martedì 10 maggio 2011

Il banchiere e costruttore Mazzella non paga i dipendenti di Sardegna 1

Mazzella non paga gli stipendi a Sardegna 1. I dipendenti non ce la fanno più ad andare avanti. È l'allarme lanciato dai dipendenti della seconda televisione sarda che qui rilancio ai lettori del nostro blog. Questo il testo del comunicato dei dipendenti di Sardegna 1 approvato dalla loro assemblea unanime.

Solo acconti per dicembre, gennaio, febbraio, marzo e aprile: tecnici e giornalisti di Sardegna 1 denunciano pubblicamente l’insolvenza del proprietario dell’emittente, Giorgio Mazzella che, forse distratto dai suoi impegni di imprenditore turistico e di presidente della Banca di Credito Sardo (Gruppo Bancario Intesa Sanpaolo), non assolve ai suoi obblighi.
Lo stato di crisi dipende certo da fattori esterni (calo generale degli investimenti pubblicitari e sperimentazione del digitale terrestre) ma soprattutto da un’accertata incapacità di gestire un’azienda che richiede professionalità specifiche.
A Sardegna 1 mancano sia il piano industriale che quello editoriale, richiesti più volte dai dipendenti come strumenti per definire una gestione corretta delle iniziative editoriali e le prospettive future dell’azienda.
Tecnici e giornalisti di Sardegna 1 chiedono pertanto l’immediato pagamento del saldo degli stipendi e un incontro urgente con la proprietà, non oltre giovedì 12 maggio. Proclamano fin d’ora lo stato di agitazione con il blocco totale degli straordinari e degli accordi sulla flessibilità del lavoro redazionale, riservandosi nuove e più incisive azioni di lotta a difesa dei posti di lavoro.

Credo gradirebbero un moto di solidarietà. Che io esprimo loro.

Quando il bue dice cornuto all'asino. Storie permalose

Come i sacerdoti di altre Chiese, anche gli officianti di Sacra Romana Archeologia lanciando anatema citano il peccato, non i peccatori che non sono mai Fulanu o Bantine, ma solo e sempre “quelli che”. Non è per vigliaccheria, o almeno non credo; piuttosto per la ovvia superiorità di chi parlando dal Tempio della Regione di Essa è interprete. Quando questi sacerdoti accusano gli infedeli, o peggio gli apostati, di infamanti delitti culturali non pensano neppure lontanamente di insultare, calunniare, diffamare. Essi sono convinti di constatare, rilevare un dato, né più né meno di come un prete constata che un adultero viola una legge divina; dirglielo in faccia non è un'offesa.
Produrre “una mole immensa di pagine, di farneticazioni, di cialtronerie che ci parlano di proto-ugaritico, di proto-sinaitico, di proto-altro (Paolo Bernardini)” o essere “linguisti improvvisati che scoprono etimologie a sentimento e parentele con la lingua degli abitanti di Atlantide, di Sodoma e Gomorra, dei nipoti di Ulisse e dei cugini di Iolao, dei parenti di Davide e del custode delle miniere di re Salomone (Paolo Maninchedda)” o, ancora, dire che “alcuni personaggi giungono ad impossessarsi di reperti autentici di varia età, erroneamente interpretati come testimonianze di scrittura nuragica, o addirittura a fabbricare deliberatamente false "iscrizioni nuragiche" su tavolette di pietra o d'argilla, blocchi di pietra o addirittura sui macigni di monumenti nuragici (Marco Minoja)”. Tutto ciò, fornito di nomi e cognomi, sarebbe in grado di suscitare processi per calunnia e diffamazione. In questa liturgia no: c'è la diffamazione non ci sono i diffamati.
La cosa singolare è che gli autori di tante offese si inalberano se qualcuno risponde loro per le rime. Lo ha fatto recentemente in pubblico l'archeologo Paolo Bernardini, parlando di Atlantide e nuraghi in un convegno a Cagliari. “Dopo un mio ironico richiamo a protoscritture di invenzione, dal protougaritico al protochissachè, peraltro altrettanto di fantasia della scrittura che si pretende ora rivelata, vengo ripetutamente e metodicamente insultato in vari blog presenti sulla rete” ha detto. Vi prego di notare, en passant, la leggiadria con cui parla di “protoscritture di invenzione, dal protougaritico al protochissachè”. Si sentirebbe dare del bugiardo, se gli si facesse notare che nessuno ha mai parlato di “protougaritico” (anche noi cialtroni sappiamo che non è lingua citata)? O dell'ignorante se uno supponesse che quel “protochisachè” nasconde, in verità, nebbia sulle lingue antiche più fitta di quella che in Val Padana confonde ogni contorno?
Sarei oltremodo curioso di sapere dal dottor Bernardini, che so lettore di questo blog, che idea si è fatta delle scritture che hanno preceduto il suo amato fenicio. Lo dico davvero senza malizia, interessato a sapere che cosa ne pensa, con la promessa che vigilerei attentamente per evitare che quel che volesse scrivere sia oggetto di considerazioni offensive. Nell'occasione, potrebbe anche spiegare che senso abbia il lungo brano che segue e che ho tratto dal blog di Pierluigi Montalbano. Io ho provato un brivido che non avevo più sentito dai tempi in cui un interprete mi traduceva alcuni articoli della Pravda. Ma forse ho capito male.

Lo sviluppo storico del mito atlantideo, come dicevo all’inizio, appartiene alla storia delle idee, delle utopie politiche, dei movimenti degli Stati, degli obiettivi nazionalistici e indipendentisti; ne parla egregiamente il grande Pierre Vidal-Naquet nel suo denso libro del 2005, riportando un’amplissima e seria bibliografia attraverso la quale, chi ne fosse interessato, potrà trovare ampi spazi di approfondimento e di riflessione.
Di questo itinerario voglio soltanto ricordare quello a noi più tragicamente prossimo, legato al sorgere in Germania del nazismo e della follia hitleriana, quando l’Atlantide è ingoiata in quel mostruoso calderone di occultismo, storia antidiluviana, concezioni del cosmo, saggezza magica e arianesimo che doveva produrre, nella mente distorta dei suoi seguaci, una nuova età e una nuova razza, trionfatrice sui gretti detriti e impacci culturali giudeo-cristiani. Dalle derive razziste della Thule Gesellschaft, associazione occultista e teosofica ariana che Hitler e Himmler trasformeranno in partito politico di massa, alle concezioni allucinanti della terra cava, dell’eterna lotta tra il ghiaccio e il fuoco, Atlantide e la terra di Thule si incontrano ripetutamente; la favola platonica diventerà quella mitica isola del Settentrione, sede di una civiltà perfetta e superumana, l’inevitabile precipizio in cui sprofonda periodicamente l’ideologia della destra radicale.
La pura razza degli Atlantidi, corrotta dal contatto con razze inferiori, subisce la catastrofe; pochi sopravvissuti di quel popolo daranno origine alla superiore razza “ariana”, cui spetta il compito di rinnovare i fasti atlantidei; cosa abbia portato all’Europa questa insana missione è noto a tutti e certamente amplifica di mille e mille volte l’immagine di Atlantide pensata da Platone, quella di un impero del male.
In un recente e bel lavoro titolato “Sardegna ariana” l’amico Alfonso Stiglitz ha ripercorso, con serietà e ironia, le vicende del pensiero razzista di stampo fascista che, tra il 1938 e il 1943, ha tentato di inquinare la storia e l’archeologia della Sardegna; fortunatamente, si deve concludere con l’autore, con scarsi risultati e poco spessore. Eppure, vengono da quelle esperienze alcuni spunti che, proprio perché non elaborati criticamente, ritornano in modo significativo, e direi preoccupante, nei discorsi attuali che da più parti si fanno, anche da parte di chi sicuramente non professa nessun razzismo e nessun fascismo, intorno all’identità sarda e che rimettono in causa la civiltà nuragica, Atlantide e i Sherden (che per tutti, in modo lessicalmente scorretto, sono diventati i Shardana): in questi tre termini, percepiti e letti in modo del tutto antistorico, si colgono infatti elementi fondativi di presunti valori identitari e insieme caratteri di conoscenza superiore, di superiorità intellettuale e tecnica, di supremazia morale ed etnica.
In questo panorama rientrano anche i numerosi proclami e esternazioni sulla scrittura degli antichi sardi; non voglio qui tornare su un argomento, per il quale, e dopo un mio ironico richiamo a protoscritture di invenzione, dal protougaritico al protochissachè, peraltro altrettanto di fantasia della scrittura che si pretende ora rivelata, vengo ripetutamente e metodicamente insultato in vari blog presenti sulla rete; la prossimità alla Pasqua, appena trascorsa, mi spinge ad auspicare per i miei acerrimi avversari la benedizione divina e che soprattutto il Signore restituisca loro il senno.
Ma voglio tornare in conclusione all’Atlantide di Platone e al filosofo che l’ha concepita per farmi e per fare a tutti voi un augurio che è anche una speranza. Platone ha fatto un sogno e l’ha scolpito per sempre nella sua filosofia; non facciamo di questo sogno un incubo ricorrente nutrito di razzismo, ignoranza e inciviltà.

lunedì 9 maggio 2011

C’era una volta su cuguzzulau. Ma prima ancora…


di Francu Pilloni

Sedere in cerchio sotto la luce grigia della Luna, nelle serate estive dei paesi, era il vezzo, l’abitudine, la necessità per lo stare insieme dei bambini. Oggi è solamente un tenerissimo ricordo che colora le emozioni di qualche vecchio come io mi sento e sono, che affiora e affonda come una farfalla in una giornata di vento.
Si apprendevano i giochi di società, quelli che costringevano a tirar fuori la grinta per non essere eliminati in fretta e per arrivare sino in fondo, che chiedevano il meglio delle capacità attentive e di prontezza nel ragionamento. 
Uno di questi giochi era su Cuguzzulau, intendendo per esso la pianta del cardo selvatico che ben si carica degli ispidi e pungenti carciofini (sa cuguzzula). In altri paesi, anziché di cuguzzula si parla di altri frutti, le arance in primis, ma è sicuro che non rendono appieno l’idea di quanto i vari bambini-cuguzzulas fossero l’un contro l’altro armati, pronti a farsi fuori reciprocamente pur di sopravvivere nel gioco. 
In qualche modo, ci aiutavano a crescere. Ma è pur vero che una gran fetta dei “saperi” restava fuori da ogni e qualsiasi gioco, sia pure controllato, perché da tempo era diventato tabù: oggi la chiamiamo educazione sessuale, la s’insegna a scuola, ma prima ancora in famiglia, mentre allora si poteva solo sbirciare, ascoltare sussurri, allusioni, e non sempre si comprendeva nel verso giusto.
Ma prima ancora, molto prima, i bambini sedevano in tondo non attorno ad un immaginario cardo, ma ad un palo, ad una perda fitta che spesso fungeva da supporto audiovisivo, o solamente da lavagna, perché su di essa erano scolpiti i misteri della vita. Io non so chi, forse una donna anziana o un sacerdote, spiegasse come sa perda fitta puntasse direttamente verso l’alto, dove risiede la divinità che tutto vede e sente, e come il dono della vita è dono divino a cui gli uomini accedono per grazia ricevuta. 
Sono passate generazioni di bambini, trascorsi i secoli e i millenni dell’infanzia della Sardegna, per dirla con Elio Vittorini, sono rimaste solo is perdas fittas, spesso al loro primitivo posto, qualche volta distese a terra, non molto raramente frantumate dal tempo o dall’ignoranza degli uomini, se non dalla loro insulsaggine. Può capitare che una di queste pietre venga raccolta di peso, trasportata con mille attenzioni su un carro a buoi e portata in paese non per essere esposta in un museo e neppure nella piazza del comune, ma usata come colonna di sostegno per il tetto di una stalla. E là sta ancora con tutta la sua malinconica decenza, anche se ha dovuto subire l’appianamento dell’apice, dato che diversamente la trave di legno non avrebbe trovato l’appoggio stabile richiesto. E siccome il padrone della stalla era ben consapevole che le sue bestie ruminavano bene ma leggevano male, pensò bene di esporre i ghirigori verso l’esterno così che ogni mattina potesse ripassarli lui stesso, senza che per altro abbia mai raggiunto alcuna certezza su quanto volessero significare.
Neppure io so bene che cosa “dicano” in realtà, anche se più di un’idea mi frulla per la testa, specialmente quando mi salta agli occhi la somiglianza con altri saperi de su connotu, come il pane della sposa, così come si apprende dal bel libro di Salvatore Dedola. (1)
Serve a qualcuno conoscere questa muta narrazione di vita, di sesso, di divinità e di spirali?

1 S. Dedola, I Pani di Sardegna - Dolianova, 2008, Grafica del Parteolla

sabato 7 maggio 2011

Dichiarazione di voto al referendum sul nucleare

Il referendum contro le centrali
nucleari in Sardegna è ben
propagandato. Immagine
sulla prima di L'Unione
Il 15 maggio si vota, in Sardegna, sull'energia nucleare, rispondendo sì o no a questa domanda: “Sei contrario all’installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti?”. È possibile che un mese dopo si voti anche in Italia sulla questione. Non ho grandi certezze sul problema (sicurezza, smaltimento delle scorie, convenienza economica), ma di due cose sono sicuro: andrò a votare sì al referendum sardo, starò lontano dalle urne il 12 giugno se il referendum sul nucleare si terrà, tanto meno ci andrò se la Cassazione lo ritenga superato.
Non voterò per una ragione fondamentale: da elettore sardo mi pronuncerò sul nucleare in Sardegna, sperando che il mio voto contribuisca a far vincere quanti sono contrari alla installazione di centrali e di siti di stoccaggio ma non tollererei che gli elettori italiani avessero la facoltà di influire sui risultati del referendum sardo. Per reciprocità non vorrei proprio che questa nostra libera scelta influisse su quella degli elettori italiani. A questo motivo aggiungerei un paio d'altri.
Il primo è che è palese la strumentalità politica del partito promotore del referendum italiano e dei suoi compagni di cordata. Insieme hanno raccolto firme per bocciare sì la legge sul nucleare e quella sulla cosiddetta “privatizzazione dell'acqua”, ma soprattutto per abolire la legge sul “legittimo impedimento”. Da solo, il referendum su quest'ultima legge avrebbe nessuna probabilità di raggiungere il quorum. Di qui la necessità di confonderlo in un bouquet decisamente più profumato. Se così non fosse, non ci sarebbe stata l'insurrezione indignata contro due provvedimenti che, cambiando le leggi contestate, renderanno forse inutili i referendum sul nucleare e sull'acqua.
Forse. Perché a deciderlo sarà la Corte di Cassazione, quella magistratura – sarà il caso di ricordarlo – che dovrà pronunciarsi in nome di quella indipendenza sempre invocata da Di Pietro e sodali. Chi mattina e sera fa professione di fiducia e di rispetto per la magistratura non avrà certo remore nell'accettare il verdetto della Cassazione, quale che sia. Magari evitando di gridarle dietro che si è resa responsabile di uno “scippo di democrazia”.
Il secondo motivo sta nel fastidio ormai orticante che provo nei confronti di chi ne fa a caddu e a pèe pur di non rassegnarsi al fatto che un governo si cambia o con le elezioni o con le insurrezioni, non con gli escamotage messi in opera da opposizioni sempre meno credibili e affidabili. Se davvero la questione del “legittimo impedimento” fosse sentita da qualcosa di più numeroso di scarse élites radicali, perché temere che gli elettori saranno il 12 giugno meno di venticinque milioni? Forse si teme che di questa questione agli elettori non possa fregare di meno?
Sì, dicevo, nel referendum sardo. Un sì che non nasce dalla tragedia nella centrale giapponese che, semmai, conferma come neppure uno tsunami di quella grandezza abbia provocato la catastrofe annunciata; né nasce dalla certezza – che non ho – che il nucleare sia più pericoloso del carbone o del petrolio; molto di più, è chiaro, dall'incertezza sullo smaltimento delle scorie. È un sì che nasce dalla convinzione profonda che nel modello di nuova civiltà della Sardegna si possa e si debba fare a meno della produzione di quantità abnormi di energia e che quella necessaria e sufficiente a questo modello di civiltà sia ricavabile da altre fonti.
Il problema, così, è quello di pensare ad un nostro modello. Con serietà e senza la demagogia di cui le classi dirigenti sarde, da quella politica a quelle sindacale, imprenditoriale, culturale, hanno riempito la nostra contemporaneità. Dicendo no al nucleare, per esempio, e sì ad industrie che divorano energia, contrabbandando l'idea che l'inquinamento di una centrale nucleare sia insopportabile e che sia tollerabile quello dei fumi d'acciaio e dei fanghi rossi. Per il “sì” al referendum del 15 maggio si stanno spendendo tutti i settori della società sarda. Così che la previsione di un successo è giusta. Che sia l'annuncio di una stagione nuova per la Sardegna? Almeno per un po' concediamocela, questa speranza.

mercoledì 4 maggio 2011

Diversamente mobili: andare oltre la continuità territoriale

di Augusto Secchi

Un diversamente abile, è bene che si sappia, non vuole essere agevolato. Chi ha avuto il piacere e il privilegio di lavorarci insieme lo sa. Sa quanta dignità e quanta schiena c’è in una persona che ha la spina dorsale spezzata da un incidente stradale o dalla vita. Il diversamente abile vuole avere semplicemente gli stessi diritti dei cosiddetti normalmente abili. Non vuole essere agevolato da lui per poter entrare in un bar con la propria carrozzina. In un bar, in qualsiasi bar, ci vuole entrare lui, con le sue braccia forti e tese come i rami di un ginepro. Non vuole essere sospinto dalla bontà di un normalmente abile che lo agevoli e che lo vezzeggi.
Mentre pensavo al mio infinito monologo contro il caro traghetti mi sono venuti in mente il mio amico Tonino ed la mia amica Eliana con i suoi numerosi articoli, sempre ignorati, sul diritto a vivere e a muoversi in un luogo che fa di tutto per farla stare dentro casa. M’è venuta in mente la loro fatica, il loro zigzagare fra cassonetti, lampioni e marciapiedi vergognosi. M’è venuto in mente che il loro diritto alla mobilità veniva calpestato proprio da quelli che da trent’anni dichiarano, a parole, di agevolarli. Gli stessi che, fra qualche mese, dopo avergli consegnato il santino con la loro effige sorridente, gli chiederanno il voto.
E mi è venuto in mente che a volte le parole sono patelle che si attaccano al cervello impedendogli di pensare al significato di cui sono portatrici. Si prenda l’espressione “continuità territoriale” sempre seguita o preceduta da verbi quali “agevolare” “aiutare” “scontare”. Vorrei dirlo chiarezza: io non voglio una continuità territoriale che mi agevoli o che mi faccia uno sconticino. Io non voglio raccogliere, inchinandomi, le briciole cadute dalla tovaglia. Io voglio avere, come i miei due amici in carrozzina, il diritto alla mobilità, il diritto a un marciapiede senza intoppi, senza agevolazioni e senza nessuno che mi dia il contentino della continuità territoriale per farmi tacere. Io e i miei due amici il contentino non lo vogliamo. Io e i miei due amici vogliamo volare più in alto: vogliamo che il diritto alla mobilità assicurato dalla Costituzione Italiana, che abbiamo studiato nella Scuola Italiana, ci sia garantito. L’articolo 16 di quella Costituzione recita che lo Stato Italiano garantisce che posso “circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano”. Se io non circolo e non mi muovo agli stessi costi di uno che abita a Modena o a Cassano Magnago - luogo di nascita di quel Bossi che fa il bello e il cattivo tempo in un’Italia in cui non si riconosce - questo vuole dire che io non sono libero e che le parole sono, appunto, solo parole. E se le parole non diventano fatti io ho il diritto di non sentirmi figlio di questa patria che non mi vuole libero, almeno non più di un cane alla catena. Qualcuno si chiederà: ma non sentirsi cittadino italiano è considerato vilipendio alla Costituzione? E’ una risposta che, chiedo venia, non so dare. Magari, giusto per una curiosità, si potrebbe fare la stessa domanda a chi da vent’anni disprezza impunemente la Costituzione. E, ma senza distrarli troppo dalle loro genuflessioni, a quelli che gli consentono questo disprezzo.

domenica 1 maggio 2011

Mi metto in congedo

Cari amici del Blog
per un po' di tempo sarò lontano da questo nostro spazio di informazione e di dibattito. Forse solo qualche giorno, forse di più. Non dipende da me, anche se farò di tutto per intervenire e, si Deus cheret e sos carabineris, per scrivere. Chi abbia voglia di pubblicare suoi articoli, può mandarli ad Atropa Belladonna che ringrazio anche a vostro nome per aver accettato questa nuova incombenza.

Lebeuf in Sardegna parla di S. Cristina, osservatorio lunare

Il pozzo di Santa Cristina sarebbe stato costruito come osservatorio per controllare i cicli draconici e prevedere le esclissi. È da queste riflessioni che è partito il presente studio, risultato di diversi anni di osservazioni, di misurazioni e di ricerche” scrive Arnold Lebeuf nel suo libro “Il pozzo sacro di Santa Cristina, un osservatorio lunare”. Lo studio del docente di Storia delle religioni nell'Università di Cracovia sarà presentato martedì 3 maggio alle ore 18 a Cagliari nella sede dell'Unione ex allievi Salesiani, viale Fra Ignazio.
Ad accompagnare lo studioso polacco nella presentazione del libro ci saranno Ambrogio Atzeni, Raffaele Cotza, Paolo Littarru, Salvatore Loi, Michele Pintus, Antonio Vernier e Mauro Peppino Zedda.
Tre giorni dopo, il 6 maggio alle ore 18, “Il pozzo di S. Cristina, un osservatorio lunare” sarà presentato a Nuoro nell'Auditorium della Biblioteca Satta in piazza Asproni a cura dell'Ordine degli architetti. Il lavoro di Lebeuf sarà presentato dal presidente dell'Ordine, Enrica Caire, e da don Francesco Tamponi, direttore dell'Ufficio dei Beni culturali ecclesiastici della Diocesi di Tempio-Ampurias. Coordina l'architetto Giovanni Pigozzi. Insieme a Lebeuf parlerà del Pozzo sacro l'architetto Franco Laner.