giovedì 1 dicembre 2011

L’uomo con la valigia

di Francu Pilloni

Era il dicembre del ’46 o forse gennaio del ’47, la guerra era terminata, la gente non moriva più ma stentava a vivere. Fu tra Natale e Capodanno, o fra questo e l’Epifania, che nella piazza del paese si materializzò un uomo con un vestito liso, una camicia bianca col colletto usurato, tenuta chiusa al collo da uno straccio di cravatta. Niente di maestoso, ma era pur sempre un “signore” in giacca e cravatta. Ciò che di lui colpì l’immaginazione dei paesani non fu il vestito bensì una enorme valigia che aveva addossato al muro della scuola sopra uno dei sassi sui quali soleva seder la gente a meditare da sola o a polemizzare in compagnia. Stette là, vicino al suo bagaglio, a rispondere con cenni della testa ai saluti dei paesani che passavano, arrotolandosi con maestria magre sigarette, l’una dopo l’altra.
Qualcuno pensò che avesse qualcosa da vendere e rideva in cuor suo perché aveva sbagliato piazza; altri che era venuto per comprare dieci uova e tre galline o due misure di frumento e storceva la bocca su uno che si era messo in piazza per acquistare al mercato nero; ci fu chi pensò che stesse cercando alloggio quando invece gli sfollati della città erano tornati alle loro case.
A me, che ero piccolo e l’avevo adocchiato tra le sbarre di legno del cancello di mio nonno, parve che aspettasse il pubblico per cominciare lo spettacolo. Mi faceva meraviglia più che l’uomo la sua valigia, che debordava dal sasso su cui era posata e anche a distanza si scorgeva quanto fosse gonfia e stipata.
Gli uomini cominciarono a far gruppo in mezzo alla piazza parlando sommessamente e sbirciando di sguincio il forestiero. Mio nonno era andato ad Ales col carro a portare quattro damigiane d’acqua dal rubinetto. Era l’acqua da bere: ci sarei andato anch’io se non fosse stata una giornata così così, col cielo che minacciava pioggia. Mia madre mi richiamò dentro, per stare al caldo vicino al fuoco. Lasciai malvolentieri le stecche di legno del cancello, intristendo dentro di me perché mi sarei perso lo spettacolo.
Quando nannai rientrò col carro, mi feci sul cancello ma la piazza era deserta e silenziosa.
Ancora adesso non so con precisione per quale motivo quel “signore” fosse venuto nel nostro villaggio, quale mercato aveva intenzione di mettere in atto nei confronti dei paesani, e soprattutto cosa contenesse la sua valigia enorme. Ciò desta in me un leggero stato d’ansia, allo stesso modo di un altro signore in giacca e cravatta che reca con sé una simbolica valigia strapiena. Questo signore si chiama Mario Monti ed è chiaro che solo un bambino può immaginarsi che sia venuto per divertirci.

9 commenti:

Grazia Pintore ha detto...

Signor Pilloni,mentre leggevo la sua storia dell'uomo con la valigia provavo anche io la sua stessa emozione,mi sembrava di essere tornata bambina nella splendida Sardegna,piena di miseria nel dopoguerra ma sempre meravigliosa ai miei occhi e sopratutto nei ricordi.Penso proprio che il signor Monti non ci porterà regali,spero solo che i sacrifici che dovremo fare siano distribuiti in maniera equa,anche se ho forti dubbi.Ad ogni modo la ringrazio per la bella storia iniziale.

mikkelj tzoroddu ha detto...

Vedi bene, caro Francu, quanto tu sia irriverente nei confronti di quel Signore che manifestò la sua presenza, all’improvviso, nella piazza del paese. Egli arrivò di sua sponte sapendo quanto rischio era riposto nella sua avventura: aveva da perder tutto o poco da guadagnare. Era la scelta della vita che lo poteva far soccombere. Scelta coraggiosa che, ciascuno abbia vissuto una vita inventivamente operosa, ha operato nella propria esistenza, spinto dalla situazione contingente creatasi anche senza colpa alcuna. È arrivato al tuo paese, carico della sua prorompente voglia di vivere, nascosta sotto l’antico ricordo d’un abito elegante, perché la bisogna richiedeva un minimo formalismo.
Ecco, caro amico, il formalismo è l’unico legame che accomuna (ci perdoni l’improvvido accostamento, il dignitoso Signore con la enorme valigia) quel Signore che arrivò nel tuo paese, con questo signore ch’è arrivato nel nostro. Così come quello era carico di speranze e di progetti, il cui buon fine avrebbe soddisfatto e i tuoi compaesani e sé stesso, così questo è arrivato col portafogli carico di danari (nostri) concessigli manu praesidente, con la certezza che il fallimento dei suoi progetti toglierà sicuro valore al nostro danaro, ma intaccherà d’un nulla la sua infinita prebenda.

mikkelj tzoroddu ha detto...

Mi sono immerso (perché tanto superficiale sono) nel significato che per ultimo m’è apparso del contributo dell’Egregio Francu, privandomi di godere da subito ed appieno, il fondamentale contenuto umano d’una narrazione che percepiva, in modo sì garbatamente lineare, la “visione” d’elevato senso di un impianto sociale che è, poi, spaccato d’una pacata vita quotidiana d’eminente comunità, sostenuta da millenni, da quella messe di esperienze depositatesi nell’inconscio, rappresentando per essa, sempiterna finestra sul passato.
Ringrazio la Gentile Signora Pintore, per averne Ella, con grande sensibilità, rilevato subito l’aspetto più saliente.

francu ha detto...

Vi voglio bene, Micheli e sigora Grazia, perché comprendete la mia ansia e l'emozione dei miei ricordi.
Può uno, chiunque esso sia, giocare a tennis da solo?
Serve che ci sia qualcun altro che, dall'altra parte del campo, rimandi indietro la pallina che ha lanciato. E non importa se ti serve una palla facile o ti passa inesorabilmente lungolinea o incrociando.
La signora Grazia mi serve sempre palle facili che mi arrivano addosso, ma mi mettono in imbarazzo; Micheli incrocia e mi devo allungare parecchio per controbbattere.
Ma il bello è giocare.

Gigi Sanna ha detto...

Bellissimo il paragone 'tennistico' sulle domande e sulle risposte. Lo terrò presente. Sì l'interessante è giocare. Ma molte volte resta uno 'zero' e non si capisce proprio perchè nessuno giochi. Ma anche questo fa parte del ...gioco.

mikkelj tzoroddu ha detto...

È vero, non si può giocare da soli. Che triste giocare da soli. Ma che bello giocare da soli.
Giocando da soli e, certo, con il massimo impegno e serietà possibili, si possono raggiungere risultati inimmaginabili, ove si sia costantemente spinti da sovrumano entusiasmo, nella cui caldaia far bruciare il più potente fra i combustibili: l’amore. Ma, certo, per quanto entusiasmanti siano i risultati che mano mano vengono percepiti, sviscerati, ripresi, corretti ed alfin catalogati, rimane sempre una sorta di interruzione coitale proprio perché non si coisce, non si va insieme, ma si va da soli, non v’ha risposta ai quesiti, ai dubbi per quanto atroci, se non la propria, ed ahinoi, quanto povera essa sovente appare.
Giocando in due, si può andar lontano, ma dev’esser gioco di sintonia, dev’esser gioco di comunione, essendo unico l’intento da raggiungere, ma soprattutto per essere un gioco di successo, i due giocatori debbono darsi pienamente al gioco, con il massimo sprigionarsi di loro idee anche le più pazze, onde cogliere scampoli di luce da perseguire su vie anche ingrate che talvolta portano al traguardo. Il traguardo. Il traguardo è mio, no il traguardo è mio. Ma il traguardo è già morto. È esso una chimera che vive finché è percepita nella sua grandiosità imprendibile. Nel momento in cui se ne materializza l’appartenenza essa più non è.
Il gioco. Da soli? In due? Forse in tre.

Grazia Pintore ha detto...

Signor Mikkelj,la ringrazio del suo complimento,sinceramente,ogni volta che rispondo agli scritti del signor Pilloni,così poetici e pieni di umanità,mi sembra sempre di essere una bambina,non cresciuta,perchè scrivo in base alle emozioni che lui mi crea,invece tutti voi date delle risposte più profonde ed articolate.Il signor Pilloni mi apre il cuore ai ricordi della mia infanzia sarda e al calore umano che sento nei sardi e che,difficilmente,trovo nei miei rapporti toscani.Il mondo di oggi è così barbaramente attaccato al dio denaro che ho sempre bisogno di rifugiarmi nei veri valori dell'umanità e della solidarietà.Mi sento,anzi,un pò egoista perchè per poter vivere ho bisogno di rifugiarmi nel ricordo del calore e degli ideali che mi sono stati trasmessi.

francu ha detto...

Alloddu a Micheli!
Eccolo qui Michele!
Ti ho servito una palla corta e sono corso a rete; tu me la alzi sulla testa in modo tale che non riesca a prenderla saltando e tantomeno rincorrendola all'indietro.
Che dire?
Punto per te, Micheli. 15-0.
Ma siamo solo all'inizio, al primo gioco del primo set, ricordalo!
E non c'è il tie-break

mikkelj tzoroddu ha detto...

E si! Ma se giochiamo, devi rispondere a tono, altrimenti la palla va fuori campo.
A dire il vero anche le palle fuori campo hanno la loro ragion d’essere. Sono il risultato d’una azione ben ponderata d’un individuo perfettamente concentrato per ottenere il meglio. Per ottenere il risultato. Ed il Risultato lo si vede soltanto alla fine. E la fine non è affatto detto sia quella ci siamo proposti che sia ed organizzati in modo che accada.
La fine (e soprattutto l’inizio, ma la distinzione afferisce la nostra pigra modalità d’incedere) della partita può essere stabilita dal caso. Iniziai più di un anno addietro, una partita con me stesso, ma come dissi altrove, avrei voluto fosse stata e fosse (il tempo è davvero generoso) una partita giocata da tutti i Sardi fortemente desiderosi di scoprire il proprio passato (ascoso, secondo me, al 97%, in stretta relazione con le migliaia di attività d’ogni tipo da essi poste in essere, a voler analizzare soltanto gli ultimi 50.000 anni). Il tema o partita, fu appunto acceso dal caso che mi dusse a quel ritrovamento di antichissimi segni simboleggianti un qualche forte messaggio, che trovai più di un anno addietro nella Sardegna settentrionale. Io, con grande fede nell’entrare in una partita da cronacizzare in modalità radiofonica (che ritengo la più consona, perché vi si sprigiona la possanza del pensiero che si dipana lungo l’azione che cuce il tessuto che si tesse nel profondo), caro amico Francu, volli dare, con quel titolo (indelebili legami tra Sardegna paleolitica ed area danubiana) apparso ai più solo connotabile nella sua magniloquenza (essendo per me semplice messa in chiaro di avvenimenti vissuti ed accaduti), inizio alla partita che speravo giocare nell’insieme della squadra. Ahimè! Nessuno volle giocare la partita impossibile! Ma sì, lasciamolo giocare da solo, quel pazzo! Ebbene, anche giocando da soli, come già detto, si può arrivare. Al risultato? È presto per dire ciò. Ma resta il fatto che la settimana appena trascorsa (ma quanto piena di novità) che mi vide presente nella nostra Isola, la partita stessa, che è mai terminata se essa stessa non decide, mi ha condotto, bontà sua, a sferrare l’ultimo “ace”. A trecento chilometri di distanza da quel punto ove rinvenni quei segni significativi, a dimostrazione che non erano la fugace espressione d’uno sparuto insieme di anime, mi sono apparsi, come d’incanto, un insieme di quattro segni molto simili ad uno dei due gruppi che trovansi, da un anno, indicati sul mio sito (ma non è pubblicità).