale basato sulla storia è sempre una cosa pericolosissima”. Non escludo che qualcuno, in Sardegna, cada in questa trappola, fra questi non ci sono io né i miei amici. Il problema è un altro, per capire il quale è necessario, però, ricordare che il nazionalismo pericoloso è quello degli stati – quello italiano compreso – che nega le nazioni esistenti nel loro interno.-- Io Zuanne direi che il nazionalismo in Sardegna (che praticamente non ha mai avuto vaste derive estremistiche) diventi pericoloso solo nella misura in cui rivendica un diritto rispetto alla pericolosità del nazionalismo accentratore italiano ricordato nello stesso passaggio. Che significa? Che "pericoloso" il nazionalismo (abbinato alla storia) lo diventa solo agli occhi di chi vuole preservare lo status quo. Impedendo alle nuove generazioni di conoscere il suo passato, agitando così lo spauracchio di sedicenti derive massimaliste e conflittuali per allontanare una minaccia (questa sì, potenzialmente reale) al centralismo. Ma pur sempre una "minaccia" pacifica e democratica. Sui diritti non si possono fare sconti, neppure verbali. E l'indipendentismo non farà torto a nessuno se legittimamente ogni tanto si aggrapperà alla storia che giustamente, come veniva detto, in qualche manuale scolastico dovrà entrare. Dico questo perché se queste cose non le promuove chi l'orgoglio ce l'ha ancora, non potremmo certo aspettarci di meglio da chi teme chissà quale scivolone verso il massimalismo. - Bomboi Adriano

Anonimo ha detto...

Dimenticavo sul profilo storico: E non c'è neppure da precoccuparsi che il nazionalismo inquini la storia inventandosene una ufficiale di sana pianta. In una realtà centralista c'è sempre un solo soggetto ad avere il coltello dalla parte del manico nello stabilire cosa è ufficiale e cosa nò. - Adriano

zfrantziscu ha detto...

Adria', in quella frase, forse, la sintesi ha ceduto all'ermetismo. Quel che volevo dire è che è pericoloso il nazionalismo che fonda le sue ragioni sulla storia che egli stesso individua come storia: il mito dei nibelunghi, delle walkirie e non solo per i nazisti; la grandezza di Roma per il fascismo. Questo, del resto, è mi pare il rischio individuato dall'amico bavarese.
Se il nazionalismo sardo dovesse fondare le sue ragioni su un pezzo solo della storia (gli shardana o il regno di Arborea) invece che su tutte le contraddizioni storiche, non ci vedresti un rischio anche tu?
Se non capiamo o ci rifiutiamo di capire che il regno sardo fu per i sardi lo stato che portava il loro nome non ci potremo mai spiegare perché per un triennio i sardi insorsero contro il governo di allora ("i piemontesi") e poi accolsero cordialmente il capo dello stato, il re. Non furono - come racconta la vulgata dei Melis, Tognotti etc - incoerenti: distinsero il governo dallo stato.
La nostra storia è anche questo, non solo il nuragismo e sos rennos sardos.
Del resto ci pensa il nazionalismo granditialiano ad accomunare tutto non solo nella negazione ma anche, e soprattutto, nella storia che accetta: quella dei vincitori che abitano l'attuale Repubblica italiana.
Per il resto, d'accordo con te.

Anonimo ha detto...

Est de unu pagheddu de tempus chi seu sighendu custu blog chi tenit su minescimentu mannu de circai de biri is cosas de un'àtera prospetiva, cussa de is sardus, de nos. A bortas mi parrit perou chi cun totu custus arrexonamentus scípius siais scoberrendu "s'àcua callenti" o "su segretu de conca tunda". Labai ca no nc'est abisóngiu de strobai su tempru sagrau de s'universidadi po biri su logu chi si donat a is sardus in domu insoru. Ma de candu est chi no pigais unu libru de stória e geografia de is scolas elementaris e mesanas? Deu tèngiu sa sorti de tenni duus fillus in custus duus órdinis de scola ( sorti po is fillus no ca funt in cussa scola stràngia) e impari sa malasorti de biri ita totu ddu est scritu in custus librus chi umperant. A si nai ca faint cagai de s'arrisu (cun tanti scusas po cussa faina pagu nóbili ma chi no si ndi podit fai de mancu) est pagu. Chi su meri de domu tenit prexeri ndi dd'imbiu in formau PDF una copia de sa parti chi pertocat a sa Sardínnia. Su de geografia simplementi no nd'intzertat una: abitantis (ponint is de sa Sicília), lagus in logu de stanis, totu is erbas aromàticas foras de sa murta, su pani prus spainau est su carasau, narat ca eus tentu is grecus avatu de is fenícius, seus primitivus ca manigiaus is cambus de mata cumenti de schidonis in logu de su ferru, arremonat is giaras de sa Gaddura, apu scobertu ca Sardínnia bolit nai "bosco di mantagna..." e aici sighendu. Su de stória invècias, abasciat s'edadi de is nuraxis e paris passant de 7/8 milla a setixentus, amesturat unu pagheddu is logus de interru nuraxinus cun is domus de gianas, cunfundit Sulci cun Sulcis, sartat unus cuatru-cincuxentus annus de stória passendu de is romanus a, intendei intendei, no a s'edadi giudicali ma a s'edadi pisana e genovesa (assumancu in su tituleddu, in sa descriidura ge ddu narat ca s'edadi est sa de is giúixis), mancai cussa pàgina siat una síntesi, est diaveras cosa de si fai impriutziri po is sciollórius. Deu puru no creu chi siat unu complotu contras a is sardus, simplementi a chini scrit is librus asuba nosta (no totus po caridadi, assumancu bollu sperai) de sa Sardínnia no ndi dd'afutit nudda, sa descriidura de s'orografia in su libru de geografia parrit fata castiendu sceti sa carta geogràfica, chena de mancu si strobai andendu-sí a ligi calincuna àtera cosa. Su fatu chi s'ísula apat tentu un'edadi indipendenti (mancai acapiada a àteras tzitadis poderosas cumenti de Gènova e Pisa) depit essi parta cosa tropu strambeca po chi at scritu cussa paginedda chi at preferiu a no ddu scriri cumenti de títulu de paràgrafu. Sa gravidadi de sa chistioni no est in su fatu chi no ndi frighit nudda de sa Sardínnia (e duncas de is sardus) a is stràngius furisteris, ca custu ddu podeus cumprendi puru, ma chi no ndi ddi frighit nudda a sa scola, maistus e professoris (stràngius de domu nosta). Issus sighint a pigai custus librus chena de si chesciai. Is professoris/maistus sighint a s'infiniu a tzelebrai, portai in panteus, sa grandu tzivilidadi de Roma, Arega, Egítzia, etc. a nos funt riservadas cussas scedixeddas totu ghetadas a pari, ta bregúngia. Podeis pensai sa stima chi ndi faint bessiri a pillu po sa terra insoru a is pipius. Candu apu nau a sa scola de su libru de geografia calincunu m'at arrespustu ca cussu no fut nudda, ca ddoi fut cosa peus meda... Ma nci bollit meda a nai a su ministeru ca is librus asuba de sa Sardínnia ddus depint scriri is sardus? Ge mi parrit chi calincunu studiosu ge ddu teneus, o nou? Deu no sciu cumenti funtzionat sa chistioni ma tzertu est bregúngia manna su sighiri diaici. Sa regioni ita fait? (cussa de imoi, de innantis e de sempri) sighit a promovi sa cultura de is àterus sceti? Tzertu po sighiri a si nai, in italianu tzertu, cantu funt togus is àterus...
Cun is mellus saludus
G. Pàulu Pisu

zfrantziscu ha detto...

A Paulu Pisu
mandamilos custos pdf. Colare dae sos sistemas artos a su contu de sa realidade nos faghet che a sa manu de deus. E bae e chirca chi non bi la faghemas a bogare a insàndalu cosas pretzisas.
Gràtzia Pa e si biri

Anonimo ha detto...

Sì, ma voglio espandere un po il mio pensiero per darti modo di capire meglio il senso del mio intervento. E' vero che sono i Sardi stessi spesso ad aver accolto ipso facto una realtà cognitiva ed istituzionale che gli è stata posta innanzi e da alcuni di loro pienamente accettata come funzionari, forze dell'ordine, ecc, nonché questa è divenuta organica alla popolazione stessa. Forse perché il concetto vero e proprio di Nazione (entità dunque che poteva muoversi diversamente dallo stato) si affermò con più chiarezza solo tempo dopo. Sul fatto inoltre che i comuni cittadini (e non quindi i funzionari dell'epoca) avessero gli strumenti politico-cognitivi per separare lo stato dal governo non ne sono sicuro e non possiamo avere riscontri certi. Questo però non significa che abbia ragione la "vulgata Melis". Persino oggi a livello sociale esistono singoli soggetti, ascrivibili all'area del qualunquismo, che non fanno distinzione alcuna tra governo e istituzioni "Repubblica delle banane, gli uffici non funzionano, la giustizia non c'è, il governo è ostile" e via discorrendo. Magari per LA PREVALENZA dei comuni mortali di allora, monarchia e governo erano inquadrati come la stessa cosa e della Regia visita ai cittadini comuni non importò più di tanto. Dalle cronache emergerebbe solo la trasposizione cognitiva di una fascia popolare contigua a quelle istituzioni. Lo stesso Dionigi Scano in una vecchia biografia sull'Angioy riconosceva quanto ancora poco si sapesse sui moti di fine '700. Il concetto stesso di massa e di Pubblica Opinione si afferma maggiormente a cavallo tra ottocento e maggiormente nel '900. Nel mondo moderno la lettura degli eventi usiamo stabilirla spesso attraverso analisi statistiche, è mia personale opinione ritenere che nessuno sia in grado di dire quale fosse la reale lettura che la popolazione dava delle istituzioni in se, delle sue peculiarietà, il tutto con riferimento alla propria condizione sociale, culturale e territoriale. > Segue

Anonimo ha detto...

> Nè possiamo stabilire con quale incidenza percentuale stabilita settore per settore e fascia per fascia (età, sesso, posizione sociale, ecc) la notizia della graduale fine dei moti si sia diffusa nel Popolo, soprattutto, con quali contenuti. Consideriamo anche l'assenza dei mass-media e la variazione che poteva subire l'oggetto di un informazione a livello di diffusione nel territorio. Magari per evitare il dilagare di forme anarchiche nella popolazione si usò "propagandisticamente" elogiare il Re come figura di garanzia al fine di preservare le istituzioni stesse da nuove e potenziali sacche rivoluzionarie, salvando anche indirettamente dunque l'esecutivo Piemontese. La verità è che abbiamo pochi dettagli e la serietà della valutazione moderna degli eventi ci dice che non abbiamo molti appigli, nè per credere alla vulgata Melis e soci, nè per credere però che tutta la popolazione vivesse la fine dei moti ed il ripristino monarchico dello status quo come un ritorno alla "serenità"...Nell'ottocento con l'editto delle chiudende abbiamo visto tuttavia che lo status quo era perfettamente assimilato dalla popolazione locale, ma era passato un secolo e ricordi i moti Irgoli-Siniscola che provocò l'editto sulla contesa territoriale a cavallo con il '900? La popolazione assaltò il palazzo civico (identificato genericamente come l'emanazione dello stato) nel disordinato tentativo di trovare una soluzione ai problemi, attaccando direttamente quella che avvertiva come essere la fonte simbolica dei problemi. Non c'era alcuna guida politica, figurarsi "identitaria", e l'intervento delle istituzioni disciolse gradualmente la protesta. Ma in un manuale di storia non è urgente riportare il dettaglio che genera la valutazione politica. Accontentiamoci (ad esempio sui moti del 1794) di parlare di una rivolta popolare contro il modello socio-economico che veniva imposto all'isola e di quanto questa rivolta sia stata sedata nel sangue. Magari facciamo anche un paragrafo finale con le principali letture della situazione date dagli storici. L'errore degli storici nostrani oggi è forse proprio quello di voler miscelare la propria lettura politica di un evento in oggetto, ma così facendo ritardiamo il fatto che quell'evento stesso venga conosciuto a livello scolastico perché non si giungerebbe mai ad un testo condiviso da adottare sui banchi di scuola. Sul pericolo che poi una di queste letture nel nazionalismo pretenda di diventare esclusiva dando problemi, posso concordare ma come dicevo, lo vedo un rischio subordinato all'attuale potere del centralismo italiano. Quindi molto basso. - Adriano

Anonimo ha detto...

Apu apena provau a ti mandai cussas cosas ma no nci arrennèsciu. Su computer mi donat messàgiu de faddina:
Impossibile trovare l'host "SMTP". Verificare che il nome immesso per il server sia corretto. Account: 'POP3', Server: 'SMTP', Protocollo: SMTP, Porta: 25, Protezione (SSL): No, Errore socket: 11001, Numero di errore: 0x800CCC0D
Pàulu Pisu

Anonimo ha detto...

Oddeu, amus pèrdidu Ainis, chi, mancari unu pagu barroseddu, assu nessi faghiat pessare, e amus balanzadu Bomboi, campione de intasamentu de sos blog, catzadu dae aterube... goi semus andende male pitzinnos caros

Anonimo ha detto...

Vedo che c'è anche qualche simpatico ammiratore, intaso il blog con un'altra osservazione pertinente a lingua, storia e nazionalismo: Lo storico internazionale Bernard Lewis, nella trattazione di questi temi, ha identificato non nella lingua ma piuttosto nella storia del passato il gancio attraverso cui si è risvegliato l'etnonazionalismo in diversi Paesi dell'ex Impero Ottomano. A differenza della Prussia dunque, in cui i tedeschi basavano il collante identitario più su lingua e razza che su rivendicazioni di tipo politico-territoriale per una Germania unita. In Egitto, ma anche in Persia (Iran) e nella stessa Turchia, epicentro dell'Impero, il nazionalismo si afferma proprio con l'avvento delle grandi scoperte archeologiche ed il progressivo riaffiorare delle civiltà scomparse che avevano abitato tali aree. L'impero ottomano bollava queste spinte etnonazionaliste come "anti-patriottiche" poiché il suo unico collante più che la lingua (lo sarebbe divenuto solo con l'evolversi del panarabismo) era la religione. Con la storia il nazionalismo si rafforza, si ripercuote antecedentemente all'Islam grazie alla storia. In quei paesi dunque prima non c'era solo l'Impero Ottomano, c'era la civiltà Egizia, c'era la Grecia, c'era Bisanzio, etc. Il caso emblematico in cui si inizia a passare da una fase all'altra (definita, dal patriottismo istituzionale al nazionalismo storico-etnico) la fornisce proprio il caso Egizio: Il primo movimento identitario che si formò infatti non era anti-imperialista, non combatteva il sultanato ottomano, ma era anti-britannico nel momento in cui Londra avviò la sua occupazione al Cairo. C'è quindi una prima distinzione. Se in Sardegna venne più o meno divisa l'autorità Regia da quella Piemontese a seguito dei moti rivoluzionari, in Egitto l'avversione ANCHE verso le autorità ottomane inizia a nascere con l'approcciarsi del passato storico dell'Egitto. Analogo lavoro svolgeranno i Kemalisti in Turchia. Il miglior modo per rispondere ai bucalotti è farlo con i contenuti. La lingua da noi è certamente un fattore importante, ma io dico, facciamo conoscere ai nostri giovani tra i banchi di scuola quello che è successo in Sardegna prima del 1861...Dando retta solo agli unionisti oppure solo agli indipendentisti che pensano di veicolare la storia senza fare riforme entrando nelle scuole...rischiamo di allontanare un vero processo di autocoscienza collettiva. - Adriano

Anonimo ha detto...

Dimenticavo: Facciamo conoscere tra i banchi di scuola ai nostri giovani il passato, ANCHE SE CI SONO APPARENTI CONTRADDIZIONI. - Adriano

Anonimo ha detto...

C'è qualcos'altro che hai dimenticato, Bomboi?

Signor Pintore, sarebbe il caso di dare una tiratina d'orecchie anche a chi approfitta di questo piacevole spazio che lei mette a disposizione.

Se qualcuno non è capace di moderarsi, ci pensi lei.

Meglio l'insolenza di Ainis che la logorrea di Bomboi.

zfrantziscu ha detto...

Caro ignoto, Bomboi si firma, lei no. E questo fa la differenza

sardopator ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
zfrantziscu ha detto...

@ sardopator

Mi spiace, ma non posso essere d'accordo con lei neppure un po'. E non solo perché Isaac Bashevis Singer, per esempio, ha conquistato il premio Nobel pur scrivendo in yddish, lingua parlata dalla stessa quantità di sardi (più meno s'intende).
Singer si rifiutò sempre di scrivere in altra lingua che non fosse la sua. Il problema è un altro: egli ha creduto nella propria lingua e chi ha voluto leggerlo o ha imparato l'yiddish o ne ha atteso la traduzione in inglese. Questione di stile e di coerenza.
Se gli scrittori sardi avessero avuto il coraggio di essere se stessi, Grazia Deledda sarebbe stata premio Nobel lo stesso per le traduzioni dei suoi libri. E altri scrittori sardi avrebbero comunque raggiunto notorietà. Lei avrebbe concepito, che so?, che un Gunter Grass per avere più notorietà avesse scritto in inglese? O ne fa una questione di dimensioni dei parlanti?
Ero presidente della giuria che assegnò a Benvenuto Lobina il premio Casteddu de sa fae per il suo "Po cantu Biddanoa...". Trovai, e come me moltissimi altri, decisamente errata la dicisione dei parenti di pubblicare il libro con testo a fronte. Una dichiarazione di disistima per la lingua che Benvenuto padroneggiava con enorme maestria. Sarebbe bastato, in fondo, pubblicare un libro a parte in italiano. Sarebbe stata salva la dignità piena della lingua sarda e sarebbe stata salva la maggiore comprensione in Italia e in chi conosce l'italiano.

PS - Mi permetta di rimanere sconcertato dalla sua affermazione sulla non comprensibilità del nuorese (e di altri dialetti della lingua sarda) fuori della cinta daziaria. Si tratta di un pregiudizio, nato nella mente dei sardi ipercolonizzati (di solito intellettuali), che a quanto pare ha mietuto vittime anche in Baviera.