mercoledì 3 novembre 2010

Un paio di altre cose sul coccio di Sardara


di Giorgio Valdès

Presumo che il “coccio di Sardara”, che non conoscevo, sia stato ritrovato in prossimità del luogo di rinvenimento del vaso di S.Anastasia, con il quale ha evidenti analogie, quanto meno per la comune presenza dei “cerchielli concentrici” e della linea ondulata o “greca”, che dir si voglia.
Dando un rapido sguardo alla figura, presumo femminile, che appare sulla sinistra del coccio, mi ha colpito, da profano, la presenza di un cerchiello più grande degli altri in corrispondenza di quello che, essendo apparentemente posizionato tra le gambe della stessa figura, potrebbe ragionevolmente rappresentare l’utero.
Ma se esiste un’analogia tra il coccio ed il vaso di Sardara, è forse più conveniente cercare innanzitutto di comprendere il significato delle raffigurazioni riportate sulla superficie del vaso, quanto meno perchè che si tratta di un oggetto intatto e “leggibile”.
A questo proposito, riporto qui sia l’immagine di un “frammento di vaso, a nome di Ka” - ritrovato nella necropoli reale di Abido e risalente alla dinastia 0 (ca. 3150-3100 a.C.)-, tratta dal volume della Betrò “Geroglifici”, sia quella di un altro vaso “Ka” in buono stato di conservazione, che presenta le stesse raffigurazioni che appaiono sul corrispondente frammento. 
In entrambi i reperti sono raffigurati alcuni segni in carattere semicorsivo, tra cui presumibilmente: il “ka” (lo spirito o potenza vitale dell’uomo), evidenziato con i tre segmenti convergenti, a loro volta sormontati da tre cerchielli, simboli geroglifici del sole “ra”; la linea ondulata “nu”, con il significato di acqua e, in mezzo alle due figure, una buca o coppa con acqua, che in termini geroglifici significa “utero” e si connette a varie parole tra cui “donna”.
L’interpretazione complessiva potrebbe essere quella della “rigenerazione della vita”, con lo spirito dell’uomo (affine al rovesciato presente nei petroglifi di “Sos Furrighesos” ad Anela e di “Sas Concas” a Oniferi e nei menhir di Laconi), che ritorna all’acqua primigenia, attraverso l’utero materno.
Sta di fatto che nel vaso di S.Anastasia è verosimilmente riportato lo stesso concetto evidenziato nei vasi egizi, con i cerchielli del sole (la vita), che convergendo e discendendo nell’utero materno (la coppa), intercettano l’acqua (la greca alla base del vaso), prima fonte di vita.
Concetto che, a ben vedere, potrebbe rinvenirsi anche nei simboli presenti nel “coccio di Sardara”.

7 commenti:

DedaloNur ha detto...

riesco a seguire poco dei vari interventi ultimanete. Non so se siano correte ma l'articolo di Valdes offre delle congetture da approfondire.

Anonimo ha detto...

Lo so io cosa frulla in testa all'amico Ded.....l'acqua!
No, non fraintendetemi, non dico che Dedalo ha dell'acqua al posto del cervello (anche se c'è qualche pollo famelico che lo crede!),
sono quei graffiti sul vaso di S.Anastasia e quello strano beccuccio, su cui ci siamo già arrampicati, che richiamano....

giorgio ha detto...

Cerco di chiarire meglio il mio richiamo al modellino di nuraghe pentalobato esposto al museo Sanna di Sassari (www.museosannasassari.it sezione “reperti” pagina 2, 4^ figura) Osservando un suo qualsiasi prospetto frontale, apparirebbero due torri laterali ed una centrale svettante, analogamente a quanto raffigurato sul vaso di S.Anastasia.
Ci sono poi le propaggini, quasi una prosecuzione sotterranea delle torri, che partendo dallo spiccato del nuraghe, proseguono sino a congiungersi più in basso, in corrispondenza di una sorta di disco.
Ho letto da qualche parte che lo scopo di tutto questo “armamentario”, che così congegnato rende evidentemente instabile il modellino, sarebbe stato quello di inserirlo in un non meglio precisato basamento.
Tuttavia non mi pare si tratti di una spiegazione convincente, vista la sproporzione tra l’oggetto ed il suo presunto supporto.
Personalmente ho invece ipotizzato che il disco volesse rappresentare l’acqua (normalmente presente all’interno o in prossimità dei nuraghi) e le propaggini il collegamento “ideale”, attraverso le torri, con il sole.
In sintesi il bronzetto nel suo complesso potrebbe voler raffigurare il concetto di rinascita o di rigenerazione della vita, analogamente a quanto mi pare di poter rinvenire sulla superficie del vaso di S.Anastasia ed anche su quelle dei vasi “Ka”.
Anche questa….è solo una congettura

giorgio ha detto...

Gentilissima dottoressa
purtroppo non ho ancora avuto il piacere di conoscerla personalmente, ma presumendo che lei non sia sarda, mi complimento innanzitutto per la determinazione e la passione con cui affronta gli argomenti della nostra bistrattata e per gran parte ignota protostoria.
A proposito dei vasi “Ka”, devo premettere di aver fotografato l’immagine di quello “intero” a metà Marzo 2009, da una rivista di egittologia di cui attualmente non ricordo il titolo (sarò più preciso se riuscirò a rintracciarla tra le mie mille scartoffie).
Tuttavia il vaso è sicuramente dello stesso periodo del frammento, riportato sul testo “Geroglifici” dell’egittologa Maria Carmela Betrò, unitamente alla seguente didascalia: “il frammento di vaso a nome Ka, dalla necropoli reale di Abido, reca un’iscrizione in inchiostro nero con il nome del sovrano accanto ad altri segni che probabilmente indicavano il contenuto del vaso, dall’aspetto già semicorsivo. Dinastia 0 (ca. 3150-3100 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.”
La mia ipotesi è che sul vaso e sul frammento sia rappresentata l’anima dell’uomo (i tre segmenti convergenti sovrastati dai cerchielli, simbolo del sole “ra” e per esteso della vita), che attraverso l’utero materno (geroglifico in “hm” raffigurato come una pozza colma d’acqua), intercetta l’acqua (“nu”), prima fonte di vita.
A mio modesto avviso, il fatto straordinario è che tale concetto di rinascita sembra essere presente anche sulla superficie del vaso di S.Anastasia.
Ho inoltre motivo di ritenere che lo stesso concetto caratterizzi gran parte delle espressioni del nostro megalitismo e che un’importante chiave di lettura la si possa individuare nei rapporti intrattenuti con l’antico Egitto.
La mia è una convinzione piuttosto datata, che nel 2008 ho voluto verificare incontrando appositamente a Pisa la professoressa Betrò.
Si tratta comunque di un argomento particolarmente complesso e dai risvolti straordinari, che non posso sicuramente affrontare in questa sede, ma di cui mi auguro avremo modo di discutere in un’altra occasione.

elio ha detto...

Suggestivo, tutto molto suggestivo: il sole, l’utero, l’acqua. C’è tutto: la vita, dall’inizio alla fine, e il suo rigenerarsi. Quando poi facciamo entrare nel gioco un nostro modo di mandarci a quel paese in maniera piuttosto volgare: “torranci in su cunnu”, mi viene in mente il “Pange lingua”. Non voglio essere blasfemo, voglio solo ricordare due cose: gli ultimi due versi della prima strofa e i primi due della seconda – Fructus ventris generosi / Rex efudit gentium. / Nobis datum, nobis natus / Ex intacta Virgine, – e, ancora, le ultime due strofe che col nome di “Tantum ergo” accompagnavano (non so se lo si faccia ancora con la nuova liturgia) ogni Benedizione eucaristica: “Tantum ergo sacramentum / Veneremur cernui, / et antiquum documentum / novo cedat ritui / …” Mi direte: “Perché ci ricordi i tuoi trascorsi di chierichetto?” Dovreste vedere sorgere e tramontare il sole, il giorno del solstizio d’estate, stando sul medesimo punto, un basamento o una piattaforma nuragica ( forse quel che rimane di un nuraghe) posto a qualche centinaio di metri ad est di Isili, mio paese, in località “Pauli de angionis”. All’alba, il sole sembra venire su da dietro Nuraxi Longu e adagiarvisi sopra; la sera, prima di scomparire, andando incontro all’orizzonte, si sofferma sopra il nurghe “su Idili” meglio noto come “de is Paras”.
continua

elio ha detto...

”. Se nella vostra memoria è rimasto il ricordo di cosa sia un ostensorio, non farete fatica a vederlo come una “torre” con un sole sopra, un sole da cui si dipartono un gran numero di raggi. E il sole non si può guardare, gli occhi non reggono, bisogna venerarlo a capo chino, “cernui”. Il “Pange lingua” di Tomaso d’Aquino è tratto da un altro “Pange lingua” più vecchio di settecento anni e il riferimento a un “antiquum documentum”, da sostituire col nuovo rito, chi sa da quali lontananze proviene. Così, “a nci torrai in is domus de Maria”, sostituisce in maniera negativa, l’antico e ben augurante invito a rientrare, ogni fine viaggio, nel grembo della Grande Madre per essere rigenerati. Guarda un po’ quante cose ti dicono il coccio di Sardara e il vaso di S.Anastasia. A meno che non ritratti di semplici orpelli ornamentali che appagavano il solo senso estetico di chi faceva e utilizzava quei recipienti, come sostengono tutti quelli che hanno i piedi ben piantati sulla terra.

giorgio ha detto...

Ho accennato che il concetto di rigenerazione della vita, che mi pare possa rinvenirsi nel megalitismo sardo, derivi in parte dalla nostra lunga frequentazione con la terra dei faraoni.
In Egitto era abbastanza frequente l’imbalsamazione dell’apparato genitale delle donne più altolocate, nella convinzione che in esso fosse racchiuso il segreto della vita.
La stele centrale delle nostre tombe dei giganti credo ne fosse la riproduzione litica, che peraltro si ripete in maniera quasi ossessiva sulla superficie di svariate sepolture rupestri come quelle di Carralzu a Florinas, Sa Figu ad Ittiri, Mesu ‘e Montes ad Ossi e così via.
Dice bene Mauro Peppino Zedda, quando nel suo ultimo libro scrive che “sarebbe assai verosimile supporre che la rappresentazione megalitica dei principi femminile e maschile costellasse potentemente il paesaggio della Sardegna Nuragica”.
A riprova del perdurare delle tradizioni, in questo caso connesse ai riti della fecondità, Salvatore Dedola, nel suo recente volume “I pani della Sardegna”, riporta l’immagine di quello che viene chiamato Cabùde di Mores, la cui forma richiama straordinariamente la stele centrale delle tombe di giganti.
In merito a questo tipo di pane l’autore scrive che “è forte la tradizione del pane spezzato sul capo della figlia che va in sposa”, rito che esiste anche in Israele. Scrive anche che “su cabùde fu usato non solo per essere frantumato sulla testa (anche del primogenito), ma pure per essere appeso nell’ovile, oltre che per essere sbriciolato nel campo o nell’ovile medesimo, quale gesto di buon auspicio per i futuri raccolti o per le future figlianze. Questo è un atto che ricorda l’antico sgozzamento sacrificale”.