lunedì 30 aprile 2012

Die de sa Sardigna, alle origini dell'autonomia

di Francesco Casula

“Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant
 a nai de nosus, de totus! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi? Nossi,
Nossi po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus
interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”

Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” lo scrittore cagliaritano Piero Marcialis fa dire così a Francesco Leccis, - beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi - rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino.
Ed è questo - a mio parere - il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata
dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: i sardi, dopo secoli di rassegnazione, di
abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di
inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio identitario, di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, pro essere meres in domo nostra. E cacciano i Piemontesi e savoiardi e nizzardi, rappresentano il dominio colonialista e con esso l’arroganza, la prepotenza e il potere.
Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo.

A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni,
Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi alla stregua, appunto, di una congiura.
“Simile interpretazione offusca   - a parere di Sotgiu - le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura - cito sempre lo storico sardo - potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”.
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile
testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona.
Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» - la chiama proprio così - contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo - continua - con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
Sempre sulla cacciata dei Piemontesi scrive Giovanni Lilliu: ““Fu un momento esaltante - ha scritto Giovanni Lilliu - fu un’azione, poi bloccata dalla reazione“realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo
una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Infatti in quello scontro politico e sociale, specie nel triennio rivoluzionario 1793-1796 che vedrà protagonista principale Giovanni Maria Angioy si afferma l’idea di nazione sarda e di popolo sardo. O meglio: I Sardi, prendono coscienza di sé e del proprio essere “popolo” e “nazione” prima quando si battono con successo contro l’invasione francese poi quando cacciano i piemontesi da Cagliari con il “Vespro Sardo” del 28 Aprile 1794.
A proposito della lotta contro i francesi è stato scritto che si è trattato semplicemente di una Vandea: di una semplice lotta del popolo strumentalizzato dal clero e dai nobili contro i rivoluzionari francesi.  
Certo, la presenza di una componente politica ed ideologica di tipo “vandeano” non può essere negata. Tuttavia una valutazione così unilaterale – che intende dilatare oltre ogni limite il mito della fedeltà dei Sardi alla Corona – non rende assolutamente conto del complesso intreccio di fattori e motivazioni che stanno alla base della risposta data ai Francesi dalle popolazioni, dalle truppe miliziane e da chi si mise alla loro testa. A smentire queste interpretazioni contribuiscono innanzitutto una serie di fatti, in parte oscuri, che si svolsero durante le prime settimane di quell’anno. La tesi infatti di un Novantatre come Vandea, crolla se solo si guarda ai protagonisti della difesa della Sardegna. Fra coloro che provvidero alla riorganizzazione della macchina militare si distinse una atipica figura di aristocratico come Francesco Maria Asquer, visconte di Flumini, in seguito sospettato di giacobinismo e di filofrancesismo. Il governo alcuni anni dopo lo esiliò e lo perseguitò in modo da decretare praticamente la sua rovina economica.
Nel 1793 lo stesso Giovanni Maria Angioy fece giungere da Bono un nerbo di cavalleria miliziana che poi mantenne a sue spese a Cagliari. Nella capitale accorse anche Pietro Muroni con un manipolo di 37 uomini, il cui soggiorno di tre mesi fu pagato dal fratello Francesco, parroco di Semestene, che di lì a poco sarà in prima fila nel movimento antifeudale. Tutti questi personaggi più che da un profondo odio antifrancese furono spinte a battersi e a ben figurare da una prospettiva di elevamento sociale, dall’esigenza di onori e prebende da chiedere come ricompensa dei servigi prestati. Ma soprattutto occorre ricordare la ri-comparsa di un profondo sentimento nazionale sardo che si delinea in quei momenti e lo sarà ancor più di lì a poco, come una corposa realtà concreta ed operante.
Fu un vantaggio per la Sardegna? Difficile dire se fu un bene per la Sardegna: molti storici infatti ritengono che sarebbe stata più utile per l’Isola una vittoria delle armi francesi, perché avrebbe messo fine al feudalesimo inserendola nel più vasto circuito e flusso economico dell’Europa. Fatto sta che l’invasione francese fu respinta per merito – su questo non vi è alcun dubbio neppure da parte degli storici filopiemontesi- sopratttutto dei Sardi che – cito Natale Sanna – “dopo secoli di inerzia e di supina quiescenza, finalmente consapevoli del proprio valore e la classe dirigente fiera della sua forza e dei risultati ottenuti, credettero giunto il momento di chiedere al re il riconoscimento dei propri diritti, tanto più che a Torino, mentre si concedevano in abbondanza promozioni ed onori ai piemontesi si ignorava l’elemento sardo”.
Infatti – ricorda Girolamo Sotgiu –  “seguendo le indicazioni del vice re Balbiano, le onorificenze militari accordate dal Ministero della Guerra furono tutte concesse, con evidente ingiustizia, alle truppe regolari, che avevano dato così misera prova di sé…e alla Sardegna che aveva conservato alla dinastia il regno concesse ben povera cosa: 24 doti di 60 scudi da distribuire ogni anno per sorteggio tra le zitelle povere e l’istituzione di 4 posti gratuiti nel Collegio dei nobili di Cagliari…”. E altre simili modeste concessioni.
Di qui la decisione del Parlamento sardo composto dai cosiddetti stamenti: –  quello militare (o feudale), quello ecclesiastico e quello reale, (formato dai rappresentanti delle città) –  riuniti nel Marzo-Aprile del 1793 di inviare un’ambasceria a Torino per presentare al sovrano 5 precise richieste: 1) il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, interrotta nel 1699; 2) la conferma di tutte le leggi e privilegi, anche di quelli caduti in disuso o soppressi pian piano dai Savoia nonostante il trattato di Londra; 3) la concessione ai “nazionali” sardi” di tutte le cariche ad eccezione di quella vicereale e di alcuni vescovadi; 4) la creazione di un Consiglio di stato, come organo da consultare in tutti gli affari che prima dipendevano dall’arbitrio del solo segretario; 5) la creazione in Torino di un Ministero distinto per gli affari della Sardegna. Si trattava, come ognuno può vedere di richieste tutt’altro che rivoluzionarie: non mettevano in discussione l’anacronistico assetto sociale né le feudali strutture economiche, anzi, in qualche modo tendevano a cristallizzarle. Esse miravano però a un obiettivo che si scontrava frontalmente con la politica sabauda: volevano ottenere una più ampia autonomia, sottraendo il regno alla completa soggezione piemontese, per affidare l’amministrazione agli stessi Sardi.
La risposta del re Vittorio Amedeo non fu solo negativa su tutto il fronte delle domande ma fu persino umiliante per i sei membri della delegazione sarda (Monsignor Aymeric di Laconi e il canonico Pietro Maria Sisternes de Oblites per lo stamento ecclesiastico; gli avvocati Antonio Sircana a Antonio Maria Ramasso per lo stamento reale; Girolamo Pitzolo e Domenico Simon per lo stamento militare).
 Il Pitzolo scelto dalla delegazione per illustrare le richieste, non fu neppure ricevuto dal sovrano né ascoltato dalla Commissione incaricata di esaminare il documento….Non solo: il ministro Graneri neppure si curò di comunicare alla delegazione ancora in Torino la decisione negativa del re, trasmettendola direttamente al vice re a Cagliari. Commenta opportunamente il Carta-Raspi: ”Ai Sardi non era concesso più di quanto ricevevano dall’iniziativa sovrana, cioè nulla”. E ancora: “Ora più che mai l’avversione contro i Piemontesi non è più solo questione di impieghi e cariche. I Sardi volevano liberarsene non solo perché essi simboleggiavano un dominio anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’Isola, ma pure e forse soprattutto per esserne ormai insopportabile l’alterigia e la sprezzante invadenza”.
Ancor più emerge l’idea identitaria, di nazione e popolo sardo nella cacciata dei Piemontesi prime e con Giovanni Maria Angioy dopo.
Al di là delle cause che stanno alla base di questo evento e della stessa dinamica di quelle giornate, fu indubbiamente l’esasperazione dell’atteggiamento colonialistico, quasi razzista dei ministri regi (ampiamente documentato da uno storico in questo verso insospettabile come il Manno) la classica goccia che fece traboccare il vaso. Il senso di appartenenza identitaria e di “nazione sarda” sarà fortemente presente persino nella stampa e negli scritti di quel periodo di grandi cambiamenti, per esempio  
v Nel Giornale di Sardegna,  un foglio periodico organo ed espressione del gruppo più dinamico e politicamente più progressivo degli Stamenti sardi.
v Ancor più forte sarà il sentimento di “popolo sardo” e di “comunità nazionale” nell’Inno di Francesco Ignazio Mannu Su patriotu sardu a sos feudatarios;
v nell’Achille della sarda liberazione (*);
v nella lettera Sentimenti del vero patriota sardo che non adula in cui l’istanza dell’abolizione del giogo feudale si coniuga con un atteggiamento anticoloniale e un sentimento nazionale sardo.
v Ma soprattutto tale “Identità sarda” emerge nel Memoriale al Direttorio di Giovanni Maria Angioy (Agosto 1799) in cui l’Alternos cerca di cogliere e di interpretare i tratti distintivi, peculiari e originali della individualità sarda, cominciando dal quadro geografico e morfologico, proseguendo con cenni sugli usi, i costumi, le tradizioni, i rapporti comunitari, l’atteggiamento dei sardi verso gli stranieri fino a quello che si potrebbe chiamare un abbozzo “del carattere nazionale” isolano. In queste pagine non c’è solo il risentimento anticoloniale o il rimpianto per gli antichi diritti e i privilegi acquisiti dalla Sardegna nel corso dei secoli: il punto di approdo dell’esperienza e della riflessione angioyna nell’esilio parigino è ormai una repubblica sarda sia pure (come del resto era inevitabile) sotto il protettorato della Grande Nation.


(*) L'Achille della sarda liberazione è un opuscolo redatto durante la rivolta antipiemontese e antifeudale del 1793-96. Esso in brevi enunciati articolati in quattro para­grafi (1. Analisi della sarda costituzione politica; 2. Politica machiavellica del Mini­stero [degli affari sardi a Torino]; 3. Schiavitù feudistica [sulla natura oppressiva del regime feudale]; 4. Inimicizia piemontese) argomenta le ragioni delle tendenze più avanzate del movimento, formulando un programma rivoluzionario di notevole interesse storico. Le concezioni politiche implicite riecheggiano tematiche legate all'esperienza francese, e confermano ciò che risulta da altri documenti: un diretto influsso nell'isola del più avanzato pensiero giuspolitico europeo. L'ordinamento del­lo Stato è visto come risultato di un patto tra Sovrano e Nazione sarda, e viene teo­rizzato il diritto alla resistenza quando questo patto (che limita l'«assoluta Monarchia» e tutela le prerogative del «Reame di Sardegna», viste come fondamento di una politica che permetta lo sviluppo anche economico dell'isola), viene violato: co­me dimostrano le manifestazioni di «politica machiavellica» del governo sabaudo. Il feudalesimo sardo è inoltre considerato nell'Achille un ordinamento che soffoca il libero consenso dei popoli: la struttura feudale è infatti contraria al «diritto delle genti», alla «giustizia più rigorosa» e alla «ragione». L'opuscolo svolge un pensiero che si muove tra modernità e tradizione, ma il richiamo a quest'ultima sembra avere prevalentemente una funzione di mediazione, quasi strumentale, per obiettivi politi­ci immediatamente operativi.


2 commenti:

Gigi Sanna ha detto...

Caro Francesco,tu fai lo storico e storicizzi da par tuo, ma lo ripeto, lo sottolineo ancora una volta e poi non insisto più. Così come storicizzi il passato remoto storicizza anche il passato prossimo. La scelta 'cagliaritana' del Consiglio Regionale po sa die de Sa Sardigna fu del tutto organica al concetto di 'autonomia' ovvero all'' ideologia politica dei più (dei cosiddetti partiti colonizzatori, chè il colonialismo non è cessato certo nell'Ottocento!), proprio quella che i giovani sardisti di allora (te compreso) andavano combattendo (e con successo, guarda caso!) da qualche decennio. L'autonomia come termine politico era deriso, come sai, da ciascuno di noi e non è un caso che a Portotorres il Partito Sardo mise nel suo Statuto la voce indipendentismo e cassò la voce 'autonomia' che era quella del tutto superata. E non è un caso che ad Oristano nacque il giornale 'Indipendentzia'.
Ora i simboli sono simboli e nella politica contano più di mille trattati 'oggettivi' di storia. Bossi sarà quello che sarà, ma non ha cercato gli storici per trascinare le truppe leghiste
Il simbolo della libertà e dell'indipendenza non va cercato in un momento in cui si cerca di 'ottenere' ma in un momento in cui si 'vuole' ottenere. Va cercato nella determinazione ( e i nostri padri scelsero persino la battaglia cruenta campale!), nella 'volontà' collettiva più assoluta. Naturalmente non devi pensare che io proponga oggi lo scontro fisico cruento: ma lo scontro con gli 'attributi' , diciamo moderni, di tutti i Sardi sì. Se davvero, come dici tu ( ma io nutro qualche dubbio), da oltre due secoli hanno imparato la lezione d'essere 'nazione' (senza virgolette però!). Pertanto, da fiero indipendentista, mai come in questo momento, voto per Amsicora, Yosto, Ugone III, Mariano IV, Eleonora, Leonardo de Alagon e non per delle mezze calzette di illusi che si fecero insultare senza quasi battere ciglio ( protestare e indignarsi per un giorno, oh quello sì). Io, in quella piazza cagliaritana del Vicerè, cari Francesco e Gianfranco, non faccio 'FESTA MANNA'. Quando ci passo mi rattristo perché tanti Sardi, tra le altre cose che li rendono debolissimi, non sanno usare bene neanche i simboli e non capiscono che è anche da questi (e forse soprattutto da questi) che gli altri ci giudicano. Ci giudicano anche dal fatto che certi comici, senza nessun rimbrotto, si impossessano della bandiera nazionale sarda per le loro stupidaggini. Ci giudicano con occhio attento (pronto ad approfittare delle nostre dbolezze) anche per uno stadio che da Amsicora è diventato S.Elia oppure per le nostre vie e piazze più rappresentative che sono quasi tutte intitolate a Roma e ai Savoia. Anche ai più stronzi di questi. All'anima della 'Nazione' e dell'identità!
Chiudo dicendo che non sono di certo un disfattista e lo ho dimostrato, mi pare, scrivendo po Sa DIE un difficilissimo articolo scientifico in lingua sarda. Però, caspita quanti 'post' a commento in sardo di certi Sardi della Nazione! Zero assoluto: se non fosse stato per il 'gratzias' di Roberto Bolognesi che mi sembra che abbia urlato invano con la sua bellissima proposta.

Gigi Sanna ha detto...

Dimenticavo la sardissima Graziella! Scusa Gratzie'!