Leggi su un quotidiano delle “ripugnanti proposte leghiste, come quella recentissima di imporre agli insegnanti un esame di cultura e lingua locali” e devi correre a vedere la data del giornale. Vero è che quell’aggettivo “leghiste” ti da il senso del tempo. Ma la frase di Ernesto Galli della Loggia sembra presa dal passato fascista. Quando, nel 1931, il gerarca responsabile dell’ufficio stampa di Mussolini, Gaetano Polverelli, imponeva ai giornali di “non pubblicare articoli, poesie, o titoli in dialetto. L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali del regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e di servitù della vecchia Italia”.
Curiosa somiglianza dei due con quanto diceva Friedrich Engels, amico e compagno di Marx, secondo il quale – cito a memoria – i “dialetti” sono rottami del passato che la storia provvederà a cancellare. L’odio per le diversità, il livore contro tutto ciò che l’invenzione degli Stati-nazione non riesce a controllare è una costante nel fascismo e nel comunismo. Evidentemente non solo lì. Non c’entra la Lega, o, al massimo, la Lega è il capro espiatorio di un nazionalismo granditaliano che non a caso rigurgita oggi che è aperta la polemica di questi nazionalisti contro la disattenzione con cui la politica guarderebbe alle celebrazioni del 150simo anniversario della cosiddetta “Unità d’Italia”.
La Repubblica italiana è unita e già la cosa, per come questa unità si è formata, cancellando il fatto per esempio che essa è erede del Regno di Sardegna, lascia perplessi. È comunque costituzionalmente garante delle autonomie e delle lingue diverse dall’italiano e, sotto questo aspetto, dà garanzie di quel pluralismo che gli epigono di Polverelli vorrebbero cancellato. Ma dire che unita è l’Italia, intesa come l’insieme di territori, lingue, culture, tradizioni, è una pericolosa sciocchezza che, questa sì, farebbe tornare lo Stato italiano all’Ottocento e al Ventennio. Solo nostalgici del vetero-nazionalismo passato possono pensare davvero a uno Stato, un Popolo, una Lingua.
Dal momento che la Costituzione riconosce l’esistenza di lingue diverse dall’italiano e, per quanto ci riguarda, l’esistenza del popolo sardo (niente meno che titolare di iniziativa legislativa), scritti come quello di Della Loggia non sono solo scioccamente provocatori: sono una istigazione all’eversione.
venerdì 31 luglio 2009
giovedì 30 luglio 2009
Lingua sarda e sindrome del "muoia Sansone e i filistei"
C’è una sindrome curiosa in alcuni di noi: pur di andare contro un partito avversario (la Lega in questo caso) si gioisce per la marcia indietro rispetto a un provvedimento che avrebbe giovato ai sardi. Muoia Sansone con tutti i filistei, per non dire dell’estremo sacrificio di chi per fare dispetto alla moglie... Con atteggiamento che è difficile non definire sub-colonialista si irride ai dialetti (lombardi o comunque nordici), contenti della differenza della Sardegna che ha, invece, una lingua tutelata dalla Regione e dallo Stato, come se il sardo non fosse lingua anche prima di questi riconoscimenti. È proprio vero, allora, che una “lingua è un dialetto con alle spalle un esercito”.
Ma c’è qualcosa di più bizzarro ancora: della proposta della Lega sui dialetti e le culture regionali hanno parlato i giornali così come i giornali hanno parlato della marcia indietro della Lega sulla questione dei dialetti. Alcuni di noi hanno appreso della proposta dai giornali, altri (come me), dal testo autentico dell’emendamento presentato dalla stessa Lega. Noi ci siamo presi diverse qualifiche, dagli ingenui ai babbei creduloni da chi ha appreso della “marcia indietro” dagli stessi giornali. Noi babbei, loro svegli. E poco importa che non abbiano verificato sui documenti autentici.
In realtà – basta leggere le dichiarazioni dei leghisti – la marcia indietro appare solo una tattica: lancio un’idea, osservo le reazioni, modulo l’idea, ma non la lascio perdere. “Si tratta di un esame di poche domande, ne bastano quattro, per provare il livello di conoscenza di storia, cultura, tradizioni e lingua della regione in cui vogliono insegnare” gli esaminandi, ha detto la capogruppo della Lega in commissione Cultura alla Camera, Paola Goisis. Se così sarà, anche noi sardi saremo tutelati da chi pretende di insegnare a nostri figli cose di cui ignorano l’esistenza. Come quegli insegnanti sardi che obbiettano “il sardo? Ma per carità” o che parlano della dominazione coloniale dei greci in Sardegna o, anche, che i fenici costruivano tombe nel IV secolo aC, perché così hanno letto su La Repubblica.
Dire di no a questa idea solo perché è venuta ai leghisti è quanto di più idiota si possa immaginare. E, soprattutto, pone quei sardi, magari fervidi assertori del diritto loro e dei propri figli a conoscere la lingua, la cultura e la storia, sullo stesso piano dei tanti giacobini (di destra, di sinistra, di su e di giù) che hanno condannato la proposta leghista. Ecco un piccolo florilegio: “Il dialetto è un’eredità storica molto locale e circoscritta che si impara nella vita reale, quella di tutti i giorni. Impossibile introdurlo nella scuola” (Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca). “E’ una proposta discriminante e ingiusta, che riporta indietro al 1800, quando l’Italia era ancora divisa in stati e ognuno parlava il suo dialetto” (Sindacato Gilda). “Esprimo solidarietà al governo perché i giornali non lo capiscono mai. Forse se il governo parlasse in italiano invece che in dialetto ci sarebbero meno fraintendimenti...” (Rocco Buttiglione, presidente Udc). “Stupisce che mentre la Lega cerca di simulare passi indietro per sgonfiare le polemiche sui test di cultura e dialetto, il ministro Gelmini non esisti a fare passi in avanti che ridicolizzano ancora di più la scuola pubblica” (Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione Cultura della Camera).
È in compagnia di gente così, cari amici che avete irriso, che rischiate di trovarvi. Badate che gente così non fa distinzione fra dialetto e dialetto: per loro sardo, siciliano, lombardo, veneto sono la stessa cosa.
Intanto, così per curiosità, vi segnalo che in Italia (sondaggio del Corriere) il 67,5 per cento si è detto contrario al test “dal quale emerga la loro conoscenza della storia, delle tradizioni e del dialetto della regione in cui intendono insegnare”. In Sardegna (sondaggio dell’Unione sarda) il 74,1 per cento è favorevole. Stamattina, questo sondaggio è stato chiuso, dopo appena una trentina di ore dall'apertura. Curioso: restano aperti questi sondaggi che dall'argomento si capisce non sono freschi di giornata:
Napolitano: stop alle polemiche in vista del G8. Che ne pensi?
Calcio: il Milan deve comprare un attaccante. Chi potrebbe essere l'uomo giusto?
G8, i grandi per l'etica e le regole. Sei ottimista?
Donne in pensione, l'età si innalza. Che ne pensi?
Chimica, si riapre una prospettiva per la Sardegna. Che ne pensi?
Afghanistan e missioni di pace. Sei d'accordo sull'impegno dell'Italia?
PS - Il "mio prezioso nemico" (così Marcello Fois nei miei confronti e io contraccambio di cuore) si scopre linguista e scrive sul Corriere: "Un sardo deve sapere almeno uno dei tre ceppi linguistici: logudorese, campidanese, gallurese. Sono tre lingue...". Incavolati tabarchini, sassaresi e catalani d'Alghero neppure nominati; felici Blasco Ferrer, Graziano Milia e altri inventori del "campidanese" come lingua a parte. Hanno trovato un adepto nella Barbagia di Bologna.
Ma c’è qualcosa di più bizzarro ancora: della proposta della Lega sui dialetti e le culture regionali hanno parlato i giornali così come i giornali hanno parlato della marcia indietro della Lega sulla questione dei dialetti. Alcuni di noi hanno appreso della proposta dai giornali, altri (come me), dal testo autentico dell’emendamento presentato dalla stessa Lega. Noi ci siamo presi diverse qualifiche, dagli ingenui ai babbei creduloni da chi ha appreso della “marcia indietro” dagli stessi giornali. Noi babbei, loro svegli. E poco importa che non abbiano verificato sui documenti autentici.
In realtà – basta leggere le dichiarazioni dei leghisti – la marcia indietro appare solo una tattica: lancio un’idea, osservo le reazioni, modulo l’idea, ma non la lascio perdere. “Si tratta di un esame di poche domande, ne bastano quattro, per provare il livello di conoscenza di storia, cultura, tradizioni e lingua della regione in cui vogliono insegnare” gli esaminandi, ha detto la capogruppo della Lega in commissione Cultura alla Camera, Paola Goisis. Se così sarà, anche noi sardi saremo tutelati da chi pretende di insegnare a nostri figli cose di cui ignorano l’esistenza. Come quegli insegnanti sardi che obbiettano “il sardo? Ma per carità” o che parlano della dominazione coloniale dei greci in Sardegna o, anche, che i fenici costruivano tombe nel IV secolo aC, perché così hanno letto su La Repubblica.
Dire di no a questa idea solo perché è venuta ai leghisti è quanto di più idiota si possa immaginare. E, soprattutto, pone quei sardi, magari fervidi assertori del diritto loro e dei propri figli a conoscere la lingua, la cultura e la storia, sullo stesso piano dei tanti giacobini (di destra, di sinistra, di su e di giù) che hanno condannato la proposta leghista. Ecco un piccolo florilegio: “Il dialetto è un’eredità storica molto locale e circoscritta che si impara nella vita reale, quella di tutti i giorni. Impossibile introdurlo nella scuola” (Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca). “E’ una proposta discriminante e ingiusta, che riporta indietro al 1800, quando l’Italia era ancora divisa in stati e ognuno parlava il suo dialetto” (Sindacato Gilda). “Esprimo solidarietà al governo perché i giornali non lo capiscono mai. Forse se il governo parlasse in italiano invece che in dialetto ci sarebbero meno fraintendimenti...” (Rocco Buttiglione, presidente Udc). “Stupisce che mentre la Lega cerca di simulare passi indietro per sgonfiare le polemiche sui test di cultura e dialetto, il ministro Gelmini non esisti a fare passi in avanti che ridicolizzano ancora di più la scuola pubblica” (Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione Cultura della Camera).
È in compagnia di gente così, cari amici che avete irriso, che rischiate di trovarvi. Badate che gente così non fa distinzione fra dialetto e dialetto: per loro sardo, siciliano, lombardo, veneto sono la stessa cosa.
Intanto, così per curiosità, vi segnalo che in Italia (sondaggio del Corriere) il 67,5 per cento si è detto contrario al test “dal quale emerga la loro conoscenza della storia, delle tradizioni e del dialetto della regione in cui intendono insegnare”. In Sardegna (sondaggio dell’Unione sarda) il 74,1 per cento è favorevole. Stamattina, questo sondaggio è stato chiuso, dopo appena una trentina di ore dall'apertura. Curioso: restano aperti questi sondaggi che dall'argomento si capisce non sono freschi di giornata:
Napolitano: stop alle polemiche in vista del G8. Che ne pensi?
Calcio: il Milan deve comprare un attaccante. Chi potrebbe essere l'uomo giusto?
G8, i grandi per l'etica e le regole. Sei ottimista?
Donne in pensione, l'età si innalza. Che ne pensi?
Chimica, si riapre una prospettiva per la Sardegna. Che ne pensi?
Afghanistan e missioni di pace. Sei d'accordo sull'impegno dell'Italia?
PS - Il "mio prezioso nemico" (così Marcello Fois nei miei confronti e io contraccambio di cuore) si scopre linguista e scrive sul Corriere: "Un sardo deve sapere almeno uno dei tre ceppi linguistici: logudorese, campidanese, gallurese. Sono tre lingue...". Incavolati tabarchini, sassaresi e catalani d'Alghero neppure nominati; felici Blasco Ferrer, Graziano Milia e altri inventori del "campidanese" come lingua a parte. Hanno trovato un adepto nella Barbagia di Bologna.
mercoledì 29 luglio 2009
La Lega per lingue e dialetti. Finalmente
La proposta della Lega di selezionare i nuovi insegnanti sulla base della conoscenza della storia e delle lingue locali sta scatenando la canea, assolutamente bipartisan, del giacobinismo italiano. Eppure si tratta di una misura assolutamente giusta e legittima. Qualcuno vi vede un bel po’ di antimeridionalismo (sospetto alimentato dalle dichiarazioni di qualche leghista preoccupato dalla “invasione” dei meridionali nelle scuole del Nord). Può darsi e, francamente, questa discriminazione non sarebbe tollerabile, tanto più che nessuno impedisce ad un insegnante meridionale di studiare e conoscere la storia, il dialetto o la lingua, le tradizioni della regione dove vuol andare a insegnare.
Ciò non toglie che la proposta è giusta e va in direzione del rispetto delle diversità. E spinge i futuri insegnanti a rispettare il diritto dei bambini e dei ragazzi ad una istruzione non approssimativa, indifferente al loro interesse a conoscere la terra in cui vivono. Sapere che in Sardegna si sono sviluppate civiltà autoctone e allo stesso tempo aperte a intensi scambi internazionali è indispensabile alla crescita culturale di futuri cittadini; negare loro queste informazioni a scuola significa farne cittadini dimezzati, costretti a considerare la scuola un non luogo, buono al massimo per trascorrervi parte del tempo.
Lo stesso, in maniera ancora più grave, succede con la lingua che molti bambini (anche se sempre meno) parlano prima di entrare nell’edificio scolastico e poi all’uscita: la scuola diventa, così, una parentesi fra la vita reale del prima e del dopo insegnamento. Quattro o cinque ore di sospensione giornaliera dove disimparare ad avere relazioni con il proprio mondo. Si può dire che gli insegnanti, usciti da università anch’esse a volte non luoghi, non hanno imparato la storia sarda né la lingua. Possono sempre imparare l’una e l’altra, soprattutto se una legge obbligherà le università sarde a insegnarle ai futuri professori.
Le reazioni alla proposta leghista sono per lo più improntate alla difesa dell’esistente, quando non a un rifiuto giacobino delle lingue e dei dialetti, considerati una zeppa messa nel corpo dell’unità della Repubblica. La stessa opposizione centralistica (di più, accentratrice) c’è nei confronti della storia locale che, ovviamente, dà un quadro della storia italiana diversa da quella costruita per dar conto di una realtà che o non esiste o è piegata ad esigenze politiche.
Ma ci sono reazioni a livello diverso da quello politico-parlamentare, come alcuni sondaggi promossi da quotidiani. Nel suo sito, l’Unione sarda ne aveva uno fino alle prime ore del mattino, quando il risultato era 50% favorevole alla proposta leghista, 50% contrario. Poi è scomparso. Forse, quel 50% di favorevoli era considerato un brutto segnale di interesse a una questione, quella della lingua, che al giornale, invece, non interessa affatto. I giacobini di ogni tendenza saranno invece soddisfatti per il risultato del Corriere della Sera, anche se il 71% di contrari di stamattina sta lentamente diminuendo.
Solo un consiglio: io ho già votato a favore della proposta. Se qualcuno volesse seguirmi, il sondaggio è all’indirizzo: http://www.corriere.it/appsSondaggi/pages/corriere/d_5548.jsp
PS - A metà mattina, il sondaggio dell'Unione è riapparso con i risultati che vedete nella foto. Un risultato desolante, ma assai in linea con l'opera di disinformazione e di mistificazione che quel giornale attua da tempo nei confronti della lingua sarda e di qualunque lingua non sia quella usata dall'Unione. Il link al sondaggio dell'Unione è http://unionesarda.ilsole24ore.com/Sondaggio.aspx?id=136655
PS 2 - Qualcuno "confessa" di aver votato più volte nel sondaggio dell'Unione. Non importa, al fine del segnale che credo si volesse dare. A me non è riuscito: compare la scritta che ho fotografato.
Ciò non toglie che la proposta è giusta e va in direzione del rispetto delle diversità. E spinge i futuri insegnanti a rispettare il diritto dei bambini e dei ragazzi ad una istruzione non approssimativa, indifferente al loro interesse a conoscere la terra in cui vivono. Sapere che in Sardegna si sono sviluppate civiltà autoctone e allo stesso tempo aperte a intensi scambi internazionali è indispensabile alla crescita culturale di futuri cittadini; negare loro queste informazioni a scuola significa farne cittadini dimezzati, costretti a considerare la scuola un non luogo, buono al massimo per trascorrervi parte del tempo.
Lo stesso, in maniera ancora più grave, succede con la lingua che molti bambini (anche se sempre meno) parlano prima di entrare nell’edificio scolastico e poi all’uscita: la scuola diventa, così, una parentesi fra la vita reale del prima e del dopo insegnamento. Quattro o cinque ore di sospensione giornaliera dove disimparare ad avere relazioni con il proprio mondo. Si può dire che gli insegnanti, usciti da università anch’esse a volte non luoghi, non hanno imparato la storia sarda né la lingua. Possono sempre imparare l’una e l’altra, soprattutto se una legge obbligherà le università sarde a insegnarle ai futuri professori.
Le reazioni alla proposta leghista sono per lo più improntate alla difesa dell’esistente, quando non a un rifiuto giacobino delle lingue e dei dialetti, considerati una zeppa messa nel corpo dell’unità della Repubblica. La stessa opposizione centralistica (di più, accentratrice) c’è nei confronti della storia locale che, ovviamente, dà un quadro della storia italiana diversa da quella costruita per dar conto di una realtà che o non esiste o è piegata ad esigenze politiche.
Ma ci sono reazioni a livello diverso da quello politico-parlamentare, come alcuni sondaggi promossi da quotidiani. Nel suo sito, l’Unione sarda ne aveva uno fino alle prime ore del mattino, quando il risultato era 50% favorevole alla proposta leghista, 50% contrario. Poi è scomparso. Forse, quel 50% di favorevoli era considerato un brutto segnale di interesse a una questione, quella della lingua, che al giornale, invece, non interessa affatto. I giacobini di ogni tendenza saranno invece soddisfatti per il risultato del Corriere della Sera, anche se il 71% di contrari di stamattina sta lentamente diminuendo.
Solo un consiglio: io ho già votato a favore della proposta. Se qualcuno volesse seguirmi, il sondaggio è all’indirizzo: http://www.corriere.it/appsSondaggi/pages/corriere/d_5548.jsp
PS - A metà mattina, il sondaggio dell'Unione è riapparso con i risultati che vedete nella foto. Un risultato desolante, ma assai in linea con l'opera di disinformazione e di mistificazione che quel giornale attua da tempo nei confronti della lingua sarda e di qualunque lingua non sia quella usata dall'Unione. Il link al sondaggio dell'Unione è http://unionesarda.ilsole24ore.com/Sondaggio.aspx?id=136655
PS 2 - Qualcuno "confessa" di aver votato più volte nel sondaggio dell'Unione. Non importa, al fine del segnale che credo si volesse dare. A me non è riuscito: compare la scritta che ho fotografato.
martedì 28 luglio 2009
Il genero (io), il candidato (Milia) e i 500.000 € restituiti
di Roberto Bolognesi
Il genero
Mia suocera sta male.
Oddìo, non è che stia malissimo, ma bene non sta.
Detto fra noi, io starei meglio se lei stesse peggio, ma non posso dirlo apertamente, sennò mia moglie si arrabbia e chiede il divorzio.
E, soprattutto, non mi rinnova il contratto come Amministratore Delegato della nostra azienda.
E sì, la maggiore azionista è lei ...
Mia moglie insiste e insiste: “Bisogna curarla! Muoviti, fai qualcosa!”
Meno male che non si è accorta che i 500.000 Euro che la A.S.L. ha messo a disposizione per le cure più urgenti non li ho utilizzati.
Sono riuscito a tenere quei soldi fermi per due anni, in modo che neanche gli altri potessero utilizzarli, e poi li “ho dovuti” restituire.
Però, la tattica del non far niente non funziona come dovrebbe: quella vecchiaccia proprio non ha voglia di morire.
E per di più c’è sempre più gente che si preoccupa per lei.
Mia suocera, qui da noi, è tenuta in grande considerazione: che tonti! Hanno addirittura fatto un’inchiesta ed è saltato fuori che circa il 97% dei nostri concittadini la conosce almeno di vista e che il 67% circa con lei ci parla pure.
Così mi è venuta un’idea: “La Suocera Dimezzata!”
Se non muore così...
Ho trovato subito una squadra di gente disposta a squartarla: gente qualificatissima!
Hanno tutti fatto un master di medicina della durata di un’anno scarso e, nel mentre, hanno anche imparato a scrivere.
A dir la verità non hanno ancora imparato bene a leggere, ma meglio non sottilizzare: bisogna accontentarsi di quello che passa il convento.
Questa volta dovrebbe andare bene.
Poi penserò a mia moglie...
Il candidato
Il presidente uscente della Provincia di Cagliari, Graziano Milía, ha lasciato inutilizzati circa 500.000 Euro, messi a disposizione dallo stato in ottemperanza alla legge 482/99 sulle lingue minoritarie. In questo modo Milìa è riuscito a non far lavorare per un anno 20 giovani, che altriimenti avrebbero ricevuto uno stipendio di circa 25.000 Euro ed è anche riuscito a garantire la non visibilità ufficiale della lingua sarda nella Provincia di Cagliari. I quattrini in questione sono stati interamente restituiti allo stato.
Il Presidente Milìa appoggia apertamente la standardizzazione del “campidanese” effettuata da un gruppi di “linguisti”, il più qualificato dei quali è un medico che ha fatto un master di circa un anno in linguistica sarda.
La standardizzazione del “campidanese” è stata effettuata in polemica con i tentativi di arrivare a una forma unitaria scritta della lingua sarda. L’idea (quasi apertamente) dichiarata è quella di impedire qualsiasi forma di unificazione del sardo scritto.
Graziano Milìa sarà candidato per il PD alle prossime elezioni pronciali.
PS a scanso di equivoci
Le due parti di questa nota non hanno niente a che fare l’una con l’altra. Io pure - come tutti quelli che non si sono accorti di niente in questi anni - “tengo famiglia”!
Il genero
Mia suocera sta male.
Oddìo, non è che stia malissimo, ma bene non sta.
Detto fra noi, io starei meglio se lei stesse peggio, ma non posso dirlo apertamente, sennò mia moglie si arrabbia e chiede il divorzio.
E, soprattutto, non mi rinnova il contratto come Amministratore Delegato della nostra azienda.
E sì, la maggiore azionista è lei ...
Mia moglie insiste e insiste: “Bisogna curarla! Muoviti, fai qualcosa!”
Meno male che non si è accorta che i 500.000 Euro che la A.S.L. ha messo a disposizione per le cure più urgenti non li ho utilizzati.
Sono riuscito a tenere quei soldi fermi per due anni, in modo che neanche gli altri potessero utilizzarli, e poi li “ho dovuti” restituire.
Però, la tattica del non far niente non funziona come dovrebbe: quella vecchiaccia proprio non ha voglia di morire.
E per di più c’è sempre più gente che si preoccupa per lei.
Mia suocera, qui da noi, è tenuta in grande considerazione: che tonti! Hanno addirittura fatto un’inchiesta ed è saltato fuori che circa il 97% dei nostri concittadini la conosce almeno di vista e che il 67% circa con lei ci parla pure.
Così mi è venuta un’idea: “La Suocera Dimezzata!”
Se non muore così...
Ho trovato subito una squadra di gente disposta a squartarla: gente qualificatissima!
Hanno tutti fatto un master di medicina della durata di un’anno scarso e, nel mentre, hanno anche imparato a scrivere.
A dir la verità non hanno ancora imparato bene a leggere, ma meglio non sottilizzare: bisogna accontentarsi di quello che passa il convento.
Questa volta dovrebbe andare bene.
Poi penserò a mia moglie...
Il candidato
Il presidente uscente della Provincia di Cagliari, Graziano Milía, ha lasciato inutilizzati circa 500.000 Euro, messi a disposizione dallo stato in ottemperanza alla legge 482/99 sulle lingue minoritarie. In questo modo Milìa è riuscito a non far lavorare per un anno 20 giovani, che altriimenti avrebbero ricevuto uno stipendio di circa 25.000 Euro ed è anche riuscito a garantire la non visibilità ufficiale della lingua sarda nella Provincia di Cagliari. I quattrini in questione sono stati interamente restituiti allo stato.
Il Presidente Milìa appoggia apertamente la standardizzazione del “campidanese” effettuata da un gruppi di “linguisti”, il più qualificato dei quali è un medico che ha fatto un master di circa un anno in linguistica sarda.
La standardizzazione del “campidanese” è stata effettuata in polemica con i tentativi di arrivare a una forma unitaria scritta della lingua sarda. L’idea (quasi apertamente) dichiarata è quella di impedire qualsiasi forma di unificazione del sardo scritto.
Graziano Milìa sarà candidato per il PD alle prossime elezioni pronciali.
PS a scanso di equivoci
Le due parti di questa nota non hanno niente a che fare l’una con l’altra. Io pure - come tutti quelli che non si sono accorti di niente in questi anni - “tengo famiglia”!
lunedì 27 luglio 2009
Nel piano di sviluppo non c'è posto per il sardo
Se sono fedeli (e purtroppo so che lo sono), i resoconti dell’ufficio stampa della Regione sugli incontri con le province fatti dall’assessore La Spisa danno conto del deserto che circonda la questione della lingua sarda. Nel Piano regionale di sviluppo illustrato dall’assessore della programmazione, non c’è alcun accenno alla lingua sarda né alle altre quattro parlate nell’isola. È come se le due cose, sviluppo e lingua, non siano destinate ad incontrarsi, come se lo sviluppo della Sardegna sia una cosa e la lingua una cosa a parte. Una sorta di ciliegina da mettere sulla torta, se avanza denaro “per lo sviluppo”.
Quel che sconcerta, in più, è il disinteresse totale degli interlocutori di La Spisa ovunque egli vada a presentare il suo piano. Sindaci, presidenti di provincia, sindacalisti, imprenditori (gli intellettuali o non sono stati invitati o non ci sono) son tutti d’accordo nel non pronunciare la parola, almeno in coda: “E poi ci sarebbe la lingua sarda...”. Non è compresa neppure nella vaga dizione “patrimonio culturale” che, insieme al “patrimonio ambientale” è uno dei punti di forza del piano di sviluppo.
Per la “Tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale”, questi sono gli interventi previsti:
1.Tutela e valorizzazione delle risorse ambientali, degli attrattori culturali e del patrimonio paesaggistico
1.Tutela e valorizzazione Aree Protette, Aree SIC, Aree ZPS
2.Tutela e valorizzazione delle coste
3.Tutela e valorizzazione del patrimonio forestale
4.Realizzazione di percorsi integrati turismo – ambiente.
È un’antica prevenzione della sinistra, quella secondo cui la lingua, epifenomeno della cultura, insieme agli altri elementi dell’identità, se non di ostacolo certo era indifferente nel processo di sviluppo. Fa specie ritrovare i segni di questo pregiudizio in una cultura politica che dovrebbe essere di tutt’altra origine. Questo, probabilmente, non vorrà dire che la Giunta regionale non manterrà la promessa fatta dai presidenti del Consiglio regionale e della Regione. Del resto, questa maggioranza ha firmato un accordo con il Partito sardo in merito.
Il segretario nazionale, Efisio Trincas, lo ha recentemente ricordato con questa dichiarazione, naturalmente ignorata dalla stampa, posto che si tratta di lingua sarda”
“L’incontro di Orosei promosso dall’Assessorato regionale alla Cultura e Pubblica istruzione del 11/12 luglio, dove si è parlato di toponomastica e di politiche linguistiche alla presenza di studiosi locali e internazionali, ha messo in evidenza l’esigenza urgente che la regione deve dotarsi al più presto di una politica linguistica di valorizzazione, tutela, promozione e uso diffuso della lingua sarda. L’attuale maggioranza che guida la Regione non dovrà dimenticare che nel programma elettorale che ci ha portato alla vittoria delle elezioni, l’inserimento del Sardo nelle scuole era uno dei punti programmatici qualificanti. Pertanto alla luce anche delle dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa dalla presidente Lombardo sull’Unione Sarda, dove si rivendica la giusta esigenza di costituzionalizzare la lingua sarda ponendola come centrale nella redazione del nuovo statuto regionale, il Partito sardo d’azione chiede che venga convocato al più presto un tavolo di maggioranza per individuare i punti strategici della discussione e per stendere un programma di interventi immediati, sia per istituzionalizzare il sardo nella scuola, sia per valutare il ruolo e la posizione degli sportelli linguistici comunali”.
Sarebbe comunque un brutto segnale se, alla fine, la maggioranza dovesse dare un’occhiata alla lingua, solo perché un alleato glielo ricorda in maniera brusca.
Quel che sconcerta, in più, è il disinteresse totale degli interlocutori di La Spisa ovunque egli vada a presentare il suo piano. Sindaci, presidenti di provincia, sindacalisti, imprenditori (gli intellettuali o non sono stati invitati o non ci sono) son tutti d’accordo nel non pronunciare la parola, almeno in coda: “E poi ci sarebbe la lingua sarda...”. Non è compresa neppure nella vaga dizione “patrimonio culturale” che, insieme al “patrimonio ambientale” è uno dei punti di forza del piano di sviluppo.
Per la “Tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale”, questi sono gli interventi previsti:
1.Tutela e valorizzazione delle risorse ambientali, degli attrattori culturali e del patrimonio paesaggistico
1.Tutela e valorizzazione Aree Protette, Aree SIC, Aree ZPS
2.Tutela e valorizzazione delle coste
3.Tutela e valorizzazione del patrimonio forestale
4.Realizzazione di percorsi integrati turismo – ambiente.
È un’antica prevenzione della sinistra, quella secondo cui la lingua, epifenomeno della cultura, insieme agli altri elementi dell’identità, se non di ostacolo certo era indifferente nel processo di sviluppo. Fa specie ritrovare i segni di questo pregiudizio in una cultura politica che dovrebbe essere di tutt’altra origine. Questo, probabilmente, non vorrà dire che la Giunta regionale non manterrà la promessa fatta dai presidenti del Consiglio regionale e della Regione. Del resto, questa maggioranza ha firmato un accordo con il Partito sardo in merito.
Il segretario nazionale, Efisio Trincas, lo ha recentemente ricordato con questa dichiarazione, naturalmente ignorata dalla stampa, posto che si tratta di lingua sarda”
“L’incontro di Orosei promosso dall’Assessorato regionale alla Cultura e Pubblica istruzione del 11/12 luglio, dove si è parlato di toponomastica e di politiche linguistiche alla presenza di studiosi locali e internazionali, ha messo in evidenza l’esigenza urgente che la regione deve dotarsi al più presto di una politica linguistica di valorizzazione, tutela, promozione e uso diffuso della lingua sarda. L’attuale maggioranza che guida la Regione non dovrà dimenticare che nel programma elettorale che ci ha portato alla vittoria delle elezioni, l’inserimento del Sardo nelle scuole era uno dei punti programmatici qualificanti. Pertanto alla luce anche delle dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa dalla presidente Lombardo sull’Unione Sarda, dove si rivendica la giusta esigenza di costituzionalizzare la lingua sarda ponendola come centrale nella redazione del nuovo statuto regionale, il Partito sardo d’azione chiede che venga convocato al più presto un tavolo di maggioranza per individuare i punti strategici della discussione e per stendere un programma di interventi immediati, sia per istituzionalizzare il sardo nella scuola, sia per valutare il ruolo e la posizione degli sportelli linguistici comunali”.
Sarebbe comunque un brutto segnale se, alla fine, la maggioranza dovesse dare un’occhiata alla lingua, solo perché un alleato glielo ricorda in maniera brusca.
Porrino e i suoi Shardana messi nel cassetto. Ma a gennaio...
di Giuanne Masala *
Il 14 e il 16 gennaio verrà eseguito in forma semiscenica (regia di Marco Catena) il dramma musicale in tre atti I Shardana: Gli uomini dei Nuraghi. A dirigere coro e orchestra del teatro Lirico di Cagliari sarà Anthony Bramall.
Pochi sanno che Ennio Porrino è il maggiore compositore che la nostra isola abbia espresso. Innumerevoli sono le vie e le piazze che portano il suo nome, ma pochi sanno chi egli fosse veramente. Questo processo di riscoperta raggiungerà il suo apice il 14 e il 16 gennaio 2010, date in cui il Teatro Lirico di Cagliari riproporrà al pubblico la grande opera lirica I Shardana, che 50 anni fa ottenne un enorme successo al Teatro San Carlo di Cagliari (21 marzo 1950) e al Teatro Massimo di Cagliari (18 marzo 1960).
Nato a Cagliari nel 1910 e morto improvvisamente a Roma nel 1959 a soli quarantanove anni, Ennio Porrino rappresenta indubbiamente una figura di primissimo piano nel mondo componistico del nostro paese e sicuramente la più grande della Sardegna. Ancora ventenne si afferma con la lirica Traccas (su versi di Sebastiano Satta) nel concorso nazionale La Bella Canzone Italiana.
Segue una strepitosa carriera il cui apice è sicuramente costituito dalla prima rappresentazione assoluta de I Shardana al Teatro San Carlo di Napoli; la sua morte improvvisa è di circa sette mesi più tardi. L’autorevole enciclopedia musicale tedesca Die Musik in Geschichte und Gegenwart riporta che «la grande opera I Shardana fu accolta dalla critica come “la più importante opera lirica composta in Italia in questo dopoguerra”» (Felix Karlinger, 1962).
Ed effettivamente, all’indomani della rappresentazione sancarliana del 21 marzo 1959 le critiche sono eccezionalmente positive. Sia riviste specializzate che quotidiani attribuiscono a I Shardana tanti meriti e uno soprattutto unanime: la capacità dell’artista di coniugare magistralmente l’antica e gloriosa storia sarda con la musica classica moderna, attingendo nel contempo alla musica tradizionale dell’isola mediterranea.
Il 18 marzo del 1960 I Shardana verrà rappresentata, in occasione della commemorazione del compositore, al Teatro Massimo di Cagliari, e riscuoterà anche nella capitale sarda un grandissimo successo; dopo, il silenzio… Era la prima e l’ultima volta che la cultura nuragica andava in scena! Non va dimenticato inoltre, che all’epoca della rappresentazione de I Shardana Porrino ricopriva ormai dal 1951 l’incarico di professore ordinario di composizione al Conservatorio romano di Santa Cecilia a cui si aggiunse, dal 1956, anche quello di Direttore del Conservatorio Giovanni Pierluigi da Palestrina di Cagliari e di Direttore Artistico dell’Ente Lirico e dell’Istituzione dei Concerti.
All’estero il compositore sardo era già noto da tempo, in modo particolare grazie alle sue opere sinfoniche Sardegna e Nuraghi, eseguite più volte sia in Europa che negli Stati Uniti, e in numerose occasioni dirette dal celebre Leopold Stokowski, che in una lettera inviata a Porrino da New York il 5 gennaio del 1950 così si esprime poche settimane dopo l’esecuzione di Sardegna del novembre 1949 alla Carnegie Hall con la New York Philarmonic: < Sull’Unione Sarda del 16 luglio scorso leggiamo con piacere che "a caratterizzare la stagione concertistica 2009-2010 sarà Ennio Porrino, di cui si celebra il centenario della nascita (10 gennaio 1910) e il cinquantenario della morte (25 settembre 1959).
Il 14 e il 16 gennaio verrà eseguito in forma semiscenica (regia di Marco Catena) il suo dramma musicale in tre atti I Shardana: Gli uomini dei Nuraghi. A dirigere coro e orchestra di casa sarà Anthony Bramall. Tra i protagonisti Giorgio Surian, Chiara Taigi (in questi giorni Aida nel secondo cast) e il nostro Gianluca Floris (Perdu). Ancora Porrino ( Sardegna ) insieme al suo maestro Respighi (Pini di Roma) nella serata del 12 febbraio. Sul podio Maurizio Benini, al violino Julian Rachlin>> (L’Unione Sarda, 16 luglio 2009). Meglio tardi che mai! A chent’annos Ennio!
«Nella musica di Porrino la Sardegna possiede ben più che un insieme di note musicali; la musica di Porrino assicura per sempre alla sua terra, depositaria del grande tesoro, una voce in capitolo nella grande scena del mondo» (F. Karlinger).
Per approfondimenti:
Ennio Porrino, I Shardana: Gli uomini dei nuraghi (Dramma musicale in tre atti), Nördlingen 2006. Volume contenente il testo in tre atti a firma dell’autore, nonché le critiche all’indomani della rappresentazione al Teatro San Carlo di Napoli (1959) e al Teatro Massimo di Cagliari (1960). Fotografie inedite di scena della «prima», i bozzetti di Màlgari Onnis Porrino, una prefazione di G. Masala, un articolo di F. Karlinger sulla sardità dell’arte porriniana, un’intervista al compositore, la lettera-testamento di Porrino e altri materiali inediti rievocano una delle giornate più memorabili della storia dell’opera lirica contemporanea.
dal sito Disterraus sardus
Il 14 e il 16 gennaio verrà eseguito in forma semiscenica (regia di Marco Catena) il dramma musicale in tre atti I Shardana: Gli uomini dei Nuraghi. A dirigere coro e orchestra del teatro Lirico di Cagliari sarà Anthony Bramall.
Pochi sanno che Ennio Porrino è il maggiore compositore che la nostra isola abbia espresso. Innumerevoli sono le vie e le piazze che portano il suo nome, ma pochi sanno chi egli fosse veramente. Questo processo di riscoperta raggiungerà il suo apice il 14 e il 16 gennaio 2010, date in cui il Teatro Lirico di Cagliari riproporrà al pubblico la grande opera lirica I Shardana, che 50 anni fa ottenne un enorme successo al Teatro San Carlo di Cagliari (21 marzo 1950) e al Teatro Massimo di Cagliari (18 marzo 1960).
Nato a Cagliari nel 1910 e morto improvvisamente a Roma nel 1959 a soli quarantanove anni, Ennio Porrino rappresenta indubbiamente una figura di primissimo piano nel mondo componistico del nostro paese e sicuramente la più grande della Sardegna. Ancora ventenne si afferma con la lirica Traccas (su versi di Sebastiano Satta) nel concorso nazionale La Bella Canzone Italiana.
Segue una strepitosa carriera il cui apice è sicuramente costituito dalla prima rappresentazione assoluta de I Shardana al Teatro San Carlo di Napoli; la sua morte improvvisa è di circa sette mesi più tardi. L’autorevole enciclopedia musicale tedesca Die Musik in Geschichte und Gegenwart riporta che «la grande opera I Shardana fu accolta dalla critica come “la più importante opera lirica composta in Italia in questo dopoguerra”» (Felix Karlinger, 1962).
Ed effettivamente, all’indomani della rappresentazione sancarliana del 21 marzo 1959 le critiche sono eccezionalmente positive. Sia riviste specializzate che quotidiani attribuiscono a I Shardana tanti meriti e uno soprattutto unanime: la capacità dell’artista di coniugare magistralmente l’antica e gloriosa storia sarda con la musica classica moderna, attingendo nel contempo alla musica tradizionale dell’isola mediterranea.
Il 18 marzo del 1960 I Shardana verrà rappresentata, in occasione della commemorazione del compositore, al Teatro Massimo di Cagliari, e riscuoterà anche nella capitale sarda un grandissimo successo; dopo, il silenzio… Era la prima e l’ultima volta che la cultura nuragica andava in scena! Non va dimenticato inoltre, che all’epoca della rappresentazione de I Shardana Porrino ricopriva ormai dal 1951 l’incarico di professore ordinario di composizione al Conservatorio romano di Santa Cecilia a cui si aggiunse, dal 1956, anche quello di Direttore del Conservatorio Giovanni Pierluigi da Palestrina di Cagliari e di Direttore Artistico dell’Ente Lirico e dell’Istituzione dei Concerti.
All’estero il compositore sardo era già noto da tempo, in modo particolare grazie alle sue opere sinfoniche Sardegna e Nuraghi, eseguite più volte sia in Europa che negli Stati Uniti, e in numerose occasioni dirette dal celebre Leopold Stokowski, che in una lettera inviata a Porrino da New York il 5 gennaio del 1950 così si esprime poche settimane dopo l’esecuzione di Sardegna del novembre 1949 alla Carnegie Hall con la New York Philarmonic: <
Il 14 e il 16 gennaio verrà eseguito in forma semiscenica (regia di Marco Catena) il suo dramma musicale in tre atti I Shardana: Gli uomini dei Nuraghi. A dirigere coro e orchestra di casa sarà Anthony Bramall. Tra i protagonisti Giorgio Surian, Chiara Taigi (in questi giorni Aida nel secondo cast) e il nostro Gianluca Floris (Perdu). Ancora Porrino ( Sardegna ) insieme al suo maestro Respighi (Pini di Roma) nella serata del 12 febbraio. Sul podio Maurizio Benini, al violino Julian Rachlin>> (L’Unione Sarda, 16 luglio 2009). Meglio tardi che mai! A chent’annos Ennio!
«Nella musica di Porrino la Sardegna possiede ben più che un insieme di note musicali; la musica di Porrino assicura per sempre alla sua terra, depositaria del grande tesoro, una voce in capitolo nella grande scena del mondo» (F. Karlinger).
Per approfondimenti:
Ennio Porrino, I Shardana: Gli uomini dei nuraghi (Dramma musicale in tre atti), Nördlingen 2006. Volume contenente il testo in tre atti a firma dell’autore, nonché le critiche all’indomani della rappresentazione al Teatro San Carlo di Napoli (1959) e al Teatro Massimo di Cagliari (1960). Fotografie inedite di scena della «prima», i bozzetti di Màlgari Onnis Porrino, una prefazione di G. Masala, un articolo di F. Karlinger sulla sardità dell’arte porriniana, un’intervista al compositore, la lettera-testamento di Porrino e altri materiali inediti rievocano una delle giornate più memorabili della storia dell’opera lirica contemporanea.
dal sito Disterraus sardus
sabato 25 luglio 2009
L'arte nuragica non è in Italia. Firmato: Bondi
I fenici e i punici sono le star di questa estate sarda. Grandi scoperte si annunciano a Sant’Antioco e a Sirai, la Soprintendenza annulla il blocco delle costruzioni intorno alla necropoli punica di Tuvixeddu, tombe fenice del IV secolo sono nascoste nella tenuta di Berlusconi in Costa Smeralda. Dico “sono” e non sarebbero perché giornali e politica hanno deciso così. Le prime due notizie dimostrano almeno una cosa: non sono i soldi che mancano per scoprire che cavolo facevano i sardi prima dell’arrivo dei fenici, è la volontà che manca. Anche la terza mostra che soldi ce ne sono, tant’è che la Soprintendenza è disposta a metterli in una causa davanti al Tar che sicuramente ci sarà.
Ma, mentre le prime tre notizie sono riservate ad una parte dei sardi (il giornale che ne parla lo fa solo nelle cronache destinate a su capu de giosso), l’altra ha fatto il giro d’Italia e del mondo. Naturalmente non è il presunto ritrovamento di tombe fenice del IV secolo aC (davvero eccezionale, visto che i fenici non c’erano da almeno due secoli) ad interessare, ma il protagonista del presunto ritrovamento, Silvio Berlusconi. È tanto ininfluente la cosa in sé, l’esistenza delle tombe, che un giornale normalmente serio ed informato come Il Corriere della Sera si abbandona a questo strafalcione storico: “I fenici, popolo di mercanti provenienti dal Libano, furono in Sardegna dal IX al III secolo a.C. Inumavano i morti in tome chiamate tophet”.
Non penso manchi al più diffuso giornale italiano la possibilità di chiedere ad uno storico come stessero davvero le cose. È che non gliene può importare di meno. La notizia non è il presunto ritrovamento, è che sarebbe avvenuto in casa Berlusconi. In più tutto si svolge in Sardegna, terra misteriosa su cui poco si sa e dove, vicino a Portorotondo, può essere che i fenici siano rimasti fino al III secolo avanti Cristo, costruendo tophlet e, chi sa?, forse anche quelle curiose torri che gli indigeni chiamano nuraghi. “Non lo escluderei al cento per cento” come ha detto l’archeologo Rubens D’Oriano quando ha saputo delle tombe fenice del 300 avanti Cristo.
Ma vorrei tornare alla questione dei soldi che, in Sardegna, sbucano fuori quando si tratta di occuparsi di civiltà importate e si nascondono quando c’è da occuparsi della civiltà autoctona. I soldi, sia chiaro, li mette il Ministero, ma anche la Regione, benché questa sopporti che quasi tutto si faccia a sua insaputa. Non mi è ancora andato giù il fatto che la Soprintendenza abbia prestato ad un museo parigino la nostra Stele di Nora, senza chiedere il permesso al Governo sardo. Il quale paga un sacco di soldi per la tutela dei beni culturali che è di competenza dello Stato. Lo scorso anno, per dire, la Sardegna è andata in aiuto ai Beni culturali dello Stato con ben 155.621.000 euro, 130 volte quando ha speso per la lingua sarda, tanto per dare un’idea.
I governi italiani (tutti, anche questo) hanno un’idea davvero separatista dei beni culturali della Sardegna e, soprattutto, di quelli che riguardano la preistoria e la protostoria. Immagino sia sfuggita ai più la notizia che il ministro Bondi ha fatto “finire nel cassetto” una serie di opere, “alcune davvero singolari, altre del tutte aliene dalla celebrazione” del 150° dell’Unità d’Italia. La prima ad essere citata è “il Museo mediterraneo dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea” di Cagliari.
Con grande soddisfazione di chi, come me, pensa che infatti l’arte nuragica con l’Italia c’entri come il cavolo a merenda e che lo stesso capiti per la Sardegna in rapporto all’Unità d’Italia. Il Centro congressi e il Palacinema di Venezia sì, sarà finanziato, il museo dell’arte nuragica no. Evviva la chiarezza.
Nella foto: il progetto del Museo d'arte nuragica
Ma, mentre le prime tre notizie sono riservate ad una parte dei sardi (il giornale che ne parla lo fa solo nelle cronache destinate a su capu de giosso), l’altra ha fatto il giro d’Italia e del mondo. Naturalmente non è il presunto ritrovamento di tombe fenice del IV secolo aC (davvero eccezionale, visto che i fenici non c’erano da almeno due secoli) ad interessare, ma il protagonista del presunto ritrovamento, Silvio Berlusconi. È tanto ininfluente la cosa in sé, l’esistenza delle tombe, che un giornale normalmente serio ed informato come Il Corriere della Sera si abbandona a questo strafalcione storico: “I fenici, popolo di mercanti provenienti dal Libano, furono in Sardegna dal IX al III secolo a.C. Inumavano i morti in tome chiamate tophet”.
Non penso manchi al più diffuso giornale italiano la possibilità di chiedere ad uno storico come stessero davvero le cose. È che non gliene può importare di meno. La notizia non è il presunto ritrovamento, è che sarebbe avvenuto in casa Berlusconi. In più tutto si svolge in Sardegna, terra misteriosa su cui poco si sa e dove, vicino a Portorotondo, può essere che i fenici siano rimasti fino al III secolo avanti Cristo, costruendo tophlet e, chi sa?, forse anche quelle curiose torri che gli indigeni chiamano nuraghi. “Non lo escluderei al cento per cento” come ha detto l’archeologo Rubens D’Oriano quando ha saputo delle tombe fenice del 300 avanti Cristo.
Ma vorrei tornare alla questione dei soldi che, in Sardegna, sbucano fuori quando si tratta di occuparsi di civiltà importate e si nascondono quando c’è da occuparsi della civiltà autoctona. I soldi, sia chiaro, li mette il Ministero, ma anche la Regione, benché questa sopporti che quasi tutto si faccia a sua insaputa. Non mi è ancora andato giù il fatto che la Soprintendenza abbia prestato ad un museo parigino la nostra Stele di Nora, senza chiedere il permesso al Governo sardo. Il quale paga un sacco di soldi per la tutela dei beni culturali che è di competenza dello Stato. Lo scorso anno, per dire, la Sardegna è andata in aiuto ai Beni culturali dello Stato con ben 155.621.000 euro, 130 volte quando ha speso per la lingua sarda, tanto per dare un’idea.
I governi italiani (tutti, anche questo) hanno un’idea davvero separatista dei beni culturali della Sardegna e, soprattutto, di quelli che riguardano la preistoria e la protostoria. Immagino sia sfuggita ai più la notizia che il ministro Bondi ha fatto “finire nel cassetto” una serie di opere, “alcune davvero singolari, altre del tutte aliene dalla celebrazione” del 150° dell’Unità d’Italia. La prima ad essere citata è “il Museo mediterraneo dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea” di Cagliari.
Con grande soddisfazione di chi, come me, pensa che infatti l’arte nuragica con l’Italia c’entri come il cavolo a merenda e che lo stesso capiti per la Sardegna in rapporto all’Unità d’Italia. Il Centro congressi e il Palacinema di Venezia sì, sarà finanziato, il museo dell’arte nuragica no. Evviva la chiarezza.
Nella foto: il progetto del Museo d'arte nuragica
venerdì 24 luglio 2009
Berlusconi in soccorso ai feniciomani
Un settimanale porno pubblica in questi giorni un dialogo a luci rosse, avvenuto a Villa Certosa, fra uno che avrebbe la voce di Berlusconi e una che avrebbe la voce di una sua amante, la stessa che avrebbe registrato lo scambio di frasi ad alta intensità erotica. E di questo, scusate la volgarità, ma tanto siamo in argomento, chi se ne fotte. Ma c’è, fra un’esaltazione di capacità amatorie e consigli all’autoerotismo, qualcosa che ci riguarda come sardi.
Siccome non mi va di farmi sorprendere da Vittorio il mio edicolante mentre compro un giornale hard, leggo della questione su un quotidiano: “Sotto qua abbiamo scoperto 30 tombe fenice del 300 avanti Cristo”, avrebbe detto Berlusconi. Oibò, fenici nel 300 avanti Cristo. Già il nostro aveva scoperto che Nuraghe Losa era un magazzino, ma questa di aver scoperto che i fenici ancora nel IV secolo avanti Cristo avevano una ridotta dalle parti dell’attuale Porto Rotondo è davvero in grado di riscrivere la storia. Come ha prontamente detto a un quotidiano sardo un’archeologa (sarei curioso di sapere chi le ha dato la laurea): “Un dato importantissimo per lo studio della espansione fenicia nell’isola”, se fosse confermata la notizia, dice l’archeologa che ci dà dentro: “Aprirebbe nuovi scenari sul fronte della ricerca”.
O alla presidente della sezione sarda della “Associazione nazionale archeologi” era stata nascosta la datazione delle “tombe fenice” (300 aC), o la feniciomania ha fatto un'altra vittima. Non solo lei, del resto. Sono partite subito due imprudenti interrogazioni parlamentari da parte di due deputati del Pd. In una si parla di “eccezionale scoperta archeologica”, nell’altra di “ritrovamento di [...] eccezionale interesse”. So benissimo che per fare il deputato non è richiesta la conoscenza delle epoche storiche e so bene anche che l’opposizione deve fare il suo mestiere, cogliendo ogni occasione per andar contro il capo del governo. Ma un po’ di prudenza non avrebbe guastato.
Fossero tombe fenice del IV secolo, accidenti se si tratterebbe di qualcosa capace di disegnare nuovi scenari. Ma se si trattasse di tombe puniche? La “eccezionalità”, il “dato importantissimo” per lo studio dei fenici, dove sarebbero? Piero Batoloni, che di archeologia fenicio-punica se ne intende, ha detto al Corriere della Sera: “Il territorio dove sorge Villa Certosa è fuori dell’influenza fenicia. Al massimo le tombe potrebbero essere d’età punica”. Ma c’è chi non si rassegna e, sempre allo stesso giornale, un altro archeologo sardo confida di non ritenere possibile trovare tombe fenice da quelle parti, “ma” aggiunge “non lo escluderei al cento per cento”. Tombe fenice del 300 avanti Cristo? C’è chi esclude che i nuragici avessero la scrittura, c’è chi esclude che i pronuraghi fossero qualcosa di più di un mucchio di pietre, c’è chi esclude che le statue di Monti Prama abbiano preceduto la grande statuaria greca, e c’è chi esclude un sacco di cose riguardanti la civiltà nuragica fino a dubitare che di civiltà si trattasse.
Ma quando si parla di fenici, nulla può essere escluso: anche che i punici abbiano risparmiato dalla loro conquista Villa Certosa e che lì, ancora nel 300 aC, i fenici costruissero le loro tombe per la gioia dei loro posteri ammalati di feniciomania.
Siccome non mi va di farmi sorprendere da Vittorio il mio edicolante mentre compro un giornale hard, leggo della questione su un quotidiano: “Sotto qua abbiamo scoperto 30 tombe fenice del 300 avanti Cristo”, avrebbe detto Berlusconi. Oibò, fenici nel 300 avanti Cristo. Già il nostro aveva scoperto che Nuraghe Losa era un magazzino, ma questa di aver scoperto che i fenici ancora nel IV secolo avanti Cristo avevano una ridotta dalle parti dell’attuale Porto Rotondo è davvero in grado di riscrivere la storia. Come ha prontamente detto a un quotidiano sardo un’archeologa (sarei curioso di sapere chi le ha dato la laurea): “Un dato importantissimo per lo studio della espansione fenicia nell’isola”, se fosse confermata la notizia, dice l’archeologa che ci dà dentro: “Aprirebbe nuovi scenari sul fronte della ricerca”.
O alla presidente della sezione sarda della “Associazione nazionale archeologi” era stata nascosta la datazione delle “tombe fenice” (300 aC), o la feniciomania ha fatto un'altra vittima. Non solo lei, del resto. Sono partite subito due imprudenti interrogazioni parlamentari da parte di due deputati del Pd. In una si parla di “eccezionale scoperta archeologica”, nell’altra di “ritrovamento di [...] eccezionale interesse”. So benissimo che per fare il deputato non è richiesta la conoscenza delle epoche storiche e so bene anche che l’opposizione deve fare il suo mestiere, cogliendo ogni occasione per andar contro il capo del governo. Ma un po’ di prudenza non avrebbe guastato.
Fossero tombe fenice del IV secolo, accidenti se si tratterebbe di qualcosa capace di disegnare nuovi scenari. Ma se si trattasse di tombe puniche? La “eccezionalità”, il “dato importantissimo” per lo studio dei fenici, dove sarebbero? Piero Batoloni, che di archeologia fenicio-punica se ne intende, ha detto al Corriere della Sera: “Il territorio dove sorge Villa Certosa è fuori dell’influenza fenicia. Al massimo le tombe potrebbero essere d’età punica”. Ma c’è chi non si rassegna e, sempre allo stesso giornale, un altro archeologo sardo confida di non ritenere possibile trovare tombe fenice da quelle parti, “ma” aggiunge “non lo escluderei al cento per cento”. Tombe fenice del 300 avanti Cristo? C’è chi esclude che i nuragici avessero la scrittura, c’è chi esclude che i pronuraghi fossero qualcosa di più di un mucchio di pietre, c’è chi esclude che le statue di Monti Prama abbiano preceduto la grande statuaria greca, e c’è chi esclude un sacco di cose riguardanti la civiltà nuragica fino a dubitare che di civiltà si trattasse.
Ma quando si parla di fenici, nulla può essere escluso: anche che i punici abbiano risparmiato dalla loro conquista Villa Certosa e che lì, ancora nel 300 aC, i fenici costruissero le loro tombe per la gioia dei loro posteri ammalati di feniciomania.
giovedì 23 luglio 2009
Su Consìgiu regionale corsicanu contra a sa limba corsicana
S’Assemblea territoriale de sa Còrsica (comente a nàrrere su Consìgiu regionale de inie) at botzadu cun 28 botos contra a 19 sa motzione chi pediat pro sa limba corsicana s’istatutu de ofitzialidade. Presentada dae M. Jean-Guy Talamoni a contu de “Corsica nazione indipendente” sa motzione moghet dae su cunsideru chi a su nàrrere de sa Cunventzione de sos deretos de s’òmine e de sas libertades fundamentale de su Cunsìgiu d’Europa “su deretu de praticare una limba regionale o de minoria in sa bida privada o pùblica est unu deretu non sugetu a prescritzione”.
Presentende su documentu, Talamoni (inoghe s’interventu suo in frantzesu e corsicanu) at amentadu puru chi su Comitadu issientìficu numenadu pro esaminare s’istadu de sa limba at naradu chi unu istatudu de ofitzialidade est pretzisu si si cheret chi su corsicanu sigat a si la campare. Sa maioria de sos consigeris regionales corsicanos no est istada de custu pàrrere e ant botadu contra.
In sa foto: su palatzu de s'assemblea corsicana
Presentende su documentu, Talamoni (inoghe s’interventu suo in frantzesu e corsicanu) at amentadu puru chi su Comitadu issientìficu numenadu pro esaminare s’istadu de sa limba at naradu chi unu istatudu de ofitzialidade est pretzisu si si cheret chi su corsicanu sigat a si la campare. Sa maioria de sos consigeris regionales corsicanos no est istada de custu pàrrere e ant botadu contra.
In sa foto: su palatzu de s'assemblea corsicana
mercoledì 22 luglio 2009
Sas arregulas per il "campidanese comune"
di Francu Pilloni
Sabato scorso, nello storico Palazzo Vicereggio di Cagliari, sono state presentate le basi per dotare il sardo campidanese di regole certe e comuni per l’ortografia e le scelte lessicali più importanti. A sentire il Presidente della Provincia che ha presentato il lavoro di un comitato che ha svolto il lavoro, pare che si voglia fare sul serio e, ciò che più conta, procedere con un metodo alquanto democratico in quanto tutti possono fornire suggerimenti utili che migliorino la proposta contenuta in un volume intitolato appunto “Arregulas …”, nel senso di “Regole…”.
Chiaramente si fa riferimento a una lingua che è già stata “normalizzata” da secoli, qualcuno la chiama “Campidanese illustre”, ma il mio amico Carlo Pillai preferisce il termine di “Campidanese comune”, quello parlato e scritto non solo a Cagliari e interland, ma anche Oristano e in tutta quella mezza Sardegna che era la Provincia di Cagliari al tempo del Regno sardo. Una lingua dunque per “maestri” e non per “manovali”, che ebbe la sua patente di ufficialità, ad esempio, nell’Ordinanza del Prefetto di Cagliari del 1812 (cito a memoria) con cui si ordinava e si istruiva sulla lotta alle cavallette. Nel panorama di cattive prove di standardizzazione del sardo, c’è dunque una novità importante, anche perché in autunno il Consiglio Provinciale dovrebbe deliberare sulle “Arregulas”. In rete ci sono le proposte e anche un luogo di discussione.
Il mio parere, modesto e non richiesto, è che l’iniziativa non solo è lodevole e coraggiosa, di conseguenza dovrebbe scuotere un po’ di coscienze, anche se la considero ancora suddita di precedenti proposte o, forse, di punti di vista di personaggi evidentemente considerati importanti, di fronte ai quali ci si è “ribellati” curvando la schiena, come capita a noi, eterni vassalli. Questo comporta che nelle Regulas si trovino molte contraddizioni tra i propositi, i riferimenti portati ad esempio e i presupposti affermati in via di principio e gli esiti esposti in seguito. Senza trascurare una scelta di lessico molto restrittiva che penalizza la ricchezza espressiva della lingua stessa, oltre che escludere larga parte del popolo che in quella lingua si ritrova. Dunque a un errore tecnico si aggiungebbe un errore di strategia che, se non corretto come è possibile fare, anziché unire, spacca il fronte dei parlanti campidanese. Esattamente l’opposto di quanto il Comitato e la Provincia si augurano. Di quanto tutti ci auguriamo.
Sabato scorso, nello storico Palazzo Vicereggio di Cagliari, sono state presentate le basi per dotare il sardo campidanese di regole certe e comuni per l’ortografia e le scelte lessicali più importanti. A sentire il Presidente della Provincia che ha presentato il lavoro di un comitato che ha svolto il lavoro, pare che si voglia fare sul serio e, ciò che più conta, procedere con un metodo alquanto democratico in quanto tutti possono fornire suggerimenti utili che migliorino la proposta contenuta in un volume intitolato appunto “Arregulas …”, nel senso di “Regole…”.
Chiaramente si fa riferimento a una lingua che è già stata “normalizzata” da secoli, qualcuno la chiama “Campidanese illustre”, ma il mio amico Carlo Pillai preferisce il termine di “Campidanese comune”, quello parlato e scritto non solo a Cagliari e interland, ma anche Oristano e in tutta quella mezza Sardegna che era la Provincia di Cagliari al tempo del Regno sardo. Una lingua dunque per “maestri” e non per “manovali”, che ebbe la sua patente di ufficialità, ad esempio, nell’Ordinanza del Prefetto di Cagliari del 1812 (cito a memoria) con cui si ordinava e si istruiva sulla lotta alle cavallette. Nel panorama di cattive prove di standardizzazione del sardo, c’è dunque una novità importante, anche perché in autunno il Consiglio Provinciale dovrebbe deliberare sulle “Arregulas”. In rete ci sono le proposte e anche un luogo di discussione.
Il mio parere, modesto e non richiesto, è che l’iniziativa non solo è lodevole e coraggiosa, di conseguenza dovrebbe scuotere un po’ di coscienze, anche se la considero ancora suddita di precedenti proposte o, forse, di punti di vista di personaggi evidentemente considerati importanti, di fronte ai quali ci si è “ribellati” curvando la schiena, come capita a noi, eterni vassalli. Questo comporta che nelle Regulas si trovino molte contraddizioni tra i propositi, i riferimenti portati ad esempio e i presupposti affermati in via di principio e gli esiti esposti in seguito. Senza trascurare una scelta di lessico molto restrittiva che penalizza la ricchezza espressiva della lingua stessa, oltre che escludere larga parte del popolo che in quella lingua si ritrova. Dunque a un errore tecnico si aggiungebbe un errore di strategia che, se non corretto come è possibile fare, anziché unire, spacca il fronte dei parlanti campidanese. Esattamente l’opposto di quanto il Comitato e la Provincia si augurano. Di quanto tutti ci auguriamo.
martedì 21 luglio 2009
Le lobbies del restauro e la lingua sarda
di Michele Pinna
Leggendo il bilancio 2009 della Regione sarda, almeno per quanto riguarda le voci inerenti la cultura e la lingua sarda, ci si può rendere conto che i tagli impietosi operati da Soru, dal vituperato Soru, non trovano migliore sorte nelle evidenti riconferme fatte dall’amato e votato Cappellacci.
In particolare sembra essere confermata la linea che privilegia, pur nella penuria delle risorse, musei, restauri, catalogazioni, lasciando intendere che la cultura in Sardegna, è principalmente, un fatto da restaurare e catalogare. In sostanza sembra riconfermata la vecchia idea radical chic di certi intellettuali di sinistra, di una visione antiquaria e monumentale della storia.
Al contrario, per la lingua sarda unico elemento vivo e dinamico della Sardegna odierna, solo pochi spiccioli; di cui i due terzi risultano essere i fondi della legge 482/99 dati alla Regione dalla Presidenza del consiglio dei ministri, per quanto anch’essi ridotti e falcidiati.
In compenso la fabbrica della creatività di Cagliari si becca circa 6.000.000 euro (diconsi seimilioni) per fare non si sa cosa.
L’Istituto Etnografico di Nuoro si porta a casa una bomboniera di ben 3.700.000 euro più una quota residua di 2.800.000 euro per un totale di 6.500.000 euro (diconsi seimilionicinquecentomila) per fare cosa? Se va bene una rassegna cinematografica, la pubblicazione di costosissimi quanto inutili libri in carta patinata con molte fotografie a colori, che mia nonna analfabeta avrebbe apprezzato moltissimo perché almeno avrebbe potuto guardare le immagini.
Tutto ciò evidenzia che in Sardegna la cultura sarda è appannaggio delle potenti lobby del restauro, della catalogazione, degli archivi, delle biblioteche, di cui i padrini Soru - Mongiu sono stati dei prodighi sostenitori e, se pur in forma ridotta, lo è stato anche il presidente Cappellacci.
Non diciamo come i soliti maligni che anche queste cose le abbia volute dall‘alto il presidente Berlusconi. Sarebbe opportuno però che il presidente Cappellacci prestasse più attenzione, anche nella penuria di risorse, ai valori veri della cultura sarda che riteniamo non passino attraverso i musei, le biblioteche e i centri di restauro, cioè delle cose morte, ma delle cose vive e dinamiche come la lingua.
Su questo versante la maggioranza, scherzi a parte, dovrà davvero riflettere e investire molto di più anche perché sono cose scritte nel programma elettorale e sono cose che davvero farebbero segnare il passo, e non solo simbolicamente, all’indipendenza della Sardegna.
Coloro che si nascondono dietro i valori della cultura, misconoscendo i valori della lingua, sono proprio coloro che per anni, nascondendosi dietro i valori dell’autonomia, hanno fatto dell’autonomia una maschera ridicola della vera indipendenza.
L’autonomismo e la cultura delle cose morte sono stati la faccia mortuaria, quando non una smorfia grottesca e risentita dei ceti intellettuali e politici sardi, dinanzi alla loro impotenza rispetto al colonialismo economico e culturale perpetuato dai Savoia prima, dal fascismo e dai governi democristiani dopo.
In Sardegna più che un istituto etnografico per cristallizzare e museificare la spiritualità dei sardi, ci vorrebbe una spinta per rivitalizzare la nostra spiritualità rendendola vigorosa e ponendola come asse centrale dell’attività formativa ed educante nelle scuole dell’isola.
L’Is.Re (istituto regionale etnografico) con alcuni sapienti accorgimenti potrebbe diventare davvero il centro propulsore della promozione e della valorizzazione linguistica della Sardegna. Con piccoli accorgimenti e con qualche leggera modifica nel Consiglio di amministrazione con quelle risorse la Giunta Cappellacci potrebbe chiudere la legislatura portando a casa risultati mai fin’ora visti nelle scelte di politica linguistica.
E allora cosa aspettiamo? Se non ora quando?
Leggendo il bilancio 2009 della Regione sarda, almeno per quanto riguarda le voci inerenti la cultura e la lingua sarda, ci si può rendere conto che i tagli impietosi operati da Soru, dal vituperato Soru, non trovano migliore sorte nelle evidenti riconferme fatte dall’amato e votato Cappellacci.
In particolare sembra essere confermata la linea che privilegia, pur nella penuria delle risorse, musei, restauri, catalogazioni, lasciando intendere che la cultura in Sardegna, è principalmente, un fatto da restaurare e catalogare. In sostanza sembra riconfermata la vecchia idea radical chic di certi intellettuali di sinistra, di una visione antiquaria e monumentale della storia.
Al contrario, per la lingua sarda unico elemento vivo e dinamico della Sardegna odierna, solo pochi spiccioli; di cui i due terzi risultano essere i fondi della legge 482/99 dati alla Regione dalla Presidenza del consiglio dei ministri, per quanto anch’essi ridotti e falcidiati.
In compenso la fabbrica della creatività di Cagliari si becca circa 6.000.000 euro (diconsi seimilioni) per fare non si sa cosa.
L’Istituto Etnografico di Nuoro si porta a casa una bomboniera di ben 3.700.000 euro più una quota residua di 2.800.000 euro per un totale di 6.500.000 euro (diconsi seimilionicinquecentomila) per fare cosa? Se va bene una rassegna cinematografica, la pubblicazione di costosissimi quanto inutili libri in carta patinata con molte fotografie a colori, che mia nonna analfabeta avrebbe apprezzato moltissimo perché almeno avrebbe potuto guardare le immagini.
Tutto ciò evidenzia che in Sardegna la cultura sarda è appannaggio delle potenti lobby del restauro, della catalogazione, degli archivi, delle biblioteche, di cui i padrini Soru - Mongiu sono stati dei prodighi sostenitori e, se pur in forma ridotta, lo è stato anche il presidente Cappellacci.
Non diciamo come i soliti maligni che anche queste cose le abbia volute dall‘alto il presidente Berlusconi. Sarebbe opportuno però che il presidente Cappellacci prestasse più attenzione, anche nella penuria di risorse, ai valori veri della cultura sarda che riteniamo non passino attraverso i musei, le biblioteche e i centri di restauro, cioè delle cose morte, ma delle cose vive e dinamiche come la lingua.
Su questo versante la maggioranza, scherzi a parte, dovrà davvero riflettere e investire molto di più anche perché sono cose scritte nel programma elettorale e sono cose che davvero farebbero segnare il passo, e non solo simbolicamente, all’indipendenza della Sardegna.
Coloro che si nascondono dietro i valori della cultura, misconoscendo i valori della lingua, sono proprio coloro che per anni, nascondendosi dietro i valori dell’autonomia, hanno fatto dell’autonomia una maschera ridicola della vera indipendenza.
L’autonomismo e la cultura delle cose morte sono stati la faccia mortuaria, quando non una smorfia grottesca e risentita dei ceti intellettuali e politici sardi, dinanzi alla loro impotenza rispetto al colonialismo economico e culturale perpetuato dai Savoia prima, dal fascismo e dai governi democristiani dopo.
In Sardegna più che un istituto etnografico per cristallizzare e museificare la spiritualità dei sardi, ci vorrebbe una spinta per rivitalizzare la nostra spiritualità rendendola vigorosa e ponendola come asse centrale dell’attività formativa ed educante nelle scuole dell’isola.
L’Is.Re (istituto regionale etnografico) con alcuni sapienti accorgimenti potrebbe diventare davvero il centro propulsore della promozione e della valorizzazione linguistica della Sardegna. Con piccoli accorgimenti e con qualche leggera modifica nel Consiglio di amministrazione con quelle risorse la Giunta Cappellacci potrebbe chiudere la legislatura portando a casa risultati mai fin’ora visti nelle scelte di politica linguistica.
E allora cosa aspettiamo? Se non ora quando?
domenica 19 luglio 2009
Regione: e il sardo fu messo nel cantuccio
Si parla molto di lingua sarda in Sardegna, ma si spende poco e pochissimo si spende per la politica linguistica. Su un totale di 372 milioni di euro di uscite dichiarate dall’assessorato della Pubblica istruzione, per la lingua sarda si spende poco più 1.270.000 euro, di cui ben 500.000 vanno in regalo alle università (che già hanno decine di milioni da altri capitoli di bilancio) non si sa bene con quale finalità, se culturali generiche o linguistiche.
Leggi tutto
Leggi tutto
sabato 18 luglio 2009
La maleducazione statale
Non basta essere amici di un governo statale per ricevere un minimo di rispetto, prima istituzionale e poi anche umano. In sé e per sé, la maleducazione del governo Berlusconi ha poca rilevanza: l’incontro che il nostro presidente regionale avrebbe dovuto avere con i promessi 11 ministri non aveva carattere risolutivo, era una riunione di immagine. Il governo italiano avrebbe dovuto mostrare a quello sardo attenzione per la decisione unanime del Parlamento sardo di affidare a Cappellacci il compito di rappresentare tutta la Sardegna (quella che lo aveva votato e quella che non lo aveva votato).
Se ne è invece sbattuto, mandando all’incontro una delegazione di basso livello, appena nobilitata dal sottosegretario alla Presidenza, influente quanto si vuole ma privo di capacità di decisione. Insomma un atto maleducato, teso a segnalare qual è il rapporto fra lo Stato italiano e la Regione sarda alla faccia della equiordinazione di Stato, Regioni, Comuni e Province definita dalla Costituzione italiana.
Non mi capita spesso di essere perfettamente d’accordo con Paolo Maninchedda (non lo sono, per esempio, con la sua reiterata sottovalutazione della questione della lingua sarda). Questa volta sì: quello autore dello sgarbo contro la rappresentanza della Sardegna non è il governo del Pdl: è il governo dello Stato italiano. Cambia colore, personaggi ma non può cambiare atteggiamento verso la Sardegna: è nel suo DNA la maleducazione istituzionale. Il governo Prodi amico del governo Soru, in appena 36 mesi di vita, ha bocciato sei leggi della giunta amica.
Soru, che ha chiesto al suo successore di dimettersi per la villania usatagli dal governo Berlusconi, non ha neppure lontanamente pensato di farlo quando l’amico Prodi ha bocciato una legge (fortemente voluta dalla sua giunta) in cui si affermava la sovranità del popolo sardo, mica bruscolini. Cappellaci farà lo stesso, credo: non si dimetterà per quest’ultima villanata, pari, forse, alla “dimenticanza” di Berlusconi di consultarlo prima di spostare il G8 dalla Maddalena all’Aquila.
Non lo farà o almeno me lo auguro: il popolo sardo non se lo merita. Fossi però nelle forze politiche e sociali (su quelle culturali è meglio stendere un velo pietoso) rinsalderei ancora di più l’unità trovata nel nostro Parlamento per mandare Cappellacci a trattare a Roma. Se si capisse che nel rapporto Nazione sarda-Stato italiano, la differenza di governo (centrodestra, centrosinistra, centosud, centronord) conta assai poco, forse si metterebbe mano ad un nuovo Statuto di sovranità.
Si aprirebbe certo un conflitto, ma almeno sapremo perché si apre e capiremo se per lo Stato italiano i trattati internazionali sui diritti dei popoli (da esso sottoscritti e adottati) sono legge o carta igienica. Sapremo anche noi, allora, che cosa fare.
Se ne è invece sbattuto, mandando all’incontro una delegazione di basso livello, appena nobilitata dal sottosegretario alla Presidenza, influente quanto si vuole ma privo di capacità di decisione. Insomma un atto maleducato, teso a segnalare qual è il rapporto fra lo Stato italiano e la Regione sarda alla faccia della equiordinazione di Stato, Regioni, Comuni e Province definita dalla Costituzione italiana.
Non mi capita spesso di essere perfettamente d’accordo con Paolo Maninchedda (non lo sono, per esempio, con la sua reiterata sottovalutazione della questione della lingua sarda). Questa volta sì: quello autore dello sgarbo contro la rappresentanza della Sardegna non è il governo del Pdl: è il governo dello Stato italiano. Cambia colore, personaggi ma non può cambiare atteggiamento verso la Sardegna: è nel suo DNA la maleducazione istituzionale. Il governo Prodi amico del governo Soru, in appena 36 mesi di vita, ha bocciato sei leggi della giunta amica.
Soru, che ha chiesto al suo successore di dimettersi per la villania usatagli dal governo Berlusconi, non ha neppure lontanamente pensato di farlo quando l’amico Prodi ha bocciato una legge (fortemente voluta dalla sua giunta) in cui si affermava la sovranità del popolo sardo, mica bruscolini. Cappellaci farà lo stesso, credo: non si dimetterà per quest’ultima villanata, pari, forse, alla “dimenticanza” di Berlusconi di consultarlo prima di spostare il G8 dalla Maddalena all’Aquila.
Non lo farà o almeno me lo auguro: il popolo sardo non se lo merita. Fossi però nelle forze politiche e sociali (su quelle culturali è meglio stendere un velo pietoso) rinsalderei ancora di più l’unità trovata nel nostro Parlamento per mandare Cappellacci a trattare a Roma. Se si capisse che nel rapporto Nazione sarda-Stato italiano, la differenza di governo (centrodestra, centrosinistra, centosud, centronord) conta assai poco, forse si metterebbe mano ad un nuovo Statuto di sovranità.
Si aprirebbe certo un conflitto, ma almeno sapremo perché si apre e capiremo se per lo Stato italiano i trattati internazionali sui diritti dei popoli (da esso sottoscritti e adottati) sono legge o carta igienica. Sapremo anche noi, allora, che cosa fare.
venerdì 17 luglio 2009
Sena normas, sa limba sarda si nche morit
A pensare chi bi siat isperu pro sa limba sarda sena règulas e sena ufitzialidade, est comente a nàrrere chi unu o una si podant coiuvare sena partner. Craru, si podet ma no est unu coiuviu, est un’àtera cosa. E una die o s’àtera, unu s’abizat chi – comente menetaiant sos cunfessores – s’est faghende turpu.
Narende chi sa limba est fundamentu de s’identidade, su 90 pro chentu de sardos chi gasi at naradu a sos chircadores de sas Universidades sardas custu cheret: su sardu (e su gadduresu, su tataresu, su tabarchinu, s’aligheresesu) cherent amparados. Ca si morint custas limbas si nche morit s’identidade sarda.
Comente si podent amparare sas limbas si su sardu paris cun su gadduresu, su tabarchinu, su tataresu e su cadalanu de S’Alighera si lassant a benefìtziu de natura? O pejus innorende su chi in trint’annos s’est fatu? Comente sos babos e sas mamas e sos fizos podent pònnere fronte a una sienda culturale istranza chi in s’amparu de sa limba istranza bi ponet dinare e podere, giornales e televisiones, iscola e universidade, esertzitu e leze?
Sighi a lègere
Narende chi sa limba est fundamentu de s’identidade, su 90 pro chentu de sardos chi gasi at naradu a sos chircadores de sas Universidades sardas custu cheret: su sardu (e su gadduresu, su tataresu, su tabarchinu, s’aligheresesu) cherent amparados. Ca si morint custas limbas si nche morit s’identidade sarda.
Comente si podent amparare sas limbas si su sardu paris cun su gadduresu, su tabarchinu, su tataresu e su cadalanu de S’Alighera si lassant a benefìtziu de natura? O pejus innorende su chi in trint’annos s’est fatu? Comente sos babos e sas mamas e sos fizos podent pònnere fronte a una sienda culturale istranza chi in s’amparu de sa limba istranza bi ponet dinare e podere, giornales e televisiones, iscola e universidade, esertzitu e leze?
Sighi a lègere
giovedì 16 luglio 2009
Voleva abolire s'Ardia: fermata sull'orlo del ridicolo
Qualcuno ha provveduto a fermare l’ondata di ridicolo che stava per sommergere Francesca Martini, sottosegretaria alla Salute per la Lega Nord. Ieri avrebbe dovuto presentare alla stampa un’ordinanza, il cui tenore si capisce leggendo il comunicato del suo ufficio stampa: “Domani 15 luglio alle ore 11,00 presso l’Auditorium del Ministero di Lungotevere Ripa 1, il Sottosegretario alla Salute on. Francesca Martini presenterà alla stampa l’Ordinanza “Divieto di manifestazioni popolari pubbliche o private, nelle quali vengono impiegati equidi, al di fuori degli ippodromi ufficialmente autorizzati”. Il provvedimento è volto a tutelare la salute e la sicurezza di persone ed animali attraverso l’assunzione di misure di prevenzione che evitino il ripetersi di eventi tragici come quello accaduto nei giorni scorsi in provincia di Oristano”.
Il senso è chiaro: niente più Ardia né a Sedilo né Pozzomaggiore, niente più Sartiglia ad Oristano, niente più Bàrdia de Mesaustu a Orgosolo. Fortunati i baschi di Iruña/Pamplona (dove qualche giorno fa è morto un partecipante alla Festa di San Firmino) che la predisposizione della Martini a mettere le mutande al mondo non abbia effetto sulla Navarra e sulla Spagna. Ma, dicevo, qualcuno ha tirato il freno a mano appena in tempo: la conferenza stampa è stata annullata all’ultimo momento e c’è da sperare che questo qualcuno segnali alla bella sottosegretaria che centenarie manifestazioni popolari non si aboliscono con un’ordinanza.
Questo mi ricorda il decreto con cui il dittatore centrafricano Jean-Bédel Bokassa un giorno si mise in testa di abolire la borghesia: "A far data da domani, in tutta la Rca è abolita la borghesia" recitava più o meno l'editto. Certo lì si trattò, data la ferocia dell’uomo, di una manifestazione tragica, qui siamo appena sotto il ridicolo.
Il senso è chiaro: niente più Ardia né a Sedilo né Pozzomaggiore, niente più Sartiglia ad Oristano, niente più Bàrdia de Mesaustu a Orgosolo. Fortunati i baschi di Iruña/Pamplona (dove qualche giorno fa è morto un partecipante alla Festa di San Firmino) che la predisposizione della Martini a mettere le mutande al mondo non abbia effetto sulla Navarra e sulla Spagna. Ma, dicevo, qualcuno ha tirato il freno a mano appena in tempo: la conferenza stampa è stata annullata all’ultimo momento e c’è da sperare che questo qualcuno segnali alla bella sottosegretaria che centenarie manifestazioni popolari non si aboliscono con un’ordinanza.
Questo mi ricorda il decreto con cui il dittatore centrafricano Jean-Bédel Bokassa un giorno si mise in testa di abolire la borghesia: "A far data da domani, in tutta la Rca è abolita la borghesia" recitava più o meno l'editto. Certo lì si trattò, data la ferocia dell’uomo, di una manifestazione tragica, qui siamo appena sotto il ridicolo.
mercoledì 15 luglio 2009
Uniti sì, ma contro il sardo
Spero abbiate apprezzato, come ho fatto io, l’interesse puntiglioso dei giornali sardi per i risultati del convegno organizzato dalla Regione sulla toponomastica e sulla politica linguistica. Ben due articoli, uno della Nuova (per altro ben fatto)posto nella pagina che si legge solo a Nuoro, uno dell’Unione, quasi dieci righe per parlare del Friuli e, persino, della Sardegna.
L’un giornale passa per essere vicino al centrosinistra, e quindi diffidente nei confronti delle iniziative del governo Cappellacci; l’altro è indiziato di stare dalla parte del centrodestra e, dunque, sensibile alle iniziative del governo sardo. Non vanno d’accordo su nulla: il primo ha sempre il fucile puntato, l’altro spesso chiude un occhio se proprio non appoggia apertamente.
Ma in una cosa sono pappa e ciccia o, se si vuole, culo e camicia: quando si parla di lingua sarda o mettono mano alla pistola passandosela dopo l’uso o attuano il sano principio della corretta informazione pluralista: tacere comunque.
L’un giornale passa per essere vicino al centrosinistra, e quindi diffidente nei confronti delle iniziative del governo Cappellacci; l’altro è indiziato di stare dalla parte del centrodestra e, dunque, sensibile alle iniziative del governo sardo. Non vanno d’accordo su nulla: il primo ha sempre il fucile puntato, l’altro spesso chiude un occhio se proprio non appoggia apertamente.
Ma in una cosa sono pappa e ciccia o, se si vuole, culo e camicia: quando si parla di lingua sarda o mettono mano alla pistola passandosela dopo l’uso o attuano il sano principio della corretta informazione pluralista: tacere comunque.
Chèrgio deo puru s'istandard meu: su baroniesu
de Baroniesu
ZF istimadu,
detzidi tue si pubblicare custu artìculu, ca b’at meneta. Milla: su primu chi mi narat, a mie baroniesu, chi so logudoresu, li cunsìngio de s’istichire, ca si l’agato l’atripo. B’apo postu unu bellu tantu de tempus pro cumprèndere it’est sa Limba sarda comuna ca, a sa prima, mi fiat pàrfida unu matzamurru. No aia cumpresu, leghende sos giornales e sos cummentos, chi si tratat de una limba iscrita, che a totu sas limbas ufitziales unu cunventzione.
Gasi e totu coment’est s’italianu e su cadalanu e finas su frantzesu chi dae carchi annu est isperimentende una limba prus simple de sa chi nos ant imparadu in iscola, cando su professore nos singiait cun su lapis biaitu “maitre” chi, naraiat, cheret iscritu “maître”. Oe s’istadu frantzesu cussentit de l’iscrìere in una manera e in s’àtera. At cambiadu sa cunventzione betza cun una noa, faghende un’operatzione polìtica chi at cuntentadu petzi una parte de sos frantzesos.
Tando, apo postu a banda giornales e malos cunsigeris e mi so postu a lègere su libritu de sa Lsc e, prus de àteru, s’istùdiu de Bolognesi chi at mustradu sa malafide de sos narende chi si trataiat de una limba artifiziale, fraigada abidentemente. E apo cumpresu duas cosas: sa prima est chi non tocat de pònnere mente a chie faeddat e iscriet pro pregiudìtziu o, pejus, pro resones polìticas; sa segunda est chi tocat de lèghere sos papiros originales, su chi, craru, no est fatzile e est istentosu.
Connosco bene meda su baroniesu, ma mi so impinnende a iscrìere ponende fatu a sas normas de sa Lsc e a faeddare in bidda su limbàgiu meu, petzi chirchende de currigire sos malos usos nostros de nàrrere lavoru a su traballu, porta a sa janna, butìglia a s’ampulla, pro nàrrere.
So legende como, finas in custu blog, chi b’at a chie diat chèrrere no un’istandard ma duos, unu chi li narant “campidanesu” e unu chi li narant “logudoresu”. Deo no isco si b’esistit su “campidanesu”, mancari a sa prima ograda mi paret chi lis diat èssere punta a susu a mustrare chi s’ogiastrinu, su marmiddesu, s’aristanesu siant tutunu. Su chi isco est chi non b’esistit su “logudoresu” e chi, de cada sorte, su baroniesu no est “logudoresu”: est baroniesu e bastat gasi. Apo bidu e m’at ispassiadu su disinnu de Larentu Vacca in custu blog: ello it’est, logudoresa cussa iscrita chi mi paret o ovoddesa o mamujadina?
Si est a fàghere ufitziale su “campidanesu”, tando chèrgio chi su baroniesu puru siat ufitziale, ca no est nen “campidanesu” nen “logudoresu”. Si s’istandard de sa limba sarda no esistit e si nde cherent duos, pro ite non tres, ponende su baroniesu; e pro ite non bator, ponendenche s’ogiastrinu, custu puru partzidu in duos, su de cabu de giosso e su de cabu de susu, partzidu intre su baunese e s’utulleinu cun su brincu de gorgovena?
M’apo a isballiare, ma a mie mi paret chi su chi cherent no sunt duos istandard, o prus puru, ma un’istandard ebbia: s’italianu. Inoghe s’at a mustrare si sa Regione tenet panes in bèrtula, mancari arrischende carchi botu, sos chi sos italianistas l’ant, unu cras, denegare.
ZF istimadu,
detzidi tue si pubblicare custu artìculu, ca b’at meneta. Milla: su primu chi mi narat, a mie baroniesu, chi so logudoresu, li cunsìngio de s’istichire, ca si l’agato l’atripo. B’apo postu unu bellu tantu de tempus pro cumprèndere it’est sa Limba sarda comuna ca, a sa prima, mi fiat pàrfida unu matzamurru. No aia cumpresu, leghende sos giornales e sos cummentos, chi si tratat de una limba iscrita, che a totu sas limbas ufitziales unu cunventzione.
Gasi e totu coment’est s’italianu e su cadalanu e finas su frantzesu chi dae carchi annu est isperimentende una limba prus simple de sa chi nos ant imparadu in iscola, cando su professore nos singiait cun su lapis biaitu “maitre” chi, naraiat, cheret iscritu “maître”. Oe s’istadu frantzesu cussentit de l’iscrìere in una manera e in s’àtera. At cambiadu sa cunventzione betza cun una noa, faghende un’operatzione polìtica chi at cuntentadu petzi una parte de sos frantzesos.
Tando, apo postu a banda giornales e malos cunsigeris e mi so postu a lègere su libritu de sa Lsc e, prus de àteru, s’istùdiu de Bolognesi chi at mustradu sa malafide de sos narende chi si trataiat de una limba artifiziale, fraigada abidentemente. E apo cumpresu duas cosas: sa prima est chi non tocat de pònnere mente a chie faeddat e iscriet pro pregiudìtziu o, pejus, pro resones polìticas; sa segunda est chi tocat de lèghere sos papiros originales, su chi, craru, no est fatzile e est istentosu.
Connosco bene meda su baroniesu, ma mi so impinnende a iscrìere ponende fatu a sas normas de sa Lsc e a faeddare in bidda su limbàgiu meu, petzi chirchende de currigire sos malos usos nostros de nàrrere lavoru a su traballu, porta a sa janna, butìglia a s’ampulla, pro nàrrere.
So legende como, finas in custu blog, chi b’at a chie diat chèrrere no un’istandard ma duos, unu chi li narant “campidanesu” e unu chi li narant “logudoresu”. Deo no isco si b’esistit su “campidanesu”, mancari a sa prima ograda mi paret chi lis diat èssere punta a susu a mustrare chi s’ogiastrinu, su marmiddesu, s’aristanesu siant tutunu. Su chi isco est chi non b’esistit su “logudoresu” e chi, de cada sorte, su baroniesu no est “logudoresu”: est baroniesu e bastat gasi. Apo bidu e m’at ispassiadu su disinnu de Larentu Vacca in custu blog: ello it’est, logudoresa cussa iscrita chi mi paret o ovoddesa o mamujadina?
Si est a fàghere ufitziale su “campidanesu”, tando chèrgio chi su baroniesu puru siat ufitziale, ca no est nen “campidanesu” nen “logudoresu”. Si s’istandard de sa limba sarda no esistit e si nde cherent duos, pro ite non tres, ponende su baroniesu; e pro ite non bator, ponendenche s’ogiastrinu, custu puru partzidu in duos, su de cabu de giosso e su de cabu de susu, partzidu intre su baunese e s’utulleinu cun su brincu de gorgovena?
M’apo a isballiare, ma a mie mi paret chi su chi cherent no sunt duos istandard, o prus puru, ma un’istandard ebbia: s’italianu. Inoghe s’at a mustrare si sa Regione tenet panes in bèrtula, mancari arrischende carchi botu, sos chi sos italianistas l’ant, unu cras, denegare.
martedì 14 luglio 2009
A proposito (e a sproposito) del Parco del Gennargentu
di Pietro Murru
Il parco del Gennargentu era una grande opportunità della quale noi sardi ci saremo dovuti appropriare. In Italia, e direi nel mondo, i parchi naturali sono stati sempre occasione di sviluppo. Non mi pare poi che i trentini o gli abruzzesi si pongano il problema dei turisti che “vengono a fare le foto ai nativi”. Forse dovremmo chiederci come mai ci sentiamo “nativi”. Avremmo potuto avere il parco, avremmo potuto farlo nostro, avremmo potuto farci venire i turisti 12 mesi all’anno, magari ospitandoli nei nostri alberghi o bed & breakfast, magari organizzandoci per bene, tutti insieme, perché ce ne sarebbe stato per tutti.
Invece il parco non si è fatto perché la lobby trasversale dei cacciatori appoggiata dai sostenitori del modello di sviluppo del tipo “alla Costa Smeralda” hanno raccontato ai “nativi” un sacco di cazzate, aggiungiamo poi un po’ di campanilismi di basso cabotaggio, incoraggiati per bene, e il gioco è fatto. Dunque per quattro “campioni” che vogliono continuare ad andare in quelle zone a sbronzarsi e a sparare a pennuti che pesano meno delle cartucce con le quali provano a colpirli, gente di cui mio nonno, che a caccia ci andava davvero e per fame, non avrebbe avuto neanche un briciolo di stima, per questa gente quei nostri gioielli naturalistici, prima o dopo, faranno la fine della Costa Smeralda, dove i sardi non possono nemmeno più entrare.
E si, perché la lobby dei cacciatori è solo un’avanguardia, dietro c’è ben altro, e altro che gli interessi dei sardi. Lo scorso anno sono stato a Santulussurgiu e la signora dalla quale alloggiavo, in uno splendido B&B, mi raccontava che le case della parte più vecchia del paese, e più straordinariamente bella, erano state quasi tutte acquistata da continentali. E si, perché mentre noi continuiamo a sparare cazzate e a far vedere ai turisti come siamo bravi a cuocere il maialetto arrosto, loro vengono qui, vedono i nostri tesori e vedono anche quanto siamo rincoglioniti, e zitti zitti comprano il nostro territorio e quanto di splendido ci sta sopra dandoci in cambio quattro specchietti colorati. E ci guardano sbigottiti sbraitare contro il parco mentre ci lasciamo colonizzare per davvero, e ci lasciamo colonizzare da quelli che il suv ce l’hanno sul serio, e magari hanno pure lo yacht.
In Costa Smeralda è andata proprio così, e di sardo non c’è più nulla, e i sardi, li si, sono i “nativi”, ed è esattamente questo che sta succedendo nelle nostre altre splendide coste e nell’interno. E la legge salva coste? Me lo ricordo quel paginone comprato da Briatore nei “giornali sardi” per spiegarci come quella legge fosse dannosa per noi “nativi”. E sta a vedere che adesso gli interessi del signor Briatore coincidono con quelli dei sardi. O magari vogliamo sostenere che gli allevatori sardi stessero aspettando la legge salva coste per ammodernare gli ovili? Ma di che parliamo?
Nelle campagna elettorale per le regionali Renato Soru non è praticamente mai comparso in tv, dall’altra parte Berlusconi ha condotto una campagna elettorale feroce su tutte le tv nazionali, per cosa? Per un bacino di un milione e mezzo (forse) di elettori? O magari perché anche il nostro caro presidente del consiglio, come Briatore, ha a cuore gli interessi dei sardi?
Caro Murru,
come è giusto che capiti, con chi scrive avendo idee e sale in zucca, non si può non essere d’accordo su alcune cose che lei dice, distaccati da altre e in aperto dissenso con altre ancora. D’accordo sul suo ragionare intorno alla Costa Smeralda, indifferente sulla sua critica a Berlusconi, in disaccordo profondo sul suo giudizio sul Parco del Gennargentu. O meglio, tanto per complicare di più le cose, d’accordo sulla funzione che avrebbe potuto avere il parco, in totale dissenso sul giudizio che lei da circa i motivi di contrarietà al Parco non idealmente inteso ma concretamente imposto.
Sarà perché, insieme a decine di persone, ho cominciato a leggere, a studiare, a esaminare in tutti i dettagli la legge 394 quando, nell’autunno 1991, ancora era una proposta di legge; sarà perché fu chiaro da subito che quella legge aveva un vizio di centralismo intollerabile; fatto sta nessuno in quel 1991 (e per molti anni avvenire) ebbe intenzione di dire no all’idea di Parco in sé, ma solo ad una legge che, in fatto di centralismo, aveva una coda di paglia tanto infiammabile da prevedere che solo previa intesa con la Regione sarda il Parco si sarebbe potuto istituire.
La L. 394 è ancora in vigore e non sto quindi ad elencare tutte le mostruosità contenute: è sufficiente leggerla. Basti dire che l’Ente parco, di nomina ministeriale e con una partecipazione ridicola di rappresentanti delle comunità interessate, si sarebbe sostituito ai comuni persino nella concessione delle licenze edilizie. Ci fu, poi, una sovrapposizione di centralismo a centralismo: la Regione firmò le intese con lo Stato senza sentire i comuni interessati, come persino la legge prevedeva. Il che comportò in sindaci affini a Federico Palomba un profondo imbarazzo e la doppia adesione alle ragioni di partito e alle ragioni delle comunità contrarie e in sindaci non affini alla Regione un disaccordo totale.
Lei, forse, è convinto che fossero vere le cose che i giornali hanno scritto per anni sulla longa manus della lobby dei cacciatori, sugli interessi non confessabili dei boss dei territori che sarebbero stati disturbati dal controllo del Parco, sulla volontà di gruppi di potere interessati a fare dei Supramonti una Costa Smeralda montana. Le cose non stanno così e difficilmente si potrà perdonare ad alcuni giornalisti l’opera di mistificazione della realtà. Certo che alla fine si unirono anche i cacciatori alla protesta, ma, a parte la considerazione che sono anche essi titolari del diritto di cittadinanza, i cacciatori sono stati sempre una piccola minoranza che legittimamente difendevano i propri interessi ma che mai sono stati alla guida dell’opposizione alla legge 394.
Lei, caro Murru, è legittimato a non credere a me, ma è tutto agli atti. C’è anche, per dire, un verbale redatto in una riunione alla Provincia di Nuoro in cui, per certificare l’adesione al Parco dei sindaci, si danno per votanti sindaci che non erano presenti e assessori che non hanno votato. Sono gli stessi sindaci, del resto, che il 21 ottobre 2005 hanno partecipato alla manifestazione di 10 mila persone (tutti cacciatori? Tutti banditi? Tutti desiderosi di una Costa Smeralda nel Gennargentu?) e che ai presidenti dei gruppi consiliari hanno chiesto di affossare il Parco. Questo il titolo nella prima pagina dell’Unione sarda del giorno dopo: “Manifestazione a Cagliari, maggioranza e opposizione d'accordo con i sindaci / Il Parco spazzato via”. E questo l’incipit: “Maggioranza e opposizione d'accordo, Giunta e Consiglio regionale si schierano con i sindaci del Nuorese e dell'Ogliastra per ottenere l'eliminazione del Parco nazionale del Gennargentu e costruirne un altro con il consenso dei Comuni”.
Disposti ad un altro Parco, dunque. Allora, perché oramai, dopo tanti imbrogli, credo che le comunità abbiano l’idiosincrasia al solo sentire la parola Parco. Foss’anche un parco giochi.
Nella foto: Un momento della manifestazione contro il Parco del Gennargentu
Il parco del Gennargentu era una grande opportunità della quale noi sardi ci saremo dovuti appropriare. In Italia, e direi nel mondo, i parchi naturali sono stati sempre occasione di sviluppo. Non mi pare poi che i trentini o gli abruzzesi si pongano il problema dei turisti che “vengono a fare le foto ai nativi”. Forse dovremmo chiederci come mai ci sentiamo “nativi”. Avremmo potuto avere il parco, avremmo potuto farlo nostro, avremmo potuto farci venire i turisti 12 mesi all’anno, magari ospitandoli nei nostri alberghi o bed & breakfast, magari organizzandoci per bene, tutti insieme, perché ce ne sarebbe stato per tutti.
Invece il parco non si è fatto perché la lobby trasversale dei cacciatori appoggiata dai sostenitori del modello di sviluppo del tipo “alla Costa Smeralda” hanno raccontato ai “nativi” un sacco di cazzate, aggiungiamo poi un po’ di campanilismi di basso cabotaggio, incoraggiati per bene, e il gioco è fatto. Dunque per quattro “campioni” che vogliono continuare ad andare in quelle zone a sbronzarsi e a sparare a pennuti che pesano meno delle cartucce con le quali provano a colpirli, gente di cui mio nonno, che a caccia ci andava davvero e per fame, non avrebbe avuto neanche un briciolo di stima, per questa gente quei nostri gioielli naturalistici, prima o dopo, faranno la fine della Costa Smeralda, dove i sardi non possono nemmeno più entrare.
E si, perché la lobby dei cacciatori è solo un’avanguardia, dietro c’è ben altro, e altro che gli interessi dei sardi. Lo scorso anno sono stato a Santulussurgiu e la signora dalla quale alloggiavo, in uno splendido B&B, mi raccontava che le case della parte più vecchia del paese, e più straordinariamente bella, erano state quasi tutte acquistata da continentali. E si, perché mentre noi continuiamo a sparare cazzate e a far vedere ai turisti come siamo bravi a cuocere il maialetto arrosto, loro vengono qui, vedono i nostri tesori e vedono anche quanto siamo rincoglioniti, e zitti zitti comprano il nostro territorio e quanto di splendido ci sta sopra dandoci in cambio quattro specchietti colorati. E ci guardano sbigottiti sbraitare contro il parco mentre ci lasciamo colonizzare per davvero, e ci lasciamo colonizzare da quelli che il suv ce l’hanno sul serio, e magari hanno pure lo yacht.
In Costa Smeralda è andata proprio così, e di sardo non c’è più nulla, e i sardi, li si, sono i “nativi”, ed è esattamente questo che sta succedendo nelle nostre altre splendide coste e nell’interno. E la legge salva coste? Me lo ricordo quel paginone comprato da Briatore nei “giornali sardi” per spiegarci come quella legge fosse dannosa per noi “nativi”. E sta a vedere che adesso gli interessi del signor Briatore coincidono con quelli dei sardi. O magari vogliamo sostenere che gli allevatori sardi stessero aspettando la legge salva coste per ammodernare gli ovili? Ma di che parliamo?
Nelle campagna elettorale per le regionali Renato Soru non è praticamente mai comparso in tv, dall’altra parte Berlusconi ha condotto una campagna elettorale feroce su tutte le tv nazionali, per cosa? Per un bacino di un milione e mezzo (forse) di elettori? O magari perché anche il nostro caro presidente del consiglio, come Briatore, ha a cuore gli interessi dei sardi?
Caro Murru,
come è giusto che capiti, con chi scrive avendo idee e sale in zucca, non si può non essere d’accordo su alcune cose che lei dice, distaccati da altre e in aperto dissenso con altre ancora. D’accordo sul suo ragionare intorno alla Costa Smeralda, indifferente sulla sua critica a Berlusconi, in disaccordo profondo sul suo giudizio sul Parco del Gennargentu. O meglio, tanto per complicare di più le cose, d’accordo sulla funzione che avrebbe potuto avere il parco, in totale dissenso sul giudizio che lei da circa i motivi di contrarietà al Parco non idealmente inteso ma concretamente imposto.
Sarà perché, insieme a decine di persone, ho cominciato a leggere, a studiare, a esaminare in tutti i dettagli la legge 394 quando, nell’autunno 1991, ancora era una proposta di legge; sarà perché fu chiaro da subito che quella legge aveva un vizio di centralismo intollerabile; fatto sta nessuno in quel 1991 (e per molti anni avvenire) ebbe intenzione di dire no all’idea di Parco in sé, ma solo ad una legge che, in fatto di centralismo, aveva una coda di paglia tanto infiammabile da prevedere che solo previa intesa con la Regione sarda il Parco si sarebbe potuto istituire.
La L. 394 è ancora in vigore e non sto quindi ad elencare tutte le mostruosità contenute: è sufficiente leggerla. Basti dire che l’Ente parco, di nomina ministeriale e con una partecipazione ridicola di rappresentanti delle comunità interessate, si sarebbe sostituito ai comuni persino nella concessione delle licenze edilizie. Ci fu, poi, una sovrapposizione di centralismo a centralismo: la Regione firmò le intese con lo Stato senza sentire i comuni interessati, come persino la legge prevedeva. Il che comportò in sindaci affini a Federico Palomba un profondo imbarazzo e la doppia adesione alle ragioni di partito e alle ragioni delle comunità contrarie e in sindaci non affini alla Regione un disaccordo totale.
Lei, forse, è convinto che fossero vere le cose che i giornali hanno scritto per anni sulla longa manus della lobby dei cacciatori, sugli interessi non confessabili dei boss dei territori che sarebbero stati disturbati dal controllo del Parco, sulla volontà di gruppi di potere interessati a fare dei Supramonti una Costa Smeralda montana. Le cose non stanno così e difficilmente si potrà perdonare ad alcuni giornalisti l’opera di mistificazione della realtà. Certo che alla fine si unirono anche i cacciatori alla protesta, ma, a parte la considerazione che sono anche essi titolari del diritto di cittadinanza, i cacciatori sono stati sempre una piccola minoranza che legittimamente difendevano i propri interessi ma che mai sono stati alla guida dell’opposizione alla legge 394.
Lei, caro Murru, è legittimato a non credere a me, ma è tutto agli atti. C’è anche, per dire, un verbale redatto in una riunione alla Provincia di Nuoro in cui, per certificare l’adesione al Parco dei sindaci, si danno per votanti sindaci che non erano presenti e assessori che non hanno votato. Sono gli stessi sindaci, del resto, che il 21 ottobre 2005 hanno partecipato alla manifestazione di 10 mila persone (tutti cacciatori? Tutti banditi? Tutti desiderosi di una Costa Smeralda nel Gennargentu?) e che ai presidenti dei gruppi consiliari hanno chiesto di affossare il Parco. Questo il titolo nella prima pagina dell’Unione sarda del giorno dopo: “Manifestazione a Cagliari, maggioranza e opposizione d'accordo con i sindaci / Il Parco spazzato via”. E questo l’incipit: “Maggioranza e opposizione d'accordo, Giunta e Consiglio regionale si schierano con i sindaci del Nuorese e dell'Ogliastra per ottenere l'eliminazione del Parco nazionale del Gennargentu e costruirne un altro con il consenso dei Comuni”.
Disposti ad un altro Parco, dunque. Allora, perché oramai, dopo tanti imbrogli, credo che le comunità abbiano l’idiosincrasia al solo sentire la parola Parco. Foss’anche un parco giochi.
Nella foto: Un momento della manifestazione contro il Parco del Gennargentu
lunedì 13 luglio 2009
E la battaglia per il sardo riprende. Con qualche zeppa
Al di là di quanto si è detto nei due giorni del seminario di Orosei sulla toponomastica e sulla politica linguistica in Sardegna, c’è un fatto di grande importanza. Non solo riprende, dopo la sbronza elettorale, il dibattito sulla lingua sarda, ma si acquisisce il fatto che esistono cinque “questioni linguistiche”. Insieme alla sarda, quelle delle quattro aree alloglotte del gallurese, del sassarese, del catalano d’Alghero, del tabarchino. Tutte queste “questioni” vanno risolte definitivamente entro un processo costituente della Nazione sarda.
Non è una novità affermare che non abbiamo più bisogno di una generica legge sulla cultura e sulla lingua, ma di una legge di politica linguistica insieme a leggi che promuovano la cultura sarda. È quanto, allo spirare della passata legislatura, aveva fatto il governo Soru, purtroppo fuori tempo massimo. La novità, anzi le novità, stanno nel dare per acquisita la necessità di una politica linguistica e nell’affermare che essa deve tendere alla ufficializzazione, alla normalizzazione e alla costituzionalizzazione della lingua sarda e, attraverso di essa, delle lingue alloglotte.
Prima tappa della ufficializzazione è quella della massima visibilità all’ingresso delle province e dei comuni, con cartelli normali, non arabescati e folclorizzati in legno o in ceramiche policrome, come purtroppo succede in alcuni paesi. Questo, insieme alle targhe stradali, anche queste normali e non differenziate secondo che siano in sardo (e gallurese, per dire) o in italiano, da a chi vive in Sardegna e a chi vi arriva la contezza di essere in un posto peculiare, non omologato al resto dello Stato.
Si sono, così, conosciute esperienze di regioni europee nelle quali tutto ciò non è l’inizio di un processo ma un processo in atto e, a volte, un dato consolidato. E si sono sentite proposte di grande interesse tese a rendere normali l’uso e la visibilità del sardo e delle altre lingue della Sardegna. Si è anche saputo che le baruffe intorno agli standard della scrittura non sono una specialità nostra, si sono aperte ovunque una visione statocentrica si oppone ad una visione nazionale della questione. A me, e ad altre centinaia di persone, è capitato l’anno scorso alla Conferenza regionale della lingua a Macomer di sentir parlare della inutilità di uno standard sardo, visto che già c’è uno standard italiano che tutti ci rappresenta.
Putroppo, come a volte accade, chi contrasta questa visione nazionale della questione linguistica, anche ad Orosei (come già lo scorso anno a Macomer) non si è fatto né vedere né sentire, malgrado il convegno fosse organizzato dalla Regione e dal Ministero degli affari regionali, non da una setta “logudoresa”, nemica del “campidanese”, secondo la distinzione psicheledica di chi vuole utilizzare il sardo per muover guerra al sardo.Una distinzione molto ideologizzata, e soprattutto molto politicizzata.
La ripresa della politica intorno alla lingua, insomma, c’è stata. Ed è avvenuta nella consapevolezza dei trecento partecipanti che la lingua non è di destra o di sinistra secondo chi guida il governo della Sardegna, che questa distinzione di comodo, già pencolante nelle politica politichese, è assurda in materia linguistica. Non è un caso che l’assessore Lucia Baire, di centro destra, ha catturato l’attenzione di una platea che, nella sua stragrande maggioranza, di quello schieramento non era. A tutti, o a quasi tutti, è apparso sincero ed appassionato il suo impegno a contribuire a tirar fuori la lingua sarda dall’incertezza che oggi vive circa la sua stessa sopravvivenza.
Questo, è chiaro, è la metà piena del bicchiere ideale che contiene il sardo e le altre quattro lingue alloglotte. Il bicchiere mezzo vuoto – bisogna sempre averne contezza – è la domanda, ancora senza risposta, circa la capacità del governo sardo di capire sino in fondo che, ha detto un relatore al convegno, la Sardegna ha di fronte un’altra emergenza, oltre a quelle economiche e occupative: quella della lingua sarda. E di capire, aggiungerei, che la lingua è capace di produrre ricchezza e quindi lavoro, a patto che su di essa si facciano grandi investimenti. Una medicina, presa in dosi troppo piccole, non solo non guarisce ma rischia di produrre danni.
PS - Il sito Disterraus sardus (il cui link trovate a sinistra in questo blog) titola così l'articolo uscito ieri su L'Unione sarda: "Un nuovo Statuto con la lingua sarda, ma senza L.S.C". E' un classico esempio di confusione fra un desiderio e la realtà. Oltre che un pessimo servizio reso alla correttezza di informazione. Senza entrare nel merito dell'articolo di Claudia Lombardo, sanno gli amici di Disterraus sardu che il presidente di un parlamento mai si azzarderebbe a dettare la linea politica, si pure di politica linguistica, al governo?
Sarebbe causa di un conflitto istituzionale dai risvolti molto gravi. Per fortuna, la presidente Lombardo dice tutt'altro, sia pure con qualche incertezza terminologica.
Non è una novità affermare che non abbiamo più bisogno di una generica legge sulla cultura e sulla lingua, ma di una legge di politica linguistica insieme a leggi che promuovano la cultura sarda. È quanto, allo spirare della passata legislatura, aveva fatto il governo Soru, purtroppo fuori tempo massimo. La novità, anzi le novità, stanno nel dare per acquisita la necessità di una politica linguistica e nell’affermare che essa deve tendere alla ufficializzazione, alla normalizzazione e alla costituzionalizzazione della lingua sarda e, attraverso di essa, delle lingue alloglotte.
Prima tappa della ufficializzazione è quella della massima visibilità all’ingresso delle province e dei comuni, con cartelli normali, non arabescati e folclorizzati in legno o in ceramiche policrome, come purtroppo succede in alcuni paesi. Questo, insieme alle targhe stradali, anche queste normali e non differenziate secondo che siano in sardo (e gallurese, per dire) o in italiano, da a chi vive in Sardegna e a chi vi arriva la contezza di essere in un posto peculiare, non omologato al resto dello Stato.
Si sono, così, conosciute esperienze di regioni europee nelle quali tutto ciò non è l’inizio di un processo ma un processo in atto e, a volte, un dato consolidato. E si sono sentite proposte di grande interesse tese a rendere normali l’uso e la visibilità del sardo e delle altre lingue della Sardegna. Si è anche saputo che le baruffe intorno agli standard della scrittura non sono una specialità nostra, si sono aperte ovunque una visione statocentrica si oppone ad una visione nazionale della questione. A me, e ad altre centinaia di persone, è capitato l’anno scorso alla Conferenza regionale della lingua a Macomer di sentir parlare della inutilità di uno standard sardo, visto che già c’è uno standard italiano che tutti ci rappresenta.
Putroppo, come a volte accade, chi contrasta questa visione nazionale della questione linguistica, anche ad Orosei (come già lo scorso anno a Macomer) non si è fatto né vedere né sentire, malgrado il convegno fosse organizzato dalla Regione e dal Ministero degli affari regionali, non da una setta “logudoresa”, nemica del “campidanese”, secondo la distinzione psicheledica di chi vuole utilizzare il sardo per muover guerra al sardo.Una distinzione molto ideologizzata, e soprattutto molto politicizzata.
La ripresa della politica intorno alla lingua, insomma, c’è stata. Ed è avvenuta nella consapevolezza dei trecento partecipanti che la lingua non è di destra o di sinistra secondo chi guida il governo della Sardegna, che questa distinzione di comodo, già pencolante nelle politica politichese, è assurda in materia linguistica. Non è un caso che l’assessore Lucia Baire, di centro destra, ha catturato l’attenzione di una platea che, nella sua stragrande maggioranza, di quello schieramento non era. A tutti, o a quasi tutti, è apparso sincero ed appassionato il suo impegno a contribuire a tirar fuori la lingua sarda dall’incertezza che oggi vive circa la sua stessa sopravvivenza.
Questo, è chiaro, è la metà piena del bicchiere ideale che contiene il sardo e le altre quattro lingue alloglotte. Il bicchiere mezzo vuoto – bisogna sempre averne contezza – è la domanda, ancora senza risposta, circa la capacità del governo sardo di capire sino in fondo che, ha detto un relatore al convegno, la Sardegna ha di fronte un’altra emergenza, oltre a quelle economiche e occupative: quella della lingua sarda. E di capire, aggiungerei, che la lingua è capace di produrre ricchezza e quindi lavoro, a patto che su di essa si facciano grandi investimenti. Una medicina, presa in dosi troppo piccole, non solo non guarisce ma rischia di produrre danni.
PS - Il sito Disterraus sardus (il cui link trovate a sinistra in questo blog) titola così l'articolo uscito ieri su L'Unione sarda: "Un nuovo Statuto con la lingua sarda, ma senza L.S.C". E' un classico esempio di confusione fra un desiderio e la realtà. Oltre che un pessimo servizio reso alla correttezza di informazione. Senza entrare nel merito dell'articolo di Claudia Lombardo, sanno gli amici di Disterraus sardu che il presidente di un parlamento mai si azzarderebbe a dettare la linea politica, si pure di politica linguistica, al governo?
Sarebbe causa di un conflitto istituzionale dai risvolti molto gravi. Per fortuna, la presidente Lombardo dice tutt'altro, sia pure con qualche incertezza terminologica.
venerdì 10 luglio 2009
Toponomàstica e polìtica linguistica in Sardigna
Prus de 1600 pessones ant firmadu una decreratzione pro nàrrere chi “sa limba sarda e sas àteras limbas reconnotas dae sa L.R. n.26 e dae sa L. 482, gadduresu, tabarchinu, tataresu, catalanu de s'Alighera, devent tènnere ufitzialidade prena e efetiva in cada àmbitu e usu in sa sotziedade e in su territòriu”. (Sa decraratzione s’agatat inoghe e a chie cheret la podet firmare). No est unu caminu punta a giosso, ma est pretzisu de l’imbucare si cherimus chi sa limba sarda (paris cun sas àteras bator faeddadas in Sardigna) si sarvet e crescat.
Cras e domìnica, comente custu blog at giai iscritu, b’at a àere in Orosei un’addòviu regionale chi podet èssere su primu passu ghetadu cara a s’ufitzialidade. S’at a arresonare de polìtica linguìstica, de su chi tocat a fàghere pro amparare sas limbas de Sardigna e s’at a chistionare de toponomàtisca chi no est petzi un’abbentu pro istudiosos pro ischire sos nùmenes de sos logos sardos. Dae cue tocat de mòghere pròpiu pro fàghere su chi pedit sa decraratzione numenda inoghe: fàghere a manera chi sas limbas de Sardigna siant reconnoschibiles in totue.
No est unu caminu fatzile, ma est de importu mannu chi sa Regione siat in gana de lu cumintzare.
Lorenzo Vacca, cun s’autoironia chi li deghet a chie istimat sa limba sarda, at interpetradu a sa moda sua sa chistione de sa toponomàstica in Sardigna.
giovedì 9 luglio 2009
Dall'agonia della chimica un modello diverso di sviluppo
Non capita spesso di andare orgogliosi dei propri ceti politici, troppo spesso presi in beghe di cui alle persone normali sfuggono non solo i significati ma anche i contorni. Quella di ieri, quando il governo sardo si è riunito con i parlamentari sardi, è una di quelle rare occasioni. In gioco c’era – e c’è – per alcuni la sopravvivenza della chimica, per altri (io sono d’accordo con loro) la sopravvivenza di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Tutti hanno comunque preso la saggia decisione di lasciare a casa le baruffe e di mettersi a lavorare uniti.
Personalmente sono molto polemico con la scelta, decisa a Roma ma ingoiata in Sardegna come fosse uno zuccherino, di procedere alla industrializzazione petrolchimica e chimica dell’Isola. Lo sono, se mi si permette un ricordo personale, fin dal 1972, quando venni inviato dal mio giornale da Milano a Ottana. Mi parve una pazzia e lo scrissi. Ma adesso, quando si prepara una sorta di Stati generali del popolo sardo, vale la pena mettere da parte recriminazioni e critiche. E vale la pena di cominciare a ragionare, anche su questo blog se ne avete voglia, su un modello economico diverso da quello fin qui conosciuto.
Un “Nuovo modello di civiltà” lo chiamammo nel 1990 in un documento, “Il manifesto di Desulo” elaborato da due dozzine di intellettuali non organici. Vi scrivevamo fra l’altro:
“Alla disoccupazione di massa, alla fragilità e impotenza del sistema economico, alla impreparazione ed evanescenza della classe politica sarda, alla vacuità ed evasività delle culture dominanti, cominciano a sovrapporsi le moderne carestie: la carestia dell'aria pulita, dell'acqua potabile, dei cibi non nocivi, degli spazi territoriali fruibili.
La Sardegna, pur non avendo goduto, se non in piccola parte, dei benefici dell'occidentalizzazione, si trova a dover subire pienamente le conseguenze del degrado ambientale e dei mutamenti climatici provocati dai paesi maggiormente industrializzati, Usa in testa. In questo contesto, la difesa e la rigenerazione dell'ambiente isolano in tutti i suoi aspetti si propone come impegno urgente e prioritario, fulcro del nuovo modello di civiltà, a cui tutti gli altri impegni debbono essere subordinati e finalizzati.
Politica, economia, cultura, organizzazione sociale devono avere come oggetto e preoccupazione principale la difesa, la ricostruzione, la valorizzazione e l'abbellimento della terra sarda, pena l'arretramento generale e la disumanizzazione... È ancora possibile che la Sardegna --come isola di Utopia-- diventi un paese in cui si producono aria respirabile, acqua buona, cibi sani, spazi residenziali non congestionati e socialmente non pericolosi, marine e boschi salubri, città e montagne parimenti vivibili al miglior livello umano.”
Comunque lo si chiami, il nuovo modello economico non può non essere fondato su “la difesa, la ricostruzione, la valorizzazione e l'abbellimento della terra sarda”.
Alla “monocultura della pecora” si è sostituita negli anni la monocultura petrolchimica e comunque industriale che ha semidistrutto la prima; ora questa sta implodendo, scossa da una crisi mondiale di cui ancora non scorgiamo le dimensioni; si sente qua e là avanzare la proposta di una monocultura turistica, forse meno devastante della seconda, ma certo pericolosa. È mai possibile che non riusciamo a pensare alla Sardegna come un’unica, irripetibile e allo stesso tempo variegata terra di prosperità?
Personalmente sono molto polemico con la scelta, decisa a Roma ma ingoiata in Sardegna come fosse uno zuccherino, di procedere alla industrializzazione petrolchimica e chimica dell’Isola. Lo sono, se mi si permette un ricordo personale, fin dal 1972, quando venni inviato dal mio giornale da Milano a Ottana. Mi parve una pazzia e lo scrissi. Ma adesso, quando si prepara una sorta di Stati generali del popolo sardo, vale la pena mettere da parte recriminazioni e critiche. E vale la pena di cominciare a ragionare, anche su questo blog se ne avete voglia, su un modello economico diverso da quello fin qui conosciuto.
Un “Nuovo modello di civiltà” lo chiamammo nel 1990 in un documento, “Il manifesto di Desulo” elaborato da due dozzine di intellettuali non organici. Vi scrivevamo fra l’altro:
“Alla disoccupazione di massa, alla fragilità e impotenza del sistema economico, alla impreparazione ed evanescenza della classe politica sarda, alla vacuità ed evasività delle culture dominanti, cominciano a sovrapporsi le moderne carestie: la carestia dell'aria pulita, dell'acqua potabile, dei cibi non nocivi, degli spazi territoriali fruibili.
La Sardegna, pur non avendo goduto, se non in piccola parte, dei benefici dell'occidentalizzazione, si trova a dover subire pienamente le conseguenze del degrado ambientale e dei mutamenti climatici provocati dai paesi maggiormente industrializzati, Usa in testa. In questo contesto, la difesa e la rigenerazione dell'ambiente isolano in tutti i suoi aspetti si propone come impegno urgente e prioritario, fulcro del nuovo modello di civiltà, a cui tutti gli altri impegni debbono essere subordinati e finalizzati.
Politica, economia, cultura, organizzazione sociale devono avere come oggetto e preoccupazione principale la difesa, la ricostruzione, la valorizzazione e l'abbellimento della terra sarda, pena l'arretramento generale e la disumanizzazione... È ancora possibile che la Sardegna --come isola di Utopia-- diventi un paese in cui si producono aria respirabile, acqua buona, cibi sani, spazi residenziali non congestionati e socialmente non pericolosi, marine e boschi salubri, città e montagne parimenti vivibili al miglior livello umano.”
Comunque lo si chiami, il nuovo modello economico non può non essere fondato su “la difesa, la ricostruzione, la valorizzazione e l'abbellimento della terra sarda”.
Alla “monocultura della pecora” si è sostituita negli anni la monocultura petrolchimica e comunque industriale che ha semidistrutto la prima; ora questa sta implodendo, scossa da una crisi mondiale di cui ancora non scorgiamo le dimensioni; si sente qua e là avanzare la proposta di una monocultura turistica, forse meno devastante della seconda, ma certo pericolosa. È mai possibile che non riusciamo a pensare alla Sardegna come un’unica, irripetibile e allo stesso tempo variegata terra di prosperità?
mercoledì 8 luglio 2009
Ricerca toponomastica: ripartiamo dall'indoeuropeo
di Alberto Areddu
Ci son due forme di interessamento che la politica patrocina negli ultimi anni (perché purtroppo alla politica si delegano tali cose) riguardo la tematica de "i nomi dei (nostri) luoghi". La via della raccolta, inquadramento e interpretazione più o meno scientifica, e la via dell'ascolto della lamentela, ai fini di una eventuale restauratio, laddove si sia fatto scempio, e ciò avvenne specie negli anni Sessanta, tramite riadattamenti (Romasino > Romazzino) o dismissione assoluta (Monti de Mola > Costa Smeralda), di antichi toponimi, con perspicue finalità di vendita di un pacchetto turistico.
Paradossalmente altri politici proprio per queste stesse finalità hanno proposto per zone da loro amministrate, un riadattamento "storico-turistico", bloccato, credo, dalle varie petizioni (ricordo la disputa recente sulla dicitura "golfo dei Fenici" sostenuta dal politico Onida, e osteggiata da Pintore). Riguardo la prima via è giusto sapere che vengono chiamati a tali convegni quei due/ tre studiosi che se ne occupano accademicamente, benché della questione toponomastica nei decenni se ne sian occupati in tanti (per citarne qualcheduno: Spano, Teti, Dedola, Miglior, Sardella ecc.), e benché Max Leopold Wagner avesse sigillato la eventuale ricerca con la seguente frase: " l’antico vocabolario toponomastico sardo… non offre che una selva di enimmi etnografici e linguistici". Come dire: lasciate ogni speranza o voi che vi inoltrate (e infatti lui non se ne occupò).
E credo che abbiano lasciato molte speranze coloro che generosamente si son prodigati per smontare il giocattolo dell'interpretazione dell'antica toponomastica di Sardegna (giacché quella latina è invece di molto più facile individuazione). Orbene grazie al mio lavoro sulle "Origini albanesi della civiltà in Sardegna" ho potuto dimostrare che gran parte dei poleonimi (cioè i nomi di paese e città) e i coronimi (i nomi delle regioni interne) paleosardi sono spiegabili senza soverchie difficoltà con la chiave delle lingue indoeuropee e in specie dell'illirico. E' quindi ovvio, lo dico senza saccenterie, che la ricerca si dovrà concentrare adesso sui microtoponimi, laddove cioè più fitto appare il mistero e dove maggiormente s'appalesa il problema della loro sincerità linguistica.
La qualità e la serietà del mio lavoro è stata certificata dalla recensione di otto pagine fatta dal massimo balcanologo italiano (ma anche orientalista), Emanuele Banfi dell'Università di Milano, allievo di Vittore Pisani, il massimo studioso di linguistica storica del passato secolo.
Ci son due forme di interessamento che la politica patrocina negli ultimi anni (perché purtroppo alla politica si delegano tali cose) riguardo la tematica de "i nomi dei (nostri) luoghi". La via della raccolta, inquadramento e interpretazione più o meno scientifica, e la via dell'ascolto della lamentela, ai fini di una eventuale restauratio, laddove si sia fatto scempio, e ciò avvenne specie negli anni Sessanta, tramite riadattamenti (Romasino > Romazzino) o dismissione assoluta (Monti de Mola > Costa Smeralda), di antichi toponimi, con perspicue finalità di vendita di un pacchetto turistico.
Paradossalmente altri politici proprio per queste stesse finalità hanno proposto per zone da loro amministrate, un riadattamento "storico-turistico", bloccato, credo, dalle varie petizioni (ricordo la disputa recente sulla dicitura "golfo dei Fenici" sostenuta dal politico Onida, e osteggiata da Pintore). Riguardo la prima via è giusto sapere che vengono chiamati a tali convegni quei due/ tre studiosi che se ne occupano accademicamente, benché della questione toponomastica nei decenni se ne sian occupati in tanti (per citarne qualcheduno: Spano, Teti, Dedola, Miglior, Sardella ecc.), e benché Max Leopold Wagner avesse sigillato la eventuale ricerca con la seguente frase: " l’antico vocabolario toponomastico sardo… non offre che una selva di enimmi etnografici e linguistici". Come dire: lasciate ogni speranza o voi che vi inoltrate (e infatti lui non se ne occupò).
E credo che abbiano lasciato molte speranze coloro che generosamente si son prodigati per smontare il giocattolo dell'interpretazione dell'antica toponomastica di Sardegna (giacché quella latina è invece di molto più facile individuazione). Orbene grazie al mio lavoro sulle "Origini albanesi della civiltà in Sardegna" ho potuto dimostrare che gran parte dei poleonimi (cioè i nomi di paese e città) e i coronimi (i nomi delle regioni interne) paleosardi sono spiegabili senza soverchie difficoltà con la chiave delle lingue indoeuropee e in specie dell'illirico. E' quindi ovvio, lo dico senza saccenterie, che la ricerca si dovrà concentrare adesso sui microtoponimi, laddove cioè più fitto appare il mistero e dove maggiormente s'appalesa il problema della loro sincerità linguistica.
La qualità e la serietà del mio lavoro è stata certificata dalla recensione di otto pagine fatta dal massimo balcanologo italiano (ma anche orientalista), Emanuele Banfi dell'Università di Milano, allievo di Vittore Pisani, il massimo studioso di linguistica storica del passato secolo.
martedì 7 luglio 2009
Laureaus a ignorantis cun s'oferta ispeciali
de Mario Pudhu
In is annus a giru de su 1980 apu fatu s'anàlisi de una sessantina de libbrus de iscola efetivamenti adotaus me is iscolas de sa Sardigna: libbrus de istória unus 40 (pruschetotu de iscola média, ma fintzas de iscolas superioris e iscolas elementaris), libbrus de geografia e grammàticas de italianu, po biri si, cantu e comenti fuedhanta de sa Sardigna. Apu arregortu cartellas de ischedas, fintzas ca su chi pentzamu de fai fut sa pubblicatzioni de un'òpera.
Ma giustu in cussus annus mi ndi est arrutu apitzus su Partidu Sardu (mellus, su PSd'A), cuntentu de dhu pigai, certu, ma no apu pótziu prus dedicai su tempus a s'istúdiu e ancora est aici cussa cartella de materiali. Apu isceti iscritu calincunu artículu in Tempus de Sardínnia, chi est istétiu su mensili de sa CSS. Si fatzat contu fintzas chi in cussus annus, 1979/80, me in s'arràdiu de Carbónia (RadioGamma) e de Sant'Antiogu eus fatu (cun d-un'amigu anticolonialista, Gianni Cau, de Prammas) 21 trasmissioni de istória de is Sardus, de mes'ora dónnia borta, in sardu, si cumprendit! Ma po torrai a sa chistioni, isciu bèni ita dhui at me is libbrus de s'iscola italiana e po dha fai curtza apu conclúdiu ca is Sardus, fintzas laureaus de una e duas o prus làureas, po su tanti chi si fait isciri s'iscola italiana seus laureaus a ignorantis cun s'oferta ispeciali de su presumu puru.
Si unu dhui circat cosa chi pertocat is Sardus in is libbrus de iscola depit pigai su microscópiu, poita assinuncas no bit nudha in totu s'istória de s'Umanidadi. E ita si bit a microscópiu? Chi sa Sardigna est "Italia prima che l'Italia fosse". Po totu s'àteru sa Sardigna est unu desertu o si calincuna cosa narant funti cosas falsas ma 'italianas'. In is libbrus de geografia, 'naturalmente' sa Sardigna est una regioni de s'Itàlia, a parti is fesserias chi narant. Ma chi is abbitantis de sa Sardigna siant cussu tanti de 4 millionis e prus gei est berus: dèu dhu nau sempri, fintzas si no apu carculau sa densidadi!!! Ma is abbitantis seus totu cussus: parti a dus peis e parti a cuatru, totus brebeis e no genti
Dèu in cantus annus apu insegnau apu fatu sa metadi de su programma de istória sempri dedicau a s'istória de is Sardus, foras de totus is libbrus de iscola, assurdus e falsus (e difatis no mi seu mai incurau de ndi adotai unu, ca tanti dhus apu agataus unu sa fotocópia de s'àteru: su solu libbru chi apu adotau dèu in trint'annus de iscola est una antologia de poetas sardus de Matteo Porru!)
Geografia su própiu. Ma sa chistioni abarrat totu intrea. E una parti manna de responsabbilidadi dha teneus is Sardus etotu, concas de cibudha e pudéscias puru: sinuncas unu manuali de istória de is Sardus e de geografia gei si podiat tenni, fintzas si tocat a si pònniri foras de is libbrus italianus, chi bollit nàrriri unu bellu segamentu de matza, ca a is famíglias iat a tocai a dhis fai fai un'ispesa prus manna e iat a èssiri necessàriu mellus unu manuali de istória generali e de geografia fatus de is Sardus comenti si tocat
In cantu a is adotzionis, is Docentis prus de una borta faint adotzionis sentza mancu oberri is libbrus, no de no castiai ita dhui at iscritu, ca mancai est prus fàcili a presentai sa relatzioni de is editoris etotu a giustificatzioni po s'adotzioni noa (ma is fuedhus bellus gei si agatant po giustificai dónnia tontesa, e postu chi bandint a castiai si e ita si dhui podit istudiai de sa Sardigna e de is Sardus!)
Aici seus! … Ma poita seus 'civilizzati'
In is annus a giru de su 1980 apu fatu s'anàlisi de una sessantina de libbrus de iscola efetivamenti adotaus me is iscolas de sa Sardigna: libbrus de istória unus 40 (pruschetotu de iscola média, ma fintzas de iscolas superioris e iscolas elementaris), libbrus de geografia e grammàticas de italianu, po biri si, cantu e comenti fuedhanta de sa Sardigna. Apu arregortu cartellas de ischedas, fintzas ca su chi pentzamu de fai fut sa pubblicatzioni de un'òpera.
Ma giustu in cussus annus mi ndi est arrutu apitzus su Partidu Sardu (mellus, su PSd'A), cuntentu de dhu pigai, certu, ma no apu pótziu prus dedicai su tempus a s'istúdiu e ancora est aici cussa cartella de materiali. Apu isceti iscritu calincunu artículu in Tempus de Sardínnia, chi est istétiu su mensili de sa CSS. Si fatzat contu fintzas chi in cussus annus, 1979/80, me in s'arràdiu de Carbónia (RadioGamma) e de Sant'Antiogu eus fatu (cun d-un'amigu anticolonialista, Gianni Cau, de Prammas) 21 trasmissioni de istória de is Sardus, de mes'ora dónnia borta, in sardu, si cumprendit! Ma po torrai a sa chistioni, isciu bèni ita dhui at me is libbrus de s'iscola italiana e po dha fai curtza apu conclúdiu ca is Sardus, fintzas laureaus de una e duas o prus làureas, po su tanti chi si fait isciri s'iscola italiana seus laureaus a ignorantis cun s'oferta ispeciali de su presumu puru.
Si unu dhui circat cosa chi pertocat is Sardus in is libbrus de iscola depit pigai su microscópiu, poita assinuncas no bit nudha in totu s'istória de s'Umanidadi. E ita si bit a microscópiu? Chi sa Sardigna est "Italia prima che l'Italia fosse". Po totu s'àteru sa Sardigna est unu desertu o si calincuna cosa narant funti cosas falsas ma 'italianas'. In is libbrus de geografia, 'naturalmente' sa Sardigna est una regioni de s'Itàlia, a parti is fesserias chi narant. Ma chi is abbitantis de sa Sardigna siant cussu tanti de 4 millionis e prus gei est berus: dèu dhu nau sempri, fintzas si no apu carculau sa densidadi!!! Ma is abbitantis seus totu cussus: parti a dus peis e parti a cuatru, totus brebeis e no genti
Dèu in cantus annus apu insegnau apu fatu sa metadi de su programma de istória sempri dedicau a s'istória de is Sardus, foras de totus is libbrus de iscola, assurdus e falsus (e difatis no mi seu mai incurau de ndi adotai unu, ca tanti dhus apu agataus unu sa fotocópia de s'àteru: su solu libbru chi apu adotau dèu in trint'annus de iscola est una antologia de poetas sardus de Matteo Porru!)
Geografia su própiu. Ma sa chistioni abarrat totu intrea. E una parti manna de responsabbilidadi dha teneus is Sardus etotu, concas de cibudha e pudéscias puru: sinuncas unu manuali de istória de is Sardus e de geografia gei si podiat tenni, fintzas si tocat a si pònniri foras de is libbrus italianus, chi bollit nàrriri unu bellu segamentu de matza, ca a is famíglias iat a tocai a dhis fai fai un'ispesa prus manna e iat a èssiri necessàriu mellus unu manuali de istória generali e de geografia fatus de is Sardus comenti si tocat
In cantu a is adotzionis, is Docentis prus de una borta faint adotzionis sentza mancu oberri is libbrus, no de no castiai ita dhui at iscritu, ca mancai est prus fàcili a presentai sa relatzioni de is editoris etotu a giustificatzioni po s'adotzioni noa (ma is fuedhus bellus gei si agatant po giustificai dónnia tontesa, e postu chi bandint a castiai si e ita si dhui podit istudiai de sa Sardigna e de is Sardus!)
Aici seus! … Ma poita seus 'civilizzati'
lunedì 6 luglio 2009
Addòviu regionale pro sa limba
Sàpadu e domìniga chi benint b'at a àere in Orosei un'addòviu pro faeddare de toponomàstica e de limba sarda. Est sa prima essida de su guvernu sardu in contu de limba. Custu est su programma:
Nùmenes de logu
I nomi di luogo in Sardegna tra toponomastica storica e politica linguistica
Primo Seminario regionale di studi sulla toponomastica nell’ambito del progetto “Atlante Toponomastico Sardo”
Sabato 11 luglio 2009
Ore 9,30-10,00
Saluto delle autorità
Ore 9,30-13,30
Metodologia e problemi di costruzione di un Atlante Toponomastico Sardo
Coordina: Antonina Scanu, Direttore Generale Beni Culturali
Margherita Satta, Università di Sassari, “Il progetto dell’Atlante Toponomastico Sardo”
Giulio Paulis , Università di Cagliari, “Elementi di conservatività, dinamiche di cambiamento e decadenza dei toponimi sardi”
Giuseppe Scanu, Università di Sassari, “Atlante Toponomastico Sardo e cartografia regionale”
Maurizio Virdis, Università di Cagliari, “Gli studi di toponomastica sarda: riflessioni e prospettive”
Rita Vinelli, Responsabile del Settore Informativo Territoriale - Servizio informativo e cartografico regionale - Direzione generale della pianificazione urbanistica territoriale e della vigilanza edilizia Regione, relazione SITR
Ore 16,00 – 19,00
Problemi e criticità nella realizzazione di una segnaletica e cartellonistica bilingue
Luz Mendez , Galizia,
Marco Stolfo, Friuli
Diego Corraine, Sardegna
Marco Viola , Trentino
Domenica 12 luglio 2009
Ore 10,00-13.00
La politica delle minoranze linguistiche in Sardegna e in Italia – Tavola rotonda
Partecipano:
Maria Lucia Baire, Assessore regionale della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport,
Roberto Molinaro, Regione Friuli Venezia Giulia, Assessore della Pubblica Istruzione,
Attilio Dedoni, Presidente dell’Ottava Commissione del Consiglio Regionale della Sardegna,
Giovanni Frau, Università di Udine
Paolo Pillonca, scrittore
Michele Pinna, Istituto Camillo Bellieni, Sassari
Gianfranco Pintore, scrittore, giornalista
Mario Carboni, Comitato per la riscrittura dello Statuto sardo
Comunicazione degli operatori
Conclude:
Ugo Cappellacci, Presidente della Regione sarda
Nùmenes de logu
I nomi di luogo in Sardegna tra toponomastica storica e politica linguistica
Primo Seminario regionale di studi sulla toponomastica nell’ambito del progetto “Atlante Toponomastico Sardo”
Sabato 11 luglio 2009
Ore 9,30-10,00
Saluto delle autorità
Ore 9,30-13,30
Metodologia e problemi di costruzione di un Atlante Toponomastico Sardo
Coordina: Antonina Scanu, Direttore Generale Beni Culturali
Margherita Satta, Università di Sassari, “Il progetto dell’Atlante Toponomastico Sardo”
Giulio Paulis , Università di Cagliari, “Elementi di conservatività, dinamiche di cambiamento e decadenza dei toponimi sardi”
Giuseppe Scanu, Università di Sassari, “Atlante Toponomastico Sardo e cartografia regionale”
Maurizio Virdis, Università di Cagliari, “Gli studi di toponomastica sarda: riflessioni e prospettive”
Rita Vinelli, Responsabile del Settore Informativo Territoriale - Servizio informativo e cartografico regionale - Direzione generale della pianificazione urbanistica territoriale e della vigilanza edilizia Regione, relazione SITR
Ore 16,00 – 19,00
Problemi e criticità nella realizzazione di una segnaletica e cartellonistica bilingue
Luz Mendez , Galizia,
Marco Stolfo, Friuli
Diego Corraine, Sardegna
Marco Viola , Trentino
Domenica 12 luglio 2009
Ore 10,00-13.00
La politica delle minoranze linguistiche in Sardegna e in Italia – Tavola rotonda
Partecipano:
Maria Lucia Baire, Assessore regionale della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport,
Roberto Molinaro, Regione Friuli Venezia Giulia, Assessore della Pubblica Istruzione,
Attilio Dedoni, Presidente dell’Ottava Commissione del Consiglio Regionale della Sardegna,
Giovanni Frau, Università di Udine
Paolo Pillonca, scrittore
Michele Pinna, Istituto Camillo Bellieni, Sassari
Gianfranco Pintore, scrittore, giornalista
Mario Carboni, Comitato per la riscrittura dello Statuto sardo
Comunicazione degli operatori
Conclude:
Ugo Cappellacci, Presidente della Regione sarda
domenica 5 luglio 2009
S'iscuru fìgiu meu: deve andare in questa scuola
At iscritu in custu blog Pàulu Pisu: “Labai ca no nc'est abisóngiu de strobai su tempru sagrau de s'universidadi po biri su logu chi si donat a is sardus in domu insoru. Ma de candu est chi no pigais unu libru de stória e geografia de is scolas elementaris e mesanas?”. Dae tempus meda, Pa’, a dolu mannu. Ma pro more tuo, oe apo cumintzadu a lu fàghere. E sos pilos rizos chi bies iscampièndesi dae palas de Gennargentu sunt sos meos. Ma como la giramus in italianu. Tenes resone, craru, ispuntorgende a mie e a sos àteros a iscrìere in sardu.
Su fatu istat custu blog est lègidu, a parte sa Sardigna, in unu muntone de rennos istràngios, dae Baviera a Brasile, dae Frantza a Rùssia finas in Austràlia e in Guadalupa, pro nde numenare petzi carchi unu. Meda bisitadores impreant sos tradutores de Google e similia pro cumprèndere ite b’at iscritu in italianu. Su sardu, a dolu mannu, galu non b’est e a mie mi paret chi b’apat su tantu de fàghere connòschere it’est chi si moet in Sardigna, mancari siat in italianu. (Una die l’apo a publicare sa lista de sos rennos in ue custu càpitat).
Ma torniamo a bomba. Sì, ho ripreso a scorrere i libri di testo per le elementari e ho cominciato da “Exploro – Sussidiario delle discipline”, di Tiziana Canali, edito da Mondadori nel 2006. Qui di seguito ecco alcune perle ricavate dal capitolo riguardante la Sardegna:
- la più vasta [pianura] è quella del Campidano che si estende tra il Gennargentu e l’lglesìente;
- Popolazione [della Sardegna]: 4.972.124 ab., Densità. 193 ab per kmq
- L'industria invece è poco sviluppata: vi sono stabilimenti alimentari soprattutto caseifici e zuccherifìci, impianti chimici e petrolchimici (Cagliari);
- A Barumini si può ammirare un vero e proprio villaggio di nuraghi costruito intorno al 1500 a.C.
- Mentre il compito di fare il pane è affidato alle donne, agli uomini è affidata la cottura degli arrosti I pastori allestiscono lo spiedo con i rami degli alberi e vi cuociono di preferenza il "porchetto";
- Quando gli antichi Fenici conquistarono l’isola la chiamarono "Shardan". Questo nome si trasformò poi nel termine latino Sardinia, che vuoi dire "bosco dì montagna". In passato infatti i monti della regione erano fittamente ricoperti di boschi. L'isola era abitata già nel II millennio a,C. dall'antico popolo dei Sardi. Fu poi colonizzata dai Fenici, dai Greci e infine dai Romani nel III sec, a,C.
Evidentemente non è il caso di arrabbiarsi con l’ignorante che ha infilzato questa schidionata di frivole sciocchezze. La responsabilità non è tanto sua, quanto di chi ha pubblicato questo testo che va ovviamente agli scolari sardi ma anche a quelli italiani che, sulla base di tanto sciocchezzaio, si fa un’idea della Sardegna. Responsabilità, in misura ancora maggiore, è dei funzionari del Ministero della pubblica istruzione che hanno dato il via all’adozione nelle scuole del testo.
Ma, a dirla tutta, i più colpevoli di tutti sono gli insegnanti sardi che lo hanno adottato e assegnato agli incolpevoli bambini delle Quinte elementari dell’isola. Delle due una, o la loro ignoranza è maggiore di quella dell’autrice o la loro intenzione è quella perversa di insegnare sciocchezze ai loro alunni. Qui non è in discussione la libertà di insegnamento, quella che, per dire, autorizza un docente a scegliere una tesi piuttosto che un’altra; è in discussione il diritto degli alunni di non essere imbrogliati da una persona di cui si devono fidare. E se uno dice loro che la Sardegna ha quasi cinque milioni di abitanti, che è stata colonizzata prima dai Greci e poi dai Romani, che a Barumini c’è un villaggio di nuraghi, che gli impianti chimici e petrolchimici sono solo a Cagliari, loro ci devono credere.
Forse è il caso, amici di questo blog, che raccogliamo l’invito di Paolo Pisu a leggere i testi scolastici dei nostri alunni e studenti. Dopo di che segnalate le sciocchezze che vi leggerete. Ci sarà pure, al Ministero della pubblica istruzione, qualcuno disposto a leggere i testi prima di approvarli e, se il caso, rimandare a settembre gli autori. È una battaglia che vale la pena di cominciare.
Su fatu istat custu blog est lègidu, a parte sa Sardigna, in unu muntone de rennos istràngios, dae Baviera a Brasile, dae Frantza a Rùssia finas in Austràlia e in Guadalupa, pro nde numenare petzi carchi unu. Meda bisitadores impreant sos tradutores de Google e similia pro cumprèndere ite b’at iscritu in italianu. Su sardu, a dolu mannu, galu non b’est e a mie mi paret chi b’apat su tantu de fàghere connòschere it’est chi si moet in Sardigna, mancari siat in italianu. (Una die l’apo a publicare sa lista de sos rennos in ue custu càpitat).
Ma torniamo a bomba. Sì, ho ripreso a scorrere i libri di testo per le elementari e ho cominciato da “Exploro – Sussidiario delle discipline”, di Tiziana Canali, edito da Mondadori nel 2006. Qui di seguito ecco alcune perle ricavate dal capitolo riguardante la Sardegna:
- la più vasta [pianura] è quella del Campidano che si estende tra il Gennargentu e l’lglesìente;
- Popolazione [della Sardegna]: 4.972.124 ab., Densità. 193 ab per kmq
- L'industria invece è poco sviluppata: vi sono stabilimenti alimentari soprattutto caseifici e zuccherifìci, impianti chimici e petrolchimici (Cagliari);
- A Barumini si può ammirare un vero e proprio villaggio di nuraghi costruito intorno al 1500 a.C.
- Mentre il compito di fare il pane è affidato alle donne, agli uomini è affidata la cottura degli arrosti I pastori allestiscono lo spiedo con i rami degli alberi e vi cuociono di preferenza il "porchetto";
- Quando gli antichi Fenici conquistarono l’isola la chiamarono "Shardan". Questo nome si trasformò poi nel termine latino Sardinia, che vuoi dire "bosco dì montagna". In passato infatti i monti della regione erano fittamente ricoperti di boschi. L'isola era abitata già nel II millennio a,C. dall'antico popolo dei Sardi. Fu poi colonizzata dai Fenici, dai Greci e infine dai Romani nel III sec, a,C.
Evidentemente non è il caso di arrabbiarsi con l’ignorante che ha infilzato questa schidionata di frivole sciocchezze. La responsabilità non è tanto sua, quanto di chi ha pubblicato questo testo che va ovviamente agli scolari sardi ma anche a quelli italiani che, sulla base di tanto sciocchezzaio, si fa un’idea della Sardegna. Responsabilità, in misura ancora maggiore, è dei funzionari del Ministero della pubblica istruzione che hanno dato il via all’adozione nelle scuole del testo.
Ma, a dirla tutta, i più colpevoli di tutti sono gli insegnanti sardi che lo hanno adottato e assegnato agli incolpevoli bambini delle Quinte elementari dell’isola. Delle due una, o la loro ignoranza è maggiore di quella dell’autrice o la loro intenzione è quella perversa di insegnare sciocchezze ai loro alunni. Qui non è in discussione la libertà di insegnamento, quella che, per dire, autorizza un docente a scegliere una tesi piuttosto che un’altra; è in discussione il diritto degli alunni di non essere imbrogliati da una persona di cui si devono fidare. E se uno dice loro che la Sardegna ha quasi cinque milioni di abitanti, che è stata colonizzata prima dai Greci e poi dai Romani, che a Barumini c’è un villaggio di nuraghi, che gli impianti chimici e petrolchimici sono solo a Cagliari, loro ci devono credere.
Forse è il caso, amici di questo blog, che raccogliamo l’invito di Paolo Pisu a leggere i testi scolastici dei nostri alunni e studenti. Dopo di che segnalate le sciocchezze che vi leggerete. Ci sarà pure, al Ministero della pubblica istruzione, qualcuno disposto a leggere i testi prima di approvarli e, se il caso, rimandare a settembre gli autori. È una battaglia che vale la pena di cominciare.
sabato 4 luglio 2009
Macchè vittimismo, è solo un'idea di Sardegna che vuol conoscersi
Un professore bavarese, che qui si firma Sardopator, solleva una serie di questioni molto intriganti, del che lo ringrazio di cuore. Costringe me – e credo gran parte di noi – a mettere nel bagaglio culturale termini nuovi. Per dirne una, sapevo dei tentativi di Nelson di “acquistare” la Sardegna, non sapevo delle mire del Granduca di Baviera. Egli dice che in età sabauda “la Sardegna vista da fuori non era mai l'isola ma soltanto la parte di terraferma”.
E questo torna con quanto scritto da Cesare Casula e, semmai, rinforza la sua dottrina della sovranità e la constatazione che Sardegna fu il nome dello Stato fino al 1861. Potrei aggiungere che fino al 1859, gli studenti di tutti gli stati sardi imparavano a scuola, per esempio, che la Sardegna confinava al nord con la Francia, che i fiumi della Sardegna erano il Po, il Tirso, la Dora Baltea, che le città della Sardegna erano Torino, Cagliari, Mondovì, Sassari. E anche che il reazionario Solaro della Margarita scriveva: “Eccettuate le cinque grandi Potenze e la Spagna, a nessun'altra crederei dovesse andare la Sardegna seconda, e precederne molte per l'importanza politica”. Insomma, fino al 1861, Sardegna era il nome dello Stato che oramai si era annesso gran parte della penisola italiana. Mi chiedo: se questa questione è ininfluente, perché nasconderla?
Ma non è questo che più mi intriga nei post di Sardopator, quanto il rapporto fra nazionalismo e storia a cui egli è “allergico” almeno quanto lo sia io: “l'orgoglio nazionale basato sulla storia è sempre una cosa pericolosissima”. Non escludo che qualcuno, in Sardegna, cada in questa trappola, fra questi non ci sono io né i miei amici. Il problema è un altro, per capire il quale è necessario, però, ricordare che il nazionalismo pericoloso è quello degli stati – quello italiano compreso – che nega le nazioni esistenti nel loro interno. È massimamente pericoloso perché, insieme alle nazioni (la sarda, la friulana, la bretone, la corsa, etc), negano la loro storia, la loro cultura, la loro lingua.
Per non restare nel vago e non essere sospettato di inutile vittimismo, invito Sardopator e chiunque voglia a guardare il Curriculum archeologico del Corso di laurea in Beni culturali dell’Università di Cagliari (http://193.206.224.50/beni_culturali_2008_2009.pdf). Vi vedrà che c’è solo un esame che riguarda la preistoria e la protostoria della Sardegna e, per l’indirizzo preistorico, due esami di Preistoria e protostoria e di Paleoetnologia (non è specificato se generale o applicata alla Sardegna). Senza pensare male, è comunque evidente che i fatti riguardanti una civiltà originale autoctona sono relegati in un cantuccio. Sorte diversa è riservata, per dire, all’etruscologia (nominata così) all’Università di Firenze, dove gli esami in materia sono quattro nei tre anni.
Il sospetto che qualcosa non vada riguardo alla nuragologia (mai nominata per altro) spinge molti e me fra questi a interrogarsi sulla formazione delle conoscenze. Di qui la voglia di conoscere da dove veniamo, dove mettiamo le nostre radici culturali, di non accontentarci – alcuni, anche su questo blog lo fanno – dell’indagine sul conosciuto, riproposto entro binari che non permettono deviazioni verso l’ancora sconosciuto, come se la ripetizione all’infinito dell’errore possa trasformarlo in verità scientifica. Certo, lo so anch’io che il rischio della costruzione della nazione attraverso l’archeologia e, soprattutto, la preistoria, è in agguato.
Un rischio che vorrei tutti scansassimo, ma che certo non è evitabile attraverso l’absconditum o la riserva archeologica destinata agli addetti ai lavori.
Ha idea Sardopator di quanti siti scavati, ritrovamenti, nuove acquisizioni non vengono neppure pubblicati. E quante pubblicazioni, in era di internet e di comunicazione anche scientifica istantanea, vengono relegate nei sacrari dei fascicoli per addetti ai lavori? È chiaro che in internet, allora, corrano la curiosità, le tesi non accettate dalla “comunità degli addetti ai lavori”, studi seri insieme a studi che seri non sono, interrogativi che sconfinano nella fantarcheologia insieme ad interrogativi terribilmente seri, come alcuni che anche questo blog pubblica.
Sardopator si chiede e chiede a noi anche: “Perché sempre ritirarsi in un passato fantasioso invece di essere fiero dei contributi della piccola Sardegna alla cultura mondiale di OGGI”? E fa un elenco di artisti e scrittori, alcuni dei quali seriamente impegnati a portare la cultura sarda nel mondo, altri impegnati a dare al mondo l’immagine della Sardegna che “al mondo” piace, che compra volentieri perché ci trova proprio la Sardegna come la vulgata la descrive. Se il bronzetto nuragico appartiene alla categoria degli stereotipi, che cosa sono i luoghi comuni sulla violenza della società pastorale, sul bandito buono ma solo nel passato, la macerazione sulla scarsa disponibilità dei sardi alla modernità, le storie di un sesso sempre arcaico e mai gioioso… se non stereotipi che vendono bene nel mercato sardesco e anti sardesco?
Non credo sia un caso che Sardopator non citi un solo autore in lingua sarda (o in gallurese, sassarese, algherese, tabarchino). Ce ne sono tanti quanti sono quelli in italiano, dieci più dieci meno. Non li cita, credo, perché non ne ha conoscenza, non certo per malanimo. Personalmente non credo a un complotto negazionista. La spiegazione è molto più banale: l’industria culturale che produce questa discriminazione è la stessa, guarda caso, che ha preconcetti nei confronti della protostoria sarda, che intervista i sardo parlanti in italiano e solo in italiano raccoglie le risposte, che rifiuta di spendere i soldi pubblici per l’insegnamento del sardo all’università, che restituisce allo Stato centinaia di migliaia di euro destinati al sardo veicolare nell’università.
Una ricerca sociolinguistica delle Università sarde, pur condotta con interviste in italiano, ha dato questi risultati: il 68,4 dei cittadini parla il sardo (il gallurese, il sassarese, l’algherese, il tabarchino), il 29 non lo parla ma lo capisce, solo il 2,6 per cento né lo parla né lo capisce. Si dà il caso che l’industria culturale sia in mano a questo 2,6 per cento. Non c’è in questo alcuna autocommiserazione, ci mancherebbe. Anzi la soddisfazione per aver sconfitto, spero in maniera permanente, chi appena trentanni fa aveva cantato la morte della lingua sarda come retaggio di arcaismo e impedimento alla modernità. Se ce l’abbiamo fatta a sconfiggere il canto funebre per la lingua sarda, ce la faremo a sconfiggere chi vuol negare la conoscibilità della storia sarda. Cominciando, se è il caso, dal tentativo di rendere conoscibile la preistoria e la protostoria, ma continuando con le vicende che da lì partono per arrivare ai tempi nostri.
Ho visto, non senza soddisfazione, che comincia un qualche interesse per la Sardegna medioevale e moderna, scontando, va da sé, la paura di chi, trovandosi di fronte ad acquisizioni nuove, si rinchiude intorno al conosciuto scolastico o invoca la supremazia dell’ideologia sulla realtà, della quale, direbbe Monsignor Della Casa, se ne fotte.
Nessun vittimismo, mi creda, Sardopator, solo un’idea diversa della Sardegna, quello scoglio che fece gola anche a Nelson, ai giacobini francesi e, ho imparato oggi, al Granduca di Baviera. E che rimane orgogliosamente sarda.
E questo torna con quanto scritto da Cesare Casula e, semmai, rinforza la sua dottrina della sovranità e la constatazione che Sardegna fu il nome dello Stato fino al 1861. Potrei aggiungere che fino al 1859, gli studenti di tutti gli stati sardi imparavano a scuola, per esempio, che la Sardegna confinava al nord con la Francia, che i fiumi della Sardegna erano il Po, il Tirso, la Dora Baltea, che le città della Sardegna erano Torino, Cagliari, Mondovì, Sassari. E anche che il reazionario Solaro della Margarita scriveva: “Eccettuate le cinque grandi Potenze e la Spagna, a nessun'altra crederei dovesse andare la Sardegna seconda, e precederne molte per l'importanza politica”. Insomma, fino al 1861, Sardegna era il nome dello Stato che oramai si era annesso gran parte della penisola italiana. Mi chiedo: se questa questione è ininfluente, perché nasconderla?
Ma non è questo che più mi intriga nei post di Sardopator, quanto il rapporto fra nazionalismo e storia a cui egli è “allergico” almeno quanto lo sia io: “l'orgoglio nazionale basato sulla storia è sempre una cosa pericolosissima”. Non escludo che qualcuno, in Sardegna, cada in questa trappola, fra questi non ci sono io né i miei amici. Il problema è un altro, per capire il quale è necessario, però, ricordare che il nazionalismo pericoloso è quello degli stati – quello italiano compreso – che nega le nazioni esistenti nel loro interno. È massimamente pericoloso perché, insieme alle nazioni (la sarda, la friulana, la bretone, la corsa, etc), negano la loro storia, la loro cultura, la loro lingua.
Per non restare nel vago e non essere sospettato di inutile vittimismo, invito Sardopator e chiunque voglia a guardare il Curriculum archeologico del Corso di laurea in Beni culturali dell’Università di Cagliari (http://193.206.224.50/beni_culturali_2008_2009.pdf). Vi vedrà che c’è solo un esame che riguarda la preistoria e la protostoria della Sardegna e, per l’indirizzo preistorico, due esami di Preistoria e protostoria e di Paleoetnologia (non è specificato se generale o applicata alla Sardegna). Senza pensare male, è comunque evidente che i fatti riguardanti una civiltà originale autoctona sono relegati in un cantuccio. Sorte diversa è riservata, per dire, all’etruscologia (nominata così) all’Università di Firenze, dove gli esami in materia sono quattro nei tre anni.
Il sospetto che qualcosa non vada riguardo alla nuragologia (mai nominata per altro) spinge molti e me fra questi a interrogarsi sulla formazione delle conoscenze. Di qui la voglia di conoscere da dove veniamo, dove mettiamo le nostre radici culturali, di non accontentarci – alcuni, anche su questo blog lo fanno – dell’indagine sul conosciuto, riproposto entro binari che non permettono deviazioni verso l’ancora sconosciuto, come se la ripetizione all’infinito dell’errore possa trasformarlo in verità scientifica. Certo, lo so anch’io che il rischio della costruzione della nazione attraverso l’archeologia e, soprattutto, la preistoria, è in agguato.
Un rischio che vorrei tutti scansassimo, ma che certo non è evitabile attraverso l’absconditum o la riserva archeologica destinata agli addetti ai lavori.
Ha idea Sardopator di quanti siti scavati, ritrovamenti, nuove acquisizioni non vengono neppure pubblicati. E quante pubblicazioni, in era di internet e di comunicazione anche scientifica istantanea, vengono relegate nei sacrari dei fascicoli per addetti ai lavori? È chiaro che in internet, allora, corrano la curiosità, le tesi non accettate dalla “comunità degli addetti ai lavori”, studi seri insieme a studi che seri non sono, interrogativi che sconfinano nella fantarcheologia insieme ad interrogativi terribilmente seri, come alcuni che anche questo blog pubblica.
Sardopator si chiede e chiede a noi anche: “Perché sempre ritirarsi in un passato fantasioso invece di essere fiero dei contributi della piccola Sardegna alla cultura mondiale di OGGI”? E fa un elenco di artisti e scrittori, alcuni dei quali seriamente impegnati a portare la cultura sarda nel mondo, altri impegnati a dare al mondo l’immagine della Sardegna che “al mondo” piace, che compra volentieri perché ci trova proprio la Sardegna come la vulgata la descrive. Se il bronzetto nuragico appartiene alla categoria degli stereotipi, che cosa sono i luoghi comuni sulla violenza della società pastorale, sul bandito buono ma solo nel passato, la macerazione sulla scarsa disponibilità dei sardi alla modernità, le storie di un sesso sempre arcaico e mai gioioso… se non stereotipi che vendono bene nel mercato sardesco e anti sardesco?
Non credo sia un caso che Sardopator non citi un solo autore in lingua sarda (o in gallurese, sassarese, algherese, tabarchino). Ce ne sono tanti quanti sono quelli in italiano, dieci più dieci meno. Non li cita, credo, perché non ne ha conoscenza, non certo per malanimo. Personalmente non credo a un complotto negazionista. La spiegazione è molto più banale: l’industria culturale che produce questa discriminazione è la stessa, guarda caso, che ha preconcetti nei confronti della protostoria sarda, che intervista i sardo parlanti in italiano e solo in italiano raccoglie le risposte, che rifiuta di spendere i soldi pubblici per l’insegnamento del sardo all’università, che restituisce allo Stato centinaia di migliaia di euro destinati al sardo veicolare nell’università.
Una ricerca sociolinguistica delle Università sarde, pur condotta con interviste in italiano, ha dato questi risultati: il 68,4 dei cittadini parla il sardo (il gallurese, il sassarese, l’algherese, il tabarchino), il 29 non lo parla ma lo capisce, solo il 2,6 per cento né lo parla né lo capisce. Si dà il caso che l’industria culturale sia in mano a questo 2,6 per cento. Non c’è in questo alcuna autocommiserazione, ci mancherebbe. Anzi la soddisfazione per aver sconfitto, spero in maniera permanente, chi appena trentanni fa aveva cantato la morte della lingua sarda come retaggio di arcaismo e impedimento alla modernità. Se ce l’abbiamo fatta a sconfiggere il canto funebre per la lingua sarda, ce la faremo a sconfiggere chi vuol negare la conoscibilità della storia sarda. Cominciando, se è il caso, dal tentativo di rendere conoscibile la preistoria e la protostoria, ma continuando con le vicende che da lì partono per arrivare ai tempi nostri.
Ho visto, non senza soddisfazione, che comincia un qualche interesse per la Sardegna medioevale e moderna, scontando, va da sé, la paura di chi, trovandosi di fronte ad acquisizioni nuove, si rinchiude intorno al conosciuto scolastico o invoca la supremazia dell’ideologia sulla realtà, della quale, direbbe Monsignor Della Casa, se ne fotte.
Nessun vittimismo, mi creda, Sardopator, solo un’idea diversa della Sardegna, quello scoglio che fece gola anche a Nelson, ai giacobini francesi e, ho imparato oggi, al Granduca di Baviera. E che rimane orgogliosamente sarda.
giovedì 2 luglio 2009
Cultura sarda e autocolonialismo ipertrofico
Si scrive molto, in questo spazio pubblico, di archeologia e, soprattutto, di documenti nuragici che presentano in superficie segni con tutta evidenza di scrittura. Soprattutto due collaboratori, i professori Sanna e Sauren, li ascrivono ad alfabeti orientali e poco conta (se non per una futura verità dei fatti) se non vanno d’accordo fra di loro. Ragionano entrambi su cose maledettamente concrete, naturalmente secondo sensibilità e conoscenze diverse. Altri amici di questo blog si incuriosiscono, altri ancora – per di più privatamente – esprimono uno scetticismo di fondo e, pur ammettendo che sia sciocco parlare di una civiltà come la nuragica senza scrittura, invitano a guardare a segni meno evidenti di quelli trovati. Infine, altri dicono con sicurezza che i nuragici, senza stato e senza città, “non avevano bisogno di scrivere”.
È vero che ‘o scarafone è bello a mamma sua, ma rivendico a questo blog di aver sollevato la questione della scrittura nuragica, prima relegata in discussioni all’interno di ristrette cerchie e oggi rivolta a decine di migliaia di persone (14.058 solo nello scorso mese di giugno). Questo è internet, bellezza. E questa è sete di sapere, non verità rivelate in quanto tali immutabili, ma successivi approcci alla verità con la consapevolezza che ci sarà sempre una verità più vera di quella precedente. Non tutto è buono in internet e, malgrado la storia di ‘o scarafone, non ho la pretesa che qui tutto ciò che scrivo sia buono.
Mi capita spesso di dire (e di pubblicare contributi altrui in questo senso) che la baronia, l’accademia, i guardiani della verità, sono chiusi a riccio intorno alle proprie certezze, rinserrati in un fortino imprendibile da cui esternano in due maniere: o dicendo che le scoperte non accademiche sono dei falsi o, nel caso di scoperte certificate da specialisti ma eretici, che l’eresia non è, in quanto tale, cooptabile nella “comunità scientifica”. La claque si schiera o con l’una o con l’altra tesi, ma difficilmente nel mare aperto della comunicazione di massa, che siano giornali, televisioni, internet. Chi lo fa è un benemerito, quale che sia la sua opinione, ma è visto con diffidenza dalla claque.
Tutto ciò avviene in uno scenario abbastanza inedito altrove: un auto colonialismo ipertrofico è lì schierato a certificare che niente di buono può uscire dalla barbarie sarda. Prendiamo il caso degli scavi a el-Awhat su cui molto si è discusso. Due archeologi, l’israeliano Adam Zertal e il sardo Giovanni Ugas, che quel sito hanno scavato, sostengono che elementi architettonici, ma non solo, portano alla conclusione che el-Awhat è frutto anche dell’opera dei sardi shardana. Questa tesi è contrastata da un fondamentalista ebraico, sulla scorta di una lettura ortodossa della Bibbia. L’ipertrofia auto colonialista a che cosa porta se non ad accettare ad occhi chiusi la tesi contraria a quella di Zertal e Ugas?
Dice: ma che diavolo di convenienza ha la struttura chiusa dei guardiani della verità a rinchiudersi ancora di più? Pensare che la struttura chiusa abbia il potere di sprangare il mondo degli studi alle novità è una tesi complottarda pura e semplice, dicono. Ed hanno ragione. Nessun complotto: è semplicemente un moto di “legittima difesa” degli studi fatti, delle carriere consolidate, dei libri scritti, delle tesi correnti. Io non penso che ci sia un complotto dietro il pregiudizio secondo cui S. Antioco sia fenicia e punica, e dietro il nascondimento che in quell’isola ci sia una ottantina di monumenti nuragici. Capisco persino l’imbarazzo del veder restituire a S. Antioco lo splendido “Arciere” nuragico che racconta di una storia diversa dalla vulgata fenicista. Nessuna trama oscura: un semplice rodimento per il pericolo di veder riscritta parte di carriere accademiche.
Non è, comunque, specialità dei guardiani della verità archeologica. Da tempo, uno storico di chiara fama, responsabile del CNR in Sardegna, Francesco Cesare Casula va scrivendo una cosa che risulta agli atti: la Repubblica italiana – lui preferisce dire lo Stato – nient’altro è se non l’antico Regno di Sardegna ampliato nei suoi confini, nato il 19 giugno del 1324. Ci ha scritto un bel libro, “La terza via della Storia”, che, come si può comprendere, rovescia il conosciuto, sfronda di retorica la Storia patria, pone problemi che quella retorica non può né risolvere né cavalcare. L’uomo, Francesco Cesare Casula, è uno studioso molto serio, ha pubblicato studi, saggi e libri di storia ed ha un curriculum lungo una quaresima. È, mi perdonerà Cesare, un accademico, ma è un “eretico”. I suoi colleghi, quando parlano con lui di queste cose, non possono fare a meno di riconoscere che egli è nel giusto. Ma se la cavano: “Mica possiamo pensare di riscrivere tutta la storia insegnata a scuola, nelle università, nei libri”.
Ecco, appunto. La tranquillità del conosciuto codificato è molto più importante della verità storica.
È vero che ‘o scarafone è bello a mamma sua, ma rivendico a questo blog di aver sollevato la questione della scrittura nuragica, prima relegata in discussioni all’interno di ristrette cerchie e oggi rivolta a decine di migliaia di persone (14.058 solo nello scorso mese di giugno). Questo è internet, bellezza. E questa è sete di sapere, non verità rivelate in quanto tali immutabili, ma successivi approcci alla verità con la consapevolezza che ci sarà sempre una verità più vera di quella precedente. Non tutto è buono in internet e, malgrado la storia di ‘o scarafone, non ho la pretesa che qui tutto ciò che scrivo sia buono.
Mi capita spesso di dire (e di pubblicare contributi altrui in questo senso) che la baronia, l’accademia, i guardiani della verità, sono chiusi a riccio intorno alle proprie certezze, rinserrati in un fortino imprendibile da cui esternano in due maniere: o dicendo che le scoperte non accademiche sono dei falsi o, nel caso di scoperte certificate da specialisti ma eretici, che l’eresia non è, in quanto tale, cooptabile nella “comunità scientifica”. La claque si schiera o con l’una o con l’altra tesi, ma difficilmente nel mare aperto della comunicazione di massa, che siano giornali, televisioni, internet. Chi lo fa è un benemerito, quale che sia la sua opinione, ma è visto con diffidenza dalla claque.
Tutto ciò avviene in uno scenario abbastanza inedito altrove: un auto colonialismo ipertrofico è lì schierato a certificare che niente di buono può uscire dalla barbarie sarda. Prendiamo il caso degli scavi a el-Awhat su cui molto si è discusso. Due archeologi, l’israeliano Adam Zertal e il sardo Giovanni Ugas, che quel sito hanno scavato, sostengono che elementi architettonici, ma non solo, portano alla conclusione che el-Awhat è frutto anche dell’opera dei sardi shardana. Questa tesi è contrastata da un fondamentalista ebraico, sulla scorta di una lettura ortodossa della Bibbia. L’ipertrofia auto colonialista a che cosa porta se non ad accettare ad occhi chiusi la tesi contraria a quella di Zertal e Ugas?
Dice: ma che diavolo di convenienza ha la struttura chiusa dei guardiani della verità a rinchiudersi ancora di più? Pensare che la struttura chiusa abbia il potere di sprangare il mondo degli studi alle novità è una tesi complottarda pura e semplice, dicono. Ed hanno ragione. Nessun complotto: è semplicemente un moto di “legittima difesa” degli studi fatti, delle carriere consolidate, dei libri scritti, delle tesi correnti. Io non penso che ci sia un complotto dietro il pregiudizio secondo cui S. Antioco sia fenicia e punica, e dietro il nascondimento che in quell’isola ci sia una ottantina di monumenti nuragici. Capisco persino l’imbarazzo del veder restituire a S. Antioco lo splendido “Arciere” nuragico che racconta di una storia diversa dalla vulgata fenicista. Nessuna trama oscura: un semplice rodimento per il pericolo di veder riscritta parte di carriere accademiche.
Non è, comunque, specialità dei guardiani della verità archeologica. Da tempo, uno storico di chiara fama, responsabile del CNR in Sardegna, Francesco Cesare Casula va scrivendo una cosa che risulta agli atti: la Repubblica italiana – lui preferisce dire lo Stato – nient’altro è se non l’antico Regno di Sardegna ampliato nei suoi confini, nato il 19 giugno del 1324. Ci ha scritto un bel libro, “La terza via della Storia”, che, come si può comprendere, rovescia il conosciuto, sfronda di retorica la Storia patria, pone problemi che quella retorica non può né risolvere né cavalcare. L’uomo, Francesco Cesare Casula, è uno studioso molto serio, ha pubblicato studi, saggi e libri di storia ed ha un curriculum lungo una quaresima. È, mi perdonerà Cesare, un accademico, ma è un “eretico”. I suoi colleghi, quando parlano con lui di queste cose, non possono fare a meno di riconoscere che egli è nel giusto. Ma se la cavano: “Mica possiamo pensare di riscrivere tutta la storia insegnata a scuola, nelle università, nei libri”.
Ecco, appunto. La tranquillità del conosciuto codificato è molto più importante della verità storica.