Abbandonata, o almeno messa sullo sfondo come estrema ratio, dalla Lega, la parola “secessione” sta entrando con sempre maggiore frequenza nel lessico della politica e dei media. Il fatto che un uomo come Giorgio Napolitano, senza pronunciare la parola, ne descriva le conseguenze sempre più frequentemente dà il senso, io credo, che il suo spettro aleggi sui palazzi che contano. E che ci sia se non una rassegnata attesa, almeno la sensazione che l'esito dell'attuale temperie politica e istituzionale potrebbe essere quello del ritorno della penisola alle condizioni pre-unitarie.
Il governo italiano, al pari di quelli europei, si trova di fronte alla necessità e alla urgenza di far dimagrire consistentemente lo Stato. È, come dire?, un tentativo di non innescare rischi di bancarotta alla greca: uno, due, tre stati si salvano, ma alla fine il pericolo è che risuoni il “si salvi chi può”. Così, in Italia è capitato qualcosa che ha dell'inedito e che non mi pare sia stato sottolineato: le regioni sono in rotta di collisione con lo Stato e chiedono a questo di dimagrire esso consistentemente, prima di chiedere di farlo le regioni. È come dire allo Stato: commetti suicidio.
Fra le poche cose che tiene unito lo stato italiano è la burocrazia, colpita questa colpito il cuore.
Persino uno come Tremonti, al quale tutto si potrà rimproverare ma non di avere solide basi culturali ed economiche, di fronte alla riduzione dello Stato alle sue giuste dimensioni di coordinatore tentenna. E preferisce una iniezione di federalismo forzato: le regioni si facciano subito quel che dovranno essere in futuro, enti federati che spendano quanto incassano. La reazione di molte regioni è quella di chi teme l'autogoverno. Vogliono restituire le competenze che sono state assegnate loro, quasi che siano le giunte regionali titolari di queste funzioni e non le popolazioni che esse rappresentano. Altre naturalmente dicono di no e spero che fra queste ci sia la Sardegna.
Sia come si sia, ridotto che è il “sentimento nazionale” alle partite di pallone e ai proclami di Comesichiama Casini e poco più, il centralismo sta producendo una voglia di fuga dalla Repubblica italiana verso l'Unione europea, dove, come è noto, proprio in virtù dell'idelogia nazional-statalista conta solo il fatto di essere costituiti in stato. Stati come Malta, Cipro, Estonia, Lussemburgo più piccoli della Sardegna contano e contrattano, la Sardegna no, neppure dopo aver avuto lo status di regione sede di una “minoranza nazionale”. Condizione che, sia detto per inciso, la classe dirigente sarda (la politica, la sindacale, l'imprenditoriale, la intellettuale, l'istituzionale) non riesce neppure lontanamente a pensare di mettere nel carniere. Mi verrebbe di citare quel che è successo sabato scorso a Barcellona, ma taccio per pudore.
Altri hanno le mie stesse sensazioni circa la crisi del collante unitario italiano e hanno però reazioni esagitate. Vi segnalo l'articolo che il sociologo dell'Università di Cagliari, Marco Pitzalis, ha scritto per il sito di sinistra inSardegna.eu. È una mozione degli affetti nazionalista granditaliana, che arriva a rivolgersi all'esercito e alla polizia con inviti che non ho capito bene, e che così conclude: “Vedo solo due strade per la Sardegna. Possiamo essere autonomi dentro un’Europa delle Regioni o autonomi dentro un’Italia federale, unita e repubblicana. Tutto il resto è follia politica. Tutto il resto è polvere di tomba”. A parte i richiami lugubri e catastrofisti, ha ragione. E credo che se egli, stimatore del sociologo francese Pierre Bourdieu, sessantottino e solidale con gli intellettuali algerini, avesse mosso le acque della sinistra sarda nella direzione voluta, oggi non sarebbe lì a temer di chiudere la stalla con quel che segue.
6 commenti:
Bene, GFP.
Lo vedi anche tu che la gente ha paura dell'autonomia-indipendenza?
Il sociologo che citi dice che le strade sono due: o in un'Europa delle Regioni, o in un'Italia federale.
Peccato che le strade di cui parla non esistano, non sono nella mente di nessuno in Europa, non hanno neppure un senso comune, meno che mai politico.
Ho paura che noi sardi siamo determinati a cambiare solamente padrone, come in antico i servi pastori po Santa 'Ruxi: forse non siamo neppure bravi a tirare sulla paga: un paio di scarpe nuove, vitto, alloggio, unu saccu de orbaci e qualche spicciolo.
Dimmi che non è così, per favore. Dimmi che c'è una consapevolezza nuova nei giovani sardi e una volontà feroce di essere padroni del proprio destino.
Grazie.
@ francu
Risposta provvisoria: no, non è così. Altrimenti Pitzialis (leggilo di prego, anche se sentirai sentori di muffa) non scriverebbe così
Muffe e licheni a parte, una delle giustificazioni più ricorrenti dei nazionalisti italiani è dire che se "la macchina (alias, lo stato) è partita, allora è immorale o quasi delinquenziale volerla fermare per salire su un'altra". In Spagna questa supponenza (più politica che giurisprudenziale) arriva anche a decidere chi o cosa può sentirsi nazione, in spregio ad una parte della sua stessa popolazione. Chissà che ne direbbe oggi quell'austero signore brizzolato presente sulla banconota da un dollaro?! Il suo principio era molto semplice: un popolo ha il diritto di fare e disfare la Costituzione come crede, perché è padrone della propria storia. Lo stesso principio fu seguito durante la guerra civile USA dagli Stati Confederati del Sud....ma anche da quelli del Nord...Entrambi gli schieramenti infatti si richiamavano allo stesso principio. Poi si torna a guardare la decisione Spagnola a carico della Catalogna e ci si chiede: ma in base a quale diritto una sola parte decide che ha ragione a scapito dell'altra? E non parlo di giurisprudenza, ma del diritto di autodeterminazione di una data popolazione stanziata in un qualsivoglia territorio. Oggi le rivoluzioni sono finite e crediamo tutti nella democrazia, quindi...che male ci sarà per Pitzalis se anche quì dei politici riterranno opportuno andare oltre una Repubblica fondata sul silenzio più assoluto della storia e della lingua del mio territorio? Se rispettare i valori della Resistenza significa non rispettare quelli del territorio, ahimé, allora forse troviamo immoralità e delinquenza anche in questo...- Bomboi Adriano
Alla fine l'ho letta questa cosa che risale ad aprile. Pensa a cosa potrebbe scrivere oggi, sulla Lega, su Fini e Berlusconi!
Io non sono molto perspicace, ma mi spieghi cosa intende quando si rivolge alle forze armate e alle forze dell'ordine?
Dovrebbero prendere in mano la situazione?
A ragionamenti di questo calibro, il venerabile Gelli farebbe dì sì col capo.
Salto a pie' pari quello che dice per la Sardegna e i Sardi che non sarebbero capaci di autogovernarsi, ma finirebbero nelle grinfie dei poteri economici internazionali.
Gli chiederei: più di quanto già non ci siamo?
E poi non mi piace come tratta la storia: l'idea repubblicana è nata con la Resistenza? E Mazzini e Garibaldi e tutti gli altri, sono solo nella storia francese?
E i ragionamenti "ottocenteschi" come se la Sardegna fosse quella di Ospitone?
Siamo passati dal VI al XIX secolo a pie' pari?
Le letture, come tu ben sai caro GFP, sono come gli amici: meglio scegliere da sé, altrimenti perdi tempo e ti avvilisci pure.
@ Francu
Hai ragione, le letture come gli amici sono scelte personali, ma se uno non può condividere con un amico le proprie sconcertanti scoperte, che amico è?
Ho appena letto quanto scrive Marco Pitzalis, mi era sfuggito. Direi che il nostro sociologo si addentra in un terreno mai frequentato. Diverso si dimostra quando analizza i problemi dell'offerta formativa in Sardegna. Allora dimostra buone capacità, certamente acquisite anche fuori dall'Italia. Quì appare come un pulcino che esce dall'uovo. Non tiene conto che è proprio la rinuncia all'autonomia del 1847, il deleterio atteggiamento mentale della rinuncia, che significa complesso d'inferiorità e deresponsabilizzazione all'origine dei nostri mali. Probabilmente fa parte di quei cittadini che sono riusciti a eclissarsi mentalmente dall'isola negli anni della loro formazione. Cosmopoliti di maniera per dirla con Pigliaru, se non erro.
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