sabato 4 agosto 2012

Caro Pili (e cari altri 17), la specialità non è solo fatto economico

Mauro Pili, deputato del Pdl, rispondendo ieri ad un mio articolo mi rimprovera di aver voluto sollevare “una polemica pretestuosa”. Io ne criticavo il disinteresse mostrato nei confronti della discriminazione del sardo contenuta in una norma del decreto di Revisione della spesa in discussione alla Camera, decreto contro il quale era intervenuto duramente, annunciando il suo voto contrario. Intanto sono grato a Pili per la sua decisione di dissentire pubblicamente; se questo del deputato sardo fosse non un’eccezione, ma una consuetudine dei rappresentanti del popolo sardo di interloquire con i rappresentati, credo che la politica ne godrebbe in reputazione, oggi decisamente bassa.
Una cosa, Pili ha ragione di rimproverarmi: aver liquidato troppo spicciamente il suo intervento: rimedio pubblicandone gran parte e riconoscendo che in esso si rintraccia una forte passione autonomista, non rarissima nei discorsi dei nostri parlamentari ma certo non consueta. E però non cambia la mia convinzione che non basti la professione di autonomismo per difendere la nostra specialità, se questa passione è il frutto dell’economicismo, del ritenere, cioè, che essa ci spetti solo perché più poveri e isolani. “La specialità della Sardegna” afferma Pili “si può misurare: se è cento la base di calcolo delle infrastrutture dell'Italia, sulle strade la Sardegna ha quarantacinque, sulle ferrovie ha quindici, sull'energia trentacinque, cioè esiste un divario sostanziale che non può essere richiamato da nessuno come una richiesta di favore, di solidarietà o di cortesia”.
Tutto vero e tutto misurabile, ma questo non spiega perché la Sardegna sia regione a Statuto speciale e la Calabria, per dire, no. E perché sia speciale così come lo è il Sud Tirolo che certo non soffre dello stesso gap di sviluppo. Un collega e amico di partito di Pili, l’ex ministro Renato Brunetta, ha spesso pontificato sulla necessità di abolire le regioni speciali con un argomento improntato all’economicismo: la specialità fu “concessa” per ragioni di emergenze economiche e fiscali, terminate le quali addio alla necessità di autonomie differenziate. Questa logica, che mi pare la stessa di Pili (e di moltissimi dei suoi 17 colleghi), porta inevitabilmente a considerare che la nostra specialità non avrà ragione di essere, il giorno – può capitare anche questo – il benessere economico dovesse investire la Sardegna. O avrà motivi meno validi o più fondati in  ragione della sua decrescita o crescita economica.
Non so se coscientemente o se solo per vaghe intuizioni nazionaliste granditaliane, il mondo neo-giacobino mediatico e i burocrati nostalgici del napoleonismo si stanno da tempo muovendo per abbattere le vere ragioni delle specialità: l’essere esse il luogo di minoranze linguistiche e, dunque, di culture e concezioni del mondo diverse da quelle della Nazione dominante. L’essere, cioè, nazioni a parte. Per ora, bersagli dell’aggressione sono le lingue più deboli in quanto non protette da eserciti e diplomazie statali: il sardo, il friulano e l’occitano, lingua questa – che volete gliene freghi al Corriere della sera, a La Repubblica, a Libero, a La Stampa, a L’Espresso? – che per gran parte della storia dell’Esagono francese fu antagonista della vincente langue d’oil.
Altre volte ho scritto su questo blog che il Governo Monti tende a far passare come misure di contenimento della spesa pubblica l’abrogazione delle garanzie costituzionali per le lingue di minoranza che non siano tutelate da trattati internazionali. C’è qualcuno che può seriamente credere che ridurre sardo, friulano e occitano a dialetti privi di tutela sia una misura economicamente valutabile? L’urgenza di rimodulare la spesa pubblica è indubitabile e su questa necessità si può ragionare, con la disposizione a tagliare tutto ciò che è spreco, foraggiamento di privilegi, clientelismo; ma nessuno può pensare di pagare tali riduzioni con il taglio netto della democrazia. Pena la confessione da parte dello statalismo che questo Stato nazionale ha fallito, non regge più e che al più presto va almeno smontato. Cosa di cui, per il poco che conta, sono profondamente convinto. L’attacco alle Regioni speciali, salvo la Sicilia (la cui autonomia è frutto del timore del separatismo e delle sue ragioni) tutte sedi di minoranze linguistiche, è “motivato” dalla necessità di contenerne le spese. Che sono, comunque, affari interni e soggette al controllo e alle eventuali censure dei loro cittadini, non dei professionisti dell’anti-casta e di incolti giornalisti che definiscono spreco l’impiego di denaro per tutelare lingue che, fosse per loro e per lo Stato, potrebbero utilmente estinguersi. Forse sarà difficile persino ai tecnici di Monti violentare la Costituzione fino all’abrogazione delle Regioni speciali, anche se con la Sicilia i tentativi sono arrivati a buon punto. Non sarà molto difficile, minare il nucleo della specialità della Sardegna e del Friuli abrogando la tutela delle loro lingue, se non entrerà in testa ai parlamentari espressi da queste due nazionalità che quello della discriminazione linguistica è solo un grimaldello.

1 commento:

elio ha detto...

Come mai si ha paura che l’Europa dell’Euro o l’Euro dell’Europa (simul stabunt simul cadent, ca funti sa mantessi cosa)) venga giù rovinosamente? A uno, ignorante come me, in questi frangenti di debiti impossibili da onorare e, quindi, di tassi e di spread impazziti, sembrerebbe più onesto si dicesse: “Non ci pensiamo più, pensiamo ad altro.” o, perlomeno, “Forse abbiamo sbagliato, ricominciamo da capo” Il non farlo, porta a pensare che, su quella bella pensata, qualcuno ci abbia guadagnato e ancora ci guadagni.

Detto in due parole: come si può pensare di mettere su una costruzione tanto mastodontica e artificiale, tutta fatta da teste d’uovo negli ambulacri (come ambulacri non sono niente male: pensate a Bruxelles, a Strasburgo o, per rimanere più vicino, alla Bocconi) delle università e delle grandi burocrazie, senza tenere minimamente in conto la carne e il sangue? Solo mettendo a tacere la voce e della carne e del sangue si può pensare di farcela.

Non ce la facciamo? Come no? Basta fare un po’ di sacrifici. Taglia qua, taglia là, visto che ci siamo vediamo di tagliare un pochino di voci. Non solo di bilancio ma voci, come quelle dal sen fuggite, nel senso di parlate. Se i suoni sono troppi, è facile che siano discordanti e nella cacofonia gli ottimati non possono lavorare. Iniziamo da quelle lingue che non contano niente, dicendo magari che non esistono, e in fretta in fretta faremo in Europa un solo popolo e un solo altare.

Sarà per questo mio modo di vedere le cose, che rimango perplesso a sentire tutti quei nostri autonomisti, se non separatisti, che vedono in questa Europa un porto sicuro in cui riporre le speranze di libertà.

Nell’Italia di cavalieri, nani e ballerine, potremmo sempre pensare di sfangarcela ma, nell’Europa del marco, pardon, dell’euro, la cosa sarebbe impossibile. Sempre che non pensino di venderci a qualche sceicco arabo, magari al sultano che passò per Cagliari, qualche tempo fa, per shopping.