giovedì 31 dicembre 2009

Largos annos ditzosos a totu sos amigos de su Blog

A totu sos de su Blog lis àuguro annos meda de ditzosia, salude e trigu
Auguro a tutti gli amici del Blog molti anni felici, in salute e prosperità

martedì 29 dicembre 2009

Un paio di motivi per ignorare la scrittura nuragica

Sono tempi straordinari per l'archeologia sarda. Le ricerche a più voci coinvolgono e appassionano molte migliaia di persone sia per quanto dice la troppo paludata ufficialità sia per quanto proviene dalla extra-ufficialità che, ovviamente, paludata e silenziosa non può essere. Il dramma, forse inevitabile, è che al dibattito, anche aspro, spesso si sostituisce lo scontro. E, nel suo piccolo, questo blog è un esempio di un conflitto che sembra auto avvitarsi, rendendo non comunicanti i pezzi di verità che si scoprono. Come se tutte le ricerche fatte siano autosufficienti e, in quanto tali, capaci solo di esclusioni.
I padri, ma questo è il loro destino, sono superati e criticati dai figli i quali, d'accordo nella critica alla rigidità dei padri, si producono in lunghe sequele di altre rigidità. Ed è davvero un peccato, visto la posta in gioco. Tre, mi pare, sono i filoni principali delle nuove ricerche: la questione della lingua scritta nuragica, quella dei shardana, quella dell'orientamento dei nuraghi e, quindi, della loro funzione. Intorno ad esse gira gran parte del dibattito odierno fra chi sostiene che i sardi antichi scrivevano e chi no, fra chi dice che i shardana erano i sardi antichi e chi lo nega, fra chi afferma che i nuraghi erano solo o anche edifici sacri e chi insiste, con maggiore o minore sicurezza, che si trattava di fortezze e/o abitazioni, a volte adibiti a magazzini.
Tutti, da una parte e dall'altra, sono coscienti che la definizione dell'organizzazione sociale nei secoli nuragici dipende da queste scoperte. Per dire, chi confronta il fenomeno nuragico con fenomeni simili nella penisola dirimpettaia, che quasi due millenni dopo sarà Italia, ha una visione della società; chi lo confronta con quanto succedeva nell'Oriente mediterraneo, nella penisola iberica e altrove, avrà una visione diversa. Lo stesso succede in chi pensa alla Sardegna nuragica come a una società dilaniata da guerre intestine e chi, invece, la pensa una società in cui i conflitti interni e locali non minavano l'unità, si direbbe oggi, nazionale. Analogamente, chi ritiene sardi i shardana ha una visione della società antica della Sardegna, chi non la pensa così sarà portato ad averne una visione diversa.
Ma credo pochi dubitino che la questione principe sia quella della scrittura nuragica. Negata sulla base di una sorta di sillogismo, secondo cui la scrittura è sintomo di esistenza di stato e di città, per cui niente città e niente stato niente scrittura, la questione è prepotentemente balzata alla attenzione. Per la verità, c'è chi nega l'esistenza di una scrittura tanto antica servendosi di strumenti diversi dal sillogismo e ricorre ad altri argomenti che presuppongono una internazionale della scienza libera da tentazioni di autodifesa: l'affaire Glozel ne è un esempio.
La posta in gioco è enorme e coinvolge non la sola Sardegna, ma l'intero mondo mediterraneo, non solo perché disegna un mare solcato da popoli e da culture ben prima che vi si affacciassero i fenici, ma anche e soprattutto perché sposta indietro l'inizio della Storia, e mica di cinquanta o cento anni. Chiunque può immaginare che cosa ciò possa significare certo per la più grande isola del Mediterraneo, ma, più in generale, per tutte le civiltà che vi nacquero, svilupparono, perirono o si trasformarono. Allo stato, chi più di altri si sono applicati alla questione della scrittura nuragica sono Gigi Sanna e, purtroppo, per non molti anni Gianni Atzori. Non è un mistero che, per quel poco che conto, faccio credito a Sanna di aver fatto scoperte di enorme interesse, pur non avendo io il bagaglio culturale sufficiente a dire: “Sì, è così”.
Quel che sconcerta, fino ad essere fonte di sospetti inquietanti, è il silenzio di chi, avendo per mestiere il bagaglio di conoscenze necessarie, fa finta di nulla. O, al massimo, contesta questo o quell'aspetto dei risultati delle ricerche di Sanna, senza prenderle in considerazione nella loro globalità. Come se si trattasse di una bazzecola di cui non vale la pena tener conto. La Soprintendenza e l'Università – anche questo è stato detto – hanno ben altro da fare che star dietro a supposti ritrovamenti. Sarei curioso di sapere che cosa sia più importante dell'accertare o del negare che in Sardegna la scrittura apparve prima del IX secolo aC e che, dunque, la Storia è cominciata qui ben prima che vi sbarcasse con i mercanti fenici. Non ci sono, in Sardegna, epigrafisti in grado di accertare se, per dire, l'iscrizione di Nuraghe Aiga è protosinaitica o fenicia? Può darsi, forse, ma in giro per il mondo ce ne sono?
Certo, capisco che lo scavo di un complesso archeologico teso a dimostrare come i romani si siano installati nella “Barbagia di Orune” (che locazione bestiale) sia più congeniale alla ideologia ministeriale di quanto lo sia andare a vedere se prima, da quelle parti, erano state fatte iscrizioni nuragiche. Lo capisco, e capisco anche che uno Stato-nazione privilegi le proprie radici Latine. Ma non può pretendere di rappresentare, come dice di fare, le culture preunitarie. È solo una modesta amministrazione di ciò che la legittima come “nazione” unica e unitaria. Con discrezionalità di spesa a favore, appunto, delle sua ideologia fondante.

lunedì 28 dicembre 2009

La buona idea di Calderoli, sconfitta dalla giacobineria unita

Rischiava di essere una cosa seria il primo decreto legislativo di attuazione del cosiddetto federalismo fiscale e il ministro Calderoli ce l'aveva quasi fatta, quando è insorta la corporazione dei Beni culturali. L'idea di Calderoli, esposta ai suoi colleghi ministri il 17 dicembre, era quella che lo Stato cedesse alle Regioni, ai Comuni e alle Province, “i beni assoggettati a vincolo storico, artistico e ambientale che non abbiano rilevanza nazionale”, insieme a miniere, beni demaniali marittimi e altro ancora che allo Stato non servono più.
Figuratevi la giacobineria unita. Sui beni materiali, pazienza. Ma quelli culturali, proprio no: il patrimonio culturale è parte integrante dell'unità della nazione italiana, ha tuonato il ministro Bondi, al quale non bastava che il ministro leghista avesse escluso dalla cessione i beni di “rilevanza nazionale”. Fatto sta che, alla fine, Bondi ha avuto la meglio: saranno il suo Ministero e le Soprintendenze a essere padroni dei beni culturali.
Il federalismo che stava per fare un passo in avanti, occupandosi non più solo di fisco ma anche di cultura, farà un passo indietro, con la soddisfazione di una amministrazione centralista che continuerà a dettare i tempi, i modi e le risorse nel nome e per conto, in quel che qui ci appassiona, delle civiltà che contano, quella Romana in primis e qualche altra ad essa collegata. Quelle per intenderci che sono tanto studiate e conosciute da non provocare fastidiose irritazioni da “non pervenuto”.
Fra il “non pervenuto” c'è, come le discussioni su questo blog dimostrano, la civiltà nuragica, ma anche quella dei regni sardi, di cui pochissimo o nulla si parla, forse perché troppo presi dal più scandaloso dei nascondimenti. Il tutto, nella vulgata giacobina, parte della “unità della nazione italiana”; non dell'unità della Repubblica, cosa scontata almeno per gran parte degli abitanti dell'Italia, ma proprio dell'unità della “nazione italiana”.
Sembra vederli gli abitanti di quest'Isola dal 1400 aC in su non stare nella pelle per il desiderio di far parte dell'unità della nazione italiana, attendendo la quale costruirono quel che costruirono. Accidenti, che cosa non si fa pur difendere la indifendibile politica del patrimonio storico e artistico fatta da uno Stato disposto a devolvere competenze materiali, ma refrattario a considerare che le specificità e le peculiarità lì stanno: nei propri beni culturali, archeologici, storici e linguistici. “La tutela resti allo Stato” ha tuonato la giacobineria unita. Così sia. Ve la immaginate la Regione sarda, dotata di risorse e di competenza primaria, che decidesse: “Voglio investire un po' di denari per vedere se è vero che i nuragici scrivevano, quando ancora non si agitava la chioma che schiava di Roma Iddio la creò”?

domenica 27 dicembre 2009

Ed un giorno mettemmo da parte l'arte e ci interessammo di nuraghi



di Pierluigi Montalbano

La Sardegna protostorica è caratterizzata da un’età aurea in cui caccia, pesca e agricoltura contribuivano al raggiungimento del benessere di quel pacifico popolo di laboriosi artigiani che producevano ceramiche riccamente decorate. Erano plasmate sapientemente e commerciate in ogni angolo dell’isola. Le tracce di quelle antiche culture si trovano anche in Francia, Spagna, nord-Africa e coste tirreniche.
In quell’epoca i sardi non avevano bisogno di torri e mura, vivevano in villaggi corredati di luoghi per il culto e zone funerarie. Il Neolitico sardo dal 6.000 al 3.000 a.C. fu un’epoca di fioritura artistica e le ceramiche che ho riassunto nell’immagine sono lo specchio della cronologia sarda fino all’avvento della civiltà mediterranea (l’età fenicia) che creò un nuovo gusto e quello stile inconfondibile che dal X a.C. si diffuse rapidamente lungo tutte le coste.
Il fermento culturale di questo lunghissimo periodo aiuta la comprensione dello stile di vita dei sardi e la povertà delle ceramiche nuragiche si scontra con le maestose architetture che svettano sul panorama isolano. Se c’era ricchezza e abbondanza… perché le forme artistiche sono concentrate nei manufatti in bronzo? In particolare perché si assiste alla creazione di armi formidabili come le spade di Sant’Iroxi e spariscono le belle ceramiche del campaniforme? Perché le spettacolari domus de janas, le sepolture singole (o di clan familiari) che hanno caratterizzato per 1500 anni l’aspetto delle zone funerarie sarde, sono sostituite dalle tombe collettive?
I sardi già nel VI Millennio a.C. erano capaci di creare vasi con decorazioni della Dea Madre nelle anse (figura in alto a sinistra), già nel 3.000 a.C. realizzavano coppe con decorazioni antropomorfe, nel 2.000 a.C. parteciparono alla koinè del campaniforme… un gusto internazionale che si manifestò in mezzo Mediterraneo fino alle Alpi ma durante la civiltà nuragica perdono questo gusto creativo e si dedicano agli edifici immensi costruiti in pietra locale e spesso frutto di progetti rapidi e apparentemente raffazzonati? Perché si arrivò fino al X a.C. prima di vedere realizzate le prime forme scultoree in arenaria o bronzo che rappresentavano quella società?

sabato 26 dicembre 2009

Avviso ai navigatori (n. 2)

Trentasei ore lontano da un computer e da questo blog ed è successo qualcosa per me deprimente e per questo blog difficilmente sopportabile: Phoinix, da pseudonimo unico e felice, si è trasformato in una sorta di nome collettivo. Le discussioni, per aspre e conflittuali che fossero, ma rispettose di una qualche regola, hanno dilagato in luoghi impensabili con una firma incontrollabile. Qualcuno, che si firma, ma della cui identità non sono certo, non solo rivendica il copyright di Phoinix ma minaccia ricorso alla polizia postale. E mi chiede di cancellare i post in cui viene fatto il nome di chi, ora, rivendica la titolarità di uno pseudonimo.
Il blog si è lentamente trasformato in qualcosa che nessuno dei suoi collaboratori, e tantomeno io, mai avremmo voluto si trasformasse. Chiedo scusa all'autentico Phoinix, con il quale dissento dal profondo dell'anima non per le posizioni portate avanti ma per il modo con cui ciò fa, ma non intendo più pubblicare alcunché con quella firma, se non sarò certo della sua autenticità. Lo prego, metta il suo nome e il suo cognome, mi mandi direttamente i suoi testi in modo che, sia pure assicurandogli la massima riservatezza, io possa risalire alla sua mail che resterà fra lui e me.
Non ci sarà alcuna reticenza nel pubblicare quel che egli scrive, ma risparmierà a me il disagio profondo di dover controllare l'IP dei suoi commenti per accertare che egli sia l'unico e autentico Phoinix.

giovedì 24 dicembre 2009



Apo pedidu a Larentu Pusceddu de nos fàghere sos agùrios de Bonas Pascas a totu sos abitadores de custu blog. Millos:
A sa Cometa ponide semper mente
ca donadu nos at mannu unu Coro,
bos donent cad'annu su presente
Sarru, Gasparru e Merzeoro

mercoledì 23 dicembre 2009

Mandar a dire a Dio qualcosa dai nuraghi

di Francu Pilloni

Questa estate Marizio Feo ha scritto qualcosa di molto interessante su chi e quanti fossero i Nuragici.
Premetto che a me pare più corretto chiamarli Nuracini o Nurachini, visto che è considerato vocabolo più antico la parola nurac, letta nurac(i) o nurach(i) nei diversi territori dell'isola. A parte questo, argomenta Feo, con i dati relativi alle ipotesi scientifiche più recenti, che la popolazione isolana può essere stimata in 6-7000 unità nel Bronzo Antico, aumentata al massimo a 48.000 nel Bronzo Medio e Recente. Pare più realistica una stima di circa 30.000 individui, circa 1,2 ab. per kmq, come a dire la popolazione di una città come Oristano, Carbonia o Selargius sparsa per tutta l'isola, visto che insediamenti di quel periodo sono evidenti dovunque.
Riporta ancora l'autore dell'articolo che i circa 7000 nuraghi furono costruiti a partire dal 1500 a.C., sino all'Età del Ferro, cioè in circa 6 o 700 anni, come a dire con una media di 10 nuraghi all'anno. Il che significa che, partendo da un'idea iniziale di un nuraghe in un anno, al colmo della frenesia costruttrice ce ne saranno stati almeno un centinaio in costruzione contemporaneamente, dato che non si può parlare certamente di qualche mese di lavoro per innalzare monumenti come il Losa, Arrubiu, e tanti altri ancora.
Ho letto da qualche parte, non ostante la famosa notizia secondo cui il re dell'isola fosse vecchio di oltre 120 anni, che l'aspettativa di vita fosse inferiore ai 40 anni di età; incrociando questo dato col fatto che, sia per l'esiguità del numero che per l'elevata mortalità infantile, le donne dovevano essere per forza molto prolifiche e dunque impegnate allo spasimo nell'allevare la prole, suppongo che la popolazione adatta a soddisfare il bisogno di manodopera per la costruzione delle torri si possa determinare in non più di un decimo della popolazione a tempo pieno, cioè circa 2-3000 persone in tutta l'isola, anche il doppio ma a tempo parziale, dovendo comunque accudire ad altre mansioni dell’ordinarietà della vita, sia come coltivatori che come allevatori.
Si può immaginare quanto sia costato in termini di organizzazione, di volontà, di coerenza, di aiuto reciproco fra i vari clan l’aver tirato su anche un semplicissimo nuraghe monotorre? Perché le pietre bisognava cercarle, trasportarle, lavorarle e finalmente posarle ciascuna al posto giusto.
Ecco allora la domanda che forse molto ingenuamente io mi pongo: perché darsi tanto da fare, perché dannarsi l’anima (come suol dirsi), perché tanto lavoro e tanti sacrifici al solo scopo di edificare dei depositi di derrate alimentari? O di fortezze? O di che cosa?
Ma davvero producevano tante derrate in avanzo da dover essere allocate in tal modo? E da chi si dovevano difendere se per alzare le fortezze partecipavano tutti i clan viciniori, con tanto di reciprocità (aggiudu torrau)?
Se oggi visitiamo uno qualsiasi dei nostri paesi, ci accorgiamo che l’edificio più imponente è la chiesa (sempre che non ci sia un nuraghe!), che di chiese se ne sono tirate su più di una, spesso più piccole, anche fuori dell’abitato (Gesico in Trexenta, mille abitanti, sette chiese e una decina di nuraghi!). è vero che le chiese nel tempo sono servite anche come rifugio, che sono state adibite in alcuni regimi come pagliai, tuttavia lo scopo per il quale le popolazioni si sono tassate, hanno dato forza lavoro, ecc. è stato per costruire edifici di culto, luogo dove pare più facile comunicare con la divinità. Solo l’opzione di rendere più agevole il dialogo con la divinità ha saputo, nel tempo, incanalare tante energie, ieri come oggi. Anzi, mi sbaglio: ieri come avantieri. Perché oggi le chiese le tirano su col calcestruzzo e spesso paiono caserme per anime senza speranza.
Un’ultima cosa: ammesso (dall’evidenza delle pietre nuracine scritte) e non concesso (da chi non ha gli occhi per vedere) che i Nuracini non siano stati del tutto analfabeti, sarà balenata nella loro mente la possibilità di “mandar detto” a Dio qualcosa nei nuraghi e coi nuraghi? E se hanno scritto e io non riesco a leggere, chi è l’analfabeta?

martedì 22 dicembre 2009

Nuraghi silos: va a finire che aveva ragione Silvio

Un caro amico mi ha inviato un link “a rebus” che porta a una pagina del Ministero dei beni culturali e ad una iniziativa della Soprintendenza archeologica di Cagliari. Ho dovuto penare per capire perché me lo avesse inviato e alla fine, forse, ho capito. Tutto credo stia in questa frase: “In chiusura conferenza del dott. Alessandro Usai 'Nuraghi, magazzini e altro'”.
E ho ricordato. Nel gennaio di quest'anno avevo pubblicato su questo blog un articolo dal titolo: “I silos nuragici di Silvio Berlusconi” che si riferiva ad una castroneria detta a proposito di nuraghi dal presidente del Consiglio in visita al Losa: “A mio parere erano edifici fatti per custodire prodotti, soprattutto prodotti importanti per evitare furti. Erano una sorta di forziere della comunità”. Dicevo anche di aver saputo come quella frase infelice non fosse tutta farina del suo sacco e che qualcuno gli aveva detto come quella dei magazzini era la loro destinazione. Qualcuno cercò anche di corrompermi, con un irresistibile invito a panzare con le lumache di Gesico, per sapere il nome dell'informatore archeologico di Berlusconi. Resistetti e resisto, segnalando solo che non si tratta, per quel che seppi, del dottor Usai, ma di qualcuno gerarchicamente più in alto.
Si era in piena campagna elettorale per le regionali e l'uscita del premier fu grasso che colava sui concorrenti politici e mediatici del candidato Ugo Cappellacci. Renato Soru lo sbeffeggiò dicendo che aveva parlato di nuraghi “in maniera grottesca” e citando quanto Lilliu rispose a Berlusconi: “Sono impressionato dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio... mi obbliga a precisare che si tratta di case-fortezza di un grande complesso insediativo”. L'assessore della Cultura restò “perplessa e impressionata, più nella veste di archeologa che in quella di assessore” di quanto detto. Alcune centinaia di articoli e commenti in siti Internet contribuirono a ridicolizzare il “presidente archeologo”.
Eppure, come si legge nel libro di Mauro Peppino Zedda “Archeologia del paesaggio nuragico”, la tesi dei nuraghi anche magazzini girava da molti anni, almeno dal 1995, quando il dottor Alessandro Usai ne scrisse. “Mi sembra chiaro” riporta Mauro Zedda da un saggio di Usai “che molti vani sia principali (camere) sia secondari (nicchie, garritte, cellette, diverticoli, pozzi, cesterne ecc.) potevano essere adoperati come depositi di beni di vario genere (alimentari, materie prime, armi, strumenti, oggetti di prestigio, altri manufatti, ecc.”.
Naturalmente né mi scandalizzo né saprei cosa obiettare. Quel che mi pare doveroso sottolineare è l'uso politico dell'archeologia, alimentato dalla crassa ignoranza degli uomini politici (e dei miei colleghi giornalisti). Ad una parte non è parso vero di servirsi di quella frase per chiamare a raccolta l'indignazione dei sardi; nell'altra parte ha regnato l'imbarazzato silenzio per la “gaffe del Cavaliere sui nuraghi”. L'una parte ha sposato, anche per ragioni di schieramento, le certezze di Giovanni Lilliu sui “nuraghi fortezza”. L'altra parte, ignorando non solo che le certezze di Lilliu sono messe in discussione da altri archeologi ma anche che Usai legittimava quella frase di Silvio, non ha potuto difendere il proprio leader.
È proprio vero: l'utilizzo politico dell'archeologia è una brutta bestia. Anche perché, per farlo, bisognerebbe quanto meno mettere il sedere sulla sedia e studiare. L'utilizzo sarebbe comunque riprovevole, ma almeno si risparmierebbero pessime figure, dall'una parte e dall'altra.

PS – Al mio amico che mi ha spedito il link a rebus: l'ho sciolto?

sabato 19 dicembre 2009

Avviso ai navigatori

Era inevitabile che prima o poi succedesse, ed è successo. Profittando del fatto che questo blog è esposto alla buona fede di chi entra a commentare, c'è chi, in preda ad incontinenza verbale, ha cercato di sporcare la casa che lo ospitava e si è prodotto in un becero vilipendio della religione. Prima era stato cassato per l'uso di espressioni come “mafiosamente” e per aver diffamato chi c'entra nulla con le nostre discussioni e, certo, non lo aveva cercato. Nel passato ho evitato per intercessione di un caro amico una querela per diffamazione, cancellando un intero post con corteggio di commenti, sempre per responsabilità dello stesso personaggio.
Come ho già detto a chi mi ha segnalato la blasfemia (Zaru, Feo e Montalbano), non sto giorno e notte attaccato al computer per controllare che non succedano incidenti del genere, sto alla buona fede di chi scrive. Ma quel che è successo la notte scorsa è intollerabile e, confessando il fallimento della mia pervicacia nel mantenere il blog sempre aperto, senza alcun filtro, sono costretto a correre ai ripari. Di notte e quando prevedo di star lontano a lungo, sarò costretto a attivare un filtro che non consenta la pubblicazione immediata dei commenti che saranno pubblicati tutti, salvo quelli calunniosi e diffamatori, “in differita”.
Me ne scuso con le decine e decine di persone che, pur senza peli sulla lingua, prendono parte alle straordinarie discussioni che animano questo spazio di libertà.

A proposito di navicelle. guardate questa

di Pierluigi Montalbano

Ciao Gianfranco,
in questo periodo si discute tanto di scritte e navicelle e vorrei contribuire inviando questa immagine e inserendo un piccolo commento.
Le navicelle bronzee nuragiche ad oggi censite sono 146 ritrovate in Sardegna e altre 12 distribuite lungo la costa tirrenica. I contesti sono prevalentemente cultuali in pozzi o in favisse. Altre sono state mostrate in collezioni svizzere ma spesso si tratta di falsi distinguibili dalla ricchezza di elementi aggiunti. Le incantevoli barchette sarde sono generalmente lineari, semplici, essenziali nella loro linea dettata da regole idrodinamiche ben conosciute dagli artigiani dell'epoca.
La cronologia varia a seconda (sigh!) degli studiosi, quindi propongo la mia ipotesi che vale quanto le altre (faccina sorridente). Collocherei quelle palustri (cuoriformi) intorno al IX a.C. per arrivare a contesti del VI a.C. con le ultime ritrovate dalla Lo Schiavo. Una riflessione che mi sta a cuore riguarda il processo di fusione. Essendo particolarmente eleganti e stilizzate, quelle conosciute sono frutto di un'evoluzione durata almeno un paio di secoli.
Stesso discorso lo applicherei per i bronzetti. Preferisco fermarmi a queste piccole affermazioni e attendere qualche commento per alimentare la discussione.

venerdì 18 dicembre 2009

Una risposta, prego, prima che tocchi terra



Ua zaccada e zirogna a spabadura a ki cuada is cosas” (traduco per i non sardi: Una grande passata di frusta su chi nasconde queste cose) è il commento di Marcello Lampis all'articolo pubblicato ieri sulla navicella nuragica di Teti. Sono, per carattere, meno propenso del nostro lettore alla punizione fisica di chi ha fatto finta di non capire. Preferisco di gran lunga la frustata metaforica che dà Franco Tabacco con questa splendida sua vignetta.
Aspettiamo che il pacco dono paracadutato tocchi terra? E sia. Certo, è stupefacente il silenzio di chi sapendo cosa dire con cognizione sta zitto. Fra i lettori di questo blog (non lo immagino, lo so) ci sono archeologi di grande levatura, che fanno della prudenza il loro metodo di lavoro e ai quali non sarebbe giusto chiedere di pronunciarsi a cuor leggero. Non so se le notizie che qui compaiono abbiano lettori nelle stanze di chi conta nelle soprintendenze archeologiche della Sardegna, di chi, cioè, sa tutto o quasi della navicella in ceramica di Teti. Sa, per dire, dove si trova, se è in buona compagnia di altre navicelle o è solitaria. E, soprattutto, ha il potere di deciderne la datazione con la termoluminescenza che, a quel che credo di sapere, sarebbe approssimata del 20%, visto che la navicella è “fuori contesto”, non può, cioè, essere esaminata insieme al terreno di scavo.
Se risultasse, poniamo, del 1000 aC, si potrebbe pensare che sia dell'800 aC come del 1200 aC. Poi toccherebbe agli epigrafisti vedere se quei segni sono più compatibili con l'età del ferro (cronologia di Giovanni Ugas) o con il Bronzo recente. E dato che c'è, con uno stesso viaggio, le soprintendenze potrebbero anche far datare il coccio di Orani (X-IX secolo, secondo Sanna) e il sigillo di Santa Imbenia (XIV-XIII secolo, sempre secondo Sanna). Almeno, così, Gigi Sanna la smette di attribuire ai sardi nuragici quel che è, con tutta evidenza, materiale medioevale.
Però, gli archeologi che ci seguono, un paio di cose potrebbero sicuramente comunicarcele: se, secondo loro, la navicella effigiata in questo blog è da loro conosciuta e se vi rintracciano anche loro delle iscrizioni. E, soprattutto, se non pensano di utilizzare le loro conoscenze e autorità per informare della cosa qualche epigrafista di riconosciuta fama.

giovedì 17 dicembre 2009

Buon Natale da Teti: NuR Hē ’AK Hē ’ABa Hē


di Gigi Sanna

Non è certo bella da vedersi ma è… bellissima. Conta poco la forma grezza ed il ‘vile’ materiale. E’ anche commovente, se si vuole, perché ha perso il pennone, il disco solare e la colombella, parte delle fiancate, la protome del toro o del cervide. Quasi tutto. Un ‘relitto’ e basta, dunque. Eppure nel terribile naufragio almeno lo scafo, malconcio, corroso dal tempo e quasi irriconoscibile, ha resistito abbastanza bene; per quel tanto che basta per offrirci, sebbene non subito visibile (a distanza di 3300 anni circa!), un dono straordinario: un aspetto archeologico - documentario incredibile per il valore che esso assume, soprattutto per la cultura di tutti noi Sardi (ma anche, ovviamente, di quelli che Sardi non sono).
Potrei dire, senza tema di sbagliare, che le stesse superbe e nobilissime ‘sorelle’ bronzee, anche le più raffinate ma difficilissime da riportare con dei segni o dei grafemi simbolici fonetici, mai hanno dato così tanto. Né credo mai, io ritengo, lo daranno per quante nel futuro ancora se ne scopriranno.
Di cosa parliamo? Di un oggetto di cui, praticamente, non si sa nulla. Parliamo della navicella nuragica in ceramica rinvenuta in Teti (in S’Urbale?) diversi anni fa (quanti?), quella di cui mi avevano parlato (con sussurri e con circospezione), non poche volte, certe persone (anche in una conferenza tenuta ad Abbasanta nel 2005) e della quale hanno preso, quasi subito, a girare non poche fotografie. In genere non troppo nitide , tanto che era molto difficile vedervi quei segni che poi, di persona e con dei testimoni, ho potuto vedere, esaminare nei più piccoli dettagli e, direi, ammirare nello stesso luogo deputato a tutelare e valorizzare, localmente, il patrimonio archeologico.

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mercoledì 16 dicembre 2009

Circuitus batte l'osservatorio di TaoSi di 1300 anni

Deve esserci stato un intasamento nella posta elettronica del Ministero dei beni culturali, delle soprintendenze e delle università sarde, quando ieri si è letto sul Corriere della Sera che in Cina è stato scoperto il più antico osservatorio astronomico del mondo, datato al C14 verso il 2100 avanti Cristo. E mi immagino il tenore delle mail al professor He Nu, lo scopritore dell'osservatorio di TaoSi (città di Linfen nella provincia di Shanxi): “Caro professore, sbaglia. Noi abbiamo in Sardegna un osservatorio astronomico, quello di Circuitus nei pressi di Laconi, che è più antico di 1300 anni di quello scoperto da lei”.
Certo, si dirà, quel giovanotto dell'osservatorio cinese era ben costruito, con i tredici menhir alti tredici metri che lasciavano liberi dodici spazi, mentre il nostro vecchietto è un circolo di semplici massi (fra cui uno di quarzo pesante qualche tonnellata). Ma c'è chi ha fatto i conti e ha scoperto che sgarrava del 5 per mille nel fare i conti a cui era preposto. E soprattutto rende non vera la primogenitura dell'osservatorio di TaoSi.
Temo, però, che non sia partita da Roma e da Cagliari nessuna precisazione. Da Roma, forse, per non turbare i rapporti con i cinesi che alla scoperta danno una valenza nazionalistica importante. Da Cagliari, chi sa?, per non scavalcare il governo italiano e i suoi delicati rapporti con la Repubblica popolare cinese. O anche perché vuoi mettere quell'ammasso di pietre di Circuitus con la magnificenza – foto non ce ne sono, ma sarà sicuramente così – di TaoSi?
Ho ritrovato e lo offro ai lettori un articolo dell'Unione sarda del 1998 che parla di Circuitus e che, pare, sia l'unica cosa scritta sull'osservatorio del 3400 avanti Cristo.

Nella foto: il professor He Nu e la sua scoperta

lunedì 14 dicembre 2009

La storia c'est moi

È una prerogativa di molti giovani, soprattutto se politicizzati e/o ideologizzati, credere che la storia cominci nel momento in cui si guardano allo specchio. Sono loro, i nuovi, che si pensano gli iniziatori delle magnifiche sorti e progressive, e poco male, e i titolati a purgare ciò che è tremandabile da ciò che non lo è. Gli inventori della “nouvelle vague letteraria sarda” - che giovanissimi non sono, ma nuovi e migliori sì per investitura politica e mediatica – questo fanno: si guardano allo specchio e vi vedono riflessa l'alba.
Dice: ma cos'è, ti sei stancato del dibattito in corso e lo vuoi deviare? Si capirà presto che così non è: qui si parla di meccanismi analoghi a quelli che hanno suscitato le nostre discussioni, ma applicati ad altro.
È capitato, dunque, che un epigono della “nouvelle vague letteraria sarda” abbia parlato qualche giorno fa, a Courmayeur, della letteratura noire, gialla di diceva una volta, in Sardegna. Due gli aspetti principali del suo dire: il primo è non dire che in Sardegna si sta sviluppando il noir in lingua sarda, il secondo è porre allo specchio sé e altri suoi compagni di vague e di vedervi l'inizio del giallo, o noir che dir si voglia. Non ricorda da vicino il meccanismo utilizzato per purgare l'archologia intanto negando l'esistenza di altro da sé e quindi spacciando per nuovo la replica di se stessi?
È nel contemporaneo che la saldatura tra l'analisi antropologica e la scrittura cosiddetta di genere trova un esito affatto noir in Sardegna... Cronologicamente iniziano G. A. e S. M., l'anno è il 1988” ha detto il nostro, nominando due suoi compagni di vague, prima di citare se stesso, più in là. Intanto, subito, la delimitazione del che cosa è noir e che cosa non lo è: la “saldatura tra analisi antropologica e la scrittura”. E poi la datazione dell'inizio della scrittura: bassa, proprio come succede in archeologia, perché la gente non sia indotta a pensare che anche prima di questa data fissata da loro ci fosse scrittura. Punti e virgole, sì, ma scrittura (di noir) vera e propria no.
Leggo nel saggio di uno dei maggiori critici letterari sardi, Peppino Marci, La narrativa sarda del Novecento, che il Tale non “soltanto a questo aspetto [il lavoro sullo strumento linguistico... per imboccare l'aspro sentiero dell'italiano regionale sardo, NdR] limita la sua innovazione, ma anche si fa autore di romanzi gialli...”. Si è nel 1981 per il primo romanzo, nel 1985 per il secondo. Neanche molto tempo prima dell'inizio “ufficiale” della saldatura evocata dal nostro. Non tanto, in ogni caso, da perdersi nella memoria del passato.
Il problema è un altro. Il Tale scriveva – e scrive – da dentro la Sardegna; altri scrivono della Sardegna davvero in modo antropologico come se parlassero delle Isole Vergini a lettori che delle Isole Vergini hanno un'idea ben precisa e che sono poco disposti ad essere turbati da descrizioni contrastanti i propri paradigma.
Capito perché, in realtà, ho parlato delle stesse cose che in queste ultime settimane ci stanno appassionando su questo blog?

venerdì 11 dicembre 2009

Il primo museo di archeoastronomia a Villanova Truschedu


Il primo museo di archeoastronomia in Sardegna è stato aperto a Villanova Truschedu, un piccolo borgo sulle rive del Tirso, in provincia di Oristano. Allestito da Tonino Mura, presidente del Gruppo ricerche Sardegna, è per il momento dedicato al nuraghe Santa Barbara (nella foto). Nel museo è anche esposta una ricca collezione di fotografie dei nuraghi della zona, visitabile presso la biblioteca comunale il martedì e il venerdì dalle tre alle sei e mezzo del pomeriggio.

giovedì 10 dicembre 2009

Quei pezzetti di verità di una nuova archeologia

Sto leggendo il bellissimo libro di Mauro Zedda “Archeologia del paesaggio nuragico” che, con incoscienza, l'autore mi ha chiesto di presentare alla fine di dicembre. Della sua teoria sull'allineamento dei nuraghi, aveva parlato su questo blog l'ingegner Marco Sanna nell'agosto dell'anno scorso. Non è del saggio, però, parlo, ma della citazione (assai pertinente al suo studio) che Mauro fa di una frase di Karl Popper: “... avanzo soltanto un'ipotesi. Se siete interessati al mio problema, sarò molto contento se criticherete la mia supposizione, e nel caso avanziate delle contro-proposte, cercherò di sottoporle a critica”.
Quando si dice avere le idee chiare sui paletti fissati per sempre. Sarà segno dei tempi, sarà che l'eresia ha, almeno in questa parte del mondo, la meglio sul dogmatismo, fatto sta la nuova archeologia sta irrompendo nelle nostre biblioteche e sui monitor dei nostri computer. Solo per limitarci alla Sardegna, almeno una decina di studiosi (non ne faccio i nomi per non rischiare di dimenticarne) ci sta raccontando pezzi di verità, a loro volta suddivisi in pezzi di verità. Tutti insieme, letti senza puzza al naso e protervia, disegnano una ricerca della storia e delle storie che non risparmia alcun paletto.
I figli criticano i padri come questi, nel passato, avevano criticato i loro padri Taramelli, Mingazzini, Spano. E chiedono di essere sottoposti alla critica con contro-proposte, pronti a fare, a loro volta, contro-proposte. Insomma la modernità della ricerca archeologica sta facendo irruzione anche da noi, purtroppo scontrandosi, invece di incontrarsi, con quanti trovano più rassicurante ripetere il conosciuto, concedendo piccoli aggiustamenti se essi confermano l'immutabilità dell'impianto.
Se uno pensa di aver scoperto che i shardana erano sardi, pochi – uno a che io sappia – si mette in testa di studiare la cosa per vedere se è vero, ipotizzando che non sia vero. I più utilizzano la denigrazione, il beffeggio se ad affermare la cosa è un free lancer dell'archeologia, servendosi di strumenti più sofisticati se a farlo è un docente universitario. In questo caso, si va alla ricerca di chi dice il contrario, non per farsi un'idea propria, nata dal confronto, ma per assegnare la vittoria a chi, avendo cognomi né sardi né italiani, necessariamente è più attendibile. Se poi, pur avendo cognome straniero, avanza le stesse tesi dei sardi, vuol dire che è un archeologo da strapazzo, inattendibile. Sono i limiti del provincialismo, quasi sempre autocolonizzantesi.
Di archeologia si occupino gli archeologi, così come i fisici di fisica, i matematici di matematica, e non ci si azzardi a dire che un uovo è cattivo se non si è capaci di farne mancuno. Mi ricorda, il tono di certe discussioni fatte su questo blog, quel di cui fui spettatore negli anni Settanta a San Sperate, dove insieme al grande scultore Pinuccio Sciola, demmo vita alla Cooperativa culturale In pari. Stavamo insieme i muralisti del paese, un gruppo di teatro gestuale, i due redattori del periodico bilingue Sa Sardigna e i collaboratori, la Compagnia teatrale in lingua sarda Sa maschera. Nel consiglio di amministrazione, insieme a “noi intellettuali” entrò il bravissimo attore (mur-attore, si definiva) Mario Fulghesu. “Che cultura può avere e produrre un muratore?” scrisse più o meno il giudice di Cagliari che bocciò l'omologazione della Cooperativa.
Con grande disappunto di chi la pensa in questo modo, invece, come il mur-attore Mario Fulghesu ha continuato a produrre cultura, così professori di scuola media e di liceo, giornalisti (non io), docenti universitari e altri studiosi continuano a fare come suggerisce Popper: avanzano ipotesi, aspettando contro-proposte. E en attendent Godot, arrivano pochissime contro-proposte e tanto silenzio.

martedì 8 dicembre 2009

Protocananeo: per favore torniamo in tema

Il primo articolo sulla scrittura nuragica riguardava la illustrazione che il professor Luigi Sanna avrebbe dovuto fare a Paulilatino di una iscrizione trovata in una capanna di Perdu Pes. Per ragioni che non conosco – e che comunque sono ininfluenti – il sindaco del paese disdisse la conferenza. Era il 12 febbraio del 2008 e questo blog contava 27 post e un migliaio di lettori. Ora sono più di 250 mila, 54.035 dei quali vi sono entrati dal 30 ottobre del 2007 all'11 febbraio di quest'anno e il resto, quasi 200 mila, in questi ultimi dieci mesi scarsi. Perdonate la pedanteria, ma è per dire con i numeri che da strumento per pochi si sta lentamente trasformando in strumento per molti, seguito e ancora più tenuto alla serietà.
Mai si sono pubblicati articoli a cuor leggero, condivisi o non condivisi da me, ma mai banali. Qualcuno, nel passato e nel presente, sembra preso dalla voglia di invaderlo – soprattutto in materia di scrittura nuragica, ma non solo – di quantità abnormi di paradigma, di luoghi comuni, di apodittismi mascherati di domande, di svillaneggiamenti ai quali poi, spesso, si è risposto con insulti e improperi che non condivido ma comprendo. Se io ho l'obbligo della pazienza e della pacatezza, quasi sempre rispettato, e se no me ne scuso, di certo non lo posso contagiare.
È chiaro a tutti, credo, che la questione della scrittura nuragica, se cioè i sardi scrivessero anche prima dell'arrivo di ospiti dall'Oriente mediterraneo o se invece no, è una di quelle che segnano un crinale decisivo non solo per la Sardegna, ma per la storia della scrittura nel Mediterraneo. Non è una questione di primati, di chi ci è arrivato prima, se i sardi o i fenici. È questione di riscrivere o no il conosciuto, di spostare indietro l'ingresso dei sardi nella storia o di lasciarli nella preistoria o nella protostoria. Insomma, è una bella gatta da pelare.
Quando uscì “Omines” di Gigi Sanna e Gianni Atzori sulle tavolette di Tzricotu, la presi anche io come una bizzarra curiosità che si trasformò poi in irritazione nei confronti dell'ovatta di silenzio accademico che circondò quello studio. Ce l'avevo con soprintendenza e archeologia che non mi davano strumenti adeguati a smontare quella bizzarria di due amici con cui avevo condiviso battaglie politiche e che pensavo, senza poterlo provare, stravaganti inventori di nuove Carte d'Arborea. Poi venne Sardoa Grammata e poi ancora I segni del Lossia cacciatore che si occupava delle tavolette di Glozel che credevo mia scoperta personale.
Scoprii che le Tavolette di Tzricotu non erano delle povere orfane sperdute nel deserto dell'analfabetismo nuragico, ma sorelle di molte altre iscrizioni, imparai che ci furono il protosinaitico, il protocananeo, il gublita (dell'ugaritico sapevo) e, accidenti a Gigi, presi ad occuparmi, da povero cronista ignorante, anche di questo. E delle accuse che gli muovevano e dei tentativi (pochi per la verità, perché il silenzio è l'arma migliore) di smontarlo, soprattutto per la storia di Tzricotu, ma non per le scoperte successive di iscrizioni che lui diceva essere nuragiche e altri... e altri muti come pesci.
Gigi Sanna ha prodotto per i suoi libri e per questo blog tabelle di caratteri delle lingue da lui riconosciute nella cinquantina di reperti. Qualche giorno fa, il caso e un giovane amico mi hanno fatto imbattere in una tabella di caratteri protocananei incisi su un coccio trovato dalle parti di Gerusalemme (1000 avanti Cristo, secondo gli archeologi) e in un altra degli stessi caratteri, molto più antichi, trovati nello Yemen. Uno, come me, che non sa leggere il protocananeo ma sa “vedere le figure” non può non trovare delle coincidenze straordinarie fra queste tabelle e quelle prodotte da Sanna. Un caso che a migliaia di chilometri di distanza si usassero per scrivere caratteri uguali o molto simili? O i sardi, davvero, usavano intorno al XIV/XIII secolo aC i caratteri che usavano nello Yemen?
Ho pubblicato la notizia. Chi ha fatto le bucce di Sanna o ha farfugliato incredulità o si è buttato in discussioni su tutto salvo che sull'argomento o imbrogliato le carte citando come prova della falsità delle coincidenze il fatto che una iscrizione in fenicio antico, trovata in Sardegna, non fosse protocananea. Me coj... mplimento. A me sorge il dubbio che bisogna considerare con meno supponenza e più umiltà il fatto che fra la cinquantina di iscrizioni finora trovate ce ne possano essere parecchie fatte da scriba molto più antichi di quelli arrivati al seguito dei fenici.

PS – Per rispetto di chi ci legge, casserò tutti i post, anonimi o no, che usciranno fuori tema. Di Tzricotu, di punti e virgole non pubblicherò niente. Chi vuole, invii un articolo a parte e sarà pubblicato.

lunedì 7 dicembre 2009

Il protocananeo e la prevenuta cecità

Il molto assiduo anonimo che si firma Phoinix mi sfida (si veda il 16 commento all'articolo sul protocananeo): “Le ho solo chiesto, tra le righe, se la supposta identità di caratteri ce la possiamo dedurre noi stessi, visto che mi sento libero di dire che molti dei caratteri che il Sanna riconosce, io non li vedo proprio. Anche sforzandomi. Se è una questione di fede allora bene...in questo caso sarei ateo. Sui dubbi dei caratteri che vengono letti si vedano le iscrizioni di Sardoa Grammata alle pp. 262, 268, 272, 285, 293, ma soprattutto pp. 299, 303, 322. Se dobbiamo crederci senza fare troppe storie allora questo non è un blog, questo è un corso di epigrafia nuragica. E se anche fosse così un semplice studentello non potrebbe porre qualche domanda?”.
Naturalmente, anche se non sono in grado di rispondere in punta di scienza: di mestiere cerco notizie, ne verifico la attendibilità e le pubblico, lasciando ad altri il compito di vedere se aggiungono o non aggiungono qualcosa al conosciuto. Spesso sono altri a proporre le proprie scoperte, intuizioni o anche solo suggestioni. Il più delle volte pubblico perché fido nella buona fede e nell'onestà intellettuale di chi scrive. Salvo casi di palese volontà di disturbare, di calunniare e diffamare, il blog è aperto senza alcuna rete ai commenti, sempre nella presunzione che chi scrive sia, al di là dei toni che usa, animato di buona fede e onestà intellettuale.
Spesso è questo, penso, che anche Phoinix fa. Non questa volta. Questa volta “lo studentello” cerca di imbrogliare, con scarsa onestà intellettuale, il professore che non c'è in me. Lo fa, per esempio, dicendo di non aver riconosciuto, a pag, 322 di Sardoa Grammata di Gigi Sanna, caratteri protocananei in una iscrizione che Sanna dichiara esplicitamente essere “fenici arcaici”. Bella forza, caro Phoinix: sarebbe come cercare caratteri runici (anzi punici, per stare alla sua passione) in una poesia di Baudelaire e, non vedendoceli, prendersela con il povero poeta.
Ma il nostro amico non ha visto coincidenza fra i caratteri sulla tabella israeliana e quelli pubblicati a pag. 262 del testo di Sanna: io, che ne so infinitamente meno di Phoinix ma non sono prevenuto, ho trovato coincidenza in 6 dei 9 caratteri: se sono protocananei quelli del Negev, lo sono anche quelli del “Sigillo del Dio Toro Padre” di Quirra esaminato da Sanna. Certo, lui assegna dei valori che non coincidono con quelli dati al coccio di Negev. Intanto, né Phoinix né tantomeno io, possiamo dire che hanno ragione gli israeliani e torto Sanna, e viceversa. In secondo luogo, non è questo il punto: Sanna potrebbe benissimo aver letto male il sigillo, ma questo è iscritto con caratteri protocananei, almeno per il 60 per cento.
Così come caratteri dello stesso tipo esistono, in percentuale variabile, in una iscrizione protocananea-glubita-sarda (pag. 268) e in un'altra ugaritica-protocananea (pag. 272). E adesso, per piacere, lo “studentello” ripassi: i testi sono tutti a sua disposizione. A me, il fatto che stessi caratteri compaiano a migliaia di chilometri di distanza, e in contesti culturali tanto diversi, pare una cosa molto importante. Perché non considerare la cosa con l'attenzione dovuta, mettendo da parte prevenzioni?

domenica 6 dicembre 2009

Quando la "Rotta dei fenici" mette in rotta la decenza

Quale interesse avrebbero l'accademia e la baronia archeologiche a mettersi di traverso a letture diverse dell'archeologia? Quante volte in questo blog, in maniera testuale o implicita, si sono lette simili incredule domande? E quante volte, nei discorsi privati, si è presi in giro, come coloro che vedono complotti o anche solo malafede in quel che per alcuni archeologi è semplice e doveroso rispetto delle risultanze oggettive?
Personalmente ho sostenuto che spesso, dietro la resistenza a nuove letture c'è difesa interessata di tesi conosciute. La realtà è, a volte, più azzardata di qualsiasi fantasia. Come nel caso della recente iniziativa della “Rotta dei fenici” adottata dal Ministero dei beni culturali insieme all`associazione internazionale "La Rotta dei Fenici" e di cui L'Unione sarda di ieri dà notizia in questi termini:. “Ci raggiunsero tremila anni fa, orientandosi in mare aperto grazie alle stelle, come nessuno aveva fatto prima di loro. Venivano in Sardegna per commerciare, portarono con sé una merce preziosa come la scrittura e un regalo atroce come la talassemia”.
Io non so se queste bestialità sono mediatiche o di fonte ministeriale, se, cioè, è questa la vulgata vigente nel Ministero di Sandro Bondi che, bisognerà pur ricordare, si disse entusiasta del progetto di “Parco del golfo dei fenici” nell'Oristanese. Qualcuno, poi, lo deve aver dissuaso, visto che la ragione sembra aver prevalso e tutto è bene quel che finisce bene. Appartiene, però, alla vulgata feniciomane il fatto che la Sardegna è “la più fenicia delle nostre regioni” in cui, per questo, sarà tracciato un percorso che toccherà almeno 13 siti.
Una iniziativa commendevole, va da sé, quella di far rivivere ai contemporanei la civiltà fenicia conosciuta a partire dal Mille. Commendevole ed economicamente assai rilevante che metterà a correre operatori turistici, guide, archeologi, laureati in economia del turismo, associazioni e molti denari. In Sardegna, la referente della “Rotta dei fenici” è la Imago mundi, una associazione culturale di cui, almeno su Internet, non è dato sapere di che cosa si occupi.
Il problema è che bisognerà dire ai viaggiatori lungo la rotta dei fenici che questi non sono stati tutto quel po' po' di cose che la vulgata descrive. Che, per dire, che i sardi, solcavano i mari verso l'Oriente qualche secolo prima che i fenici facessero il viaggio inverso. Che è almeno dubbio che la Tharros visitata sia fenicia. In una società dello spettacolo conta che l'immaginario sia quello descritto sul quotidiano sardo. E voi pensate che i feniciomani siano in grado, con la mole di investimenti previsti per titillarli, di dire: “Beh, veramente le cose non stanno proprio così”?

venerdì 4 dicembre 2009

Toh, chi si rivede: il protocananeo anche in Yemen

Toh, chi si rivede. Il protocananeo, la “prima lingua” che, sostiene Gigi Sanna, i sardi utilizzavano per scrivere prevalentemente lodi a Dio. La sua più recente comparsa risale a qualche mese fa, quando un ragazzino isaeliano ho trovato casualmente, nei pressi di Gerusalemme, un coccio di terracotta con cinque righe scritte. Secondo il professor Yosef Garfinkel, docente di archeologia presso la Hebrew university di Gerusalemme, si tratta della più antica iscrizione in ebraico mai trovata, risalendo al mille aC.
Altri suoi colleghi sostengono che gli israeliti non erano gli unici ad utilizzare i caratteri protocananei, il che rende difficile affermare con sicurezza che si tratti di ebraico. Altri ancora, come un altro archeologo della stessa Università, Amihai Mazar, sostiene che comunque si tratta del più lungo testo protocananeo mai trovato. Due studiosi americani, Gary Vey e John McGovern, contestano che si tratti del testo più antico, avendo essi trovato iscrizioni protocananee ancora più antiche nello Yemen sul lungo muro del cosiddetto Palazzo della regina di Saba.
Trovo queste notizie in un sito e su altri che le riprendono e che sono più interessati alla scoperta dell'Arca dell'alleanza (la “cassa di El”) che a quanto a noi qui interessa: la scrittura protocananea e l'alfabeto che, secondo Gary Vey e John McGovern, la sostanziava. È quello che è riprodotto accanto al titolo. La tesi dei due studiosi è che sul muro del Palazzo di Saba si trova scritta questa lunga iscrizione: "... perché il figlio era consapevole della natura che era in lui ... ma la felicità del figlio fu avvelenata dalla notizia che suo padre stava morendo, la rabbia crebbe, ma al figlio fu rivelata da suo padre la collocazione della grande cassa di EL. E l’azione di grazia del bel Signore rese felice il figlio, che giurò di proteggere la cassa di EL, e di essere associato con lo spirito del Signore. E la sua tristezza è terminata.
Il figlio costruì una camera per il bello spirito del Signore, e la coprì. Accompagnò la camera del Signore sotto terra per pregare e per ottenerne la comprensione e la tutela ...
"
Traduzione che, va da sé, non mette d'accordo tutti, non gli archeologi che insistono sul fatto che l'alfabeto “yemenita” non è protocananeo, ma una forma di arabo. Va anche detto che sul muro del Palazzo ci sono moltissimi simboli che ancora nessuno ha potuto decifrare. Ho detto e lo ripeto che io non ho alcuna competenza archeologica o epigrafica, ma solo quella di segnalare quanto accade in un mondo della cultura pervaso da troppe certezze fondate sulle ripetizioni e i microaggiustamenti. Non mi permetto, quindi, affatto di pronunciarmi sulla diatriba.
Segnalo solo le non poche consonanze fra l'alfabeto pubblicato dai due americani e quello nuragico pubblicato su questo blog da Gigi Sanna,
soprattutto se si vede la tabella pubblicata sul sito di Gary Vey e riprodotta qui sopra. Chi si voglia prendere il gusto di traslitterare i simboli riprodotti, lo può fare cliccando qui.
Immagino che questa ulteriore informazione sia in grado di suscitare dibattito su questo blog che, l'annuncio con credo legittimo compiacimento dei lettori e mio, ha ieri sfondato le 1.500 visite, 1.507 per la precisione.

giovedì 3 dicembre 2009

E chi ha costruito questo, avrebbe avuto problemi con la scrittura?



"Vorrei che Pintore pubblicasse, senza alcuna didascalia, la foto che gli mando per e-mail. E' il profilo di un nuraghe. Ne ho, ma ora non li trovo, di migliori, come l'Oes (Torralba) e vorrei che ci chiedessimo molto semplicemente: chi è stato capace di realizzare con conci appena sbozzati, una tal retta che punta dritta al cielo, non ha forse una mente in grado di confrontarsi con la scrittura, con l'astronomia, con il sacro e divino, con la scienza?" [dal commento di Franco Laner pubblicato oggi)

Ti disubbidisco, Laner, ne pagherò il fio, ma ne vale la pena [zfp]

mercoledì 2 dicembre 2009

Consiglio a chi si scontra sul blog: leggetevi Franz Fanon

Fossi fra i cultori del giornalismo spettacolo, quello che pensa suo dovere raccontare le liti e non le cose, dovrei gridare al successo per questo blog, piccola cosa per il mio ruolo di direttore del traffico ma grande per la qualità quasi tutta alta degli interventi. E invece mi rattrista, fino a chiedermi dove abbia sbagliato, veder scorrere tanto astio e rancore. Che portino sfiga gli inviti alla pacatezza?
Di certo c'è che qualcuno, soprattutto se anonimo, scambia la serenità del ragionare con l'uso di sottili strutture semantiche prive di aggettivi, ma dense di allusioni che, essendo tutti abbastanza colti, non ingannano sulla volontà di ferire. E se un raffinato intellettuale come Pietro Murru, alla fine sbotta con “chi se ne frega”, forse qualche ragione c'è. Cerco di rintracciarla attraverso una considerazione molto personale.
Da un po' di tempo a questa parte, i sardi stanno riscoprendo una dimensione storica e preistorica del loro essere che molto a lungo è stata negata. Il barone Manno, il canonico Spano e numerosi loro epigoni hanno figliato e gran parte della loro prole si è specializzata nella damnatio memoriae. Sul perché dovrei ripetere quanto scritto da Franz Fanon e da Jean Paul Sartre nella splendida prefazione di “I dannati della terra”. Ce lo possiamo risparmiare. Non c'è cattiveria, né alterigia nel considerare questa terra e il suo popolo. C'è, semmai, l'innato provincialismo della cultura sarda e l'utilizzo appropriato di esso da parte di chi sa che unu bentu dae levante ne sa di più.
A questo si accompagna un moto, molto umano, di chi trova molto più comodo e rassicurante “scavare” in senso letterale e in senso figurato, linguistico, antropologico, degli istituti giuridici, storico, etc, il già scavato. Consentendosi e consentendo piccoli aggiustamenti, purché non sconvolgano il conosciuto. E nel caso lo sconvolgano badando a due cose: il pedigree accademico di chi osa e la possibilità di passare sotto silenzio. Due esempi che hanno per protagonista il mio amico Massimo Pittau: la sua teoria sulle interconnessioni fra sardo e etrusco e i bellissimi articoli scritti su questo blog sulla non-fenicità di Neapolis, di Cornus, di Othoca e sul fatto che Amsicora non fosse un carteginese come la vulgata afferma.
Di Pittau – ne sono testimoni gli interventi su questo blog – nessuno dice che non sia titolato a dire quel che dice: semplicemente lo si ignora e i conti tornano: si può onorare il professore emerito e, allo stesso tempo, ignorarlo. Fosse solo invidia, si potrebbe ancora ancora comprendere. Il fatto è che Pittau pretende di riscrivere il conosciuto, mettere in crisi certezze e carriere accademiche e non solo. C'è la costruzione del mito di Roma in gioco, il suo ridimensionamento a grande potenza economica e militare. “Che schiava di Roma / Iddio la creò”, ricordate?
Ed ecco che spunta uno (anzi due, con Gianni Atzori) che dice di aver scoperto che i nuragici scrivevano, anzi, come dice un personaggio di un mio noir archeologico, erano dei grafomani. Produce documenti, ci scrive tre libri, molto documentati e densi di bibliografie imponenti. Ho perso il conto, non ricordo se sono 52 o 53 i documenti esaminati. La reazione vaga fra il silenzio assoluto, la derisione (a cui risponde con le sue asperità), la contrapposizione di uno – dico uno – studio su uno dei documenti, sia pure quello che egli ritiene eccezionale. Non è nuragico, è medioevale, si dice.
Dal pozzo della mia ignoranza in materia, posso solo dire che spesso a una tesi si contrappone una antitesi, in archeologia come in tutti gli altri campi dello scibile. Ma quando mai l'antitesi va bevuta come vera solo perché opposta a una tesi? Va naturalmente considerata e verificata come la tesi. Né al tempo dei nuraghi né in epoca bizantina si riusciva a capire se una cosa fosse stata fatta ieri o dieci secoli prima. Oggi sì. Perché, dunque, non buttarsi a scoprire se è vera la tesi o l'antitesi? Gigi Sanna, credo, resterebbe male se prove chimiche ed altro appurassero che la Tavoletta di Tzricotu è davvero bizantina.
Questo, però, non inficerebbe la scoperta di altre iscrizioni nuragiche. In fondo una sbagliata su oltre cinquanta sarebbe una percentuale accettabile. Ma accetterebbero con disivoltura il contrario quanti hanno giurato che la scrittura ce l'hanno portata i fenici nel X-IX secolo avanti Cristo? E su questo hanno costruito cattedre e carriere, impieghi e fortune editoriali, finanziamenti e, anche, sovrastrutture istituzionali?
Ecco perché continuo a pensare che, al di là del bisticcio fra di loro, vale la pena di investire passione e intelligenza su gente come Gigi Sanna e Massimo Pittau. E vale la pena, invece. di dubitare del silenzio che li circonda. Il problema, lo si sarà capito, non è tanto se Sanna o Pittau sopporterebbero la sconfessione di una o più loro tesi. E' se l'intreccio dei poteri cultural-politici sopporterebbe l'acclaramento di una o più tesi loro.

Epigrafia allo sbaraglio

di Massimo Pittau

Di certo i frequentatori di questo blog si saranno stupiti per la maniera irruente e offensiva con cui Gigi Sanna ha risposto ad alcune semplici domande che gli ho posto riguardo alle ormai famigerate tavolette di Tzricottu e si saranno chiesti quale sia la vera ragione di questo suo modo di fare, mentre fino all’altro ieri non faceva altro che lodarmi. La ragione è presto detta. È da premettere che il Sanna è solito presentare le sue vere o presunte scoperte epigrafiche in un modo logorroico e superspecialistico: sia nelle sue conferenze sia nei suoi scritti egli parla, parla e parla ancora, ottenendo il risultato di prendere per stanchezza, ma anche di stupire i suoi ascoltatori e lettori, i quali prendono i suoi discorsi, pieni di vocaboli difficilissimi - alcuni dei quali creati da lui stesso - come prove certe di una vastissima cultura e di una grande profondità. Ma questo avviene da parte dei lettori o ascoltatori che possono anche avere una vasta cultura generale, ma non si intendono affatto di linguistica e di epigrafia, che sono discipline molto specialistiche.
Ed io comincio con l’osservare che finora non c’è stato un solo vero cultore di linguistica e di epigrafia che abbia preso sul serio le strabilianti proposte epigrafiche del Sanna.
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martedì 1 dicembre 2009

Orgosolo e il lavoro per grazia di partito

La vicenda di 20 disoccupati di Orgosolo ha conquistato in questi giorni il rilievo che i media di solito riservano a drammi collettivi di più ampie dimensioni: quello dei lavoratori dell'Alcoa, della Legler o del petrolchimico di Portotorres, per esempio. La cosa può avere due chiavi di lettura. Una ottimista: la stampa ha compreso che il dramma della disoccupazione ha la stessa intensità, che si tratti di pochi o di molti individui. L'altra, pessimista, è che a prevalere sono i significati ideologici della vertenza. Ed è questa che, purtroppo, è confermata dal poco rilievo dato ad altri drammi che di abbattono su poche persone.
Ed è confermata nel caso dei 20 disoccupati di Orgosolo, membri di una cooperativa, Rinascita 70, che nacque per impulso del Pci e della Cgil con lo scopo di cambiare l'utilizzo delle terre pubbliche, allora esempio di “comunismo primitivo” per la resistenza che le comunità opponevano alla creazione della “proprietà perfetta”. Il “comunismo primitivo” era (ed è) visto come ostacolo alle magnifiche sorti e progressive, non cooptabile in un progetto economico che presupponga investimenti sulla terra.
Per affidare molte centinaia di ettari di terre comunitarie, gravate di uso civico, si tentò allora di abrogare questi usi con una delibera del Consiglio comunale di Orgosolo. La Regione, naturalmente, non poté consentire a questa decisione e fissò in 25 anni il termine scaduto il quale le terre concesse alla cooperativa avrebbero dovuto tornare alla comunità, legittima proprietaria di su comunale. I termini sono scaduti da tempo e i cooperatori si sono detti “disposti” a restituire i terreni in loro affidamento a condizione che la Regione sarda approvasse un piano per il rimpiego dei soci. Il reintegro non può naturalmente essere in alcun modo condizionato: chi ha ricevuto un prestito non può porre alcuna condizione per onorare il suo debito. Non così per chi si sente ideologicamente dalla parte del diritto.
Rinascita 70 fu una importante motrice di sviluppo per molti anni, fino a quando non ce la fece più e dovette chiudere battenti. La sua crisi fu fra le ispiratrici della decisione del governo Soru di proporre alle comunità interessate il cosiddetto Progetto Supramonte che avrebbe dovuto servire sia a salvare posti di lavoro sia a creare uno sviluppo articolato in vari settori. L'accettazione del Progetto fu molto contrastata, ma alla fine ci fu da parte di Orgosolo, Dorgali, Urzullei e Oliena che, però, fece subito marcia indietro.
Il fatto è che il Progetto Supramonte non fu mai elaborato e tutto alla fin fine si è ridotto alla idea di creare una serie di cantieri forestali, compreso quello che avrebbe dovuto accompagnare alla pensione una ventina di soci della Cooperativa. A quel che pare, il governo Cappellacci non avrebbe introdotto nella Finanziaria in corso di discussione il protocollo di intesa fra comuni e Regione che avrebbe dovuto portare al cosiddetto Progetto Supramonte, che tuttavia non esiste. E insieme al protocollo sarebbe sparita la creazione del cantiere tanto sospirato dai soci della Rinascita 70.
Di qui l'occupazione del comune e il rilievo dato dai media alla questione e la mobilitazione della Cgil, del Pd e dell'amministrazione comunale. Alla riunione che benedisse la nascita della Cooperativa – scrive La Nuova – partecipò anche Luciano Lama, allora segretario del maggiore sindacato italiano.
Quasi che questo fatto fosse di per sé garanzia della economicità dell'impresa, certezza di sviluppo economico e stabilità di lavoro produttivo. Conosco e stimo molti dei 20 disoccupati orgolesi che cercano un salario e non troverei affatto scandaloso che la Regione decidesse di aiutarli. Così come dice di voler soccorrere coloro che restano senza lavoro in altri campi: dai dipendenti di un Supermarket in crisi ai giovani intellettuali impiegati negli uffici comunali della lingua sarda. Non esistono o non dovrebbero esistere persone garantite per ragioni di appartenenza.
Ma di qui a premere a che la Regione sia obbligata a far finta di finanziare un cantiere ad personas come se stesse finanziando un progetto di sviluppo, la distanza è enorme. Un sindaco, dando la sua solidarietà ai venti disoccupati orgolesi, ha parlato di assistenzialismo e un altro ha sottolineato come sia meglio l'assistenzialismo piuttosto che la disoccupazione. Certo che sì: purché si abbia l'onestà di dirlo, senza sollevare un polverone politico-ideologico intorno ad un progetto che difficilmente potrebbe essere finanziato, visto che non c'è. Ed anche in quel caso, sarebbe poi difficile sostenere che il diritto al lavoro esiste solo per chi sia garantito dalla appartenenza politica.

domenica 29 novembre 2009

La pietra nuragica di Losa. Tre soli simboli ed un universo concettuale


di Gigi Sanna

Sull’importanza della pietra rinvenuta presso il Nuraghe Losa di Abbasanta abbiamo già cominciato a dire qualcosa, come qualcuno forse ricorderà. E’ un documento straordinario di scrittura nuragica, con ‘alfabeto’ e senso che ci porta diritti diritti all’antica religione siro-palestinese, alle fonti documentarie di essa (Negev) nel XV–XIV secolo a.C. E forse anche prima di questo periodo.
Ma la prima lettura, quella da sinistra verso destra con il lessico ‘EL NAHAS HE’, con i tre simboli forti (’Aleph, Lamed, Nahas), con la chiara voce ‘EL’, con i logogrammi e i pittogrammi acrofonici, con le lettere ‘agglutinate, non è l’unica. Come altri documenti della scrittura epigrafica nuragica (stupendi ed insuperabili quelli di Tzricotu di Cabras, di Is Locci –Santus e la Stele di Nora) la scritta deve essere attentamente esaminata perché ‘il rebus’ espressivo è sempre presente. E l’errore più grave che si può commettere con un testo nuragico è quello di essere ermeneuticamente soddisfatti e chiudere subito la ‘partita’ interpretativa. Di lasciare, per dir così, ‘indecodificata’, molta (e spesso la più importante) parte del senso.

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La vignetta è di Franco Tabacco

sabato 28 novembre 2009

Un trans del VII secolo avanti Cristo

di Alberto Areddu
 
Mentre la matassa del caso Marrazzo si va vieppiù avviluppando, coi suoi risvolti drammatici a seguito di due omicidi (e il ritrovamento di migliaia di files, forse compromettenti) mi vado domandando, ritornando alla questione d'ambito estetico-culturale che teneva banco, prima degli ultimi impreveduti sviluppi, se una questione trans non ci sia sempre stata, e solo oggi grazie ai ritrovati della moderna scienza sia "naturalmente" esplosa. In questa statuetta ritrovata a Ittiri all'inizio del Novecento, nota appunto come "l'aulete di Ittiri", la cosa che colpisce non è tanto o solamente la evidente itifallicità del suonatore di una protolaunedda, quanto il fatto -purtroppo dalle varie foto on line è difficile evidenziare questa realtà- che ha pure il seno ben rilevato.
Chi se ne è interessato ha parlato di ermafroditismo a sfondo dionisiaco: cioè non si vuole tanto raffigurare un individuo che assommi le due metà del creato, quanto rappresentare in una sola immagine (in linguistica si direbbe: olofrasticamente), un'intera scena: "a seguito del suono delle launeddas, l'uomo si eccita e può compiere l'atto con la sua metà femminile (esterna)". 
Tuttavia il Taramelli, che segnalava la statuetta nel 1907, annotava che a tale data erano già state scoperte altre 10 statuette ermafroditiche, e non in contesti o rappresentazioni paniche. C' è allora una domanda da porci: non sarà che l'ermafroditismo (come probabilmente dal punto di vista sanitario la cecità, o in genere le malattie agli occhi) presentava dei casi piuttosto frequenti in Sardegna e che allora come oggi sollecitava la fantasia maschile? 
Di casi inversi, cioè di ginandrismo, invece pare non ci siano testimonianze, ovviamente sarebbe  stato  anche difficile rappresentare delle amazzoni (alla lettera: donne senza seno) armate, quand'anche il contesto nuragico (che rappresenta la donna sempre come madre, moglie o maga) lo avesse accettato, ma invero di questo non ho piena certezza.
La musica dello strumento- pare strano pensare che a tanto potessero le launeddas- esercitava verosimilmente l' effetto stordente e liberatorio degli istinti che oggi è svolto dalla cocaina, anche se ci giurerei era meno costosa. Sarebbe interessante conoscere dai genetisti e antropologi se effettivamente in Sardegna ci sia mai stato un qualche rilievo del transgenderismo, magari nascosto e sottilmente sublimato nell'animo di quei masciufemina (che non finivano come oggi, a fare i parrucchieri bensì gli uomini di chiesa) di cui l'aneddotica popolare è ricca.
Insomma i trans o gli aspiranti trans ci sono sempre stati anche in contesti rudi e rupestri come i nostri, e Marrazzo che ci pare così scriteriatamente moderno nelle sue frequentazioni, in realtà fa uscire da sé, in qualche modo, una lontana costante di "eterno trangenderino" che apparteneva all'uomo prima che il naturalismo di cui fa faceva parte venisse sommerso dall' affermarsi dell'homo economicus, il quale sottomettendo gli archetipi alle prospettive del guadagno, finiva però spesso per generare ricchezza goduta e non sudata, conducendo alla degradazione morale e umana; di una simile degradazione approfittò, nei primi secoli della nostra era,  la moralità sessuofobica del Cristianesimo secondo cui era ed è meglio reprimere o al limite nascondere istinti reputati innaturali.
Sarà per questo che spero vivamente che Ratzinger, a cui Marrazzo sta rivolgendo le sue preci, non lo perdoni affatto: perché non c'è nulla da farsi perdonare.

PS - Scritto e pubblicato questo articolo, ho trovato in La civiltà della Sardegna, di Christian Zervos, un'immagine confacente, che rende ragione alla presenza di un seno femminile, anche se è in bianco e nero.

giovedì 26 novembre 2009

De interpretandi ratione. Sui principi della epigrafia

di Massimo Pittau

Sono ormai parecchi gli amici e conoscenti, sardi e anche forestieri, che mi hanno chiesto o mi stanno chiedendo, a voce o per iscritto, il mio parere riguardo alle scoperte – vere o presunte – di iscrizioni antiche che si starebbero effettuando in Sardegna e riguardo alle loro interpretazioni. Mi sento pertanto in dovere di esprimere oggi pubblicamente il mio meditato parere sull’argomento, precisando però che intendo condurre un discorso generale sulla «epigrafia» o “scienza ed arte della interpretazione delle iscrizioni”; discorso generale che deliberatamente vuole prescindere dai casi specifici che si sono verificati di recente in Sardegna e che hanno aperto numerose e anche vivaci discussioni. Il mio pertanto è un discorso condotto molto più sui “principi metodologici” generali e molto meno sui “fatti od eventi reali”. Ho deciso di assumere questo atteggiamento per una precisa ragione: in alcuni casi sono stati coinvolti alcuni miei conoscenti e amici, per i quali sento lo stretto dovere di non affermare alcunché che possa mettere in dubbio la loro preparazione scientifica e la loro probità professionale, che anzi anche io intendo qui affermare e sottolineare.
Orbene, in base agli insegnamenti che mi sono stati dati già durante i miei studi universitari e in base a una mia pratica della materia epigrafica che va avanti ormai da una trentina d’anni, io sono convinto che siano queste seguenti le condizioni necessarie e sufficienti perché una interpretazione epigrafica abbia i caratteri della scientificità:

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La scrittura nuragica e gli archetipi dei circuiti cerebrali

di Maria Rita Piras

Caro Gianfranco,
Vorrei intervenire nel dibattito del tuo blog a proposito degli archetipi dei miei pazienti. Da oltre 30 anni lavoro con persone affette da disturbi cognitivi conseguenti a danno cerebrale. In particolare, fra i deficit delle funzioni corticali superiori, ho studiato le afasie, le dislessie e le disgrafie che sono disturbi del linguaggio orale e scritto. Lo studio scientifico della Neuropsicologia Clinica nasce con la dimostrazione da parte del neurologo francese Paul Broca che il linguaggio viene elaborato in aree specifiche del cervello, con la descrizione di un paziente che in seguito ad un ictus cerebrale localizzato nel lobo frontale dell’emisfero sinistro aveva perso il linguaggio articolato.
Da allora lo studio delle lesioni cerebrali è stato un prezioso strumento per la comprensione del funzionamento del cervello normale e gli attuali neuro scienziati, con metodi scientifici rigorosi, portano avanti l’indagine sulle basi neurobiologiche della cognizione umana partendo dall’osservazione di soggetti cerebrolesi. Il linguaggio è una funzione complessa non solo nella sua integrità, ma anche nella sua compromissione. Nelle malattie degenerative del cervello come la Malattia di Alzheimer si ha spesso una compromissione del linguaggio sia orale che scritto, ma una “mente malata” non è più semplice o più elementare: la perdita di una funzione cognitiva non è una attività caotica, ma segue leggi rigorose e complesse, perché complessa è l’organizzazione della nostra mente, anche nella patologia.
La scrittura è una funzione simbolica che nel corso dell’evoluzione della nostra specie è stata acquisita tardivamente, cosi come viene acquisita tardivamente dal bambino rispetto al linguaggio orale nel corso del normale sviluppo cognitivo. Il linguaggio scritto, a differenza di quello orale, deve essere insegnato e richiede l’apprendimento di nuovi simboli, comportando una modificazione dell’architettura cognitiva della mente, grazie al costituirsi di nuove reti neurali associative. La scrittura è anche una funzione “fragile” che, per la complessità e l’estensione delle reti associative che la supportano, può essere danneggiata nel corso di malattie degenerative come l’Alzheimer. In questa malattia si perde progressivamente la capacità simbolica, attività che ci rende umani, e si perdono fra gli altri simboli, anche quelli che mediano il linguaggio scritto.
Ma anche nella malattia la mente sa essere creativa e i simboli persi nell’oblio della patologia vengono sostituiti da nuovi simboli che per la loro struttura richiamano i primi, i più antichi alfabeti che l’uomo ha inventato agli albori della civiltà. L’analogia che ho riscontrato con la scrittura nuragica che Gigi Sanna con rigore scientifico ci sta rivelando, non è casuale: la scrittura nuragica racchiude in se i simboli arcaici di una civiltà fra le più antiche, come se questi primi simboli inventati dalla mente umana fossero espressione di archetipi insiti nei nostri circuiti cerebrali. Ma l’arcaicità non implica semplicità, anzi i sempre più numerosi documenti nuragici scritti dimostrano una cultura raffinata e tecniche di scrittura complesse che possono essere decodificate grazie a modelli matematici. Nuovi strumenti sono necessari nel campo dell’epigrafia, dell’archeologia e di tutto ciò che costituisce la “cultura materiale”.
La comprensione di tutto ciò che è prodotto della mente non può prescindere dall’intervento di altre discipline, quali le neuroscienze, l’antropologia, la linguistica, l’intelligenza artificiale, la biofisica, la matematica, la filosofia. Non è facile comprendere le produzioni archetipiche dei miei pazienti, posso rilevarle, descriverle, fornirne delle interpretazioni alla luce delle attuali conoscenze, fare delle ipotesi, ma come dice Emerson Pugh : “Se il cervello umano fosse cosi semplice da poterlo capire, saremmo noi stessi cosi semplici da non poterlo capire”. Cari saluti.

Sondaggio: libero accesso agli anonimi. Così si è deciso

Si resta così. I settanta votanti nel sondaggio e i 19 intervenuti nel blog hanno deciso: qui gli anonimi continuano ad essere ammessi. Il piccolo sondaggio (per la verità poco partecipato, segno che ai lettori non importa granché) ha consegnato questi risultati: per 42 (60%) va bene così, per 8 (11%) non vanno esclusi né gli anonimi né i troll; per 7 (10%) in eguale misura bisognerebbe escludere gli anonimi e moderare le discussioni; per 6 (8%) va chiusa la porta ai troll. Così è deciso e così sarà. Salvo il fatto che dalla partecipazione alle discussioni sono esentati – e cancellati – i perdigiorno e i maleducati.

mercoledì 25 novembre 2009

Soliloquio sul ritorno i la Sarditat mia

di Davide Casu

Non ricordo quando fu il giorno che vidi le opere di Amedeo Modigliani la prima volta, rammento però che del suo genio non compresi nulla, tanto che per molti anni buttai quelle poche immagini serbate in uno dei miei magazzini bui della memoria dicciottenne... e me ne dimenticai sin quando, giá nel proseguo degli studi, cominciai a prendere in mano i testi di "Derrida”. Può essere che non vi sia relazione alcuna “mì”, forse, apparentemente magari!
Ho sempre avuto, però, una speciale predilezione per infischiarmene di ció che leggo e farlo suonare dalle mie corde e Derrida quindi giá non c'era... Però, non so spiegarlo in altra maniera, ora vedevo davvero Modigliani, e lo guardavo faccia a faccia. Immagino fosse per quella sua irrepetibile facoltá di individuare, in quelle sue linee sintetiche, gli archetipi di ciò che è umano, o come la chiamava lui: “della razza”; Derrida che aveva decostruito le mie certezze me ne fece dono.
Cominciavo, a pari passo, a fare mente sul bimbo che fui, l'unico sardo che sono stato in vita mia. Stavo giá a Torino e risuonava nella mia testa una frase martellante che supponeva, quando in me c’era ancora il verde e oro di campi, che non avessi mai pensato che avrei potuto credere nella sinuositá del pensiero né in quella della cittá... ma lo stavo facendo e, grazie a Modigliani, si faceva spazio il bimbo “gitat” a Surigheddu, “lluny de l’Alguer” ma vicino alla terra, la terra quella materiale, lei tra le mie mani, mio padre col suo sguardo limpido che solo a chi sta in pace puó appartenere.
Non ero stato capace, negli anni, di comprendere il perchè “mon pare” fosse un uomo sereno; me ne avvidi solo quando lasciai sa Sardinnia e col tempo, tra le letture e lo schifo della cittá, mi ero contaminato anch'io, e ancora quel bimbo, l'unico sardo che fui, l'animale che avevo ucciso per creare l'uomo che sono diventato, cominciò a puntare il dito verso la terra sarda. Strana cosa: di solito gli adulti sono avvezzi ad immaginare se stessi accompagnando il loro alterego infante per le strade della vita, mentre per me era il contrario...
Cos'era ciò che mi chiamava? Istinto, radici, lingua, storia?... Non solo: era la terra, quella che zappava mio padre e tutto quanto da essa generava: la primordialitá dell'esistenza in quelle azioni sistematiche di babbo, l'animalitá insita in quella purezza che straripava abbondante dai suoi occhi... ed il bimbo, quell'animale che ora pretendeva tornare “en casa”, lui che aveva pisciato tutto il suo territorio e dal quale io lo avevo strappato... a su mere sou.
Manca un mese al ritorno e mi chiedo dove sia la sarditá se non v'è terra, la terra sarda, con la sua chimica, la sua materia organica… Me lo chiedo ora che mi accingo a “torrare”..... Dov'è la sarditá se non c'è quella realtá, non il concetto che è cosa artificiosa, ma se non c'è quella realtá rudimentale dello svolgersi della vita, se non sussiste quell'azione atavica e tribale del vivere vero, ossia legato all'esistenza e non all'abitare. Se così non stanno le cose, starei ritornando in Sardegna? O posso anche rimanere in “terra anzena”?... Forse sospetto od avverto che sono la, sull'orlo tra vivere e definitivamente destinarmi ad abitare soltanto, in una Sardegna qualsiasi, che puó stare di qua come in qualsiasi altra cordinata di questo globo...

lunedì 23 novembre 2009

L'industrializzazione è alla frutta. Politica e sindacato anche

Vogliamo finalmente dire, senza infingimenti, che stanno arrivando al pettine tutti i nodi della sbagliata industrializzazione della Sardegna? E che siamo nel bel mezzo di un marasma politico e sindacale che sembra senza uscita? Da un lato c'è l'incapacità (o forse solo l'impossibilità) dei governi italiano e sardo di trovare una via di uscita nei meccanismi del mercato mondiale della chimica e dell'alluminio. Dall'altro il cinismo della politica e di parte del sindacato che non resiste alla tentazione di usare la disperazione per fini collaterali e di scatenare guerre interne ed esterne alla maggioranza di governo, in Italia e in Sardegna.
Sullo sfondo, il dramma di migliaia di lavoratori portati all'esasperazione dai pericoli che vedono immediati per la loro occupazione, dalla incertezza circa possibili soluzioni, dalle risposte che governi non statalisti (almeno in economia) non sanno dare, dal cinismo di coloro ai quali non par vero poter scaricare su chi governa responsabilità che sono, politicamente ma soprattutto culturalmente, anche loro. Mi ha colpito favorevolmente, in questi giorni di scontro intorno alle vicende industriali della Sardegna, l'appello di un sindacalista della Cgil di Sassari. Antonio Rudas, segretario provinciale di quel sindacato, ha fatto appello ad un ampio movimento di popolo, “superando le anacronistiche divisioni sindacali e partitiche. Abbiamo bisogno di uno scatto di orgoglio alto, di un vero e proprio moto popolare. È arrivato il momento, ancora una volta, di fare i conti con la nostra storia”.
Già nel passato, Rudas aveva invitato a “fare i conti con la nostra storia”, affermando che classi dirigenti responsabili avrebbero dovuto prender atto che la chimica sarda è arrivata al capolinea e che da subito bisogna mettersi in testa di elaborare un nuovo modello di sviluppo della Sardegna. Anche la produzione di alluminio in Sardegna è arrivata al capolinea, visto che costa troppo produrlo con i prezzi dell'energia di cui l'alluminio è non consumatore, ma divoratore (500 mila euro al giorno, spende l'Alcoa, quanto una famigliola consumerebbe in 5.000 mesi).
La retorica industrialista e operaista che soffiò sulla nostra Isola negli anni della cosiddetta Rinascita, e subito dopo, non fu solo dei governi sardi di allora, democristiani, ma, politicamente e soprattutto culturalmente, anche della sinistra e del sindacato oltrecché della intellettualità metropolitana, immemore, essa per lo più marxista, della feroce critica di Marx all'ideologia. Sull'altare di quel feticcio, si sacrificò (si tentò di farlo) l'identità considerata nemica del progresso, si accettò che da fuori della Sardegna si decidesse di paracadutare industrie fortemente inquinanti ed altre fondate sul consumo abnorme di energia elettrica e persino – c'è chi lo ha dimenticato – una fabbrica di bioproteine (fortunatamente messa da parte perché produttrice di tumori) e una per la liofilizzazione del caffè brasiliano. Chi lo trova, legga o rilegga “Il golpe di Ottana” di Giovanni Columbu: qualche editore potrebbe pur ristamparlo, a memoria di chi era grande allora e ad ammonimento di chi allora non lo era.
Le culture politiche di oggi non possono far finta che questo disastro industriale non fosse annunciato, né a destra, né a sinistra, né in qualsiasi altro inutile punto cardinale della politica sarda. Alle classi dirigenti sarde, dalla partitica alla sindacale alla imprenditoriale e, se ci fosse, a quella culturale spetta un compito diverso da quello ricavatosi di “polli di Renzo”. Prendere atto che l'industrializzazione esistente è, complessivamente intesa, alla frutta, che bisogna favorire la nascita di quel movimento di popolo di cui parla Rudas, che bisogna fare l'impossibile per salvare lavoro e dignità alle migliaia di persone che stanno per perdere l'uno e l'altra. E che da subito è necessario lavorare a un modello di sviluppo nuovo, quel “nuovo modello di civiltà” che Eliseo Spiga patrocinava come strumento per uscire da questa barbarie prevedibile e prevista.
Un sintomo di disumanizzazione? Il rifiuto degli operai dell'Alcoa di far uscire dalla fabbrica materiali indispensabile al funzionamento di una fabbrica romana i cui operai nulla hanno detto sulla disperazione dei loro colleghi sardi. Un circolo vizioso che manda alla malora la tanto ideologizzata solidarietà operaia e tutto l'operaismo che l'ha nutrita.

Su bantu de "seu Sardu", sa bregùngia de "purtroppo sono sardo"

de Pàulu Pisu

Sàbudu su 7 de donniasantu in Carbònia s’est fatu unu cumbènniu de importu mannu intitulau De s’istória furara a s’istória coment’e protagonistas. Su bellu acontèssiu, bòfiu de Mario Puddu e apariciau impari a s'assòtziu s'Àndala de Carbònia teniat cumenti de reladoris a Puddu etotu, docenti e linguista autori de ditzionàrius e grammàtigas de sardu, Salvatore Cubeddu, sociòlogu e Federico Francioni, stòricu. Is reladoris faint parti de sa Fondazione Sardegna, sa pròpia fundatzioni chi at agiudau a apariciai s'àteru cumbènniu de importu mannu fatu de pagu in Ollolai: Sotto l’albero di Ospitone.
Puddu cun sa relata Su “buco nero” de s’iscola italiana, at ammostau s'arresurtau de s'anàlisi fata asuba de unus cantu cursus de stòria in adotzioni in tres scolas mesanas, mèdias, de s'ìsula, unu de custus est su de Sàrdara, NOI SIAMO LA STORIA - Mondadori, e un'àteru testu umperau in d-unu ginnàsiu de Carbònia.
Sa relata s'at ammostau ca in custus libbrus (ma podeus de seguru nai in totu is libbrus de scola), sa storia nosta no est contada. Calincunu fueddu, ma no sempri, asuba de sa civiltadi de is nuraxis e pratigamenti nudda àteru. Candu aparessit su fueddu Sardegna est giai sempri in funtzioni de sa stòria de is àterus e bortas meda contant po fintzas fàulas mannas. Sa prus eclatanti est cussa chi narat ca in s'edadi de is Judex, Giudici-re, sa Sardìnnia fiat genovesa e pisana, trastochendi aici unus 400 annus de stòria prus che dìnnia. Civiltadi chi iat prodùsiu prendas che sa Carta de Logu, lei de is prus modernas de s'Europa de su tempus, unu tempus anca Marianu IV, Judex e babbu de Lionora de Arborea, iat afranchiu po lei totu is serbidoris-mesu scraus candu bona parti de s'Europa fut ancora imboddiada in su scuriori de su feudalèsimu.
Cubeddu invècias cun sa relata Lo studio della storia nella formazione della coscienza di un popolo at fueddau de s'importu po unu pòpulu su connosci sa stòria cosa sua e spricau poita est chi sa nosta no dd'agataus in scola. Una relata chi si fait cumprendi cosas medas e chi si fait sucai su feli: su pigai cuscièntzia de certas chistionis podit essi unu pagheddu cumenti de nci arrui de suncunas spollaus, in s'ierru, aintru de unu corropu de àcua frida che sa nii.
Sa relata de Francioni A tempos de Giommaria Angioy est apitzus de custu grandu personàgiu de s'acabbu de su 1700 e primus annus de su 1800, chi a unu certu tretu de sa furriada de is sardus contras a savojas e feudatàrius iat ghiau is sardus. Una furriada chi at connotu una partecipatzioni populari chi no tenit cunfrontu in nisciuna àtera parti de Itàlia avedali. Agataus in scola calincunu acinnu a custus tempus de grandu importu po is sardus? Provai a biri bosàterus etotu me is libbrus chi seguramenti teneis ancora in domu. Sa chistioni est: funt is stòricus inniorantis ca no scint o ddu est calincuna àtera arrexoni?
A merì s’est spoddiau su dibbàtidu: leaders indipendentistas e àterus aproliaus po circai de biri is cosas de un'àtera prospetiva. Chi un’ataciada, una crìtica, dda depu fai est po su tropu tempus lassau a is polìtigus ca ant furau tempus meda a s’arrexonada.
Podeis ascurtai e biri siat is relatas che is interbentus innoi: Chi eis a tenni sa passièntzia de biri custus vìdeus de interessu stravanau, provai a arrespundi a sa domanda innoi asuta.
Si parrit normali chi sa scola sigat a cuai a fillus nostus sa stòria insoru?
De unu pagheddu de tempus in sa scola de Sàrdara aintru de su consillu de istitutu babbus e mammas funt domandendi, cunfromma a is leis de statu e regioni de acostai a su programma ministeriali de stòria cussu de sa terra nosta. Is leis giai ddu previdint.
Abetendi chi si ndi scidit sa Regioni Sarda, de sempri dormida asuba de custas chistionis, seus me i manus de cuscièntzia de sa classi docenti de Sàrdara. Spetat a maistus e professoris a detzidi chi est cosa de profetu sighiri a cuai a fillus nostus sa stòria insoru (e lìngua e cultura prus in generali). Tocat a issus a detzidi chi est unu beni o unu mali po fillus nostus a ddus agiudai a pigai cuscièntzia de su chi funt o sighiri a ddus fai castiai sceti a su mundu e a sa cultura de is àterus sighendi a ddis fai pensai ca babbus e abus insoru no ant prodùsiu una cultura dìnnia de sa scola.
Tocat a sa scola a nai chi est importanti chi fillus nostus potzant nai cun bantu: seu Sardu! O cun d-unu pagheddu de bregùngia e a faci in terra: purtroppo sono sardo! E cumprendi is implicatzionis mannas in tèrminis sòtziu-econòmicus po su benidori insoru.
Po immoi sa scola at scritu me is finalidadis educativas de su POF: privilegiare percorsi che valorizzino la storia, la lingua e la cultura della Sardegna al fine di fornire una piena consapevolezza del proprio codice identitario. Est giai calincuna cosa chi si fait castiai cun ogus de speru. Eus a biri chi at a preni de cuntènnius, contenuti, custus printzìpius o chi invècias ant a abarrai sceti fueddus mortus e scavuaus in d-unu arrogu de paperi a fai cumpangia a sa cuscièntzia de is sardus cuada in su scuriori de s'innioràntzia.