di Gigi Sanna
Cara Stella ecc.
Ho esaminato attentamente la freccia da 300 dollari offerta all'asta: poco nobile, come riferisci, a paragone delle frecce 'fenicie' leggibili, ugualmente in vendita. La scritta che insiste su di essa, giudicata illeggibile e misteriosa, secondo me non lo è affatto se la lettura si affronta con le modalità di lettura tipiche dei testi 'nuragici' di ispirazione alfabetica orientale.
Come sappiamo da numerosi documenti (non è il caso ormai di fare più degli esempi in questo Blog) il nuragico dell'età del bronzo (ma anche dell'età del ferro e ancora non sappiamo bene sino a quando: Nora docet) si serve di una scrittura di tipologia protocananaica, composta cioè da grafemi misti, diversi dei quali risalgono alle origini pittografiche del sistema ovvero al cosiddetto 'protosinaitico'.
Si serve anche di logopittogrammi, cioè di segni pittografici ma non acrofonici, che notano un'intera parola: il segno della casa (beth), del bue ('aleph o 'ak), del serpente (nachas), dell'acqua (maym), ecc.); di logopittogrammi numerici, cioè di pittogrammi che notano numeri o valori geometrici riferibili all'alfabeto e/o ai simboli della divinità: uno-punto con valore di 'aleph; due-rettangolo con valore di bipenne; tre-triangolo con valore di dio /dea, ecc.).
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mercoledì 30 giugno 2010
Sisara, una vecchia conoscenza per i miei lettori
di Leonardo Melis
Caro Gianfranco,
a proposito di Sisara e dei sardi-Shardana, vorrei segnalare ai lettori quanto scrissi nel 2005 in "Shardana: i Principi di Dan", partendo dall'episodio descritto in Judici IV-V: ”Jabin, un re cananeo, che regnava in Asor e aveva per condottiero dell’esercito Sisara (un generale dei mercenari Shardana di stanza in Palestina per conto dei Faraoni, n.d.A.) che abitava in Aroset Goim, forte di 900 carri ferrati, oppresse duramente i figli d’Israele per 20 anni....
In quel tempo era Judice in Israele Deborah... giudicava le cause fra Rama e Bet-El sui monti di Efraim... Deborah andò con Barak in Qades, radunò Zabulon e Neftali, 10.000 combattenti”. A causa dello straripamento di un torrente, i carri di Sisara si impantanarono ed egli fu sconfitto. Ma nel Cantico di vittoria che segue alla battaglia, Deborah si lamenta: “E Dan perché se ne sta sulle navi? Aser ha preso dimora sul lido del mare e nei suoi porti vive tranquillo...”
Cosa era accaduto? Deborah aveva cercato di radunare le tribù per scacciare i mercenari insediati nella regione di Manasse, presso il Monte Carmelo, ad Haroset Goim (El-Awaht?). Dan, però, fece orecchio da mercante, sia perché Sisara (Si-Shar) e i suoi erano Shardana, quindi loro fratelli, sia perché Israele si ricordava di Dan solo quando c’era da combattere. Con Dan, anche Aser si guardò bene dall’intervenire per le origini comuni (Aser era composta da Tjekker e da Shardana, una delle famiglie dominati era quella dei Shar e lo stesso nome della tribù contiene questo appellativo: A-sher).
Vogliamo ancora rimarcare il fatto che Israele uscì dall’Egitto sotto la scorta dei mercenari Tjeker e Shardana, inclusi rispettivamente nelle tribù di Aser e Issacar i primi e nelle tribù di Dan e Zabulon i secondi. Prova ne sia il fatto che, una volta che queste tribù se ne andarono a Nord (verso il Libano, dove erano stanziati altri Popoli del Mare), i poveri Ebrei cominciarono a buscarle dai vicini (soprattutto Pheleset - Filistei) e ci fu bisogno dei Judici per difendersi, anche perché i figli di Jacobbe poco avevano appreso di guerra durante l’Esodo, nonostante i racconti trionfalistici del libro di Josué. E la presenza di un esercito oppressore in Haroset Goim (El Hawat?), appena qualche lustro dopo la “Conquista” della terra Promessa conferma pienamente quanto sosteniamo.
Nella foto: bronzetto trovato ad Abini (Teti), quattro occhi e quattro braccia, come il mitologico Marduk. “Mi piace pensare” scrive Melis nel suo libro “che sia proprio Sandan”.
Caro Gianfranco,
a proposito di Sisara e dei sardi-Shardana, vorrei segnalare ai lettori quanto scrissi nel 2005 in "Shardana: i Principi di Dan", partendo dall'episodio descritto in Judici IV-V: ”Jabin, un re cananeo, che regnava in Asor e aveva per condottiero dell’esercito Sisara (un generale dei mercenari Shardana di stanza in Palestina per conto dei Faraoni, n.d.A.) che abitava in Aroset Goim, forte di 900 carri ferrati, oppresse duramente i figli d’Israele per 20 anni....
In quel tempo era Judice in Israele Deborah... giudicava le cause fra Rama e Bet-El sui monti di Efraim... Deborah andò con Barak in Qades, radunò Zabulon e Neftali, 10.000 combattenti”. A causa dello straripamento di un torrente, i carri di Sisara si impantanarono ed egli fu sconfitto. Ma nel Cantico di vittoria che segue alla battaglia, Deborah si lamenta: “E Dan perché se ne sta sulle navi? Aser ha preso dimora sul lido del mare e nei suoi porti vive tranquillo...”
Cosa era accaduto? Deborah aveva cercato di radunare le tribù per scacciare i mercenari insediati nella regione di Manasse, presso il Monte Carmelo, ad Haroset Goim (El-Awaht?). Dan, però, fece orecchio da mercante, sia perché Sisara (Si-Shar) e i suoi erano Shardana, quindi loro fratelli, sia perché Israele si ricordava di Dan solo quando c’era da combattere. Con Dan, anche Aser si guardò bene dall’intervenire per le origini comuni (Aser era composta da Tjekker e da Shardana, una delle famiglie dominati era quella dei Shar e lo stesso nome della tribù contiene questo appellativo: A-sher).
Vogliamo ancora rimarcare il fatto che Israele uscì dall’Egitto sotto la scorta dei mercenari Tjeker e Shardana, inclusi rispettivamente nelle tribù di Aser e Issacar i primi e nelle tribù di Dan e Zabulon i secondi. Prova ne sia il fatto che, una volta che queste tribù se ne andarono a Nord (verso il Libano, dove erano stanziati altri Popoli del Mare), i poveri Ebrei cominciarono a buscarle dai vicini (soprattutto Pheleset - Filistei) e ci fu bisogno dei Judici per difendersi, anche perché i figli di Jacobbe poco avevano appreso di guerra durante l’Esodo, nonostante i racconti trionfalistici del libro di Josué. E la presenza di un esercito oppressore in Haroset Goim (El Hawat?), appena qualche lustro dopo la “Conquista” della terra Promessa conferma pienamente quanto sosteniamo.
Nella foto: bronzetto trovato ad Abini (Teti), quattro occhi e quattro braccia, come il mitologico Marduk. “Mi piace pensare” scrive Melis nel suo libro “che sia proprio Sandan”.
martedì 29 giugno 2010
Catalogna: la Spagna boccia lo statuto
Quattro anni dopo la sua approvazione, la Corte costituzionale spagnola (Tribunal Constitucional) ha bocciato parti decisive dello Statuto Catalano, quelle, fra le altre, che riguardano la nazione catalana e la lingua. Il pronunciamento, avvenuto su ricorso del Partito popolare di José Maria Aznar, c'è stato ieri e già c'è chi parla di "una crisis de Estado".
Per il 10 luglio, in tutta la Catalogna sono previste manifestazioni popolari che hanno uno slogan: “Decidiamo noi, siamo una nazione”. Alla base della decisione, c'è una carabattola di argomentazioni a difesa della “unicità della nazione spagnola” e della più vieta negazione del fatto che “la lingua propria della Catalogna è il catalano”, poiché diverse sono le lingue parlate dai catalani. Su altri aspetti dei 114 ricorsi presentati dal Partito popolare, in molti, compresi i socialisti al governo, sono disposti a trattare. Ma non sulla nazionalità catalana e sulla lingua, elementi sui quali per anni ci fu uno scontro durissimo fra il potere franchista e il popolo catalano. Lo stesso che rischia di innescarsi oggi, a Franco sepolto.
I partiti catalanisti sono oggi divisi: la sinistra socialista, comunista e repubblicana rimprovera i nazionalisti di Convercencia i Unió e tutti insieme la destra popolare, sempre più isolata anche, e soprattutto, per aver voluto affossare lo Statuto. Già, però, la maggioranza di sinistra e la minoranza nazionalista moderata hanno cominciato ad annusarsi, oggi stesso in una riunione comune.
Qualche tempo fa, un referendum autogestito ha dato risultati straordinari per quanti ritengono che l'unica strada percorribile sia quella della indipendenza della Catalogna. Essendo informale, il referendum non fu partecipato da grandissime folle, ma il sì all'indipendenza ebbe altissime percentuali. I “parrucconi” del Tribunal Constitucional (fra l'altro divisi al loro interno fra “progressisti” e “conservatori”) non ne hanno tenuto conto, così come, del resto, non hanno tenuto conto della decisione della Generalitat catalana, e hanno scatenato una reazione di cui, credo, sentiremo molto parlare nel futuro. Naturalmente non se terremo d'occhio i giornali italiani, incredibilmente proni a non introdurre nella conoscenza della gente elementi che potrebbero essere di disturbo alla celebrazione della “Unità d'Italia”. Non troppo dissimile dalla “Unità spagnola” e, dunque, passibile di contagio.
Nella foto: Il palazzo della Generalitat di Catalogna
Per il 10 luglio, in tutta la Catalogna sono previste manifestazioni popolari che hanno uno slogan: “Decidiamo noi, siamo una nazione”. Alla base della decisione, c'è una carabattola di argomentazioni a difesa della “unicità della nazione spagnola” e della più vieta negazione del fatto che “la lingua propria della Catalogna è il catalano”, poiché diverse sono le lingue parlate dai catalani. Su altri aspetti dei 114 ricorsi presentati dal Partito popolare, in molti, compresi i socialisti al governo, sono disposti a trattare. Ma non sulla nazionalità catalana e sulla lingua, elementi sui quali per anni ci fu uno scontro durissimo fra il potere franchista e il popolo catalano. Lo stesso che rischia di innescarsi oggi, a Franco sepolto.
I partiti catalanisti sono oggi divisi: la sinistra socialista, comunista e repubblicana rimprovera i nazionalisti di Convercencia i Unió e tutti insieme la destra popolare, sempre più isolata anche, e soprattutto, per aver voluto affossare lo Statuto. Già, però, la maggioranza di sinistra e la minoranza nazionalista moderata hanno cominciato ad annusarsi, oggi stesso in una riunione comune.
Qualche tempo fa, un referendum autogestito ha dato risultati straordinari per quanti ritengono che l'unica strada percorribile sia quella della indipendenza della Catalogna. Essendo informale, il referendum non fu partecipato da grandissime folle, ma il sì all'indipendenza ebbe altissime percentuali. I “parrucconi” del Tribunal Constitucional (fra l'altro divisi al loro interno fra “progressisti” e “conservatori”) non ne hanno tenuto conto, così come, del resto, non hanno tenuto conto della decisione della Generalitat catalana, e hanno scatenato una reazione di cui, credo, sentiremo molto parlare nel futuro. Naturalmente non se terremo d'occhio i giornali italiani, incredibilmente proni a non introdurre nella conoscenza della gente elementi che potrebbero essere di disturbo alla celebrazione della “Unità d'Italia”. Non troppo dissimile dalla “Unità spagnola” e, dunque, passibile di contagio.
Nella foto: Il palazzo della Generalitat di Catalogna
Sarà Bondi a rispondere alle 4 domande della petizione
Sarà il ministro dei Beni culturali, Bondi, a rispondere alle domande poste alle Soprintendenze sarde dai firmatari (1.081 ad oggi) della petizione "Abbiamo diritto di sapere: la soprintendenza parli" (qui il testo). A porgli la questione è stato il senatore Piergiorgio Massidda che oggi pubblica l'interrogazione nel suo blog.
"Il testo della petizione, accompagnato da due fotografie di altrettanti reperti e dall'elenco dei firmatari, è stato spedito" ricorda il senatore "a tutti i parlamentari eletti in Sardegna, ai capigruppo in Consiglio regionale e ai due soprintendenti archeologici dell'Isola. Naturalmente non conosco la fondatezza degli elementi che stanno alla base della petizione, ma credo mio dovere di rappresentante del popolo sardo fare in modo che a queste domande si dia risposta".
Non sarà per i prossimi giorni la risposta che aspettiamo. Ma abbiamo pazientato anni e non sarà qualche mese a disturbarci.
"Il testo della petizione, accompagnato da due fotografie di altrettanti reperti e dall'elenco dei firmatari, è stato spedito" ricorda il senatore "a tutti i parlamentari eletti in Sardegna, ai capigruppo in Consiglio regionale e ai due soprintendenti archeologici dell'Isola. Naturalmente non conosco la fondatezza degli elementi che stanno alla base della petizione, ma credo mio dovere di rappresentante del popolo sardo fare in modo che a queste domande si dia risposta".
Non sarà per i prossimi giorni la risposta che aspettiamo. Ma abbiamo pazientato anni e non sarà qualche mese a disturbarci.
Sul significato astronomico di Monte d’Accoddi
di Mauro Peppino Zedda
Recentemente in un blog chimerico si è discusso a (s)proposito dei miei studi archeoastronomici.
Tal Goria, ha maldestramente provato ad entrare nel merito della pubblicazione (dicembre 2009): “Topographical and Astronomical Analisis on the Neolithic altar of Monte d’Accoddi in Sardinia” (Pili, Realini, Sampietro, Zedda, Franzoni, Magli), pubblicato nel Mediterranea Archaeology and Archaeometry. Rivista scientifica dove vi scrivono i più autorevoli archeologi d’Europa.
Ringrazio vivamente tal misterioso Goria per la sia pur piccola pubblicità fatta ai miei studi archeoastronomici, fiducioso che quelli che sanno di geometria ben sapranno capire l’inconsistenza teoretica del Goria. Le sue critiche sono veramente sciocche: purtroppo così come successo in precedenza le mie repliche, inviate al blog chimerico, sono state censurate.
Sono queste: se io le dico di andare a leggere Contu: 2000, significa che lei deve andare nella bibliografia di Pili et al. 2009 e andare a consultare il libro di Ercole Contu L'altare preistorico di Monte d'Accoddi, 2000, Delfino, Sassari. In quel libro, mai smentito da nessun archeologo, Contu dice che i menhir sono collocati in posizione originaria, sulla cosa gli ho chiesto e mi ha dato conferma anche a voce,
Ripeto: se qualche archeologo dimostrerà che l'archeologo Ercole Contu ha falsificato la situazione mentendo sulla posizione dei menhir, lo straordinario significato astronomico del sistema altare/menhir cadrebbe.
Io sulla onestà intellettuale di Contu non ho nessun dubbio, se lei la vuole mettere in dubbio dica almeno in quale accademia opera.
Mettere i dubbio l'onestà intellettuale del Prof Contu mi pare un tantino esagerato.
Gli archeologi in questi ultimi vent'anni si sono dimostrati ottusi, ma le assicuro che non ho mai messo in dubbio la loro onestà intellettuale. Questo è il contenuto dei commenti che i coniglietti hanno vigliaccamente censurato: “Sull’onestà intellettuale di Contu non mi sfiora il minimo dubbio mentre è certa la disonestà di altri”.
Da altre parti (nel Blog di Pintore e in altri) mi si chiede quali conseguenze comporta l’eventuale erezione dei menhir in tempi diversi dalla costruzione della piramide tronca di Monte d’Accoddi.
Se i menhir fossero coevi o posteriori, solo un incompetente può negare che sono stati intenzionalmente collocati in punti funzionali alla collimazione del sorgere di Venere, Sole e Luna nei loro punti di arresto meridionali.
Se fossero antecedenti si aprono due scenari:
1)che i costruttori abbiano costruito l'altare facendo in modo che il suo centro coincidesse con il punto da cui si poteva collimare il sorgere di Venere ai venustizi meridionali in corrispondenza coi due menhir ;
2)che per puro caso (un caso più unico che raro) il centro dell'altare sia risultato coincidente con tale punto.
Sia E.Contu, sia V Tinè e A. Traverso hanno scritto che l'erezione i menhir è stata fatta in tempi coevi all'utilizzo dell'altare.
Faccio notare che anche a Stonehenge la hell stone (un menhir collocato 300 metri a nord est del circolo megalitico che funge da punto di riferimento allo stesso modo dei mehnir di Monte d’Accoddi) è precedente al circolo megalitico!
È provato che a Stonehenge vi erano strutture aventi significato astronomico precedenti al circolo megalitico che già utilizzavano la hell stone come punto di riferimento.
Dunque seppur (stante quanto è stato scritto su Monte d’accoddi) sia più verosimile che i menhir siano coevi all’altare, è possibile che siano posteriori o antecedenti ma il significato astronomico non verrebbe meno!
Sarebbe diverso ma non verrebbe meno!
L’erezione dei menhir in tempi coevi farebbe pensare ad un pianificazione astronomica complessiva, tempi posteriori o anteriori ad una aggiunta in corso d’opera o dei menhir o dell’altare.
In pratica sul significato astronomico non vi sono dubbi, mentre restano da sviscerare le fasi secondo cui quel significato astronomico si è formato ed evoluto.
PS: cliccando sui link all'inizio è possibile scaricare sia l’analisi archeoastronomica di Monte d’Accoddi sia il libro di E. Contu presente nella biblioteca telematica della Regione Sardegna.
Recentemente in un blog chimerico si è discusso a (s)proposito dei miei studi archeoastronomici.
Tal Goria, ha maldestramente provato ad entrare nel merito della pubblicazione (dicembre 2009): “Topographical and Astronomical Analisis on the Neolithic altar of Monte d’Accoddi in Sardinia” (Pili, Realini, Sampietro, Zedda, Franzoni, Magli), pubblicato nel Mediterranea Archaeology and Archaeometry. Rivista scientifica dove vi scrivono i più autorevoli archeologi d’Europa.
Ringrazio vivamente tal misterioso Goria per la sia pur piccola pubblicità fatta ai miei studi archeoastronomici, fiducioso che quelli che sanno di geometria ben sapranno capire l’inconsistenza teoretica del Goria. Le sue critiche sono veramente sciocche: purtroppo così come successo in precedenza le mie repliche, inviate al blog chimerico, sono state censurate.
Sono queste: se io le dico di andare a leggere Contu: 2000, significa che lei deve andare nella bibliografia di Pili et al. 2009 e andare a consultare il libro di Ercole Contu L'altare preistorico di Monte d'Accoddi, 2000, Delfino, Sassari. In quel libro, mai smentito da nessun archeologo, Contu dice che i menhir sono collocati in posizione originaria, sulla cosa gli ho chiesto e mi ha dato conferma anche a voce,
Ripeto: se qualche archeologo dimostrerà che l'archeologo Ercole Contu ha falsificato la situazione mentendo sulla posizione dei menhir, lo straordinario significato astronomico del sistema altare/menhir cadrebbe.
Io sulla onestà intellettuale di Contu non ho nessun dubbio, se lei la vuole mettere in dubbio dica almeno in quale accademia opera.
Mettere i dubbio l'onestà intellettuale del Prof Contu mi pare un tantino esagerato.
Gli archeologi in questi ultimi vent'anni si sono dimostrati ottusi, ma le assicuro che non ho mai messo in dubbio la loro onestà intellettuale. Questo è il contenuto dei commenti che i coniglietti hanno vigliaccamente censurato: “Sull’onestà intellettuale di Contu non mi sfiora il minimo dubbio mentre è certa la disonestà di altri”.
Da altre parti (nel Blog di Pintore e in altri) mi si chiede quali conseguenze comporta l’eventuale erezione dei menhir in tempi diversi dalla costruzione della piramide tronca di Monte d’Accoddi.
Se i menhir fossero coevi o posteriori, solo un incompetente può negare che sono stati intenzionalmente collocati in punti funzionali alla collimazione del sorgere di Venere, Sole e Luna nei loro punti di arresto meridionali.
Se fossero antecedenti si aprono due scenari:
1)che i costruttori abbiano costruito l'altare facendo in modo che il suo centro coincidesse con il punto da cui si poteva collimare il sorgere di Venere ai venustizi meridionali in corrispondenza coi due menhir ;
2)che per puro caso (un caso più unico che raro) il centro dell'altare sia risultato coincidente con tale punto.
Sia E.Contu, sia V Tinè e A. Traverso hanno scritto che l'erezione i menhir è stata fatta in tempi coevi all'utilizzo dell'altare.
Faccio notare che anche a Stonehenge la hell stone (un menhir collocato 300 metri a nord est del circolo megalitico che funge da punto di riferimento allo stesso modo dei mehnir di Monte d’Accoddi) è precedente al circolo megalitico!
È provato che a Stonehenge vi erano strutture aventi significato astronomico precedenti al circolo megalitico che già utilizzavano la hell stone come punto di riferimento.
Dunque seppur (stante quanto è stato scritto su Monte d’accoddi) sia più verosimile che i menhir siano coevi all’altare, è possibile che siano posteriori o antecedenti ma il significato astronomico non verrebbe meno!
Sarebbe diverso ma non verrebbe meno!
L’erezione dei menhir in tempi coevi farebbe pensare ad un pianificazione astronomica complessiva, tempi posteriori o anteriori ad una aggiunta in corso d’opera o dei menhir o dell’altare.
In pratica sul significato astronomico non vi sono dubbi, mentre restano da sviscerare le fasi secondo cui quel significato astronomico si è formato ed evoluto.
PS: cliccando sui link all'inizio è possibile scaricare sia l’analisi archeoastronomica di Monte d’Accoddi sia il libro di E. Contu presente nella biblioteca telematica della Regione Sardegna.
lunedì 28 giugno 2010
Mastino apre una crepa nel muro della Baronia
Un invito agli archeologi sardi a “una discussione più laica sui miti” quale quello di Atlandide e a contemplare “una seria revisione” sulla questione delle Colonne d'Ercole è stato lanciato ieri a Carloforte dal Attilio Mastino, rettore dell'Università di Sassari. Lo ha fatto di fronte a Sergio Frau, nel convegno “Úìze”, parola che in tarbarchino significa Isole, e di fronte a un bel po' di studiosi, da Franciscu Sedda a Umberto Eco, chiamati a riflettere sul senso di Isola.
Le informazioni sull'avvenimento sono troppo scarse (un articolo di Celestino Tabasso su L'Unione) per tirare conclusioni, ma mi pare che il muro di gomma non è più tale e che nel cordone sanitario steso intorno al lavoro dell'amico Sergio Frau si cominci a vedere qualche sfilacciatura. Forse uno strappo, data l'autorevolezza del rettore sassarese, ordinario di Storia Romana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Una quantità notevole di persone, da alcune molte famose ad altre come me e un bel po' di altri decisi a sapere oltre gli ipse dixit ripetitori di errori, chiede da anni un atteggiamento laico nei confronti di quanto ha scritto Frau, deciso a non passare come “l'autore numero 74 mila che dice la sua su Atlantide”. Il fatto che la stessa richiesta venga da uno come Attilio Mastino non è senza significato e fa ben sperare che la crepa aperta riguardi anche altri aspetti del “clericalismo” di gran parte della baronia sarda.
Ricorderete come la seconda tesi del Manifesto anti Frau, forse il più vergognoso tentativo di scomunica della nostra contemporaneità, affermasse che “l’Atlantide di Platone non è un dato storico riferibile a un determinato luogo e a un determinato tempo, ma è solo una costruzione poetica e utopistica a fini esplicativi, riconosciuta come tale già dal discepolo Aristotele, che affonda le radici in una serie di miti largamente diffusi nel mondo antico, radicati nella consapevolezza della fragilità delle conquiste della civiltà di fronte allo strapotere della natura e rafforzati dalla memoria di catastrofi naturali effettivamente accadute e documentate come l’eruzione del vulcano di Thera nelle Cicladi, tra il XVII e il XVI sec. a. C.”
Ad unire la gran parte dei firmatari (non tutti, perché ci fu chi aderì pensando si sottoscrivere altro) fu uno spirito di conservazione dell'orto già zappato e seminato di certezze e di dogma vitali. Ma ai funzionari delle soprintendenze, sarde e non solo, lieti o costretti difensori del conosciuto, si aggiunsero persone che di archeologia sanno assai meno di me: glottologi, linguisti, antropologhi nelle cui vene scorre, sotto specie di sangue, un astio incontenibile per la lingua sarda, per la cultura barbarica del “noi pastori”, per l'identità e in genere per tutto ciò che identifica il sardo come popolo a sé. Non parve vero loro di unirsi a chi, insieme a Frau, scomunicava le “derive identitarie”.
Un atteggiamento clericale che con garbo, ma fermezza, il rettore di Sassari chiede di mettere da parte. Prossima fermata la scrittura nuragica? Speriamo: in questo campo, gli atteggiamenti laici, come sappiamo, sono merce sconosciuta.
Le informazioni sull'avvenimento sono troppo scarse (un articolo di Celestino Tabasso su L'Unione) per tirare conclusioni, ma mi pare che il muro di gomma non è più tale e che nel cordone sanitario steso intorno al lavoro dell'amico Sergio Frau si cominci a vedere qualche sfilacciatura. Forse uno strappo, data l'autorevolezza del rettore sassarese, ordinario di Storia Romana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Una quantità notevole di persone, da alcune molte famose ad altre come me e un bel po' di altri decisi a sapere oltre gli ipse dixit ripetitori di errori, chiede da anni un atteggiamento laico nei confronti di quanto ha scritto Frau, deciso a non passare come “l'autore numero 74 mila che dice la sua su Atlantide”. Il fatto che la stessa richiesta venga da uno come Attilio Mastino non è senza significato e fa ben sperare che la crepa aperta riguardi anche altri aspetti del “clericalismo” di gran parte della baronia sarda.
Ricorderete come la seconda tesi del Manifesto anti Frau, forse il più vergognoso tentativo di scomunica della nostra contemporaneità, affermasse che “l’Atlantide di Platone non è un dato storico riferibile a un determinato luogo e a un determinato tempo, ma è solo una costruzione poetica e utopistica a fini esplicativi, riconosciuta come tale già dal discepolo Aristotele, che affonda le radici in una serie di miti largamente diffusi nel mondo antico, radicati nella consapevolezza della fragilità delle conquiste della civiltà di fronte allo strapotere della natura e rafforzati dalla memoria di catastrofi naturali effettivamente accadute e documentate come l’eruzione del vulcano di Thera nelle Cicladi, tra il XVII e il XVI sec. a. C.”
Ad unire la gran parte dei firmatari (non tutti, perché ci fu chi aderì pensando si sottoscrivere altro) fu uno spirito di conservazione dell'orto già zappato e seminato di certezze e di dogma vitali. Ma ai funzionari delle soprintendenze, sarde e non solo, lieti o costretti difensori del conosciuto, si aggiunsero persone che di archeologia sanno assai meno di me: glottologi, linguisti, antropologhi nelle cui vene scorre, sotto specie di sangue, un astio incontenibile per la lingua sarda, per la cultura barbarica del “noi pastori”, per l'identità e in genere per tutto ciò che identifica il sardo come popolo a sé. Non parve vero loro di unirsi a chi, insieme a Frau, scomunicava le “derive identitarie”.
Un atteggiamento clericale che con garbo, ma fermezza, il rettore di Sassari chiede di mettere da parte. Prossima fermata la scrittura nuragica? Speriamo: in questo campo, gli atteggiamenti laici, come sappiamo, sono merce sconosciuta.
sabato 26 giugno 2010
Sisara, terrore degli israeliti? Un eroe sardo
“Sisara, terrore degli israeliti, era eroe sardo”, Nuovi studi gettano luce sul mistero degli antichi Shardana. Leonardo Melis o qualche altro fissato coi shardana? Macché, l'archeologo israeliano Adam Zertal che ha appena pubblicato un libro costatogli venti anni di ricerche anche nel sito archeologico di al-Ahwat, nel quale ha lungamente lavorato l'archeologo sardo Giovanni Ugas. A darne notizia è oggi l'Ansa con un ampio servizio di Aldo Baquis da Israele.
Così comincia l'articolo: “Tremiladuecento anni dopo la sue gesta, il ruvido e possente condottiero Sisara desta ancora brividi di inquietudine fra i bambini ebrei che leggono la Bibbia. Se quel giorno a Meghiddo (Galilea), con le sue 900 bighe, avesse sopraffatto l'esercito di Barak, per gli israeliti sarebbe stato il tracollo. Invece - come narra il 'Cantico di Debora' - al termine dell'epica giornata Sisara avrebbe trovato la morte a tradimento, trafitto alla tempia con un picchetto da una donna, Giaele (Yael), che credeva amica. Chi fosse Sisara (in ebraico Sisra') , con esattezza non si e' mai saputo. L'alone di mistero che ne circonda il ricordo comincia forse a diradarsi adesso con la pubblicazione di un libro del professor Adam Zartal dell'Universita' di Haifa ('Il segreto di Sisara')”.
Il resto dell'articolo, che ho scoperto grazie a Eros Sua, cui va il ringraziamento non solo mio, si trova in questo link.
PS - Un altro amico, Orlando Selenu, mi ha segnalato un video della piccola ma coraggiosa emittente olbiese 5stelle sulla domo de jana di Mariani, quella che anche su questo blog abbiamo conosciuto come di Sa Pala larga. Pare che una dei massimi esperti della cultura neolitica si sia incavolato per la decisione della Soprintendenza di chiuderla e sigillarla.
Nella foto: Adam Zertal
Così comincia l'articolo: “Tremiladuecento anni dopo la sue gesta, il ruvido e possente condottiero Sisara desta ancora brividi di inquietudine fra i bambini ebrei che leggono la Bibbia. Se quel giorno a Meghiddo (Galilea), con le sue 900 bighe, avesse sopraffatto l'esercito di Barak, per gli israeliti sarebbe stato il tracollo. Invece - come narra il 'Cantico di Debora' - al termine dell'epica giornata Sisara avrebbe trovato la morte a tradimento, trafitto alla tempia con un picchetto da una donna, Giaele (Yael), che credeva amica. Chi fosse Sisara (in ebraico Sisra') , con esattezza non si e' mai saputo. L'alone di mistero che ne circonda il ricordo comincia forse a diradarsi adesso con la pubblicazione di un libro del professor Adam Zartal dell'Universita' di Haifa ('Il segreto di Sisara')”.
Il resto dell'articolo, che ho scoperto grazie a Eros Sua, cui va il ringraziamento non solo mio, si trova in questo link.
PS - Un altro amico, Orlando Selenu, mi ha segnalato un video della piccola ma coraggiosa emittente olbiese 5stelle sulla domo de jana di Mariani, quella che anche su questo blog abbiamo conosciuto come di Sa Pala larga. Pare che una dei massimi esperti della cultura neolitica si sia incavolato per la decisione della Soprintendenza di chiuderla e sigillarla.
Nella foto: Adam Zertal
Tutta questione di allineamento
di Efisio Loi
Tutte molto interessanti le relazioni tenute alla manifestazione “Solstizio d’Estate 2010”, svoltasi a Isili, sabato 19 giugno. Peccato che il sole, proprio nei giorni della sua massima ascesa sul piano dell’orizzonte, abbia dovuto contendere la scena, perdendola, alle nuvole e alla pioggia.
“La stele delle stelle – Uno spicchio di cielo impresso nelle pietra”, di Roberto Barbieri, naturalista e uomo di mare, è stata la prima. Un esempio illuminante, il suo, di come una visione non settoriale di un fenomeno possa spalancare ‘innidas campuras’ (vergini praterie) alla conoscenza.
Siamo in località ‘Gremanu’, Fonni, cuore della Barbagia, sui mille metri di quota e lontani dal mare. Eppure, una lastra di granito con una serie di coppelle e altri segni incisi ad arte dall’uomo del neolitico è lì a raccontarci una storia che, in qualche modo, si intreccia con quella di Odisseo in viaggio a riconquistare le sponde della sua Itaca, navigando nel mare infido.
La lastra è stata riutilizzata in periodo nuragico come elemento costruttivo di una delle tombe di giganti che insistono in località Madau, da cui prendono il nome, altopiano attraversato dal rio Gremanu. Le cinque tombe guardano verso il passo di ‘Corru de Boi’, le Corna del Toro, in direzione sud est. Della costellazione del Toro parlano le coppelle e i segni impressi sulla lastra. Parlano delle Pleiadi, sulla spalla del Toro, delle Jadi, di Aldebaran, occhio del Toro. È una mappa celeste, di quella parte dell’universo in cui il Toro si staglia nel grande catino .
Cosa c’entra Ulisse con la stele barbaricina?
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Tutte molto interessanti le relazioni tenute alla manifestazione “Solstizio d’Estate 2010”, svoltasi a Isili, sabato 19 giugno. Peccato che il sole, proprio nei giorni della sua massima ascesa sul piano dell’orizzonte, abbia dovuto contendere la scena, perdendola, alle nuvole e alla pioggia.
“La stele delle stelle – Uno spicchio di cielo impresso nelle pietra”, di Roberto Barbieri, naturalista e uomo di mare, è stata la prima. Un esempio illuminante, il suo, di come una visione non settoriale di un fenomeno possa spalancare ‘innidas campuras’ (vergini praterie) alla conoscenza.
Siamo in località ‘Gremanu’, Fonni, cuore della Barbagia, sui mille metri di quota e lontani dal mare. Eppure, una lastra di granito con una serie di coppelle e altri segni incisi ad arte dall’uomo del neolitico è lì a raccontarci una storia che, in qualche modo, si intreccia con quella di Odisseo in viaggio a riconquistare le sponde della sua Itaca, navigando nel mare infido.
La lastra è stata riutilizzata in periodo nuragico come elemento costruttivo di una delle tombe di giganti che insistono in località Madau, da cui prendono il nome, altopiano attraversato dal rio Gremanu. Le cinque tombe guardano verso il passo di ‘Corru de Boi’, le Corna del Toro, in direzione sud est. Della costellazione del Toro parlano le coppelle e i segni impressi sulla lastra. Parlano delle Pleiadi, sulla spalla del Toro, delle Jadi, di Aldebaran, occhio del Toro. È una mappa celeste, di quella parte dell’universo in cui il Toro si staglia nel grande catino .
Cosa c’entra Ulisse con la stele barbaricina?
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venerdì 25 giugno 2010
Iscrizioni arcaiche vendensi
di Stella del Mattino e della Sera
Una punta di freccia levantina iscritta con caratteri dell'etá del bronzo in una lingua sconosciuta (figura, in alto), è stata venduta per 300 dollari, da una delle piú raffinate gallerie d´arte antica del mondo. Ogni reperto acquistato viene accompagnato da un certificato di autenticità e da una perizia fatta da degli esperti. Un'altra punta di freccia con caratteri fenici arcaici è ancora in vendita, ma costei lo è per ben 12.500 dollari. Alla richiesta del perché la differenza di prezzo fosse tanto immensa, una persona ben informata ha spiegato: “La punta di freccia da 12.500 dollari, (XI secolo a.C.) è scritta con caratteri fenici; caratteri arcaici sì, ma conosciuti e la frase ha un senso. L'altra (età del bronzo) reca la scritta: X 3 puntini V II, in un linguaggio incerto. È possibile che in futuro venga decifrata e che il prezzo centuplichi, ma per ora non vale più del supporto su cui è incisa”.
Gentile signor Pintore, questa frase buttata là con studiata nonchalance dal mio informatore, mi ha fatto scattare una molla e mi sono andato a rivedere tutti i documenti che Lei ha pubblicato sul suo blog. Come sa mi sono di recente appassionato all'epigrafia latina, grazie anche ad un frammento di anfora romana rinvenuto nella nostra bella isola a Pozzomaggiore. Per questo ho potuto subito notare la presenza di numeri romani sia sulla succitata freccia levantina che sul famoso e ora scomparso brassard di Is locci santus (figura, in basso). In entrambi si notano chiaramente un 5, un 10 e un 2. Mancherebbero nel secondo i 3 puntini, probabilmente un'antica forma del III. Chi trattiene presso di sé il cinturone sappia che adesso non vale più di 300 dollari, ma che il suo valore potrebbe aumentare grandemente se viene decifrata. Confido che faremo a metà.
Una punta di freccia levantina iscritta con caratteri dell'etá del bronzo in una lingua sconosciuta (figura, in alto), è stata venduta per 300 dollari, da una delle piú raffinate gallerie d´arte antica del mondo. Ogni reperto acquistato viene accompagnato da un certificato di autenticità e da una perizia fatta da degli esperti. Un'altra punta di freccia con caratteri fenici arcaici è ancora in vendita, ma costei lo è per ben 12.500 dollari. Alla richiesta del perché la differenza di prezzo fosse tanto immensa, una persona ben informata ha spiegato: “La punta di freccia da 12.500 dollari, (XI secolo a.C.) è scritta con caratteri fenici; caratteri arcaici sì, ma conosciuti e la frase ha un senso. L'altra (età del bronzo) reca la scritta: X 3 puntini V II, in un linguaggio incerto. È possibile che in futuro venga decifrata e che il prezzo centuplichi, ma per ora non vale più del supporto su cui è incisa”.
Gentile signor Pintore, questa frase buttata là con studiata nonchalance dal mio informatore, mi ha fatto scattare una molla e mi sono andato a rivedere tutti i documenti che Lei ha pubblicato sul suo blog. Come sa mi sono di recente appassionato all'epigrafia latina, grazie anche ad un frammento di anfora romana rinvenuto nella nostra bella isola a Pozzomaggiore. Per questo ho potuto subito notare la presenza di numeri romani sia sulla succitata freccia levantina che sul famoso e ora scomparso brassard di Is locci santus (figura, in basso). In entrambi si notano chiaramente un 5, un 10 e un 2. Mancherebbero nel secondo i 3 puntini, probabilmente un'antica forma del III. Chi trattiene presso di sé il cinturone sappia che adesso non vale più di 300 dollari, ma che il suo valore potrebbe aumentare grandemente se viene decifrata. Confido che faremo a metà.
Caro presidente: la specialità non si proclama, si esercita
Signor presidente Cappellacci,
leggo, e me ne compiaccio con lei, della sua levata di scudi contro la strisciante e sciagurata ipotesi di ridurre a zero la specialità della Sardegna e, con essa, quella di altre regioni a statuto speciale. Il fatto che questa balzana idea frulli da molto tempo nella mente del ministro Brunetta, economista e economicista, la dice lunga sul retroterra culturale e politico che le sta dietro. Come in tutti gli economicisti, di destra, di sinistra, di su e di giù, c'è la convinzione che la specialità sia prodotto del dislivello di sviluppo economico e, per noi, della condizione geografica di insularità.
Assicurando, anche con il federalismo fiscale, eguali opportunità di sviluppo e riconosciuta l'insularità della Sardegna – questo è il ragionamento – che senso ha continuare a considerare “speciale” la Sardegna? Leggo su un quotidiano italiano che, anche lei, la specialità “ha ragioni storiche ineliminabili”. È proprio così e fa bene leggere che il presidente della Sardegna mette in disparte la querula lamentazione sul poco che ci si da e affermare che la specialità ci spetta, non è un regalo.
E qui, però, cominciano le riflessioni sulla distanza che separa l'affermazione dei diritti e l'esercizio dei diritti. In quest'anno di sua Presidenza abbiamo sentito affermazioni importanti sull'identità, sulla lingua, sulla cultura, sul fondamento storico del nostro essere nazione “distinta dalla nazione italiana”, come ricordo di averle sentito dire. Ma questo intreccio identitario non basta declamarlo, bisogna esercitarlo. Altrimenti, come succede in questa vicenda che angustia lei e gran parte del popolo sardo, ha buon gioco l'economicismo nel ritenerle mozioni degli affetti senza conseguenze pratiche.
Nel Piano di sviluppo regionale si è riconosciuta la valenza della lingua sarda come motore dello sviluppo. L'articolato movimento a favore del sardo e delle altre lingue parlate nell'isola ha salutato questo riconoscimento come originale e decisivo. Ma è rimasta quasi esclusivamente affermazione di principio. In quel motore di sviluppo si è messa una quantità ridicola di carburante che, stando così le cose, renderà solo più dolce la morte del sardo. Altro che contribuire allo sviluppo. So benissimo che, nel frattempo, hanno deflagrato emergenze a catena con in gioco posti di lavoro. Ma non mi pare che le questioni della lingua e degli altri aspetti dell'identità, che pure, secondo il suo programma, dovevano essere al primo posto, abbiano avuto la forza di affermarsi anche in un disegno di un nuovo modello di sviluppo.
Come pensare che altri prendano atto delle ragioni della nostra specialità, se per primi siamo noi a non crederci? Se siamo noi a non saperle mettere al primo posto? Rilancio una richiesta del Comitadu pro sa limba sarda: le questioni dell'identità, e in primo luogo, quelle legate alla lingua sarda e alle lingue alloglotte devono essere in capo alla Presidenza della Regione. L'assalto che lei teme alla nostra specialità ha una sola possibilità di sconfitta: mostrare nei fatti che essa ha, come lei ha detto, “ragioni storiche ineliminabili”.
leggo, e me ne compiaccio con lei, della sua levata di scudi contro la strisciante e sciagurata ipotesi di ridurre a zero la specialità della Sardegna e, con essa, quella di altre regioni a statuto speciale. Il fatto che questa balzana idea frulli da molto tempo nella mente del ministro Brunetta, economista e economicista, la dice lunga sul retroterra culturale e politico che le sta dietro. Come in tutti gli economicisti, di destra, di sinistra, di su e di giù, c'è la convinzione che la specialità sia prodotto del dislivello di sviluppo economico e, per noi, della condizione geografica di insularità.
Assicurando, anche con il federalismo fiscale, eguali opportunità di sviluppo e riconosciuta l'insularità della Sardegna – questo è il ragionamento – che senso ha continuare a considerare “speciale” la Sardegna? Leggo su un quotidiano italiano che, anche lei, la specialità “ha ragioni storiche ineliminabili”. È proprio così e fa bene leggere che il presidente della Sardegna mette in disparte la querula lamentazione sul poco che ci si da e affermare che la specialità ci spetta, non è un regalo.
E qui, però, cominciano le riflessioni sulla distanza che separa l'affermazione dei diritti e l'esercizio dei diritti. In quest'anno di sua Presidenza abbiamo sentito affermazioni importanti sull'identità, sulla lingua, sulla cultura, sul fondamento storico del nostro essere nazione “distinta dalla nazione italiana”, come ricordo di averle sentito dire. Ma questo intreccio identitario non basta declamarlo, bisogna esercitarlo. Altrimenti, come succede in questa vicenda che angustia lei e gran parte del popolo sardo, ha buon gioco l'economicismo nel ritenerle mozioni degli affetti senza conseguenze pratiche.
Nel Piano di sviluppo regionale si è riconosciuta la valenza della lingua sarda come motore dello sviluppo. L'articolato movimento a favore del sardo e delle altre lingue parlate nell'isola ha salutato questo riconoscimento come originale e decisivo. Ma è rimasta quasi esclusivamente affermazione di principio. In quel motore di sviluppo si è messa una quantità ridicola di carburante che, stando così le cose, renderà solo più dolce la morte del sardo. Altro che contribuire allo sviluppo. So benissimo che, nel frattempo, hanno deflagrato emergenze a catena con in gioco posti di lavoro. Ma non mi pare che le questioni della lingua e degli altri aspetti dell'identità, che pure, secondo il suo programma, dovevano essere al primo posto, abbiano avuto la forza di affermarsi anche in un disegno di un nuovo modello di sviluppo.
Come pensare che altri prendano atto delle ragioni della nostra specialità, se per primi siamo noi a non crederci? Se siamo noi a non saperle mettere al primo posto? Rilancio una richiesta del Comitadu pro sa limba sarda: le questioni dell'identità, e in primo luogo, quelle legate alla lingua sarda e alle lingue alloglotte devono essere in capo alla Presidenza della Regione. L'assalto che lei teme alla nostra specialità ha una sola possibilità di sconfitta: mostrare nei fatti che essa ha, come lei ha detto, “ragioni storiche ineliminabili”.
giovedì 24 giugno 2010
Martiri dell'ortodossia vocati all'autolesionismo
Era scontato che la baronia universitaria, in sintonia con le soprintendenze archeologiche, non avrebbe digerito le novità emergenti circa la scrittura in Sardegna prima dell'arrivo dei levantini. Ci ho scritto un romanzo (chiedo venia per l'autocitazione), imperniato sulle traversie di una giovane archeologa alle prese proprio con questo intreccio di baroni e soprintendenti, gli uni e gli altri decisi a conservare, costi quel che costi, il conosciuto e a difendere, avrebbe detto Pigliaru, “la menzogna vitale”. Nel giro di un anno, quel “thriller archeologico” mostra tutta la sua inadeguatezza rispetto ad una realtà ben peggiore dell'immaginabile.
Chi segue con una qualche regolarità questo blog, si sarà accorto dell'assalto cui è stato sottoposto da parte di difensori dell'ortodossia: fino a cento ”commenti” in due giorni, firmati con pseudonimi di gente che, a volte, ha mostratp di avere conoscenze culturali non comuni per i rimandi fatti a personaggi del mondo archeologico sconosciuti ai più. Persone, voglio dire, che solo degli studiosi sono in grado di citare a proposito fino a vestirne il nome. Ci sono state anche altre punzecchiature, come l'utilizzo dello pseudonimo (zuannefrantziscu) che mi identifica da quasi tre anni, per postare commenti ingiuriosi nei confronti di altri commentatori o come l'inserimento di foto pornografiche in commenti naturalmente anonimi. Tralascio i troll e i perdigiorno che, ci sta, si divertono a invadere questo e altri blog che non utilizzano quei filtri che oggi sono costretto ad impiegare anche io. È il folclore della rete.
E però, mano a mano che cresce la mole di documenti sulla scrittura al tempo dei nuraghi, e che con questa manca l'aria nei templi dell'ortodossia, alcuni loro sacerdoti hanno preso a picchiare duro con intimidazioni, ingiurie pesantissime, espressioni di franca diffamazione, contando in denunce e querele che inevitabilmente trasformerebbero in giudiziaria una questione che non lo è. Vuoi perché convinti a farlo, vuoi perché anche i coraggiosi anonimi “tengono famiglia”, vuoi, anche, perché a corto di argomenti o stufi di ripeterli, fatto sta che alcuni assidui commentatori di questo blog si sono improvvisamente e tutti insieme dileguati. Per qualcuno la scelta è stata salutare e dalla precarietà è passato a un incarico prestigioso.
Non so se per sindrome da “cittadino al di sopra di ogni sospetto” o se per certezza di immunità baronale, nei giorni scorsi un tal Robertu Koroneu, nomignolo alla ziu Paddori dietro cui si cela, per sua stessa ammissione, il preside Roberto Coroneo, ha scritto un articolo per il blog di un personaggio cacciato a furor di bloggers da questo sito. Una manina santa lo ha trasferito per ben 18 volte in questo blog, per aver certezza che il messaggio arrivasse ai destinatari, alcuni collaboratori in attesa di esami e, in genere, i giovani che studiando fossero presi dal ghiribizzo di seguire l'eresia. Il solo dubbio che quel Koroneu fosse davvero il preside di una facoltà universitaria ha, legittimamente, irritato alcuni lettori e, lo confesso, io stesso ne ero poco convinto non ostante le prove che mi erano state fornite sulla doppia identità del professor Coroneo, dottor Jekyll in facoltà e mr. Hyde in quel blog.
Fatto sta che il professor Coroneo non ha smentito e, forse un alternos ma non ne sono sicuro, rincara la dose con il suo simil-sarcasmo che indica la retta via a chi, fra gli studenti e gli studiosi, fosse tentato dal revisionismo e, diocenescampieliberi, dalla seduzione dell'eresia. Continuo a dire che chiunque è libero anche di farsi del male, scrivendo sotto uno scoperto pseudonimo o tacendo sul furto di identità subìto. Sono problemi del rettore dell'Università di Cagliari e del ministro della Pubblica istruzione se continuare ad avvalersi o no di un cattivo maestro, volgare nelle espressioni e pessimo educatore di menti libere.
C'è, invece, una questione che riguarda la polizia postale e la magistratura nel colpo di coda (non ultimo né, credo, definitivo) di chi si sente ormai alla frutta. Di chi si accorge che le rendite di posizione sono in esaurimento e che, prima o poi, dovranno render conto non dei propri errori (naturali negli uomini) ma dei tentativi di nascondere, occultare, seppellire in armadi chiusi gli elementi di vicende storiche non gradite e, soprattutto, capaci di minare certezze con cui hanno campato insegnando a tutti noi una parte sola delle possibili verità. A parte gli aspetti penali di alcune vicende, intollerabile è la manipolazione delle coscienze e l'uso disinvolto dei quattrini dello Stato per esercitare un potere di interdizione contro chi si è avvicinato alle discipline archeologiche con la curiosità di conoscere e di sperimentare nuove strade. Magari per verificare che certe strade erano impraticabili, ma senza l'ossessione di assiomi assortiti a un buon voto o a un posto di lavoro.
Dicevo del compito che dovrà svolgere la polizia postale. Un poco di buono si è nascosto per due volte nel giro di qualche mese dietro Giovanni Venier, doge di Venezia dal 1554 al 1556, per inviare una lettera diffamatoria ai docenti di una università del nord con bersaglio un loro collega. Ricordate l'individuo che per mesi e mesi si è nascosto dietro nomi di importanti studiosi del passato, ormai defunti? Quanti fra noi sa o ricorda i tre doge veneziani, Venier di cognome, e dell'ultimo, Giovanni? Le due lettere intimidatorie hanno di mira questo blog che dubito abbia tanta diffusione a Venezia da motivare preoccupate reazioni a tutela degli studenti e dei docenti nordici. Ma non dubito affatto che l'anima immortale del doge Giovanni Venier si sia incarnata in corpi residenti in Sardegna. Non penso affatto, per essere chiari, a quello di Robertu Koroneu ma a quello o a quelli di chi, essendo di natura trasformista, ha mille nomi, nessuno dei quali reale.
Ma sarà compito della polizia scoprire chi è e perché rischia la galera come chiunque rechi “offesa all’onore o al decoro di una persona” essendo punibile “ai sensi degli artt. 594 e 595 del codice penale recanti norme in materia di ingiurie e diffamazione”. Qui interessava solo segnalare quanto possano la bile e la sensazione che qualcosa sta mancando sotto i piedi degli adoratori dei dogma assorbiti e insegnati in tanti anni di carriera.
Chi segue con una qualche regolarità questo blog, si sarà accorto dell'assalto cui è stato sottoposto da parte di difensori dell'ortodossia: fino a cento ”commenti” in due giorni, firmati con pseudonimi di gente che, a volte, ha mostratp di avere conoscenze culturali non comuni per i rimandi fatti a personaggi del mondo archeologico sconosciuti ai più. Persone, voglio dire, che solo degli studiosi sono in grado di citare a proposito fino a vestirne il nome. Ci sono state anche altre punzecchiature, come l'utilizzo dello pseudonimo (zuannefrantziscu) che mi identifica da quasi tre anni, per postare commenti ingiuriosi nei confronti di altri commentatori o come l'inserimento di foto pornografiche in commenti naturalmente anonimi. Tralascio i troll e i perdigiorno che, ci sta, si divertono a invadere questo e altri blog che non utilizzano quei filtri che oggi sono costretto ad impiegare anche io. È il folclore della rete.
E però, mano a mano che cresce la mole di documenti sulla scrittura al tempo dei nuraghi, e che con questa manca l'aria nei templi dell'ortodossia, alcuni loro sacerdoti hanno preso a picchiare duro con intimidazioni, ingiurie pesantissime, espressioni di franca diffamazione, contando in denunce e querele che inevitabilmente trasformerebbero in giudiziaria una questione che non lo è. Vuoi perché convinti a farlo, vuoi perché anche i coraggiosi anonimi “tengono famiglia”, vuoi, anche, perché a corto di argomenti o stufi di ripeterli, fatto sta che alcuni assidui commentatori di questo blog si sono improvvisamente e tutti insieme dileguati. Per qualcuno la scelta è stata salutare e dalla precarietà è passato a un incarico prestigioso.
Non so se per sindrome da “cittadino al di sopra di ogni sospetto” o se per certezza di immunità baronale, nei giorni scorsi un tal Robertu Koroneu, nomignolo alla ziu Paddori dietro cui si cela, per sua stessa ammissione, il preside Roberto Coroneo, ha scritto un articolo per il blog di un personaggio cacciato a furor di bloggers da questo sito. Una manina santa lo ha trasferito per ben 18 volte in questo blog, per aver certezza che il messaggio arrivasse ai destinatari, alcuni collaboratori in attesa di esami e, in genere, i giovani che studiando fossero presi dal ghiribizzo di seguire l'eresia. Il solo dubbio che quel Koroneu fosse davvero il preside di una facoltà universitaria ha, legittimamente, irritato alcuni lettori e, lo confesso, io stesso ne ero poco convinto non ostante le prove che mi erano state fornite sulla doppia identità del professor Coroneo, dottor Jekyll in facoltà e mr. Hyde in quel blog.
Fatto sta che il professor Coroneo non ha smentito e, forse un alternos ma non ne sono sicuro, rincara la dose con il suo simil-sarcasmo che indica la retta via a chi, fra gli studenti e gli studiosi, fosse tentato dal revisionismo e, diocenescampieliberi, dalla seduzione dell'eresia. Continuo a dire che chiunque è libero anche di farsi del male, scrivendo sotto uno scoperto pseudonimo o tacendo sul furto di identità subìto. Sono problemi del rettore dell'Università di Cagliari e del ministro della Pubblica istruzione se continuare ad avvalersi o no di un cattivo maestro, volgare nelle espressioni e pessimo educatore di menti libere.
C'è, invece, una questione che riguarda la polizia postale e la magistratura nel colpo di coda (non ultimo né, credo, definitivo) di chi si sente ormai alla frutta. Di chi si accorge che le rendite di posizione sono in esaurimento e che, prima o poi, dovranno render conto non dei propri errori (naturali negli uomini) ma dei tentativi di nascondere, occultare, seppellire in armadi chiusi gli elementi di vicende storiche non gradite e, soprattutto, capaci di minare certezze con cui hanno campato insegnando a tutti noi una parte sola delle possibili verità. A parte gli aspetti penali di alcune vicende, intollerabile è la manipolazione delle coscienze e l'uso disinvolto dei quattrini dello Stato per esercitare un potere di interdizione contro chi si è avvicinato alle discipline archeologiche con la curiosità di conoscere e di sperimentare nuove strade. Magari per verificare che certe strade erano impraticabili, ma senza l'ossessione di assiomi assortiti a un buon voto o a un posto di lavoro.
Dicevo del compito che dovrà svolgere la polizia postale. Un poco di buono si è nascosto per due volte nel giro di qualche mese dietro Giovanni Venier, doge di Venezia dal 1554 al 1556, per inviare una lettera diffamatoria ai docenti di una università del nord con bersaglio un loro collega. Ricordate l'individuo che per mesi e mesi si è nascosto dietro nomi di importanti studiosi del passato, ormai defunti? Quanti fra noi sa o ricorda i tre doge veneziani, Venier di cognome, e dell'ultimo, Giovanni? Le due lettere intimidatorie hanno di mira questo blog che dubito abbia tanta diffusione a Venezia da motivare preoccupate reazioni a tutela degli studenti e dei docenti nordici. Ma non dubito affatto che l'anima immortale del doge Giovanni Venier si sia incarnata in corpi residenti in Sardegna. Non penso affatto, per essere chiari, a quello di Robertu Koroneu ma a quello o a quelli di chi, essendo di natura trasformista, ha mille nomi, nessuno dei quali reale.
Ma sarà compito della polizia scoprire chi è e perché rischia la galera come chiunque rechi “offesa all’onore o al decoro di una persona” essendo punibile “ai sensi degli artt. 594 e 595 del codice penale recanti norme in materia di ingiurie e diffamazione”. Qui interessava solo segnalare quanto possano la bile e la sensazione che qualcosa sta mancando sotto i piedi degli adoratori dei dogma assorbiti e insegnati in tanti anni di carriera.
Statolatri in crisi di astinenza
Con la scusa della spesa pubblica, il neo giacobinismo italiano sta tirando fuori il meglio che ha per deprimere il sistema delle autonomie. E non si rende conto che sta provocando una reazione a catena di cui, un giorno o l'altro farà le spese quel “sentimento nazionale” in nome e per conto del quale pensa di agire. La messa in mora di quel simili-federalismo che è in cantiere ha un filo conduttore nella questione della spesa e tanto i suoi nemici hanno tirato la corda che adesso le regioni contestano la spesa dello Stato: dimagrisca lui, prima di chiedere a noi di farlo.
È una ribellione che unisce la destra al governo alla sinistra all'opposizione, quasi a significare che il sistema dei poteri regionali e quello dei poteri dello Stato sono entrati in conflitto come, forse, mai era accaduto con tanta unanime ampiezza. Insomma il centralismo, che si alimenta di politica e di stampa nazionalista, è destinato a farsi un autogol. Né aiuta a allentare la tensione la sentenza della Corte costituzionale che respinge la richiesta di nove regioni di poter dire la loro sull'impianto di centrali nucleari sul loro territorio.
Quel micidiale amalgama di ideologia, di retorica e di astio nei confronti del sistema autonomistico sta spingendo verso la crisi profonda lo Stato nazionale. Retorica e ideologia statolatra, con i loro richiami al sentimento nazionale, all'unità nazionale e con il loro disegno di una vulgata storica insostenibile stanno facendo acqua. La “unità nazionale” è un simbolo valido finché condiviso, fino a che quella astrazione della nazione italiana è riconosciuta come realtà non solo dai cittadini di nazionalità italiana, ma anche quelli delle altre nazionalità della Repubblica. Diventa un “sentire” in crisi quando si tenta di imporlo: i cittadini italiani che si “sentono” di nazionalità italiana hanno tutto il diritto di nutrire questo sentimento, ma non quello di imporlo agli altri cittadini della Repubblica, quelli di nazionalità sarda, sudtirolese, friulana, valdostana.
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È una ribellione che unisce la destra al governo alla sinistra all'opposizione, quasi a significare che il sistema dei poteri regionali e quello dei poteri dello Stato sono entrati in conflitto come, forse, mai era accaduto con tanta unanime ampiezza. Insomma il centralismo, che si alimenta di politica e di stampa nazionalista, è destinato a farsi un autogol. Né aiuta a allentare la tensione la sentenza della Corte costituzionale che respinge la richiesta di nove regioni di poter dire la loro sull'impianto di centrali nucleari sul loro territorio.
Quel micidiale amalgama di ideologia, di retorica e di astio nei confronti del sistema autonomistico sta spingendo verso la crisi profonda lo Stato nazionale. Retorica e ideologia statolatra, con i loro richiami al sentimento nazionale, all'unità nazionale e con il loro disegno di una vulgata storica insostenibile stanno facendo acqua. La “unità nazionale” è un simbolo valido finché condiviso, fino a che quella astrazione della nazione italiana è riconosciuta come realtà non solo dai cittadini di nazionalità italiana, ma anche quelli delle altre nazionalità della Repubblica. Diventa un “sentire” in crisi quando si tenta di imporlo: i cittadini italiani che si “sentono” di nazionalità italiana hanno tutto il diritto di nutrire questo sentimento, ma non quello di imporlo agli altri cittadini della Repubblica, quelli di nazionalità sarda, sudtirolese, friulana, valdostana.
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mercoledì 23 giugno 2010
Siamo certi che la civiltà si sia spostata da est a ovest?
di Pierluigi Montalbano
Al termine dell’ultima glaciazione, il mare e i fiumi riconquistarono quegli spazi che già appartenevano loro prima del cambiamento climatico. Nella regione anatolica e in quella mesopotamico vivevano pacificamente i natufiani, genti paleolitiche che rappresentano la cerniera che collega al neolitico. Ma questi individui non praticavano l’agricoltura, si nutrivano di ciò che la natura offriva e non mostravano alcun segno di specializzazione.
Nel giro di poco tempo, in queste zone arrivano (siamo nel X millennio a.C.) genti nuove, ma non conosciamo la loro origine. Di essi sappiamo che praticavano l’addomesticazione di tre qualità di grano, di varie specie di leguminose (lenticchie, piselli e altre) e che si insediarono in zone nelle quali non si trovavano, così dicono i botanici, specie selvatiche di quelle prime piante.
Arrivano, dunque, già in possesso di tecniche e conoscenze che daranno la spinta decisiva per la rivoluzione neolitica. In sostanza dopo 90.000 anni di predazione e raccolta si passò alla produzione di sussistenza. Nasce la ceramica per contenere le derrate e troviamo incredibilmente due grandi città: Gerico, sulle rive del Giordano, e Catal Hoyuk in Anatolia.
La prima mostra una torre in pietra alta 10 metri, un recinto alto 4 metri, lungo 1.5 Km e un fossato scavato nella roccia, largo 8 metro e profondo 3.
Catal Hoyuk è ricca di risorse alimentari ma importa tutto il resto: legno di abete dal Tauro, alabastro da Kayseri, marmo dall’Anatolia Occidentale, e… ossidiana, tanta ossidiana, anche da luoghi molto lontani. Pare che le distanze non costituissero un ostacolo per queste genti.
Non esistono i sentieri di questa grande migrazione, neppure la minima traccia e l’unica possibilità che mi viene in mente è il mare.
Ciò che incuriosisce è che la dieta del popolo di Catal Hoyuk è costituita al 90% di carne bovina, un animale che fa la sua comparsa in Mesopotamia solo a partire dal 5000 a.C., ma viene rappresentato, adorato e mangiato, lungo tutte le coste mediterranee dalla Francia alla Spagna (pensate alle grotte rupestri), dalla Grecia ai Balcani e in tutte quelle zone dove la conchiglia cardium fece la sua comparsa nelle decorazioni delle ceramiche (Leucade, Corfù, costa slava, costa adriatica, Tremiti, Malta, Sicilia, Elba, Liguria, Sardegna).
Intorno al 7000 a.C. i bovini compaiono a Cnosso, nell’isola di Creta, provenienti proprio dall’Anatolia. Siamo di fronte ad una navigazione in grado di colonizzare enormi spazi, solcando un mare apparentemente non temuto dai naviganti. Le mandrie di bovini, trasportate certamente su robuste imbarcazioni, successivamente si estinsero e fino al Bronzo non ricomparvero più a Cipro, dove l’archeologo Guidane scoprì, invece, grandi recinti curvilinei formati da robuste palizzate interrate datate…7800 a.C. (lungo il litorale cipriota: Shillourokambos).
Non voglio annoiarvi scrivendo di Malta, Los Millares e dei grandi monumenti in pietra di carnai, Kermario, New Grange, Sardegna, Spagna, Bretagna, Inghilterra, Irlanda, Seeland, Provenza ma lascio il campo alle vostre deduzioni: da dove arriva la civiltà che oggi studiamo? Chi vuole cimentarsi nella cronologia di Egizi, Sumeri e compagnia cantante?
Nella foto: scavi nella città anatolica di Catal Hoyuk
Al termine dell’ultima glaciazione, il mare e i fiumi riconquistarono quegli spazi che già appartenevano loro prima del cambiamento climatico. Nella regione anatolica e in quella mesopotamico vivevano pacificamente i natufiani, genti paleolitiche che rappresentano la cerniera che collega al neolitico. Ma questi individui non praticavano l’agricoltura, si nutrivano di ciò che la natura offriva e non mostravano alcun segno di specializzazione.
Nel giro di poco tempo, in queste zone arrivano (siamo nel X millennio a.C.) genti nuove, ma non conosciamo la loro origine. Di essi sappiamo che praticavano l’addomesticazione di tre qualità di grano, di varie specie di leguminose (lenticchie, piselli e altre) e che si insediarono in zone nelle quali non si trovavano, così dicono i botanici, specie selvatiche di quelle prime piante.
Arrivano, dunque, già in possesso di tecniche e conoscenze che daranno la spinta decisiva per la rivoluzione neolitica. In sostanza dopo 90.000 anni di predazione e raccolta si passò alla produzione di sussistenza. Nasce la ceramica per contenere le derrate e troviamo incredibilmente due grandi città: Gerico, sulle rive del Giordano, e Catal Hoyuk in Anatolia.
La prima mostra una torre in pietra alta 10 metri, un recinto alto 4 metri, lungo 1.5 Km e un fossato scavato nella roccia, largo 8 metro e profondo 3.
Catal Hoyuk è ricca di risorse alimentari ma importa tutto il resto: legno di abete dal Tauro, alabastro da Kayseri, marmo dall’Anatolia Occidentale, e… ossidiana, tanta ossidiana, anche da luoghi molto lontani. Pare che le distanze non costituissero un ostacolo per queste genti.
Non esistono i sentieri di questa grande migrazione, neppure la minima traccia e l’unica possibilità che mi viene in mente è il mare.
Ciò che incuriosisce è che la dieta del popolo di Catal Hoyuk è costituita al 90% di carne bovina, un animale che fa la sua comparsa in Mesopotamia solo a partire dal 5000 a.C., ma viene rappresentato, adorato e mangiato, lungo tutte le coste mediterranee dalla Francia alla Spagna (pensate alle grotte rupestri), dalla Grecia ai Balcani e in tutte quelle zone dove la conchiglia cardium fece la sua comparsa nelle decorazioni delle ceramiche (Leucade, Corfù, costa slava, costa adriatica, Tremiti, Malta, Sicilia, Elba, Liguria, Sardegna).
Intorno al 7000 a.C. i bovini compaiono a Cnosso, nell’isola di Creta, provenienti proprio dall’Anatolia. Siamo di fronte ad una navigazione in grado di colonizzare enormi spazi, solcando un mare apparentemente non temuto dai naviganti. Le mandrie di bovini, trasportate certamente su robuste imbarcazioni, successivamente si estinsero e fino al Bronzo non ricomparvero più a Cipro, dove l’archeologo Guidane scoprì, invece, grandi recinti curvilinei formati da robuste palizzate interrate datate…7800 a.C. (lungo il litorale cipriota: Shillourokambos).
Non voglio annoiarvi scrivendo di Malta, Los Millares e dei grandi monumenti in pietra di carnai, Kermario, New Grange, Sardegna, Spagna, Bretagna, Inghilterra, Irlanda, Seeland, Provenza ma lascio il campo alle vostre deduzioni: da dove arriva la civiltà che oggi studiamo? Chi vuole cimentarsi nella cronologia di Egizi, Sumeri e compagnia cantante?
Nella foto: scavi nella città anatolica di Catal Hoyuk
La feniciomania miete altre vittime: anche i sub
Un lingotto di stagno di dieci chili è stato trovato, sepolto dalla sabbia e da sette metri di mare, da un gruppo di sub algheresi. Una scoperta straordinaria ed unica. In una terra nota nel mondo per i suoi bronzi e bronzetti, a chi poteva servire quello stagno se non ai fenici e ai punici? “Alghero, eccezionale ritrovamento a pochi metri di profondità di un lingotto di stagno puro di epoca cartaginese o fenicia “, titola oggi un quotidiano sardo.
L'affermazione – è bene chiarire – non è degli archeologi a cui la bella piramide di stagno è stata consegnata e che un giorno ci diranno che cosa ne sanno. È di uno dei componenti del gruppo sportivo di sub che l'ha trovata e, va da sé, è stata raccolta dal giornalista senza batter ciglio. Del resto, secondo i sub, lo stagno veniva o dalla Cornovaglia o dall'attuale Zimbabwe e chi se non i fenici o i punici poteva trasportarla nelle acque della Sardegna?
Naturalmente, allo stato delle cose, nessuno può escludere che davvero sia stata fenicia o punica la nave che lo trasportava. Quel che sconcerta è che non sia stata presa in considerazione un'altra possibilità: che quello stagno lo stesse trasportando, probabilmente insieme ad altri suoi fratelli, una nave nuragica. Ci sta, visto che i sardi dell'epoca fabbricavano bronzo quando ancora fenici e punici erano di là da venire e che per farlo dovevano andare a trovarsi lo stagno. Dal che si ricava che la feniciomania non è una malattia rara, che colpisce i fenicisti: è una pandemia che colpisce tutti, anche un gruppo sportivo di sub.
L'affermazione – è bene chiarire – non è degli archeologi a cui la bella piramide di stagno è stata consegnata e che un giorno ci diranno che cosa ne sanno. È di uno dei componenti del gruppo sportivo di sub che l'ha trovata e, va da sé, è stata raccolta dal giornalista senza batter ciglio. Del resto, secondo i sub, lo stagno veniva o dalla Cornovaglia o dall'attuale Zimbabwe e chi se non i fenici o i punici poteva trasportarla nelle acque della Sardegna?
Naturalmente, allo stato delle cose, nessuno può escludere che davvero sia stata fenicia o punica la nave che lo trasportava. Quel che sconcerta è che non sia stata presa in considerazione un'altra possibilità: che quello stagno lo stesse trasportando, probabilmente insieme ad altri suoi fratelli, una nave nuragica. Ci sta, visto che i sardi dell'epoca fabbricavano bronzo quando ancora fenici e punici erano di là da venire e che per farlo dovevano andare a trovarsi lo stagno. Dal che si ricava che la feniciomania non è una malattia rara, che colpisce i fenicisti: è una pandemia che colpisce tutti, anche un gruppo sportivo di sub.
martedì 22 giugno 2010
La Padania non esiste. Ma va, e l'Italia?
La Padania non esiste. Né più né meno di come, fino al 17 marzo 1861, non esisteva l'Italia. O meglio esisteva, come disse quattordici anni prima Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein, von Metternich per gli amici, in quanto “espressione geografica”. Era solo il nome di una penisola che, insieme a due grandi isole più altre più piccole, aveva il nome di Regno di Sardegna. Ora l'Italia esiste come stato e la Padania esiste come desiderio, legittimo almeno quanto quello di chi si scandalizzò, nel '47 e successivamente, per la constatazione del conte delle Westfallia.
Per fare il politico, anche bravo com'è il presidente della Camera, Fini, non è necessario aver rispetto della storia e della logica, ma certo sarebbe di grande aiuto. Si eviterebbe di dire delle banalità, fra l'altro controvertibili, pur di confondere l'unità della Repubblica – che esiste ed è costituzionalmente sancita – con la “unità nazionale” che esiste solo in un fantastico mondo dei desideri. Che esista la nazione padana è difficile dire, e comunque starà ai padani dirlo e convincersene, visto che esistono anche le nazioni spontanee oltre a quelle storiche come la sarda, la friulana, la slovena, la sudtirolese.
Una ricerca demoscopica, pubblicata oggi da Renato Mannheimer, da conto del fatto che solo un quarto degli elettori della Lega si ritiene italiano e che neppure la metà dei cittadini della Repubblica (il 46 per cento) si sente italiana. A ben vedere, quest'ultimo dato, non è neppure una presa di distanza dalla consapevolezza dell'unità della Repubblica, ma forse dalla sovrabbondante retorica di questi ultimi mesi, preparatori dei 150 anni della cosiddetta unità d'Italia. Il 26 per cento si sente cittadino del proprio comune, il 13 per cento della propria regione.
Se è vero che un sentimento, come quello chiamato nazionale, non si può somministrare per sciroppo, ma è qualcosa che si “sente” o non si “sente”, è altrettanto vero che la consapevolezza di “unità nazionale” non può essere imposta con leggi o con esorcismi. Si può benissimo essere cittadini italiani, lo si è per iscrizione all'anagrafe dello Stato, di nazionalità sarda, o friulana, slovena, etc. La Costituzione ci obbliga a considerare una e indivisibile la Repubblica, non la nazione italiana. È un obbligo che vale, naturalmente, fino a quando la Repubblica tiene, non vale più quando, come è successo per le repubbliche a cavallo fra il 700 e l'800, cambiano condizione. Era “una e indivisibile” la Repubblica cisalpina del 1797, lo furono anche quella cispadana dello stesso anno e quella romana del 1798. Se l'attuale repubblica non tiene, non ha più ragioni per tenere, non c'è mozione degli affetti, appello al “sentimento nazionale”, richiamo alla unicità e indivisibilità che tengano.
In questi giorni valloni, fiamminghi e città di Bruxelles stanno ricercando ragioni per stare insieme e non è detto che le troveranno e che non finisca lì come è finito fra cechi e slovacchi, divorziati consensualmente. Neppure il federalismo ha tenuto in Belgio. Nella Repubblica italiana, è sensazione abbastanza diffusa fra chi non si lascia irretire dalla retorica unitarista, solo una trasformazione federale vera può salvare l'unità della Repubblica, quella nazionale essendo, appunto, una mozione degli affetti. Vera significa spogliata dagli eufemismi cui in questi anni siamo stati abituati: federalismo fiscale, demaniale, solidale e via dicendo. Nella sua franca rozzezza, la Lega ha messo sull'avviso: o si afferma il federalismo come unica chance dell'unità o è la secessione.
Per fare il politico, anche bravo com'è il presidente della Camera, Fini, non è necessario aver rispetto della storia e della logica, ma certo sarebbe di grande aiuto. Si eviterebbe di dire delle banalità, fra l'altro controvertibili, pur di confondere l'unità della Repubblica – che esiste ed è costituzionalmente sancita – con la “unità nazionale” che esiste solo in un fantastico mondo dei desideri. Che esista la nazione padana è difficile dire, e comunque starà ai padani dirlo e convincersene, visto che esistono anche le nazioni spontanee oltre a quelle storiche come la sarda, la friulana, la slovena, la sudtirolese.
Una ricerca demoscopica, pubblicata oggi da Renato Mannheimer, da conto del fatto che solo un quarto degli elettori della Lega si ritiene italiano e che neppure la metà dei cittadini della Repubblica (il 46 per cento) si sente italiana. A ben vedere, quest'ultimo dato, non è neppure una presa di distanza dalla consapevolezza dell'unità della Repubblica, ma forse dalla sovrabbondante retorica di questi ultimi mesi, preparatori dei 150 anni della cosiddetta unità d'Italia. Il 26 per cento si sente cittadino del proprio comune, il 13 per cento della propria regione.
Se è vero che un sentimento, come quello chiamato nazionale, non si può somministrare per sciroppo, ma è qualcosa che si “sente” o non si “sente”, è altrettanto vero che la consapevolezza di “unità nazionale” non può essere imposta con leggi o con esorcismi. Si può benissimo essere cittadini italiani, lo si è per iscrizione all'anagrafe dello Stato, di nazionalità sarda, o friulana, slovena, etc. La Costituzione ci obbliga a considerare una e indivisibile la Repubblica, non la nazione italiana. È un obbligo che vale, naturalmente, fino a quando la Repubblica tiene, non vale più quando, come è successo per le repubbliche a cavallo fra il 700 e l'800, cambiano condizione. Era “una e indivisibile” la Repubblica cisalpina del 1797, lo furono anche quella cispadana dello stesso anno e quella romana del 1798. Se l'attuale repubblica non tiene, non ha più ragioni per tenere, non c'è mozione degli affetti, appello al “sentimento nazionale”, richiamo alla unicità e indivisibilità che tengano.
In questi giorni valloni, fiamminghi e città di Bruxelles stanno ricercando ragioni per stare insieme e non è detto che le troveranno e che non finisca lì come è finito fra cechi e slovacchi, divorziati consensualmente. Neppure il federalismo ha tenuto in Belgio. Nella Repubblica italiana, è sensazione abbastanza diffusa fra chi non si lascia irretire dalla retorica unitarista, solo una trasformazione federale vera può salvare l'unità della Repubblica, quella nazionale essendo, appunto, una mozione degli affetti. Vera significa spogliata dagli eufemismi cui in questi anni siamo stati abituati: federalismo fiscale, demaniale, solidale e via dicendo. Nella sua franca rozzezza, la Lega ha messo sull'avviso: o si afferma il federalismo come unica chance dell'unità o è la secessione.
Coroneo Jekyll e Koroneu Hyde
di * * *
Caro Pintore, il 19 giugno a tal Robertu Koroneu è stato pubblicato un articolo in un blog trovatello che non nomino perché non è giusto far ricadere sui figli le colpe de padri. Ho ragione di ritenere che autore dell'articolo dal contenuto demenziale sia l'incauto preside della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Cagliari, il professor Roberto Coroneo. Ed è solo per questo che ne scrivo.
Te ne propongo un brano: “Nella torre di Piricoccu si può leggere il resto di un’iscrizione dipinta: VAFF... più alcune lettere cancellate. Molto interessante, perché V sta per Vau antico segno indoeuropeo, A è assimilabile all’ebraico Delta dei popoli cananei, mentre la ripetizione FAN FAN resta un aspetto da indagare più a fondo.”.
Trovo assolutamente esecrabile il fatto che il Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia , faccia della scurrile ironia sugli studi di Gigi Sanna. C’è modo e modo di entrare nel merito delle teorie di Sanna che personalmente non condivido; ritengo sia una autentica vergogna che il Preside di Lettere e Filosofia mandi vaff fan… chicchessia. Tanto più giocando sulla possibilità, remotissima ti assicuro, che Robertu Koroneu e Roberto Coroneo siano due persone diverse.
Vi è da chiedersi come mai il preside Roberto Coroneo invece di entrare scientificamente nel merito (magari chiamando esperti di paleoepigrafia protocananea), va a fare il maleducato in un blog chimerico come quello degli Innocenti. È mai possibile che un preside sia talmente ingenuo da postare un articolo in un blog i cui gestori (forse per vergona) si nascondono dietro pseudonimi?
Povera Università di Cagliari. Povera Facoltà di lettere e filosofia che si ritrova un Preside il quale, invece di promuovere un dialogo scientifico, manda in vaffanculo gente a cui le ricerche sulla Sardegna preistorica sono e saranno, comunque, sempre debitrici.
Caro ***, mi sono permesso di nascondere il tuo nome e cognome che io naturalmente conosco, altrimenti non avrei pubblicato la tua denuncia. Tu sei imprudente, io no. Se il professor Coroneo avesse pubblicato quell'articolo – riprodotto una ventina di volte su questo blog da un anonimo Nanibgal, fanatico di quello scritto – senza far finta di non esserlo pur lasciando pensare che lo fosse, nulla quaestio. Nel mondo c'è posto anche per le goliardate simil-grilline con i suoi vaff e che un preside d'università vi si diletti è sintomo di spirito adolescenziale. È l'ambiguità di quella goliardiata refoulée che disturba, soprattutto sapendo che a persone così è affidata l'educazione dei nostri studenti. Ai quali Koreneu-Coroneo intende insegnare a non azzardarsi nel fare ricerche autonome. L'eresia sarà dilegiata, non essendoci a disposizione – maledetti siano la Gelmini e i suoi tagli all'università – legna per roghi. [zfp]
Caro Pintore, il 19 giugno a tal Robertu Koroneu è stato pubblicato un articolo in un blog trovatello che non nomino perché non è giusto far ricadere sui figli le colpe de padri. Ho ragione di ritenere che autore dell'articolo dal contenuto demenziale sia l'incauto preside della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Cagliari, il professor Roberto Coroneo. Ed è solo per questo che ne scrivo.
Te ne propongo un brano: “Nella torre di Piricoccu si può leggere il resto di un’iscrizione dipinta: VAFF... più alcune lettere cancellate. Molto interessante, perché V sta per Vau antico segno indoeuropeo, A è assimilabile all’ebraico Delta dei popoli cananei, mentre la ripetizione FAN FAN resta un aspetto da indagare più a fondo.”.
Trovo assolutamente esecrabile il fatto che il Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia , faccia della scurrile ironia sugli studi di Gigi Sanna. C’è modo e modo di entrare nel merito delle teorie di Sanna che personalmente non condivido; ritengo sia una autentica vergogna che il Preside di Lettere e Filosofia mandi vaff fan… chicchessia. Tanto più giocando sulla possibilità, remotissima ti assicuro, che Robertu Koroneu e Roberto Coroneo siano due persone diverse.
Vi è da chiedersi come mai il preside Roberto Coroneo invece di entrare scientificamente nel merito (magari chiamando esperti di paleoepigrafia protocananea), va a fare il maleducato in un blog chimerico come quello degli Innocenti. È mai possibile che un preside sia talmente ingenuo da postare un articolo in un blog i cui gestori (forse per vergona) si nascondono dietro pseudonimi?
Povera Università di Cagliari. Povera Facoltà di lettere e filosofia che si ritrova un Preside il quale, invece di promuovere un dialogo scientifico, manda in vaffanculo gente a cui le ricerche sulla Sardegna preistorica sono e saranno, comunque, sempre debitrici.
Caro ***, mi sono permesso di nascondere il tuo nome e cognome che io naturalmente conosco, altrimenti non avrei pubblicato la tua denuncia. Tu sei imprudente, io no. Se il professor Coroneo avesse pubblicato quell'articolo – riprodotto una ventina di volte su questo blog da un anonimo Nanibgal, fanatico di quello scritto – senza far finta di non esserlo pur lasciando pensare che lo fosse, nulla quaestio. Nel mondo c'è posto anche per le goliardate simil-grilline con i suoi vaff e che un preside d'università vi si diletti è sintomo di spirito adolescenziale. È l'ambiguità di quella goliardiata refoulée che disturba, soprattutto sapendo che a persone così è affidata l'educazione dei nostri studenti. Ai quali Koreneu-Coroneo intende insegnare a non azzardarsi nel fare ricerche autonome. L'eresia sarà dilegiata, non essendoci a disposizione – maledetti siano la Gelmini e i suoi tagli all'università – legna per roghi. [zfp]
lunedì 21 giugno 2010
Architettura e archeologia a braccetto a Lanusei
“L'architetto e l'archeologia” è il titolo del terzo convegno internazionale che si terrà sabato prossimo, il 26 giugno, presso l'hotel Villa Selene di Lanusei. Organizzato dall'ordine architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori delle province nuorese e ogliastrina, il convegno comincerà la mattina alle 9,30. Questo il programma delle relazioni.
Ore 10,30 Antonietta Boninu, Archeologia tra prosa e poesia; ore 11,00 Franco Laner, Murature a secco in Sardegna. Gli arcani di un atavico gesto tecnico; ore12,00 Arnold Le Beuf, Il significato astronomico del tempio a pozzo di S. Cristina – Paulilatino; ore 12,30 Alberto Pozzi, Megalitismo - architettura sacra della preistoria.
Nel pomeriggio, alle ore 15,30 Emanuela Porcu, Sentenza TAR Sardegna, le competenze professionali dell’architetto; ore16,00 Italo Deledda, Etruschi e nuragici nella Gallura inferiore; ore 16,30 Giacobbe Manca, Pseudo restauri o più propriamente ricostruzioni nei momumenti sardi; ore 17,00 Gianfranca Salis, I lavori di scavo nel sito nuragico di “Selene” - Lanusei; ore17,30 Mauro Peppino Zedda, Il significato astronomico dei nuraghi.
Alle ore 18,30 Visita al planetario e alle 21,30 visita all’osservatorio astronomico. I lavori saranno coordinati da Giovanni Pigozzi. Domenica ore 10,00 visita guidata al sito archeologico del villaggio di Selene - Lanusei
Ore 10,30 Antonietta Boninu, Archeologia tra prosa e poesia; ore 11,00 Franco Laner, Murature a secco in Sardegna. Gli arcani di un atavico gesto tecnico; ore12,00 Arnold Le Beuf, Il significato astronomico del tempio a pozzo di S. Cristina – Paulilatino; ore 12,30 Alberto Pozzi, Megalitismo - architettura sacra della preistoria.
Nel pomeriggio, alle ore 15,30 Emanuela Porcu, Sentenza TAR Sardegna, le competenze professionali dell’architetto; ore16,00 Italo Deledda, Etruschi e nuragici nella Gallura inferiore; ore 16,30 Giacobbe Manca, Pseudo restauri o più propriamente ricostruzioni nei momumenti sardi; ore 17,00 Gianfranca Salis, I lavori di scavo nel sito nuragico di “Selene” - Lanusei; ore17,30 Mauro Peppino Zedda, Il significato astronomico dei nuraghi.
Alle ore 18,30 Visita al planetario e alle 21,30 visita all’osservatorio astronomico. I lavori saranno coordinati da Giovanni Pigozzi. Domenica ore 10,00 visita guidata al sito archeologico del villaggio di Selene - Lanusei
domenica 20 giugno 2010
Toh chi si rivede, il fantasma del Parco del Gennargentu
Vedi un piccolo video sulla manifestazione contro il Parco (Cagliari, 21 ottobre 2005)
La ministra Prestigiacomo ha un concetto curioso dell'autonomia, pari solo a quello di un suo più famoso predecessore, Edo Ronchi, che tentò disperatamente e per anni di imporre il suo “Parco nazionale del Gennargentu”. L'attuale ministra dell'ambiente è di centrodestra, il suo predecessore di sinistra (Democrazia proletaria, allora). Questi fallì, nonostante gli assist ricevuti in Sardegna dall'allora presidente della Regione, Federico Palomba. La Prestigiacomo ci ritenta e – dice un comunicato del Governo sardo di poche ore fa – ha inserito di nuovo il “Parco nazionale del Gennargentu” fra le aree protette da realizzare.
Come dire che, come cantavano i galluresi, Pal noi no v’at middori / né impolta cal’at vintu / siat Filipu Chintu / o Carolu Imperatori. Ai tempi della Giunta Palomba (presidente del Consiglio Romano Prodi, se non vado errato), tutti i partiti, tutti i consiglieri regionali (salvo uno, Giorgio Murgia), quasi tutti i sindaci del Gennargentu dissero di sì al Parco statale, contro la volontà delle comunità. E Palomba firmò l'intesa prevista dalla legge. Quasi tutti sanno, credo, che quel parco non passò.
Adesso la ministra dell'ambiente del governo Berlusconi se la ritenta. Ma, a differenza di allora, pare abbia trovato di traverso il presidente della Regione e suo compagno di partito Cappellacci che tuona: “è una vergogna”.
Il suo ufficio stampa ha emesso stasera questo comunicato:
“Respingeremo con forza questa intrusione vergognosa. Non accetteremo un sopruso che rappresenterebbe una grave violazione della nostra autonomia. Durante la riunione di Giunta convocata per lunedì valuteremo le iniziative da porre in essere per contrastare un decreto che non condividiamo nel merito e che riteniamo intollerabile nel metodo. Ogni determinazione deve essere prima concordata con le Istituzioni locali. Le decisioni in materia ambientale spettano al popolo sardo, che sul tema ha una sensibilità sicuramente maggiore rispetto a quella di chi si trova dall’altra parte del mare.
Nessuno pensi di calare decreti dall’alto e di relegare al ruolo di spettatori passivi quelle comunità che, a buon diritto, vogliono e devono essere protagoniste del governo del territorio. Infatti, l'istituzione da parte di organi statali di parchi nazionali nel territorio regionale sarebbe un grave vulnus alle competenze primarie statutariamente garantite alla Regione Sardegna e rappresenterebbe una violazione dei principi di sussidiarietà e leale cooperazione. A quest'ultimo fa riferimento la stessa legge quadro istitutiva delle aree protette che rimette alla previa intesa con le regioni a statuto speciale l'istituzione dei parchi nazionali. Questa intesa deve essere sostanziale e va realizzata concordando forme, modi e tempi. Per questo deve avvenire con il massimo coinvolgimento delle comunità locali”.
Tutto perfetto, non fosse per un dettaglio. Quella intesa è stata firmata dal presidente della Regione Palomba nel 1995 e non è mai stata revocata. Forse bisognerebbe finalmente farlo.
Nelle foto: la cartina pubblicata nel sito del Ministero nell'elenco dei parchi
sabato 19 giugno 2010
I Shardana? Extraterrestri
di Francu Pilloni
Credere agli UFO è una scelta personale che non intacca la realtà delle cose terrene, ma l’interpretazione che si fa di essa sì. Del contatto degli Umani con Entità evolutesi in ambienti non terrestri ci sono prove e testimonianze quante per il Diluvio, perse e allocate ormai nell’immaginario collettivo delle diverse civiltà alternatesi sulla faccia della Terra.
Mio nonno, pastore di pecore a pascolo brado vagante e dunque signore del suo tempo, diurno e notturno, ma non padrone della propria fantasia, diceva che un tempo arrivarono in paese degli uomini che nuotavano nell’aria meglio di quanto egli stesso facesse nell’acqua.
“Avevano gli occhi chiari (ogus braxus diceva) e la pelle bianchiccia quasi trasparente, come una stearica. Per questo si beccarono subito il soprannome di Pandèlas, candele, senza per altro che se l’avessero a male. Parlavano poco fra loro e non recavano danno ad alcuno anche se presto si misero a fare e disfare a modo loro su tutte le cose del paese. Il fatto strano fu che nessuno protestò, perché le cose risultavano sempre ben fatte, o almeno così sembrava a tutti i paesani. Presero moglie e fu una gran fortuna anche per le poche racchie, le vedove e le due acide del paese, perché non erano schizzinosi quanto all’aspetto fisico, per loro tutte erano belle o forse nessuna ai loro occhi, almeno come noi siamo abituati a qualificare. Dall’unione (non credere che siano andati all’Ufficio a segnarsi!) nacquero dei bambini che in paese chiamarono pandelèddas (candeline), alcuni dei quali impararono subito a volare, altri non riuscivano a rotolate giù neanche dal pendio più ripido della collina. Insomma, qualcuno era intelligente, la maggioranza tonti come muridìnas (come tondeggianti mucchi di pietre). In paese cominciarono a distinguere le Pandelas Allùttas (candele accese), da quelle Istudàdas (spente)”.
E come andò a finire?, chiesi io che non vedevo l’ora che arrivasse in fondo.
“Andò a finire che le poche “Candele Accese” comandarono sugli altri e andarono a comandare anche negli altri paesi vicini e poi in quelli più lontano fino a Cagliari e ancora più lontano. Qualcuno dice che si misero a comandare in tutto il mondo. Il bello è che, anche prima che morissero, li facevano santi”.
Santi? Santi come? Santi come mai?
“Sì, anche se sapevano nuotare nell’aria, i fratelli Pandelas Istudadas li portavano in alto sopra sa cadìra de su santu (la portantina che usa per portare il santo in processione). Tu lo sai che prete Fenu ha detto che il Papa di Roma lo portano ancora così? Allora, se è vero, anche lui è una Pandela Allutta. Io non ci credo. Vorrei tanto vedergli la pelle…”
Sin qui, mio nonno. Crescendo, con evidenza e con naturalezza, non prestai fede alle fantasie del vecchio, anche perché la sedia gestatoria è caduta in disuso con papa Giovanni Paolo II. Anzi me ne scordai del tutto sino a che, nei telegiornali, ho notato come i nostri Pandelas Alluttas camminano per strada, con quattro e più Pandelas Istudadas che gli stanno a fianco, davanti e dietro, come sediari di una immaginaria cadira de su santu. Insomma, le civiltà finiscono, le tradizioni resistono. Mutano, ma resistono.
E i Sardana? Che c’entrano costoro?
Basta ricordare in che modo viene descritto il ritorno di Ulisse dall’isola dei Feaci-Sardinia, a come i popoli, dagli Etruschi agli Apulii, chiedessero un re ai Shardana affinché li governassero. Chiaramente erano Pandelas Alluttas, extraterrestri o discendenti diretti.
Ma oggi?
Oggi è come ieri, direbbe mio nonno, se fosse ancora vivo e ascoltasse i telegiornali perché leggere non sapeva: per esempio, i lavoratori di Pomigliano, come Pandelas, sono Alluttas o Istudadas? E quelli siciliani? E quelli sardi?
Di sicuro è Pandela Allutta colui che istituzionalmente difende i lavoratori, ma intanto predice che comunque chineranno la testa.
Mio nonno direbbe che il sindacato italiano si è oggi ridotto a un’enorme confraternita intenta a trasportare a spalla tutte le cadiras di tutti i santi del mondo.
E qui la mia Pandela, che se mai fosse stata Allutta, ha sempre vissuto cun pampa tremi-tremi, con fiamma tremolante, ha preso il vento.
Credere agli UFO è una scelta personale che non intacca la realtà delle cose terrene, ma l’interpretazione che si fa di essa sì. Del contatto degli Umani con Entità evolutesi in ambienti non terrestri ci sono prove e testimonianze quante per il Diluvio, perse e allocate ormai nell’immaginario collettivo delle diverse civiltà alternatesi sulla faccia della Terra.
Mio nonno, pastore di pecore a pascolo brado vagante e dunque signore del suo tempo, diurno e notturno, ma non padrone della propria fantasia, diceva che un tempo arrivarono in paese degli uomini che nuotavano nell’aria meglio di quanto egli stesso facesse nell’acqua.
“Avevano gli occhi chiari (ogus braxus diceva) e la pelle bianchiccia quasi trasparente, come una stearica. Per questo si beccarono subito il soprannome di Pandèlas, candele, senza per altro che se l’avessero a male. Parlavano poco fra loro e non recavano danno ad alcuno anche se presto si misero a fare e disfare a modo loro su tutte le cose del paese. Il fatto strano fu che nessuno protestò, perché le cose risultavano sempre ben fatte, o almeno così sembrava a tutti i paesani. Presero moglie e fu una gran fortuna anche per le poche racchie, le vedove e le due acide del paese, perché non erano schizzinosi quanto all’aspetto fisico, per loro tutte erano belle o forse nessuna ai loro occhi, almeno come noi siamo abituati a qualificare. Dall’unione (non credere che siano andati all’Ufficio a segnarsi!) nacquero dei bambini che in paese chiamarono pandelèddas (candeline), alcuni dei quali impararono subito a volare, altri non riuscivano a rotolate giù neanche dal pendio più ripido della collina. Insomma, qualcuno era intelligente, la maggioranza tonti come muridìnas (come tondeggianti mucchi di pietre). In paese cominciarono a distinguere le Pandelas Allùttas (candele accese), da quelle Istudàdas (spente)”.
E come andò a finire?, chiesi io che non vedevo l’ora che arrivasse in fondo.
“Andò a finire che le poche “Candele Accese” comandarono sugli altri e andarono a comandare anche negli altri paesi vicini e poi in quelli più lontano fino a Cagliari e ancora più lontano. Qualcuno dice che si misero a comandare in tutto il mondo. Il bello è che, anche prima che morissero, li facevano santi”.
Santi? Santi come? Santi come mai?
“Sì, anche se sapevano nuotare nell’aria, i fratelli Pandelas Istudadas li portavano in alto sopra sa cadìra de su santu (la portantina che usa per portare il santo in processione). Tu lo sai che prete Fenu ha detto che il Papa di Roma lo portano ancora così? Allora, se è vero, anche lui è una Pandela Allutta. Io non ci credo. Vorrei tanto vedergli la pelle…”
Sin qui, mio nonno. Crescendo, con evidenza e con naturalezza, non prestai fede alle fantasie del vecchio, anche perché la sedia gestatoria è caduta in disuso con papa Giovanni Paolo II. Anzi me ne scordai del tutto sino a che, nei telegiornali, ho notato come i nostri Pandelas Alluttas camminano per strada, con quattro e più Pandelas Istudadas che gli stanno a fianco, davanti e dietro, come sediari di una immaginaria cadira de su santu. Insomma, le civiltà finiscono, le tradizioni resistono. Mutano, ma resistono.
E i Sardana? Che c’entrano costoro?
Basta ricordare in che modo viene descritto il ritorno di Ulisse dall’isola dei Feaci-Sardinia, a come i popoli, dagli Etruschi agli Apulii, chiedessero un re ai Shardana affinché li governassero. Chiaramente erano Pandelas Alluttas, extraterrestri o discendenti diretti.
Ma oggi?
Oggi è come ieri, direbbe mio nonno, se fosse ancora vivo e ascoltasse i telegiornali perché leggere non sapeva: per esempio, i lavoratori di Pomigliano, come Pandelas, sono Alluttas o Istudadas? E quelli siciliani? E quelli sardi?
Di sicuro è Pandela Allutta colui che istituzionalmente difende i lavoratori, ma intanto predice che comunque chineranno la testa.
Mio nonno direbbe che il sindacato italiano si è oggi ridotto a un’enorme confraternita intenta a trasportare a spalla tutte le cadiras di tutti i santi del mondo.
E qui la mia Pandela, che se mai fosse stata Allutta, ha sempre vissuto cun pampa tremi-tremi, con fiamma tremolante, ha preso il vento.
Segnali di linguaggio nelle Soprintendenze
Non è vero che le Soprintendenze archeologiche della Sardegna non parlano di quanto fanno. Ieri, il soprintendente per Sassari e Nuoro, Bruno Massabò ha convocato i giornalisti per una conferenza stampa. Quando l'ho saputo ho sentito un sottile brivido: vuoi vedere che si vuole rispondere alla lettera mandata, a nome di un migliaio di persone, sabato alle 12.40, per sollecitarlo a una risposta ai quesiti sulle tracce di scrittura in alcuni reperti nuragici?
Così non era, ma va bene lo stesso perché il dr Massabò ha consegnato alla stampa, e quindi a tutti, noi una serie di importanti informazioni. Il soprintendente – riferisce La Nuova - ha annunciato che il museo Sanna di Sassari, dopo venti anni di attesa, entro la fine dell’anno avrà una rinnovata sezione etnografica, nella quale saranno esposti circa 30 splendidi costumi sardi. Entro l’anno sarà allestita anche una sui ritrovamenti archeologici più recenti. Nel padiglione Clemente del museo sarà sistemato un percorso espositivo con i più significativi reperti emersi tra restauri e ritrovamenti, per la maggior parte mai esposti.
Che sia un modo come un altro per dire che presto potremo vedere la Barchetta fittile di Teti e il Coccio di Pozzomaggiore, di cui nella petizione si chiede conto? Certo, della barchetta non si ha notizia da quindici anni e quindi ritrovamento recente non è, ma nessuno starà lì a sottilizzare. Basta che la si possa vedere e, chi sa?, anche studiare.
Un'altra notizia ha dato il soprintendente: se la politica del governo sui beni culturali continua così com'è, nel giro di pochi anni, messi in pensione gli attuali addetti, la Soprintendenza si troverà senza personale. Gli attuali funzionari si avviano quasi tutti verso i sessanta anni e, bloccato com'è oggi il turnover e le nuove assunzioni, gli uffici resteranno vuoti. Come non essere solidali con questa denuncia? Una ragione di più - ma questo non lo si può pretendere da un funzionario dello Stato - perché sia la Regione sarda ad occuparsi dei suoi beni archeologici e culturali in genere. Naturalmente, le nostre classi dirigenti dovrebbero capire che la cultura può produrre economia. E la cosa, oggi come oggi, mi pare leggermente in salita. Comunque si può sempre sperare che, messe alle strette, politica, forze sociali e intellettualità riescano a svegliarsi. Come si dice: s'apretu ponet su betzu a cùrrere.
Così non era, ma va bene lo stesso perché il dr Massabò ha consegnato alla stampa, e quindi a tutti, noi una serie di importanti informazioni. Il soprintendente – riferisce La Nuova - ha annunciato che il museo Sanna di Sassari, dopo venti anni di attesa, entro la fine dell’anno avrà una rinnovata sezione etnografica, nella quale saranno esposti circa 30 splendidi costumi sardi. Entro l’anno sarà allestita anche una sui ritrovamenti archeologici più recenti. Nel padiglione Clemente del museo sarà sistemato un percorso espositivo con i più significativi reperti emersi tra restauri e ritrovamenti, per la maggior parte mai esposti.
Che sia un modo come un altro per dire che presto potremo vedere la Barchetta fittile di Teti e il Coccio di Pozzomaggiore, di cui nella petizione si chiede conto? Certo, della barchetta non si ha notizia da quindici anni e quindi ritrovamento recente non è, ma nessuno starà lì a sottilizzare. Basta che la si possa vedere e, chi sa?, anche studiare.
Un'altra notizia ha dato il soprintendente: se la politica del governo sui beni culturali continua così com'è, nel giro di pochi anni, messi in pensione gli attuali addetti, la Soprintendenza si troverà senza personale. Gli attuali funzionari si avviano quasi tutti verso i sessanta anni e, bloccato com'è oggi il turnover e le nuove assunzioni, gli uffici resteranno vuoti. Come non essere solidali con questa denuncia? Una ragione di più - ma questo non lo si può pretendere da un funzionario dello Stato - perché sia la Regione sarda ad occuparsi dei suoi beni archeologici e culturali in genere. Naturalmente, le nostre classi dirigenti dovrebbero capire che la cultura può produrre economia. E la cosa, oggi come oggi, mi pare leggermente in salita. Comunque si può sempre sperare che, messe alle strette, politica, forze sociali e intellettualità riescano a svegliarsi. Come si dice: s'apretu ponet su betzu a cùrrere.
venerdì 18 giugno 2010
Il bue Api di "Santa Caterina"
di Psj
Seguo da molto vicino l'archeologia ormai da trenta anni e più. E seguo con interesse anche il suo Blog da un certo tempo. Pertanto credo di poter dire di aver acquisito certe conoscenze indispensabili per poter dire anche la mia opinione a proposito di un certo manufatto rinvenuto in località S. Caterina di Pitinuri di Cuglieri. Per ora posso dire solo che si trova, del tutto trascurato e non compreso nella sua per me sicura importanza, in un terreno di proprietà privata.
Si tratta di un grosso masso in basalto, in origine ben squadrato, delle dimensioni di mt 0,50 di larghezza, di cm 34 di altezza e di spessore cm 36 (v.figura). La parte più importante, non ruvida ma resa levigata, perché interessata da una raffigurazione, si mostra alquanto obliqua, con una accentuazione dell'obliquità nella parte superiore per circa 20 cm. Detta obliquità si nota ugualmente per 20 cm nella parte inferiore.
La raffigurazione mostra in rilievo assai accentuato nella parte inferiore e profondamente incisa in quella superiore un' evidente protome (testa) bovina con le corna che vanno a formare un disco o cerchio del diametro di cm 22 (cioè di un palmo o tre pollici). Il muso della protome misura ugualmente, dall'alto verso il basso, 22 cm (un palmo o tre pollici).
Sul lato destro della protome scolpita, si nota, ben pronunciato e profondamente inciso, un segno con curvatura a sinistra che parte dal corno sinistro e che, praticamente, va a terminare alla fine della superficie levigata. E' da escludere, data la durezza notevole della pietra basaltica, un segno dovuto al caso o all'attività dell'acqua o del vento.
Ora a me sembra legittimo affermare che il motivo richiama proprio il Bue Api o solare di ispirazione egiziana o palestinese-siriana di cui in questo Blog ha parlato recentemente il prof. Gigi Sanna in un apposito articolo con alcune tabelle e dovizia di argomentazione. Cos'altro altrimenti? Il segno poi a destra mi sembra richiamare quelli alfabetici a semicerchio, con curvatura a sinistra, che vengono indicati, sempre dal prof. Sanna, come 'determinativi' nella barchetta in ceramica di Teti e di Pozzomaggiore.
Cosa questa che porterebbe, secondo me, a dire che la pietra presenta una vera e propria scritta formata da due motivi pittografici toro-sole fusi in un solo segno e da un segno lineare.
Il masso in basalto potrebbe provenire, come quello di Losa di Abbasanta, da un nuraghe o da un pozzo sacro.
Con questo siamo, spero di non sbagliare, Gigi Sanna, al sessantottesimo reperto iscritto. Conto che vorrai dire la tua su questa roccia incisa dal vento, dall'acqua e chissà quale intemperie. Il Sessantotto, anche fuori della mistica ribelle che fu certamente mia e forse di qualche altro lettore, è comunque una svolta. Che lo sia anche questo 68° bel reperto? L'amico che si cela dietro quell'acronimo è persona seria e neppure per hobby maneggia scalpelli né è padrone del vento e della pioggia. Questa sua scoperta merita che quanti hanno in mano il bandolo della matassa archeoogica si muovano, si interessino, dicano qualcosa. Anche gli altri 67 lo meritano.
Ieri la petizione "Abbiamo diritto a sapere: la Soprintendenza parli" con le sue oltre mille firme è stata spedita a tutti i senatori e deputati eletti in Sardegna, ai capigruppo in Consiglio regionale, al presidente della Regione e alla due soprintendenze sarde. Nessun cenno di risposta, naturalmente: la cosa è complessa e ha bisogno di tempo per essere apprezzata in tutti i suoi risvolti. Spero non si voglia far finta di nulla, soprattutto ora che il 68 è scoccato. [zfp]
Che grandi orecchie hai, Grande Fratello
Certo è difficile credere – ma nessuno di noi, penso, ha la possibilità di verificarlo – che sette milioni e mezzo di cittadini italiani siano stati intercettati. Più che difficile, inquietante. Ci consegnerebbe a uno scenario da Germania est ai tempi di Ulbricht. Il presidente del Consiglio ha dato questa cifra, è legittimo pensare che ci abbia messo un'enfasi particolare e che sia legittimo fare la tara.
Il problema è che il responsabile del sindacato dei magistrati non è riuscito affatto a tranquillizzarci, dicendo che i telefoni sotto controllo sono “solo” 130 mila. Se faccio i conti dei miei contatti telefonici, e sono parco nel trattenere rapporti telefonici, chi intercettasse me, avrebbe la possibilità di intercettare centinaia di incauti. Lo stesso capiterebbe a me se, altrettanto incautamente, dovessi telefonare a una persona che, per fatti suoi, è controllata.
C'è gente ancora più parca di me, facendo e ricevendo, come dicono le statistiche, dalle cinquanta alle sessanta telefonate. Un po' di matematica me la ricordo ancora, e se ognuno di quei 130 mila intercettati facesse e ricevesse 50/60 telefonate, saremmo a qualcosa fra sei milioni e mezzo e sette milioni e ottocento mila persone cadute nella rete del Grande fratello. Un tecnico, intervistato da giornali, minimizza, dicendo che no, che si tratta solo di un milione di persone. Caspita: un cittadino italiano ogni sessanta intercettato? A me pare una enormità: se questa è la regola, senza saperlo io ho dieci probabilità di scambiare una telefonata con un intercettato e di finire nel mucchio.
A volte mi capita di essere, parlando, meno controllato di quanto lo sia scrivendo. E mi scappano espressioni (“mi' che ti ho mandato quella roba”, “a quello lì gli tirerei il collo”) che, lo ammetto, insospettirebbero chiunque le ascoltasse. So bene che il gentile pm che, puta caso, dovesse ascoltare simili conversazioni, o perché l'intercettato sono io o perché ad esserlo è un mio interlocutore, baderebbe soprattutto al tono della voce. Ma se, puta caso, si dimenticasse di espungere questa banale conversazione dal fascicolo riguardante le sue indagini, e se, ancora puta caso, la trascrizione finisse in qualche redazione – capita – il tono scherzoso mica si coglierebbe. Si coglierebbe solo che io ho mandato “roba” a qualcuno e che sono uno con istinti omicidi.
Delle due una O, sapendo come pare vadano le cose, mi scrivo prima le cose da dire al telefono o mi rassegno a vivere in uno Stato che ha poco da invidiare alla Polonia di Gomulka. Scherzo, naturalmente, ma una sottile inquietudine mi fa ricordare una celebre battuta: è normale lo Stato in cui uno che sente bussare alla porta, pensa che sia il lattaio.
Dopo le opposte rigidità, le parti in causa si stanno lanciando in questi giorni segnali di fumo. Salvo gli irriducibili amanti dello Stato etico (“Vogliamo essere intercettati” si legge in Facebook e “Chi non ha niente da nascondere non teme le intercettazioni”) e salvo la Casta che invoca il suo diritto all'arbitrio e chi se ne frega della libertà degli altri, c'è negli altri la sensazione che uno o sette milioni di intercettati rappresentano una patologia da curare. Quei segnali sono roba da scribi che, come ci dice Gigi Sanna, non è facilmente interpretabile dai comuni mortali. L'importante è che il fumo si veda sollevarsi e che sotto ci sia della carne al fuoco. Perché a tutti, credo, piacerebbe vivere in una società di persone che non siano costrette a pesare le parole, cazzeggiando con gli amici. Del resto, mi pare di ricordare, la legge delle leggi dice che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.
Il problema è che il responsabile del sindacato dei magistrati non è riuscito affatto a tranquillizzarci, dicendo che i telefoni sotto controllo sono “solo” 130 mila. Se faccio i conti dei miei contatti telefonici, e sono parco nel trattenere rapporti telefonici, chi intercettasse me, avrebbe la possibilità di intercettare centinaia di incauti. Lo stesso capiterebbe a me se, altrettanto incautamente, dovessi telefonare a una persona che, per fatti suoi, è controllata.
C'è gente ancora più parca di me, facendo e ricevendo, come dicono le statistiche, dalle cinquanta alle sessanta telefonate. Un po' di matematica me la ricordo ancora, e se ognuno di quei 130 mila intercettati facesse e ricevesse 50/60 telefonate, saremmo a qualcosa fra sei milioni e mezzo e sette milioni e ottocento mila persone cadute nella rete del Grande fratello. Un tecnico, intervistato da giornali, minimizza, dicendo che no, che si tratta solo di un milione di persone. Caspita: un cittadino italiano ogni sessanta intercettato? A me pare una enormità: se questa è la regola, senza saperlo io ho dieci probabilità di scambiare una telefonata con un intercettato e di finire nel mucchio.
A volte mi capita di essere, parlando, meno controllato di quanto lo sia scrivendo. E mi scappano espressioni (“mi' che ti ho mandato quella roba”, “a quello lì gli tirerei il collo”) che, lo ammetto, insospettirebbero chiunque le ascoltasse. So bene che il gentile pm che, puta caso, dovesse ascoltare simili conversazioni, o perché l'intercettato sono io o perché ad esserlo è un mio interlocutore, baderebbe soprattutto al tono della voce. Ma se, puta caso, si dimenticasse di espungere questa banale conversazione dal fascicolo riguardante le sue indagini, e se, ancora puta caso, la trascrizione finisse in qualche redazione – capita – il tono scherzoso mica si coglierebbe. Si coglierebbe solo che io ho mandato “roba” a qualcuno e che sono uno con istinti omicidi.
Delle due una O, sapendo come pare vadano le cose, mi scrivo prima le cose da dire al telefono o mi rassegno a vivere in uno Stato che ha poco da invidiare alla Polonia di Gomulka. Scherzo, naturalmente, ma una sottile inquietudine mi fa ricordare una celebre battuta: è normale lo Stato in cui uno che sente bussare alla porta, pensa che sia il lattaio.
Dopo le opposte rigidità, le parti in causa si stanno lanciando in questi giorni segnali di fumo. Salvo gli irriducibili amanti dello Stato etico (“Vogliamo essere intercettati” si legge in Facebook e “Chi non ha niente da nascondere non teme le intercettazioni”) e salvo la Casta che invoca il suo diritto all'arbitrio e chi se ne frega della libertà degli altri, c'è negli altri la sensazione che uno o sette milioni di intercettati rappresentano una patologia da curare. Quei segnali sono roba da scribi che, come ci dice Gigi Sanna, non è facilmente interpretabile dai comuni mortali. L'importante è che il fumo si veda sollevarsi e che sotto ci sia della carne al fuoco. Perché a tutti, credo, piacerebbe vivere in una società di persone che non siano costrette a pesare le parole, cazzeggiando con gli amici. Del resto, mi pare di ricordare, la legge delle leggi dice che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.
giovedì 17 giugno 2010
Solstizio d'estate a Isili
“Solstizio d’Estate 2010” è il titolo della manifestazione organizzata ad Isili dalla Associazione Culturale Agorà Nuragica di Isili. Sabato nella Sala conferenze del centro sociale (di fronte al Banco di Sardegna, alle 9.45 comincia Roberto Barbieri con la conferenza “Da una stele della Sardegna Neolitica uno spicchio di cielo impresso nella pietra”; seguirà alle Mauro Peppino Zedda che parlerà del “Significato astronomico della ziggurat di Monte d’Accoddi”.
Si riprende alle 16.30, quando Mauro Peppino Zedda parlerà su “Il significato astronomico dei nuraghi; alle 17.30 Arnold Lebeuf: terrà una relazione si “Il significato astronomico del Pozzo di Santa Cristina di Paulilatino”. Alle 20.15 appuntamento a nuraghe Nueddas per osservare il Sole che tramonta dietro nuraghe Is Paras e l'indomani, domenica, alle 5.15 ci si recherà a nuraghe Nueddas per osservare il Sole che sorge dietro nuraghe Longu.
Nella foto: la tholos del Nuraghe Is Paras di Isili
Si riprende alle 16.30, quando Mauro Peppino Zedda parlerà su “Il significato astronomico dei nuraghi; alle 17.30 Arnold Lebeuf: terrà una relazione si “Il significato astronomico del Pozzo di Santa Cristina di Paulilatino”. Alle 20.15 appuntamento a nuraghe Nueddas per osservare il Sole che tramonta dietro nuraghe Is Paras e l'indomani, domenica, alle 5.15 ci si recherà a nuraghe Nueddas per osservare il Sole che sorge dietro nuraghe Longu.
Nella foto: la tholos del Nuraghe Is Paras di Isili
mercoledì 16 giugno 2010
Micenei in Sardegna o viceversa?
di Giuseppe Mura
Il rinvenimento di ceramiche micenee in diversi siti nuragici ha indotto gli studiosi ad ipotizzare la presenza dei Greci in Sardegna nell’Età del Bronzo. Parlo non a caso di semplice “presenza”, perché lo studio sui contesti archeologici interessati escludono l’esistenza di veri e propri insediamenti: al di là della ceramica mancano le tipiche prove di una frequentazione straniera. Questo non esclude, naturalmente, le presenze dovute a circostanze accidentali, come quelle causate dai fortunali marini.
Inoltre, gli stessi scavi, mostrano un dato indiscutibile: la ceramica in questione risulta introdotta in Sardegna prima della vera espansione in Occidente dei Micenei; tanto è vero che gli esperti in materia, per giustificarne la presenza nell’Isola, ipotizzano l’esistenza di una fase di “precolonizzazione”.
Tuttavia, una fase di questo tipo, presuppone l’esistenza di un vettore capace di navigare nel mare d’Occidente nel periodo in cui i Greci non si erano ancora spinti verso il loro tramonto del sole; escludendo, quindi, i Micenei, i Fenici del Canaan perché ancora in fase di formazione e gli Egizi che mai si spinsero nel “Mare Nostrum”, il vettore in questione poteva essere solo quello nuragico.
Le fonti risalenti al XIV secolo a.C. segnalano la presenza dei Nuragici in Egitto e negli stati del Vicino Oriente nella veste di Sherden, presentandoli come guerrieri famosi per l’abilità nel combattimento con la grande spada di bronzo. Nello stesso torno di secoli gli stessi Nuragici, nella veste di pirati Cari-Fenici, si insediano nelle Cicladi durante il regno del cretese Minosse. Successivamente questi pirati si trasferiscono dalle isole dell’Egeo nella regione anatolica della Caria.
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Il rinvenimento di ceramiche micenee in diversi siti nuragici ha indotto gli studiosi ad ipotizzare la presenza dei Greci in Sardegna nell’Età del Bronzo. Parlo non a caso di semplice “presenza”, perché lo studio sui contesti archeologici interessati escludono l’esistenza di veri e propri insediamenti: al di là della ceramica mancano le tipiche prove di una frequentazione straniera. Questo non esclude, naturalmente, le presenze dovute a circostanze accidentali, come quelle causate dai fortunali marini.
Inoltre, gli stessi scavi, mostrano un dato indiscutibile: la ceramica in questione risulta introdotta in Sardegna prima della vera espansione in Occidente dei Micenei; tanto è vero che gli esperti in materia, per giustificarne la presenza nell’Isola, ipotizzano l’esistenza di una fase di “precolonizzazione”.
Tuttavia, una fase di questo tipo, presuppone l’esistenza di un vettore capace di navigare nel mare d’Occidente nel periodo in cui i Greci non si erano ancora spinti verso il loro tramonto del sole; escludendo, quindi, i Micenei, i Fenici del Canaan perché ancora in fase di formazione e gli Egizi che mai si spinsero nel “Mare Nostrum”, il vettore in questione poteva essere solo quello nuragico.
Le fonti risalenti al XIV secolo a.C. segnalano la presenza dei Nuragici in Egitto e negli stati del Vicino Oriente nella veste di Sherden, presentandoli come guerrieri famosi per l’abilità nel combattimento con la grande spada di bronzo. Nello stesso torno di secoli gli stessi Nuragici, nella veste di pirati Cari-Fenici, si insediano nelle Cicladi durante il regno del cretese Minosse. Successivamente questi pirati si trasferiscono dalle isole dell’Egeo nella regione anatolica della Caria.
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martedì 15 giugno 2010
Perché la Sardegna ha bassa propensione a crescere e svilupparsi?
Le cause della bassa propensione alla crescita e allo sviluppo della Sardegna
di Gianfranco Sabattini
1. E’ vero che i sardi sono sempre stati vittime della loro autoctonia? E’ difficile rispondere a questo interrogativo. Al riguardo, il Professor Francesco Cesare Casula, in Breve storia della scrittura in Sardegna (1978), sostiene che il rifiuto del nuovo dei sardi è da ricondursi alla mancata affermazione di uno spirito autonomistico nelle élite culturali, politiche ed imprenditoriali che di tempo in tempo hanno rappresentato la Sardegna a livello politico e sociale. E la mancata affermazione dello spirito autonomistico deriverebbe da due eventi negativi che avrebbero determinato una traumatica interruzione, sia della crescita materiale, che dello sviluppo culturale e politico della Sardegna.
Il trauma avrebbe tratto origine da una sconfitta e da una perdita. La prima sarebbe derivata dalla sconfitta dei Giudicati e, segnatamente da quello di Arborea, da parte dei catalano-aragonesi; mentre la seconda sarebbe derivata, non tanto dalla rinuncia nel 1847, a seguito della perfetta fusione con gli altri Stati della federazione del Regno Sardo-Piemontese, all’autonomia del Regno di Sardegna, che era valsa ad assicurare ai sardi una individualità storica, ma dalla perdita, nel 1861, del Regno stesso. Ciò perché quest’ultimo sarebbe stato sacrificato sull’altare dell’Unità d’Italia.
Due eventi, la sconfitta giudicale e la perdita del Regno, che avrebbero determinato una automatica interruzione della crescita e dello sviluppo dei sardi e una deviazione della loro evoluzione verso esiti disfunzionali. Fatto, quest’ultimo, che sarebbe servito a differenziare la Sardegna dalle altre regioni italiane sino ad originare, dopo il 1946, il “pacchetto rivendicativo” con il quale i sardi avrebbero dovuto riparare ai danni subiti a seguito della sconfitta dei Giudicati e dalla perdita del Regno. Com’è noto, la rivendicazione è stata tacitata con la concessione all’Isola dello Statuto speciale e di trasferimenti straordinari di risorse da parte dello Stato italiano. Tuttavia, malgrado l’ottenimento dello Statuto speciale e dei trasferimenti straordinari, la Sardegna è rimasta al “palo”. Perché?
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di Gianfranco Sabattini
1. E’ vero che i sardi sono sempre stati vittime della loro autoctonia? E’ difficile rispondere a questo interrogativo. Al riguardo, il Professor Francesco Cesare Casula, in Breve storia della scrittura in Sardegna (1978), sostiene che il rifiuto del nuovo dei sardi è da ricondursi alla mancata affermazione di uno spirito autonomistico nelle élite culturali, politiche ed imprenditoriali che di tempo in tempo hanno rappresentato la Sardegna a livello politico e sociale. E la mancata affermazione dello spirito autonomistico deriverebbe da due eventi negativi che avrebbero determinato una traumatica interruzione, sia della crescita materiale, che dello sviluppo culturale e politico della Sardegna.
Il trauma avrebbe tratto origine da una sconfitta e da una perdita. La prima sarebbe derivata dalla sconfitta dei Giudicati e, segnatamente da quello di Arborea, da parte dei catalano-aragonesi; mentre la seconda sarebbe derivata, non tanto dalla rinuncia nel 1847, a seguito della perfetta fusione con gli altri Stati della federazione del Regno Sardo-Piemontese, all’autonomia del Regno di Sardegna, che era valsa ad assicurare ai sardi una individualità storica, ma dalla perdita, nel 1861, del Regno stesso. Ciò perché quest’ultimo sarebbe stato sacrificato sull’altare dell’Unità d’Italia.
Due eventi, la sconfitta giudicale e la perdita del Regno, che avrebbero determinato una automatica interruzione della crescita e dello sviluppo dei sardi e una deviazione della loro evoluzione verso esiti disfunzionali. Fatto, quest’ultimo, che sarebbe servito a differenziare la Sardegna dalle altre regioni italiane sino ad originare, dopo il 1946, il “pacchetto rivendicativo” con il quale i sardi avrebbero dovuto riparare ai danni subiti a seguito della sconfitta dei Giudicati e dalla perdita del Regno. Com’è noto, la rivendicazione è stata tacitata con la concessione all’Isola dello Statuto speciale e di trasferimenti straordinari di risorse da parte dello Stato italiano. Tuttavia, malgrado l’ottenimento dello Statuto speciale e dei trasferimenti straordinari, la Sardegna è rimasta al “palo”. Perché?
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E sos barones finirono a pèes in terra
Chi ne ha interesse, potrà leggere sui giornali e sentire in Tv le analisi in politichese delle amministrative sarde di ieri. Il centrosinistra che ha vinto perdendo una sua provincia e la terza città dell'Isola, il centrodestra che si lecca le ferite e trova consolazione nell'abnorme astensionismo, perché se no... Sono le debolezze della politica e noi, donne e uomini di mondo, siamo gente comprensiva. Mi pare più interessante vedere le cose con pensieri prepolitici, capaci ancora di tener conto di concetti come “giusto”. Secondo quanto è scritto nella relazione della Commissione Medici sul banditismo “il sardo ha uno spiccato senso del giusto”.
Ho la sensazione che questo senso del giusto abbia guidato una parte decisiva dei pochissimi sardi (meno di uno su tre) che sono andati a votare. Può anche essere una sensazione non del tutto fondata, ma una cosa è certa: l'arroganza delle nomenclature è stata sonoramente punita a Cagliari, a Porto Torres, in Ogliatra, a Iglesias, mentre è stata premiata a Nuoro la marcia indietro rispetto a una pregressa prepotenza. L'arroganza reiterata è tutta in casa del centrodestra, la resipiscenza in casa del centrosinistra. Ricordo in sommi capi che cosa sia successo.
A Cagliari, un capo corrente del Pdl ha imposto un “suo” uomo, Farris, come candidato alla Presidenza della Provincia, sicuro che chiunque, profittando dell'onda lunga berlusconiana, avrebbe sconfitto il candidato del centrosinistra, Milia. Questi, fra l'altro, era nei guai con il suo schieramento, diviso in tronconi. Ci voleva molta fantasia per perdere una partita vinta. Farris, che aveva vinto il primo turno (46% contro 33%), ha rifiutato qualsiasi accordo con la lista Massidda, sua concorrente di centrodestra. È così successo che Fortza paris e persino Msi abbiano deciso di votare Milia e Milia ha vinto.
A Nuoro, il candidato presidente, Deriu, perso il primo turno per la presenza di una forte lista anch'essa di centrosinistra, ha tentato l'accordo con i dissidenti, riuscendo a stringerlo con una parte di essi. Quel che è bastato per fargli ottenere una vittoria, risicatissima soprattutto in rapporto al 60% con cui aveva vinto cinque anni fa, ma ha vinto. A Porto Torres, l'arroganza dell'apparatnik del Pd ha fatto nascere una lista civica, anch'essa di centrosinistra. Questa ha vinto e il Pd ha perso. Ad Iglesias, la locale nomenclatura Pdl, certa di vincere, ha deciso di fare a meno di una componente del centrodestra, quella dei Riformatori sardi: meno si è a spartire il potere, meglio è. Gli esclusi hanno formato una lista, appoggiata anche da esponenti di rilievo del Pdl, ottenendo un buon risultato. Anche qui, rifiuto di qualsiasi accordo. E il candidato di centrodestra, un ex senatore, con la vittoria già in tasca ha preso la sberla.
Non sono sicuro al cento per cento che questa logica da “Barones sa tirannia, procurade de moderare” abbia mosso gli elettori sardi. Però mi piacerebbe molto che così fosse.
Ho la sensazione che questo senso del giusto abbia guidato una parte decisiva dei pochissimi sardi (meno di uno su tre) che sono andati a votare. Può anche essere una sensazione non del tutto fondata, ma una cosa è certa: l'arroganza delle nomenclature è stata sonoramente punita a Cagliari, a Porto Torres, in Ogliatra, a Iglesias, mentre è stata premiata a Nuoro la marcia indietro rispetto a una pregressa prepotenza. L'arroganza reiterata è tutta in casa del centrodestra, la resipiscenza in casa del centrosinistra. Ricordo in sommi capi che cosa sia successo.
A Cagliari, un capo corrente del Pdl ha imposto un “suo” uomo, Farris, come candidato alla Presidenza della Provincia, sicuro che chiunque, profittando dell'onda lunga berlusconiana, avrebbe sconfitto il candidato del centrosinistra, Milia. Questi, fra l'altro, era nei guai con il suo schieramento, diviso in tronconi. Ci voleva molta fantasia per perdere una partita vinta. Farris, che aveva vinto il primo turno (46% contro 33%), ha rifiutato qualsiasi accordo con la lista Massidda, sua concorrente di centrodestra. È così successo che Fortza paris e persino Msi abbiano deciso di votare Milia e Milia ha vinto.
A Nuoro, il candidato presidente, Deriu, perso il primo turno per la presenza di una forte lista anch'essa di centrosinistra, ha tentato l'accordo con i dissidenti, riuscendo a stringerlo con una parte di essi. Quel che è bastato per fargli ottenere una vittoria, risicatissima soprattutto in rapporto al 60% con cui aveva vinto cinque anni fa, ma ha vinto. A Porto Torres, l'arroganza dell'apparatnik del Pd ha fatto nascere una lista civica, anch'essa di centrosinistra. Questa ha vinto e il Pd ha perso. Ad Iglesias, la locale nomenclatura Pdl, certa di vincere, ha deciso di fare a meno di una componente del centrodestra, quella dei Riformatori sardi: meno si è a spartire il potere, meglio è. Gli esclusi hanno formato una lista, appoggiata anche da esponenti di rilievo del Pdl, ottenendo un buon risultato. Anche qui, rifiuto di qualsiasi accordo. E il candidato di centrodestra, un ex senatore, con la vittoria già in tasca ha preso la sberla.
Non sono sicuro al cento per cento che questa logica da “Barones sa tirannia, procurade de moderare” abbia mosso gli elettori sardi. Però mi piacerebbe molto che così fosse.
lunedì 14 giugno 2010
Belgio e Zaia, due mal di pancia per i nazionalisti italiani
La retorica nazionalista italiana si è svegliata stamattina con due mal di pancia, entrambi dolorosi, anche se di diversa entità. Il primo è la vittoria nelle Fiandre degli indipendentisti della Nuova alleanza fiamminga che diventa il maggior partito del Belgio. Alla Camera avranno 27 seggio contro i 26 dei socialisti, vittoriosi in Vallonia, anche se il PS Vallone e quello delle Fiandre si uniranno in un solo gruppo. La politica in quel che oggi si chiama Belgio è, comunque, complicata quasi quanto quella italiana, e non sono tanto sadico da dare altri numeri.
Il secondo mal di pancia è tutto interno alla Repubblica italiana e riguarda l'Inno di Mameli, inno provvisorio dal 1946, cui in quel del Veneto sarebbe stato preferito il Va pensiero di Verdi. L'autore di tanto crimine sarebbe il presidente della Regione, Aia, il quale ha smentito di averlo commesso. Che Aia dica il vero o menta, il problema sta nella levata di scudi che si è avuta alla notizia che qualcuno abbia osato tanto. Improvvidamente, chi ha con la Costituzione frequentazioni assai meno assidue delle mie con teoria della relatività, l'ha tirata in ballo, per indignarsi contro una violazione tanto grave. Si dà il fatto che la Costituzione non parla di inno né di Mameli né di altri, a differenza, per esempio, di quella francese che al suo articolo 2 sancisce: “L'hymne national est la Marseillese”. L'inno italiano è “provvisorio” e si dice per consuetudine che sia “nazionale”.
Ma mi sa che il mal di pancia più consistente sia quello provocato in Belgio dalla vittoria degli indipendentisti moderati della N-Va accompagnata dal consenso agli indipendentisti radicali di Wlaams Belang (subito esorcizzati in Tv e su molti media italiani come di estrema destra, così non ci si pensa più). Della Lega, partito maggioritario nel nord ricco italiano, si sa tutto, anche del suo poco amore per un inno che parla di “schiava di Roma”; quel che è successo nel nord ricco del Belgio è sceso sulla gran parte dei lettori e dei telespettatori italiani come un fulmine a ciel sereno, anche se i media esteri da anni si occupano della difficile convivenza tra fiamminghi e francofoni.
Qui, il più delle volte (pochissime, per altro) che i media si sono occupati del Belgio, l'hanno buttata in folclore, irridendo ai fiamminghi che si rifiutano di parlare in francese coi francofoni valloni e alla loro curiosa abitudine di interloquire con loro in inglese. La stessa curiosa abitudine che i tedeschi hanno di voler parlare la loro lingua e gli italiani la propria: stranezze di questo mondo alla rovescia. Il Belgio è, notoriamente, una creatura artificiale delle due grandi potenze, Francia e Gran Bretagna che ne decisero la nascita intorno al 1830. Allora, le grandi potenze avevano di questi ghiribizzi e mettere insieme a forza olandesi e francesi non sembrò cosa disdicevole. Così come, trent'anni dopo, sembrò normale a Napoleone III aiutare la Sardegna a provocare l'Austria per trovare un pretesto all'invasione del Lombardo-Veneto, allora austriaco in base a trattati internazionali.
Fiandre e Vallonia hanno faticosamente convissuto, tentando anche la strada del federalismo, formalmente in atto, ma sostanzialmente fallito. La meridionale Vallonia, ricca quando il carbone tirava l'economia, vive un processo di impoverimento; le nordiche Fiandre, un tempo più povere sono oggi più prospere. Nella prima, per dire, la disoccupazione è quasi al 17 per cento; nelle Fiandre non arriva al 7 per cento. Sullo sfondo, ma in realtà in prima evidenza, la questione linguistica ancora irrisolta e, pensa gran parte dei fiamminghi, irrisolvibile se non con un franco e consensuale divorzio. Un po' come successe nel 1993 fra Cechi e Slovacchia, una volta unite nella Cecoslovacchia, e oggi entrambi stati dell'Unione europea.
Una vicenda, come si può capire, che se pur rimossa dall'informazione è di pessimo esempio per la Repubblica italiana e provoca il grande mal di pancia per la retorica nazionalista italiana. Cechi e slovacchi, che uniti per forza non si potevano sopportare, ora che vivono separati, sono diventati amici per la pelle. E in Europa collaborano senza problemi. Questo, naturalmente, non vuol dire che necessariamente il Belgio seguirà la strada della Cecoslovacchia, ma solo che è possibile e che se capiterà, al più in Europa ci sarà un re in meno e due presidenti di repubblica in più.
Nella foto: Bart de Wever, il vincitore delle elezioni in Belgio
Il secondo mal di pancia è tutto interno alla Repubblica italiana e riguarda l'Inno di Mameli, inno provvisorio dal 1946, cui in quel del Veneto sarebbe stato preferito il Va pensiero di Verdi. L'autore di tanto crimine sarebbe il presidente della Regione, Aia, il quale ha smentito di averlo commesso. Che Aia dica il vero o menta, il problema sta nella levata di scudi che si è avuta alla notizia che qualcuno abbia osato tanto. Improvvidamente, chi ha con la Costituzione frequentazioni assai meno assidue delle mie con teoria della relatività, l'ha tirata in ballo, per indignarsi contro una violazione tanto grave. Si dà il fatto che la Costituzione non parla di inno né di Mameli né di altri, a differenza, per esempio, di quella francese che al suo articolo 2 sancisce: “L'hymne national est la Marseillese”. L'inno italiano è “provvisorio” e si dice per consuetudine che sia “nazionale”.
Ma mi sa che il mal di pancia più consistente sia quello provocato in Belgio dalla vittoria degli indipendentisti moderati della N-Va accompagnata dal consenso agli indipendentisti radicali di Wlaams Belang (subito esorcizzati in Tv e su molti media italiani come di estrema destra, così non ci si pensa più). Della Lega, partito maggioritario nel nord ricco italiano, si sa tutto, anche del suo poco amore per un inno che parla di “schiava di Roma”; quel che è successo nel nord ricco del Belgio è sceso sulla gran parte dei lettori e dei telespettatori italiani come un fulmine a ciel sereno, anche se i media esteri da anni si occupano della difficile convivenza tra fiamminghi e francofoni.
Qui, il più delle volte (pochissime, per altro) che i media si sono occupati del Belgio, l'hanno buttata in folclore, irridendo ai fiamminghi che si rifiutano di parlare in francese coi francofoni valloni e alla loro curiosa abitudine di interloquire con loro in inglese. La stessa curiosa abitudine che i tedeschi hanno di voler parlare la loro lingua e gli italiani la propria: stranezze di questo mondo alla rovescia. Il Belgio è, notoriamente, una creatura artificiale delle due grandi potenze, Francia e Gran Bretagna che ne decisero la nascita intorno al 1830. Allora, le grandi potenze avevano di questi ghiribizzi e mettere insieme a forza olandesi e francesi non sembrò cosa disdicevole. Così come, trent'anni dopo, sembrò normale a Napoleone III aiutare la Sardegna a provocare l'Austria per trovare un pretesto all'invasione del Lombardo-Veneto, allora austriaco in base a trattati internazionali.
Fiandre e Vallonia hanno faticosamente convissuto, tentando anche la strada del federalismo, formalmente in atto, ma sostanzialmente fallito. La meridionale Vallonia, ricca quando il carbone tirava l'economia, vive un processo di impoverimento; le nordiche Fiandre, un tempo più povere sono oggi più prospere. Nella prima, per dire, la disoccupazione è quasi al 17 per cento; nelle Fiandre non arriva al 7 per cento. Sullo sfondo, ma in realtà in prima evidenza, la questione linguistica ancora irrisolta e, pensa gran parte dei fiamminghi, irrisolvibile se non con un franco e consensuale divorzio. Un po' come successe nel 1993 fra Cechi e Slovacchia, una volta unite nella Cecoslovacchia, e oggi entrambi stati dell'Unione europea.
Una vicenda, come si può capire, che se pur rimossa dall'informazione è di pessimo esempio per la Repubblica italiana e provoca il grande mal di pancia per la retorica nazionalista italiana. Cechi e slovacchi, che uniti per forza non si potevano sopportare, ora che vivono separati, sono diventati amici per la pelle. E in Europa collaborano senza problemi. Questo, naturalmente, non vuol dire che necessariamente il Belgio seguirà la strada della Cecoslovacchia, ma solo che è possibile e che se capiterà, al più in Europa ci sarà un re in meno e due presidenti di repubblica in più.
Nella foto: Bart de Wever, il vincitore delle elezioni in Belgio
Affreschi di S Naniu: un disastro
Ieri ero nel Santuario di Santu Naniu, aperto per la festa che ogni anno ricorda agli inizi di giugno il martirio di Zìliu e Naniu (Egidio e Anania), fatti giustiziare da queste parti nel 310. Qui sono (mal)conservati gli affreschi di cui ho parlato qualche giorno fa. Non li vedevo da due anni. Nel frattempo, hanno subito un drammatico degrado. L'umidità ha continuato a scolorirli e a farne cadere dei pezzi. Ho realizzato un piccolo video in cui la gioiosa festa degli orgolesi ristora solo in minima parte lo sconcerto per l'incredibile insensibilità di chi potendo agire se ne sta con le mani in mano.
Nella foto: le due statue lignee di Santu Zìliu e Santu Naniu che si è deciso di restaurare.
Nella foto: le due statue lignee di Santu Zìliu e Santu Naniu che si è deciso di restaurare.
sabato 12 giugno 2010
Insisto: ci sarebbe da salvare questi affreschi
Sono passati due anni da quando questo blog denunciò il pietoso stato di alcuni affreschi dipinti in epoca non conosciuta nel santuario campestre di Santu Naniu, nelle campagne di Orgosolo. Nel frattempo, le belle pitture hanno subito un ulteriore degrado, come è naturale. Né l'amministrazione comunale uscente né la Chiesa locale si sono date da fare per salvarle e farle restaurare, benché i fedeli si siano detti disposti a fare una raccolta di fondi. A questo si aggiunge il fatto che il Ministero dei beni culturali ha quasi completamente smantellato la Soprintendenza alle belle arti, lasciano i sopravvissuti funzionari senza il becco di un quattrino.
Altri affreschi stanno facendo la loro comparsa sotto l'intonaco della chiesa dell'Assunta e con amore ma senza perizia fedeli stanno scrostando, con il rischio di rovinare irreparabilmente i dipinti. A quel che sono riuscito a sapere, ci sarebbero appena i soldi per restaurare le due statue di Santu Naniu e di Santu Ziliu ospitate nel santuario. Il ministro Bondi ha cancellato del tutto la Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici della Sardegna, dopo appena un anno di vita e la situazione è per questi affreschi, ma non solo, disastrosa.
Le lobbies del cinema, degli enti culturali e degli intellettuali che vi girano attorno hanno fatto tanto rumore da costringere il governo a far marcia indietro rispetto ai tagli previsti.
La cultura sarda, capace di sacri furori in appoggio alle lobbies continentali, è assolutamente incapace – o, peggio, disinteressata – di sollevare casino per evitare il degrado del nostro patrimonio artistico. E allora? C'è da sperare, forse, nella nuova amministrazione comunale di Orgosolo. Se i nuovi amministratori fossero interessati a salvaguardare il notevole patrimonio artistico del paese, potrebbero chiedere alla Soprintendenza di farsi avanti con la Regione prospettando il grave stato di degrado degli affreschi. Immagino che la Soprintendenza sarebbe in grado di contribuire all'opera mettendo a disposizione le sue competenze in materia di progettazione e di direzione dei lavori.
Nelle foto: Parte degli affreschi e le due statue dei santi Naniu e Ziliu
Altri affreschi stanno facendo la loro comparsa sotto l'intonaco della chiesa dell'Assunta e con amore ma senza perizia fedeli stanno scrostando, con il rischio di rovinare irreparabilmente i dipinti. A quel che sono riuscito a sapere, ci sarebbero appena i soldi per restaurare le due statue di Santu Naniu e di Santu Ziliu ospitate nel santuario. Il ministro Bondi ha cancellato del tutto la Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici della Sardegna, dopo appena un anno di vita e la situazione è per questi affreschi, ma non solo, disastrosa.
Le lobbies del cinema, degli enti culturali e degli intellettuali che vi girano attorno hanno fatto tanto rumore da costringere il governo a far marcia indietro rispetto ai tagli previsti.
La cultura sarda, capace di sacri furori in appoggio alle lobbies continentali, è assolutamente incapace – o, peggio, disinteressata – di sollevare casino per evitare il degrado del nostro patrimonio artistico. E allora? C'è da sperare, forse, nella nuova amministrazione comunale di Orgosolo. Se i nuovi amministratori fossero interessati a salvaguardare il notevole patrimonio artistico del paese, potrebbero chiedere alla Soprintendenza di farsi avanti con la Regione prospettando il grave stato di degrado degli affreschi. Immagino che la Soprintendenza sarebbe in grado di contribuire all'opera mettendo a disposizione le sue competenze in materia di progettazione e di direzione dei lavori.
Nelle foto: Parte degli affreschi e le due statue dei santi Naniu e Ziliu
venerdì 11 giugno 2010
Si stappi
Ci siamo rifatti il look, attendendo il sig. 500.000
Per festeggiare il mezzomilionesimo contatto previsto per la serata, ci siamo cambiati d'abito. Sì, è pretenzioso, ma lo siamo sempre stati, da quando nel febbraio dello scorso anno abbiamo cominciato a contarci.
giovedì 10 giugno 2010
Oddio, Berlusconi è d'accordo con me. Che fare?
Buon Dio, ho scoperto dai giornali stamattina che Silvio Berlusconi è d'accordo con me: l'attuale Costituzione italiana è frutto di un compromesso fra i cattolici e i comunisti e, soprattutto, va cambiata. Il fatto che non ci frequentiamo e neppure ci conosciamo rende la cosa ancora più imbarazzante. Che faccio, cambio idea perché la pensa come me? O gli mando a dire che la cambi lui?
Prima di ricevere eventuali opposte indignazioni, di quelli che ne sono stati sempre convinti, ma ora molto meno perché lo ha detto lui, e di quelli che guai a chi la tocca, la Costituzione perché è come la moglie di Cesare, vorrei però dire qualcosa a mia difesa.
Lascio da parte le parole di Bersani (che s'ha da fa' per fare opposizione) secondo cui se ad Esso non piace la Costituzione non deve far altro che andare a casa. Almeno lui articola un pensiero, a differenza di quell'altro che occupa l'aula “sorda e grigia” del Senato. Non so se c'era anche lui, Bersani, intendo, ma nel 2001 il suo compagno di partito, D'Alema, fece cambiare non uno o due articoli ma, addirittura, l'intero Titolo V, diciannove articoli se non ho contato male. Questa enorme riforma fu approvata con soli 4 voti di maggioranza. E D'Alema, a cui la Costituzione esistente non piaceva, non andò a casa.
Il fatto è che, fin da quando ho l'età della ragione, ho sempre saputo che la Costituzione è frutto di un compromesso tra le due grandi culture politiche esistenti, la comunista e la democristiana. Che l'articolo primo, quello della Repubblica fondata sul lavoro, è un tributo pagato alla Costituzione dell'Urss; che l'ispirazione capitalista della Dc trovò pochissimo spazio; che l'articolo 7 (quello del Concordato) passò solo grazie al genio politico di Togliatti. E che quella impalcatura, finita la guerra fredda, defunti i partiti grandi protagonisti di quella temperie politica, non poteva durare troppo a lungo.
Tanto è vero che la cambiò il governo D'Alema, tentò di cambiarla un governo Berlusconi, ci è riuscita l'attuale compagine con una gattopardesca riforma “federale”, si tentò di cambiare l'articolo 12 (uno di quelli che dettano “principi fondamentali” e dunque intoccabili, sono depositate in Parlamento proposte di riforma dello Statuto sardo che, dal basso, ridisegnano la Costituzione. L'elenco di quanti ritengono superata l'attuale Carta è più lungo di quanto comunemente si pensi.
Per non parlare del fatto che movimenti e partiti indipendentisti dal Nord al Sud alle Isole si propongono non di modificare la Costituzione ma di farne diverse secondo i territori interessati.
Naturalmente, non sono così ingenuo da pensare che la levata di scudi delle Vestali della Costituzione (non quelle sincere e convinte ma solo le furbesche) sia qualcosa di più serio di un attacco di antiberlusconismo. So di seri costituzionalisti e di altro non meno seri studiosi della Carta che dicono, se volete in maniera meno grezza, le cose dette dal Cavaliere. Basta fare un giro in Internet, per rendersene conto. C'è uno scontro fra chi ritiene che la Costituzione possa essere radicalmente riformata, facendo salvi i principi che sono del resto sanciti dalla Carta dell'Onu, e chi, invece, teme che aprendo uno spiraglio possa essere a rischio tutto l'impianto costruito più di sessanta anni fa, in un'era geologica diversa, quando l'appartenenza dell'Italia all'Occidente non si dava così per scontata. Il “mercato” che oggi regola la vita di gran parte del mondo e certamente l'Unione europea non ha cittadinanza nella Carta non certo perché nel dopoguerra se ne ignorasse l'esistenza, ma solo perché essa aveva o avrebbe potuto avere il socialismo nel suo orizzonte.
“L'Urss è uno stato socialista degli operai e dei contadini” diceva il primo articolo della Costituzione sovietica approvata un anno prima di quella italiana. Un formulazione seducente per la Costituente, presieduta dal comunista Umberto Terracini; lo è anche oggi? Quel nostro “fondata sul lavoro” è davvero qualcosa di più di un'enfasi, visto che mai lo Stato italiano ha potuto assicurare il lavoro a tutti come invece l'Urss fece? No, non cambierò idea. Ma continuerò a guardare in cagnesco Berlusconi che se ne è impadronito.
Prima di ricevere eventuali opposte indignazioni, di quelli che ne sono stati sempre convinti, ma ora molto meno perché lo ha detto lui, e di quelli che guai a chi la tocca, la Costituzione perché è come la moglie di Cesare, vorrei però dire qualcosa a mia difesa.
Lascio da parte le parole di Bersani (che s'ha da fa' per fare opposizione) secondo cui se ad Esso non piace la Costituzione non deve far altro che andare a casa. Almeno lui articola un pensiero, a differenza di quell'altro che occupa l'aula “sorda e grigia” del Senato. Non so se c'era anche lui, Bersani, intendo, ma nel 2001 il suo compagno di partito, D'Alema, fece cambiare non uno o due articoli ma, addirittura, l'intero Titolo V, diciannove articoli se non ho contato male. Questa enorme riforma fu approvata con soli 4 voti di maggioranza. E D'Alema, a cui la Costituzione esistente non piaceva, non andò a casa.
Il fatto è che, fin da quando ho l'età della ragione, ho sempre saputo che la Costituzione è frutto di un compromesso tra le due grandi culture politiche esistenti, la comunista e la democristiana. Che l'articolo primo, quello della Repubblica fondata sul lavoro, è un tributo pagato alla Costituzione dell'Urss; che l'ispirazione capitalista della Dc trovò pochissimo spazio; che l'articolo 7 (quello del Concordato) passò solo grazie al genio politico di Togliatti. E che quella impalcatura, finita la guerra fredda, defunti i partiti grandi protagonisti di quella temperie politica, non poteva durare troppo a lungo.
Tanto è vero che la cambiò il governo D'Alema, tentò di cambiarla un governo Berlusconi, ci è riuscita l'attuale compagine con una gattopardesca riforma “federale”, si tentò di cambiare l'articolo 12 (uno di quelli che dettano “principi fondamentali” e dunque intoccabili, sono depositate in Parlamento proposte di riforma dello Statuto sardo che, dal basso, ridisegnano la Costituzione. L'elenco di quanti ritengono superata l'attuale Carta è più lungo di quanto comunemente si pensi.
Per non parlare del fatto che movimenti e partiti indipendentisti dal Nord al Sud alle Isole si propongono non di modificare la Costituzione ma di farne diverse secondo i territori interessati.
Naturalmente, non sono così ingenuo da pensare che la levata di scudi delle Vestali della Costituzione (non quelle sincere e convinte ma solo le furbesche) sia qualcosa di più serio di un attacco di antiberlusconismo. So di seri costituzionalisti e di altro non meno seri studiosi della Carta che dicono, se volete in maniera meno grezza, le cose dette dal Cavaliere. Basta fare un giro in Internet, per rendersene conto. C'è uno scontro fra chi ritiene che la Costituzione possa essere radicalmente riformata, facendo salvi i principi che sono del resto sanciti dalla Carta dell'Onu, e chi, invece, teme che aprendo uno spiraglio possa essere a rischio tutto l'impianto costruito più di sessanta anni fa, in un'era geologica diversa, quando l'appartenenza dell'Italia all'Occidente non si dava così per scontata. Il “mercato” che oggi regola la vita di gran parte del mondo e certamente l'Unione europea non ha cittadinanza nella Carta non certo perché nel dopoguerra se ne ignorasse l'esistenza, ma solo perché essa aveva o avrebbe potuto avere il socialismo nel suo orizzonte.
“L'Urss è uno stato socialista degli operai e dei contadini” diceva il primo articolo della Costituzione sovietica approvata un anno prima di quella italiana. Un formulazione seducente per la Costituente, presieduta dal comunista Umberto Terracini; lo è anche oggi? Quel nostro “fondata sul lavoro” è davvero qualcosa di più di un'enfasi, visto che mai lo Stato italiano ha potuto assicurare il lavoro a tutti come invece l'Urss fece? No, non cambierò idea. Ma continuerò a guardare in cagnesco Berlusconi che se ne è impadronito.
mercoledì 9 giugno 2010
E questa specie di Amenophis che roba è?
Il mio amico Nino Fancello, autore della foto, chiede a chi ne può sapere che cosa è questa scultura, alta 6/7 metri fotografata nei pressi di San Giovanni Suergiu. Un gioco d'ombre, il ricordino di un immigrato extracomunitario, la celebrazione di un sovrano conosciuto durante una crociera nel Mediterraneo o cosa? Chi ne sa qualcosa, è pregato di farsi vivo.
PS - Per gustarne i dettagli, ingrandite la foto
La spedizione a Mille
Novecento trentasei persone hanno firmato fino ad ora la petizione "Abbiamo diritto a sapere: la Soprintendenza parli" (318 su Firmiamo.it e 618 in Facebook). Gli organizzatori sono dell'idea di attendere la fine dei ballottaggi di domenica e lunedì per spedire questa dichiarazione ai presidenti del Consiglio regionale e della Regione, ai Gruppi consiliari, ai parlamentari eletti in Sardegna, ai responsabili delle Soprintendenze archeologiche sarde con l'invito ad intervenire affinché sia data una risposta ai quesiti che poniamo. Speriamo che alle 936 si aggiungano almeno altre 64 firme, per portarle a mille. Una cifra simbolica, va da sé, perché anche un solo contribuente ha diritto ad avere risposta a legittime domande.
Se non lo hai già fatto, firma anche tu, scegliendo Firmiamo.it o Facebook, dove puoi leggere anche il testo della petizione: è una buona causa.
Se non lo hai già fatto, firma anche tu, scegliendo Firmiamo.it o Facebook, dove puoi leggere anche il testo della petizione: è una buona causa.