“Il sardo sarà ciò che saranno i sardi”: la banalità, nobilitata dal calco fatto su un’altra banalità manzoniana, dà pretesto al professor Eduardo Blasco Ferrer per scagliarsi contro sa Limba sarda comuna. E, già che c’è, per portare acqua alla sua tesi stravagante, secondo cui non di lingua sarda c’è da parlare ma di due lingue sarde: il Campidanese e il Logudorese. Dunque, il sardo sarà ciò che saranno i sardi, ma guai a loro se dovessero osare considerare che sa limba sarda comuna sia una cosa buona.
Ne va del lavoro del professore catalano e dei suoi epigoni cattedratici che nella non compatibilità delle “due lingue” trovano un buon motivo per non insegnare in sardo e il sardo nelle università. La stessa scusa prodotta da una parte consistente della politica, a sinistra ma non solo, per la sua decennale battaglia contro l’insegnamento del sardo a scuola e contro una legge che tutelasse la lingua sarda. À la guerre comme à la guerre, insomma.
Cosa sostiene Blasco Ferrer? Molte cose e cunfuse, come, per esempio, la sua disponibilità ad accettare uno standard se si scegliesse “una varietà delle aree di confine” fra il “campidanese” e il “logudorese”. La Lsc questo è ed è dimostrato da uno studio scientifico e privo di passioni, essendo fatto da un computer. Lo studio non piace a Blasco Ferrer? Non è dato sapere, visto che neppure lo contesta. O semplicemente lo ignora, come succede a volte per le cose fastidiose e inopportunamente tese a mettere in discussione il matrimonio fra un individuo e le proprie sicurezze.
Fondamentalmente, il professore catalano sostiene che uno standard linguistico è il frutto di un processo storico. Bene. Ma questo processo avrà pur avuto un inizio, no? Credo per raccorciare i tempi e non per confondere le idee, Blasco Ferrer dice, per esempio, che “già nel secolo XI, il pellegrinaggio verso la tomba di Saint-Denis nell’Île de France contribuì a riconoscere nel francien il futuro dialetto vincente, proclamato secoli più tardi dalla Rivoluzione”. Accidenti che sintesi, poveri occitani e poveri albigesi. E nella sua Catalogna come andò? Qui fu all’inizio del Novecento che cominciò “la codificazione a norma di riferimento”, sa limba cadalana comuna, insomma.
Dunque ci fu un inizio di processo. In Francia fu un processo denso di lutti, massacri, prepotenze, prevaricazioni. In Catalogna, per fortuna, no; fu denso di sospensioni autoritarie dell’uso del catalano, di incomprensioni, di battaglie culturali e in fine della constatazione che il “catalano è ciò che i catalani sono”.
Anche in Sardegna il processo è cominciato. Con questo di diverso: che la Regione sarda non ha armate per imporre, come il potere francese ebbe, lo standard francien né vescovi pronti a scatenare in Occitania la caccia agli occitani albigesi né la ghigliottina dei giacobini che prima disperdono i girondini filo-federalisti e poi i portatori sani dell’occitanismo. Qui da noi è cominciato un processo che – questo lo capisco – è un incubo per quanti un giorno o l’alto dovranno rassegnarsi a lavorare per la lingua sarda e non contro di essa. Un incubo che – quando si dice il transfert – Blasco Ferrer pensa popoli non le sue, ma le notti di mezza estate dei sardi.
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