Si sono lette, in questi giorni di guerra in Georgia, finissime analisi delle ragioni economiche, strategiche, geopolitiche, energetiche del conflitto. Qualcuno ha messo in campo persino la psicologia di massa dei due contendenti, il senso di accerchiamento che provano i russi di fronte alla minaccia di allargamento della Nato, l’incoscienza dei georgiani nello sfidare il potentissimo vicino. Avete mai letto delle ragioni dell’Ossezia e dell’Abkazia? A me non è capitato, se non per il paragone che si fa fra l’indipendenza del Kossovo voluta dagli Usa e la “secessione” delle due regioni russofone sponsorizzata dalla Russia.
Con approssimazione che contiene in sé il pre-giudizio, Ossezia e Abkazia sono definite “repubbliche separatiste”, parti cioè di uno stato unitario da esse stesse riconosciuto che, ad un certo punto, da questo stato intendono separarsi. L’uso del lessico non è mai operazione neutrale: la volontà dei kosovari era “separatista” per serbi, russi e per i nostalgici (anche italiani, anche sardi) di una divisione statica del mondo, lì il pessimo imperialismo, qui il socialismo più o meno realizzato, ma comunque meglio dell’americanismo; quella stessa volontà era “indipendentista” per il composito schieramento pro-americano.
È, o dovrebbe essere, abbastanza ovvio che l’indipendenza di un popolo trova nel diritto internazionale (a cominciare dal Patto dell’Onu sui diritti politici e civili del ‘66) un riferimento giuridico solido. Diversa è la condizione di genti che vogliano separarsi dallo stato a cui appartengano storicamente. Ed è altrettanto chiaro, o dovrebbe esserlo, che quando i giornali, i politici e gli analisti parlano di separatismo osseto o abkazo, lo fanno per segnalare il loro giudizio negativo. Gli stessi che furono favorevoli alla indipendenza del Kosovo, sono oggi a favore della “integrità territoriale” della Georgia.
Specularmente, i russi che furono, e sono, decisamente contrari ai “separatisti” kosovari, sono favorevoli agli “indipendentisti” osseti e abkaki. La pratica dei due standard e delle due morali, insomma, è molto più diffusa di quanto la divisione del mondo fra “liberaldemocratici”, “democratici autoritari” e franche dittature porterebbe a pensare. Del resto, la stessa Georgia è emblema di questa doppia morale: conquistò l’indipendenza dalla Unione sovietica, si rifiuta di riconoscere ad ossezi e abkazi il diritto di fare ciò che essa fece.
Il filosofo e scrittore francese Jean Paul Sartre pronosticò moltissimi anni fa che quella delle etnie e delle nazionalità (e quindi dei nuovi stati) si avviava ad essere questione centrale nel mondo futuro. Le Olimpiadi di questi giorni danno conto di come il vecchio Sartre avesse visto giusto: nel 1960 gli stati rappresentati a Roma erano 83 (mancavano solo Cina e Corea del nord), oggi sono 204, quasi il triplo di appena 48 anni fa.
Nasce da qui, consapevolmente per alcuni, inconsciamente e per crassa ignoranza per altri, l’ostilità al vedere le cose per come sono. I consapevoli, del resto, avvertirono alla vigilia della indipendenza del Kosovo: concedendo l’indipendenza alla regione balcanica si aprirà un vaso di Pandora. La previsione è naturalmente giusta. Ma è nell’ordine delle cose, dal punto di vista del diritto internazionale, che i popoli aspirino ad autodeterminarsi o, come sancisce il Patto dell’Onu, a decidere “liberamente del loro statuto politico” e a perseguire “liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. Illegale è opporsi a questo diritto, non esercitarlo.
Del resto, è forse cambiato qualcosa in peggio, in questi 48 anni, da un mondo ripartito in 85 stati al mondo ripartito in 204 stati? No evidentemente. Bene o male 119 popoli hanno imparato o stanno imparando a contare sulle proprie forze. La logica e la legge internazionale portano al riconoscimento del diritto di tutti i popoli ad autodeterminarsi e, se vogliono, a rendersi indipendenti. La Forza, ora della Russia, ora degli Usa, ora della Cina, no. Ma con la comprensione dei fenomeni, questo non c’entra. La “integrità territoriale degli stati” non è un valore in sé, un totem da adorare, è solo uno degli elementi in gioco, insieme al “diritto dei popoli all’autodeterminazione”.
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