Vogliamo finalmente dire, senza infingimenti, che stanno arrivando al pettine tutti i nodi della sbagliata industrializzazione della Sardegna? E che siamo nel bel mezzo di un marasma politico e sindacale che sembra senza uscita? Da un lato c'è l'incapacità (o forse solo l'impossibilità) dei governi italiano e sardo di trovare una via di uscita nei meccanismi del mercato mondiale della chimica e dell'alluminio. Dall'altro il cinismo della politica e di parte del sindacato che non resiste alla tentazione di usare la disperazione per fini collaterali e di scatenare guerre interne ed esterne alla maggioranza di governo, in Italia e in Sardegna.
Sullo sfondo, il dramma di migliaia di lavoratori portati all'esasperazione dai pericoli che vedono immediati per la loro occupazione, dalla incertezza circa possibili soluzioni, dalle risposte che governi non statalisti (almeno in economia) non sanno dare, dal cinismo di coloro ai quali non par vero poter scaricare su chi governa responsabilità che sono, politicamente ma soprattutto culturalmente, anche loro. Mi ha colpito favorevolmente, in questi giorni di scontro intorno alle vicende industriali della Sardegna, l'appello di un sindacalista della Cgil di Sassari. Antonio Rudas, segretario provinciale di quel sindacato, ha fatto appello ad un ampio movimento di popolo, “superando le anacronistiche divisioni sindacali e partitiche. Abbiamo bisogno di uno scatto di orgoglio alto, di un vero e proprio moto popolare. È arrivato il momento, ancora una volta, di fare i conti con la nostra storia”.
Già nel passato, Rudas aveva invitato a “fare i conti con la nostra storia”, affermando che classi dirigenti responsabili avrebbero dovuto prender atto che la chimica sarda è arrivata al capolinea e che da subito bisogna mettersi in testa di elaborare un nuovo modello di sviluppo della Sardegna. Anche la produzione di alluminio in Sardegna è arrivata al capolinea, visto che costa troppo produrlo con i prezzi dell'energia di cui l'alluminio è non consumatore, ma divoratore (500 mila euro al giorno, spende l'Alcoa, quanto una famigliola consumerebbe in 5.000 mesi).
La retorica industrialista e operaista che soffiò sulla nostra Isola negli anni della cosiddetta Rinascita, e subito dopo, non fu solo dei governi sardi di allora, democristiani, ma, politicamente e soprattutto culturalmente, anche della sinistra e del sindacato oltrecché della intellettualità metropolitana, immemore, essa per lo più marxista, della feroce critica di Marx all'ideologia. Sull'altare di quel feticcio, si sacrificò (si tentò di farlo) l'identità considerata nemica del progresso, si accettò che da fuori della Sardegna si decidesse di paracadutare industrie fortemente inquinanti ed altre fondate sul consumo abnorme di energia elettrica e persino – c'è chi lo ha dimenticato – una fabbrica di bioproteine (fortunatamente messa da parte perché produttrice di tumori) e una per la liofilizzazione del caffè brasiliano. Chi lo trova, legga o rilegga “Il golpe di Ottana” di Giovanni Columbu: qualche editore potrebbe pur ristamparlo, a memoria di chi era grande allora e ad ammonimento di chi allora non lo era.
Le culture politiche di oggi non possono far finta che questo disastro industriale non fosse annunciato, né a destra, né a sinistra, né in qualsiasi altro inutile punto cardinale della politica sarda. Alle classi dirigenti sarde, dalla partitica alla sindacale alla imprenditoriale e, se ci fosse, a quella culturale spetta un compito diverso da quello ricavatosi di “polli di Renzo”. Prendere atto che l'industrializzazione esistente è, complessivamente intesa, alla frutta, che bisogna favorire la nascita di quel movimento di popolo di cui parla Rudas, che bisogna fare l'impossibile per salvare lavoro e dignità alle migliaia di persone che stanno per perdere l'uno e l'altra. E che da subito è necessario lavorare a un modello di sviluppo nuovo, quel “nuovo modello di civiltà” che Eliseo Spiga patrocinava come strumento per uscire da questa barbarie prevedibile e prevista.
Un sintomo di disumanizzazione? Il rifiuto degli operai dell'Alcoa di far uscire dalla fabbrica materiali indispensabile al funzionamento di una fabbrica romana i cui operai nulla hanno detto sulla disperazione dei loro colleghi sardi. Un circolo vizioso che manda alla malora la tanto ideologizzata solidarietà operaia e tutto l'operaismo che l'ha nutrita.
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