di Francu Pilloni
Caro Gianfranco,
da tanto che non ci vediamo ma su questa cosa della politica sarda è come se mi avessi letto nel pensiero.
Credo anch'io che il Soru, così sardesco, così cinese, ci pensasse da un po' di tempo a questo scatto di nervi. Da quando cioè non ha più ripetuto che lui non intendeva ricandidarsi nel modo più assoluto. A conti fatti, da più di un anno.
Se si potesse scommettere, io mi giocherei cincu soddus sulla sua nuova coalizione e tres arrialis sulla sua vittoria.
Dove sta il problema, direbbe ziu Cicciu Bissenti che a Mao Tse Tung no ddi fut parenti mancu de intradura?
Sta nel fatto che il problema non è di Soru, di Cappai, Cugusi, Cugini, Dedola, Floris... e tutti gli altri, ma è dei sardi, di tutti gli altri sardi, di quelli che lavorano e di quelli che non lavorano, di quelli che ci sono e di quelli che se ne sono andati perché qui non sono riusciti a rimanere.
Il problema è che se Soru autonomista è stato un mediocre amministratore, in effetti è peggiore di quello, altrettanto autonomista, che l'ha preceduto, il quale a sua volta è stato peggiore di quell'altro ancora... e così di fila, fino alle fatidiche Giunte autonomistiche dell'ineffabile presidente Palomba che si dimetteva un mese sì e uno no, per ovvie e altrettanto valide ragioni.
Tu, caro Gianfranco, che a queste cose ci stai più attento, forse puoi tornare ancora più indietro, magari alla Giunta Corrias del 1960, o a qualcosa che le assomigli.
O forse puoi aggiungere una ragione in più perché sia spazzata via questa mia malinconia politica che viene coniugata come un qualunquismo qualunque (ti piace l'accostamento dei termini? C'è da farci una poesia!). E forse lo è, senza che obbligatoriamente debba essere considerato una negatività, almeno in forza della libertà di errore di valutazione che per me profano non solo è lecita, ma mi si addice.
Allora li metti in gioco i cinque soldi e i tre reali?
Vediamo come andrà a finire. Naturalmente senza entusiasmi fuori luogo, ma per pura curiosità intellettuale.
Forza paris!
(ma cara a innui?).
domenica 30 novembre 2008
sabato 29 novembre 2008
Soru, la golpe et il lione
Su un quotidiano che non c'è più, Sardigna.com, ma che è rintracciabile in qualche emeroteca, avevo previsto che i partiti si sarebbero ribellati all'uomo che avevano scelto per guidare la Regione, Renato Soru. Nessuna capacità di preveggenza, ma solo un semplice ragionamento sull'infame legge elettorale che, nel gennaio 2001, il governo di allora, regalò anche alla Sardegna e sulla pavidità del Consiglio regionale che, pur potendo cambiarla, non lo fece.
Prevedeva - e continua a prevederlo, visto che neppure in questa legislatura il Consiglio regionale l'ha cambiata - grandissimi poteri in capo al presidente della Giunta, il più importante dei quali è di trascinare nello scioglimento del Parlamento sardo la sua decisione di dimettersi. Fosse chi fosse, il presidente era autorizzato a utilizzare una potentissima arma di ricatto sui consiglieri: se non fate come voglio io, vi mando tutti a casa.
Un politico di carriera, naturalmente, avrebbe riflettuto a lungo, prima di attuare una minaccia del genere: i partiti che lo avevano fatto eleggere non l'avrebbero più candidato, e addio carriera politica. Uno che vive di suo, come Soru, avrebbe avuto molte meno perplessità, ragionavo. A quel che raccontano le cronache, Soru ha agitato più volte l'idea di dimettersi e di mandare tutti a casa. Ma per farlo davvero, era necessario aspettare il momento più opportuno: il momento in cui la necessità dei partiti, o di parte di essi, di "difendere la politica" (ovvero di affermare il ruolo dei partiti), si sarebbe fatta più impellente. Il momento è, ovviamente, quello della vigilia delle elezioni. Quello che viviamo.
Soru ha ora in mano una carta formidabile: può denunciare, non senza avere buone carte in mano, che egli ha fatto di tutto per governare per il bene dei sardi e che in ciò è stato impedito dai partiti: dal suo ma non solo. In parte perché ci crede, in parte perché sa che "la dissidenza sardesca" ha un ottimo mercato, ha da tempo imboccato la strada non più della vertenza con lo stato ma del contrasto dello stato centralista: lingua sarda, Tirrenia, servitù militari, etc.
Credo abbia tutte le informazioni in mano per sapere che con questo centrosinistra le elezioni del 2009 sono perse e perse non per una sola legislatura. Se vuol vincere, deve liberarsi del pesante fardello di un ceto politico litigioso, inconcludente, partitocratico (oggi c'è chi invoca "un ruolo più diretto e robusto della segreteria nazionale", leggi italiana), tutto ciò di cui Soru vorrebbe fare a meno. Una enorme, inconsapevole mano di aiuto gliela hanno data i partiti alleati o parte di essi, i quali ancora increduli si chiedono come abbia fatto a non temere il "tutti a casa".
Sa che il pesante giudizio negativo che circola nelle menti di moltissimi sardi nei confronti del suo governo trascinerà anche lui, se continuerà ad esserne il presidente. Di qui, immagino, la sua decisione per ora di annunciare il tutti a casa e domani, forse, di decretarlo. E di presentarsi alle elezioni in compagnia di chi deciderà lui.
Si illude così di vincere? Può darsi sia un'illusione. Ma chi conosce solo un poco questa infame legge elettorale regionale sa che basta avere un voto in più delle altre liste per assicurarsi la maggioranza dei seggi in Consiglio regionale. Rispetto ad altri possibili candidati, Soru ha un carta in più: quella credibilità autonomistica - non importa se vera o solo apparente - che altri, pur potendo acquisire, non hanno neppure lontanamente cercato, immaginando che per vincere basti rivolgersi allo stomaco dei cittadini e non anche alle loro passioni.
Con tutta franchezza, non auguro né a agli altri né a me, che Renato Soru vinca le prossime elezioni. Certo per via delle sue tentazioni cesaristiche, ma soprattutto perché dietro il cesarismo c'è sempre una concezione accentatrice: che sia la Regione invece dello Stato il centro non cambia granché. Ma vorrei davvero vedere all'orizzonte un'alternativa che sia insieme sardista e liberale. E vedo, invece, un gran disordine che, al contrario di quanto diceva Maodse dung, non è una cosa eccellente.
Prevedeva - e continua a prevederlo, visto che neppure in questa legislatura il Consiglio regionale l'ha cambiata - grandissimi poteri in capo al presidente della Giunta, il più importante dei quali è di trascinare nello scioglimento del Parlamento sardo la sua decisione di dimettersi. Fosse chi fosse, il presidente era autorizzato a utilizzare una potentissima arma di ricatto sui consiglieri: se non fate come voglio io, vi mando tutti a casa.
Un politico di carriera, naturalmente, avrebbe riflettuto a lungo, prima di attuare una minaccia del genere: i partiti che lo avevano fatto eleggere non l'avrebbero più candidato, e addio carriera politica. Uno che vive di suo, come Soru, avrebbe avuto molte meno perplessità, ragionavo. A quel che raccontano le cronache, Soru ha agitato più volte l'idea di dimettersi e di mandare tutti a casa. Ma per farlo davvero, era necessario aspettare il momento più opportuno: il momento in cui la necessità dei partiti, o di parte di essi, di "difendere la politica" (ovvero di affermare il ruolo dei partiti), si sarebbe fatta più impellente. Il momento è, ovviamente, quello della vigilia delle elezioni. Quello che viviamo.
Soru ha ora in mano una carta formidabile: può denunciare, non senza avere buone carte in mano, che egli ha fatto di tutto per governare per il bene dei sardi e che in ciò è stato impedito dai partiti: dal suo ma non solo. In parte perché ci crede, in parte perché sa che "la dissidenza sardesca" ha un ottimo mercato, ha da tempo imboccato la strada non più della vertenza con lo stato ma del contrasto dello stato centralista: lingua sarda, Tirrenia, servitù militari, etc.
Credo abbia tutte le informazioni in mano per sapere che con questo centrosinistra le elezioni del 2009 sono perse e perse non per una sola legislatura. Se vuol vincere, deve liberarsi del pesante fardello di un ceto politico litigioso, inconcludente, partitocratico (oggi c'è chi invoca "un ruolo più diretto e robusto della segreteria nazionale", leggi italiana), tutto ciò di cui Soru vorrebbe fare a meno. Una enorme, inconsapevole mano di aiuto gliela hanno data i partiti alleati o parte di essi, i quali ancora increduli si chiedono come abbia fatto a non temere il "tutti a casa".
Sa che il pesante giudizio negativo che circola nelle menti di moltissimi sardi nei confronti del suo governo trascinerà anche lui, se continuerà ad esserne il presidente. Di qui, immagino, la sua decisione per ora di annunciare il tutti a casa e domani, forse, di decretarlo. E di presentarsi alle elezioni in compagnia di chi deciderà lui.
Si illude così di vincere? Può darsi sia un'illusione. Ma chi conosce solo un poco questa infame legge elettorale regionale sa che basta avere un voto in più delle altre liste per assicurarsi la maggioranza dei seggi in Consiglio regionale. Rispetto ad altri possibili candidati, Soru ha un carta in più: quella credibilità autonomistica - non importa se vera o solo apparente - che altri, pur potendo acquisire, non hanno neppure lontanamente cercato, immaginando che per vincere basti rivolgersi allo stomaco dei cittadini e non anche alle loro passioni.
Con tutta franchezza, non auguro né a agli altri né a me, che Renato Soru vinca le prossime elezioni. Certo per via delle sue tentazioni cesaristiche, ma soprattutto perché dietro il cesarismo c'è sempre una concezione accentatrice: che sia la Regione invece dello Stato il centro non cambia granché. Ma vorrei davvero vedere all'orizzonte un'alternativa che sia insieme sardista e liberale. E vedo, invece, un gran disordine che, al contrario di quanto diceva Maodse dung, non è una cosa eccellente.
giovedì 27 novembre 2008
Quel che i feniciomani nascondono
di Massimo Pittau
Caro Gianfranco,
sono contento che tu abbia lanciato l'allarme per la follia e vergogna che si sta proponendo, cambiare il nome del "Golfo di Oristano" nell'altro "Golfo dei Fenici".
Mando a te ed ai tuoi Amici due estratti della mia recente "Storia dei Sardi Nuragici", nella quale mi sono illuso di aver posto fine alla feniciomania da cui si dimostrano affetti alcuni personaggi della archeologia sarda.
Quasi sicuramente i Sardi ebbero i loro primi contatti col popolo fenicio in Oriente, in occasione delle incursioni che essi fecero coi «Popoli del Mare», e precisamente sia in Fenicia, sia in Cipro, sia infine in Egitto, dove i Fenici erano di casa, dato che erano quasi sempre al servizio dei Faraoni. Quelle incursioni, infatti, che sono avvenute fra i secoli XIII e XII a. C., sono precedenti di circa due secoli ai primi approdi effettuati dai Fenici in Sardegna forse nel secolo XI a. C.
È molto probabile dunque che siano stati i Nuragici a frequentare i Fenici nella Fenicia, assai prima che i Fenici frequentassero i Nuragici nella Sardegna.
(LEGGI TUTTO)
Caro Gianfranco,
sono contento che tu abbia lanciato l'allarme per la follia e vergogna che si sta proponendo, cambiare il nome del "Golfo di Oristano" nell'altro "Golfo dei Fenici".
Mando a te ed ai tuoi Amici due estratti della mia recente "Storia dei Sardi Nuragici", nella quale mi sono illuso di aver posto fine alla feniciomania da cui si dimostrano affetti alcuni personaggi della archeologia sarda.
Quasi sicuramente i Sardi ebbero i loro primi contatti col popolo fenicio in Oriente, in occasione delle incursioni che essi fecero coi «Popoli del Mare», e precisamente sia in Fenicia, sia in Cipro, sia infine in Egitto, dove i Fenici erano di casa, dato che erano quasi sempre al servizio dei Faraoni. Quelle incursioni, infatti, che sono avvenute fra i secoli XIII e XII a. C., sono precedenti di circa due secoli ai primi approdi effettuati dai Fenici in Sardegna forse nel secolo XI a. C.
È molto probabile dunque che siano stati i Nuragici a frequentare i Fenici nella Fenicia, assai prima che i Fenici frequentassero i Nuragici nella Sardegna.
(LEGGI TUTTO)
Stele di Nora: un canto di vignaioli. Ma del I secolo
di Herbert Sauren
Ringrazio Gianfranco Pintore che ha posto nel suo blog la questione della stele di Nora e dei Tartassiani. Sono rimasto un po’ sorpreso quando ho saputo che la stele era stata trasportata a Parigi per l’esposizione “La Mèditerranée des Phèniciens”. Avevo dubbi su questa interpretazione, fin da quando avevo visto la stele nel 2002.
La stele contiene otto righe di scrittura. Ogni riga contiene quattro sillabe. Vi sono lettere molto recenti che inibiscono la datazione all’8° secolo aC. Esiste sicuramente un rapporto degli scavi che si sarebbero svolti prima del 1993, data dell’informazione turistica. Una revisione mi pare necessaria. Il tipo di scrittura e la datazione, in quanto trovata nell’ovest europeo, è stato fortemente abbassato dopo la datazione delle iscrizioni sulle monete nel 2001. Secondo questa comparazione, la scrittura comparirebbe al più nel 3° secolo aC. Qualche lettera mostra forme attestate unicamente al 1° secolo aC. (LEGGI TUTTO)
Ringrazio Gianfranco Pintore che ha posto nel suo blog la questione della stele di Nora e dei Tartassiani. Sono rimasto un po’ sorpreso quando ho saputo che la stele era stata trasportata a Parigi per l’esposizione “La Mèditerranée des Phèniciens”. Avevo dubbi su questa interpretazione, fin da quando avevo visto la stele nel 2002.
La stele contiene otto righe di scrittura. Ogni riga contiene quattro sillabe. Vi sono lettere molto recenti che inibiscono la datazione all’8° secolo aC. Esiste sicuramente un rapporto degli scavi che si sarebbero svolti prima del 1993, data dell’informazione turistica. Una revisione mi pare necessaria. Il tipo di scrittura e la datazione, in quanto trovata nell’ovest europeo, è stato fortemente abbassato dopo la datazione delle iscrizioni sulle monete nel 2001. Secondo questa comparazione, la scrittura comparirebbe al più nel 3° secolo aC. Qualche lettera mostra forme attestate unicamente al 1° secolo aC. (LEGGI TUTTO)
mercoledì 26 novembre 2008
Signori fenicisti, abbiate almeno un po' di pudore
di Gigi Sanna
Oltre alla stravaganza del progetto, v’è ben altro e di più grave in essa; un aspetto che non poteva che suscitare giustamente sentimenti di unanime ed immediata opposizione in ampi settori dell’opinione pubblica, persino di quella - come si dice da noi - di ‘barra bella’, cioè che tutto fagocita e che segue distrattamente le vicende politiche e culturali isolane. L’idea cioè di battezzare, con forza colonizzatrice degna del migliore folclore isolano, il parco archeologico come ‘Golfo dei Fenici’.
I feniciomani archeologi isolani (come è stato sottolineato anche con dure parole), davvero non si smentiscono mai, facendo intendere senza un minimo di pudore critico, con la sconcertante proposta di premio ‘nominale’, che Tharros, Othoca e Neapolis erano luoghi la cui impronta storica è stata data particolarmente da colonie di abitanti costieri di origine fenicia. E diremo che se davvero ciò fosse accaduto, se quella cioè fosse stata la vera verità, la proposta, per quanto sempre scandalosa, si sarebbe comunque mantenuta nei limiti della decenza. Di ben altri omaggi, con umiliante offerta del ‘lato B’ ai potenti, i Sardi di sono resi gloriosamente imbecilli.
(LEGGI TUTTO)
Oltre alla stravaganza del progetto, v’è ben altro e di più grave in essa; un aspetto che non poteva che suscitare giustamente sentimenti di unanime ed immediata opposizione in ampi settori dell’opinione pubblica, persino di quella - come si dice da noi - di ‘barra bella’, cioè che tutto fagocita e che segue distrattamente le vicende politiche e culturali isolane. L’idea cioè di battezzare, con forza colonizzatrice degna del migliore folclore isolano, il parco archeologico come ‘Golfo dei Fenici’.
I feniciomani archeologi isolani (come è stato sottolineato anche con dure parole), davvero non si smentiscono mai, facendo intendere senza un minimo di pudore critico, con la sconcertante proposta di premio ‘nominale’, che Tharros, Othoca e Neapolis erano luoghi la cui impronta storica è stata data particolarmente da colonie di abitanti costieri di origine fenicia. E diremo che se davvero ciò fosse accaduto, se quella cioè fosse stata la vera verità, la proposta, per quanto sempre scandalosa, si sarebbe comunque mantenuta nei limiti della decenza. Di ben altri omaggi, con umiliante offerta del ‘lato B’ ai potenti, i Sardi di sono resi gloriosamente imbecilli.
(LEGGI TUTTO)
martedì 25 novembre 2008
C'è del marcio nelle Università? Sì ma in Danimarca
di Alberto Areddu
E' vero, sembra che sia diventato un irrefrenabile leitmotif della recente pubblicistica; il fine è invero spesso consolatorio (avete visto in quanti siamo di sfigati?), per chi si trova dopo anni e anni ricercatore a 1000 Euro, o peggio si è sempre fermato alle soglie dell'Università perché reputato inidoneo, o ancora peggio per chi ha dovuto emigrare e pubblicare all'estero per vedersi riconosciuto qualche merito.
Il latente motivo di tutto questo subitaneo accorgersi e delle discussioni sopraggiunte, poggia sul fatto che al cittadino comune, a cui ovviamente poco cale se un apprendista giurista sia stato ostacolato a favore del solito figlio di papà, quando si viene invece a sapere di un apprendista medico, che rischiava di passare il concorso pur non sapendo cosa fosse una carie, iniziano a girare i coglioni, e se li tocca pure perché può ben preventivare che poi sotto i ferri di questo ci possa passare lui.
Ci son zone (intere facoltà delle università di Puglia, diverse della Sicilia) dove la raccomandazione preventiva, è diventata talmente fatto compiuto che i figli (le figlie, i nipoti, le mogli, le amanti) di papà manco si vergognano ad apparire nelle inchieste tv "perché tanto è una prassi consolidata". Avrete sicuramente visto il celebre filosofo della Magna Grecia, quell'immarcescibile democristiaino di Kyriakos de Mita, che intervistato rivendicava orgogliosamente la bontà della selezione preventiva dei figli propri rispetto agli estranei. E Veltroni l'ha forse espulso?
Ma vah, da uno che ha candidato i figli nullavalenti del generone romano! E in Sardegna? I nostri solerti giornalisti hanno mai fatto qualche ricerchina sull'onomastica di parenti e affini acquisiti alle università? Sanno mica se esiste nell'isola sandaliote, la straniera pratica dello scambismo favoriale? Io qualche nome ce lo avrei: guardatevi questa ben nota figura universitaria. Oltremodo sicuro attraverso il mafioso silenzio delle sue consorterie, di aver "iscrompitu" qualche lepisma che gli rodeva la inderogabile bontà di almeno la metà delle sue supposizioni etimologistiche, salito alla presidenza facoltale a Cagliari, poichè aveva da tempo maturato buoni rapporti con altri studiosi (la celebre coppia Satta-Atzori) che l'avevano cooptato in tempi più remoti, ora ha modo di godere perchè la sua giovin figlia è stata acquisita all'Università turritana non si sa per quali straordinari meriti e in virtù di quale strepitosa bibliografia.
La figlia è stata "accottada" e chi magari della stessa materia si fosse interessato dove mai altrove sarà riparato? Purtroppo se un intellettual-sfigato si interessa di particelle o molecole ha sempre modo di riparare fuori, perchè attengono al linguaggio universale delle scienze, ma se si interessa di etnologia di Sedilo, piuttosto che di dialettologia ogliastrina, di tradizioni popolari logudoresi piuttosto che di esecuzione con le launeddas, ditemi: chi cazzo mai se lo cagherà?
Avete mai letto qualcosa di tale Susanna, figlia tutta panna del nostro figuro? Se sì siete fortunati: mandatemi i suoi estratti, che me li voglio rollare.
E' vero, sembra che sia diventato un irrefrenabile leitmotif della recente pubblicistica; il fine è invero spesso consolatorio (avete visto in quanti siamo di sfigati?), per chi si trova dopo anni e anni ricercatore a 1000 Euro, o peggio si è sempre fermato alle soglie dell'Università perché reputato inidoneo, o ancora peggio per chi ha dovuto emigrare e pubblicare all'estero per vedersi riconosciuto qualche merito.
Il latente motivo di tutto questo subitaneo accorgersi e delle discussioni sopraggiunte, poggia sul fatto che al cittadino comune, a cui ovviamente poco cale se un apprendista giurista sia stato ostacolato a favore del solito figlio di papà, quando si viene invece a sapere di un apprendista medico, che rischiava di passare il concorso pur non sapendo cosa fosse una carie, iniziano a girare i coglioni, e se li tocca pure perché può ben preventivare che poi sotto i ferri di questo ci possa passare lui.
Ci son zone (intere facoltà delle università di Puglia, diverse della Sicilia) dove la raccomandazione preventiva, è diventata talmente fatto compiuto che i figli (le figlie, i nipoti, le mogli, le amanti) di papà manco si vergognano ad apparire nelle inchieste tv "perché tanto è una prassi consolidata". Avrete sicuramente visto il celebre filosofo della Magna Grecia, quell'immarcescibile democristiaino di Kyriakos de Mita, che intervistato rivendicava orgogliosamente la bontà della selezione preventiva dei figli propri rispetto agli estranei. E Veltroni l'ha forse espulso?
Ma vah, da uno che ha candidato i figli nullavalenti del generone romano! E in Sardegna? I nostri solerti giornalisti hanno mai fatto qualche ricerchina sull'onomastica di parenti e affini acquisiti alle università? Sanno mica se esiste nell'isola sandaliote, la straniera pratica dello scambismo favoriale? Io qualche nome ce lo avrei: guardatevi questa ben nota figura universitaria. Oltremodo sicuro attraverso il mafioso silenzio delle sue consorterie, di aver "iscrompitu" qualche lepisma che gli rodeva la inderogabile bontà di almeno la metà delle sue supposizioni etimologistiche, salito alla presidenza facoltale a Cagliari, poichè aveva da tempo maturato buoni rapporti con altri studiosi (la celebre coppia Satta-Atzori) che l'avevano cooptato in tempi più remoti, ora ha modo di godere perchè la sua giovin figlia è stata acquisita all'Università turritana non si sa per quali straordinari meriti e in virtù di quale strepitosa bibliografia.
La figlia è stata "accottada" e chi magari della stessa materia si fosse interessato dove mai altrove sarà riparato? Purtroppo se un intellettual-sfigato si interessa di particelle o molecole ha sempre modo di riparare fuori, perchè attengono al linguaggio universale delle scienze, ma se si interessa di etnologia di Sedilo, piuttosto che di dialettologia ogliastrina, di tradizioni popolari logudoresi piuttosto che di esecuzione con le launeddas, ditemi: chi cazzo mai se lo cagherà?
Avete mai letto qualcosa di tale Susanna, figlia tutta panna del nostro figuro? Se sì siete fortunati: mandatemi i suoi estratti, che me li voglio rollare.
domenica 23 novembre 2008
Oibò, i sardi navigatori prima dei fenici? Lei scherza
di Mikkelj Tzoroddu
Egregio Pintore,
siamo in linea di massima d’accordo su quanto Ella dice nel Suo intervento. Cogliamo peraltro con molto piacere questa occasione per precisare due punti sulla preistoria e storia antica della Sardegna che la gran parte degli studiosi di cose sarde, ivi compresi coloro che Lei sagacemente bolla con l’appellativo di feniciomani, ignora totalmente.
Il punto primo riguarda la Sua affermazione nella quale dichiara che da quello che noi chiamiamo oggi Golfo di Oristano “cinquemila anni fa partivano i battelli dei commercianti sardi di ossidiana del Monte Arci”. Ohibò illustre Pintore, Lei con grande naturalezza ci viene a raccontare come ben 3000 (diconsi tremila) anni prima di Cristo, i Sardi portassero la loro ossidiana oltremare con un proprio naviglio? Ma se i più grandi navigatori come i Fenici, i Micenei, i Ciprioti, i Cicladici, in tale data non erano ancora nati, come avrebbero potuto fare ciò i Sardi, sempre definiti (soprattutto, e con pervicacia, dai suoi “feniciomani”) succubi scolaretti, in tutte le manifestazioni dello scibile, di tutti quanti quei popoli appena menzionati?
Ma si tranquillizzi Pintore, quella che certamente agli Emeriti Studiosi può essere sembrata una Sua audace sortita (e saranno rimasti seccati per aver Ella usato il suo sito per raccontare un’enormità in merito alle improbabili gesta dei Sardi gestori del - si badi bene - loro patrimonio economico, di Monte Arci), noi invece etichettiamo come inesatta e minimizzante affermazione.
Infatti i Sardiani (come noi definiamo tutti gli abitatori del suolo sardo che ivi posero la loro dimora, prima del 238 a.C.) nell’epoca cui Lei si riferisce stavano ormai terminando di fare affari con l’ossidiana: essi avevano appena messo a punto una nuova meravigliosa impresa industriale con i prodotti metallurgici.
È pertanto il caso di chiarire che i Sardiani trasportassero ossidiana, loro e altrui, attraverso il Mediterraneo già nel XII-XIII millennio prima d’oggi (ma noi pensiamo molto prima, in concordanza con i tempi in cui fecero ciò i popoli carpatici e quelli dell’Asia Minore). Quindi, Esimio ospite, non cinquemila anni fa “partivano i battelli dei commercianti sardi di ossidiana del Monte Arci”, ma quei battelli portavano il vetro vulcanico almeno 12.000 (dodicimila) anni fa, e lo facevano depositando la loro mercanzia, nelle menzionate circostanze temporali, presso il Riparo Mochi (ca. 12.200 BP) e l’Arma dello Stefanin (ca. 11.900-10.300 BP), in una delle innumeri regioni da essi frequentate, alla quale oggi diamo il nome di Liguria.
Detto per inciso, e siamo al secondo punto, il vocabolo ch’Ella usa, a mo’ di “zinta” per apostrofare certa classe di studiosi, potrebbe non essere così offensivo, pur essendo esso sì limitativo di una capacità di fredda disamina degli accadimenti che la storia ci restituisce continuamente. Infatti detto vocabolo trae origine dalla parola “Fenici”. Ebbene, caro Anfitrione, chissà quale quantità di testi avrà letto sulla trattazione di tali “Fenici”, immagazzinando negli scaffali del proprio sapere, nozioni, notizie, fatti ivi contemplati. Noi al contrario ci siamo sempre rifiutati di prendere con serietà tutti i testi o gli articoli scientifici che trattassero l’argomento “Fenici”.
Ma con veemenza abbiamo rifiutato di accettare per veritieri i testi che trattassero di “Fenici” in Sardegna. Gli autori recenti tutti, a partire dal Pais, che si sono prodigati nel dipingere improbabili (e per noi risibili) colonizzazioni e conquiste fenicie in Sardegna, sono andati soggetti a quella sorta di atono appiattimento critico, che li ha resi orbi di un incedere scientifico atto a mettere a nudo le verità dai sedimenti del tempo. Come Le dicevamo, il chiamarli feniciomani, in effetti, risulta essere privo di significato. Infatti i più grossi specialisti del settore, proprio quelli che hanno scritto la storia dei “Fenici”, quando sono stati chiamati a dare una spiegazione del lemma “Fenici” hanno clamorosamente fallito nell’impresa (Giorgio Levi Della Vida in Enciclopedia Treccani); quando hanno tentato di dare una spiegazione sulla genesi del nome si sono persi in conclusioni prive di fondamento dimostrativo (Sabatino Moscati in Antichi imperi d’Oriente); quando si sono fatti carico di rispondere alla domanda “chi furono i “Fenici”? sono andati incontro all’autodistruzione dalla propria ideologia (Sabatino Moscati in Chi furono i Fenici); quando li hanno definiti un “popolo” hanno calpestato il dizionario della lingua italiana: «il popolo è un aggregato di persone […] diverse per razza e provenienza» (Sabatino Moscati in Nuovi studi sull’identità fenicia); quando poi hanno preteso di dare una spiegazione sulle modalità d’arrivo dei “Fenici” in Sardegna, sono naufragati miseramente nelle correnti marine che avrebbero spinto i ”Fenici” in Sardegna dimostrando, le scienze meteorologica ed oceanografica, aver avuto dette correnti, negli ultimi 20.000 anni, un verso sempre contrario (Ferruccio Barreca in La civiltà fenicio-punica in sardegna).
Pertanto, ove Ella ancora azzardi quella definizione «una civiltà di antichi conquistatori -grande civiltà senza dubbio-», che altro non è se non la fotocopia del sapere da Ella immagazzinato (perché non Suo è il compito di sindacare sul contenuto di libri pagati a caro prezzo), sappia che indirizzata ai “Fenici”, tale definizione risulta essere filologicamente inconsistente perché priva di accezione storica, etnica e geografica.
So benissimo che esportavamo ossidiana molto molto prima del IV millennio, ma vorrei somministrare le date a piccole dosi. Un giorno, chi sa?, vorrei parlare della via dell’ossidiana di cui si ha traccia in tempi assai più remoti. Ma sono per la lenta assuefazione e per la difesa delle coronarie altrui. Ma se li immagina, i ribattezzatori del Golfo di Oristano, digerire tutte le cose che lei dice sui fenici? Suvvia, un po’ di pietà. [gfp]
PS - Ne profitto per ricordare la petizione Giù le mani dalle nostre origini
Egregio Pintore,
siamo in linea di massima d’accordo su quanto Ella dice nel Suo intervento. Cogliamo peraltro con molto piacere questa occasione per precisare due punti sulla preistoria e storia antica della Sardegna che la gran parte degli studiosi di cose sarde, ivi compresi coloro che Lei sagacemente bolla con l’appellativo di feniciomani, ignora totalmente.
Il punto primo riguarda la Sua affermazione nella quale dichiara che da quello che noi chiamiamo oggi Golfo di Oristano “cinquemila anni fa partivano i battelli dei commercianti sardi di ossidiana del Monte Arci”. Ohibò illustre Pintore, Lei con grande naturalezza ci viene a raccontare come ben 3000 (diconsi tremila) anni prima di Cristo, i Sardi portassero la loro ossidiana oltremare con un proprio naviglio? Ma se i più grandi navigatori come i Fenici, i Micenei, i Ciprioti, i Cicladici, in tale data non erano ancora nati, come avrebbero potuto fare ciò i Sardi, sempre definiti (soprattutto, e con pervicacia, dai suoi “feniciomani”) succubi scolaretti, in tutte le manifestazioni dello scibile, di tutti quanti quei popoli appena menzionati?
Ma si tranquillizzi Pintore, quella che certamente agli Emeriti Studiosi può essere sembrata una Sua audace sortita (e saranno rimasti seccati per aver Ella usato il suo sito per raccontare un’enormità in merito alle improbabili gesta dei Sardi gestori del - si badi bene - loro patrimonio economico, di Monte Arci), noi invece etichettiamo come inesatta e minimizzante affermazione.
Infatti i Sardiani (come noi definiamo tutti gli abitatori del suolo sardo che ivi posero la loro dimora, prima del 238 a.C.) nell’epoca cui Lei si riferisce stavano ormai terminando di fare affari con l’ossidiana: essi avevano appena messo a punto una nuova meravigliosa impresa industriale con i prodotti metallurgici.
È pertanto il caso di chiarire che i Sardiani trasportassero ossidiana, loro e altrui, attraverso il Mediterraneo già nel XII-XIII millennio prima d’oggi (ma noi pensiamo molto prima, in concordanza con i tempi in cui fecero ciò i popoli carpatici e quelli dell’Asia Minore). Quindi, Esimio ospite, non cinquemila anni fa “partivano i battelli dei commercianti sardi di ossidiana del Monte Arci”, ma quei battelli portavano il vetro vulcanico almeno 12.000 (dodicimila) anni fa, e lo facevano depositando la loro mercanzia, nelle menzionate circostanze temporali, presso il Riparo Mochi (ca. 12.200 BP) e l’Arma dello Stefanin (ca. 11.900-10.300 BP), in una delle innumeri regioni da essi frequentate, alla quale oggi diamo il nome di Liguria.
Detto per inciso, e siamo al secondo punto, il vocabolo ch’Ella usa, a mo’ di “zinta” per apostrofare certa classe di studiosi, potrebbe non essere così offensivo, pur essendo esso sì limitativo di una capacità di fredda disamina degli accadimenti che la storia ci restituisce continuamente. Infatti detto vocabolo trae origine dalla parola “Fenici”. Ebbene, caro Anfitrione, chissà quale quantità di testi avrà letto sulla trattazione di tali “Fenici”, immagazzinando negli scaffali del proprio sapere, nozioni, notizie, fatti ivi contemplati. Noi al contrario ci siamo sempre rifiutati di prendere con serietà tutti i testi o gli articoli scientifici che trattassero l’argomento “Fenici”.
Ma con veemenza abbiamo rifiutato di accettare per veritieri i testi che trattassero di “Fenici” in Sardegna. Gli autori recenti tutti, a partire dal Pais, che si sono prodigati nel dipingere improbabili (e per noi risibili) colonizzazioni e conquiste fenicie in Sardegna, sono andati soggetti a quella sorta di atono appiattimento critico, che li ha resi orbi di un incedere scientifico atto a mettere a nudo le verità dai sedimenti del tempo. Come Le dicevamo, il chiamarli feniciomani, in effetti, risulta essere privo di significato. Infatti i più grossi specialisti del settore, proprio quelli che hanno scritto la storia dei “Fenici”, quando sono stati chiamati a dare una spiegazione del lemma “Fenici” hanno clamorosamente fallito nell’impresa (Giorgio Levi Della Vida in Enciclopedia Treccani); quando hanno tentato di dare una spiegazione sulla genesi del nome si sono persi in conclusioni prive di fondamento dimostrativo (Sabatino Moscati in Antichi imperi d’Oriente); quando si sono fatti carico di rispondere alla domanda “chi furono i “Fenici”? sono andati incontro all’autodistruzione dalla propria ideologia (Sabatino Moscati in Chi furono i Fenici); quando li hanno definiti un “popolo” hanno calpestato il dizionario della lingua italiana: «il popolo è un aggregato di persone […] diverse per razza e provenienza» (Sabatino Moscati in Nuovi studi sull’identità fenicia); quando poi hanno preteso di dare una spiegazione sulle modalità d’arrivo dei “Fenici” in Sardegna, sono naufragati miseramente nelle correnti marine che avrebbero spinto i ”Fenici” in Sardegna dimostrando, le scienze meteorologica ed oceanografica, aver avuto dette correnti, negli ultimi 20.000 anni, un verso sempre contrario (Ferruccio Barreca in La civiltà fenicio-punica in sardegna).
Pertanto, ove Ella ancora azzardi quella definizione «una civiltà di antichi conquistatori -grande civiltà senza dubbio-», che altro non è se non la fotocopia del sapere da Ella immagazzinato (perché non Suo è il compito di sindacare sul contenuto di libri pagati a caro prezzo), sappia che indirizzata ai “Fenici”, tale definizione risulta essere filologicamente inconsistente perché priva di accezione storica, etnica e geografica.
So benissimo che esportavamo ossidiana molto molto prima del IV millennio, ma vorrei somministrare le date a piccole dosi. Un giorno, chi sa?, vorrei parlare della via dell’ossidiana di cui si ha traccia in tempi assai più remoti. Ma sono per la lenta assuefazione e per la difesa delle coronarie altrui. Ma se li immagina, i ribattezzatori del Golfo di Oristano, digerire tutte le cose che lei dice sui fenici? Suvvia, un po’ di pietà. [gfp]
PS - Ne profitto per ricordare la petizione Giù le mani dalle nostre origini
sabato 22 novembre 2008
Una zeppa per i feniciomani. Piccola, accontentiamoci
Quando sembrava tutto fatto per il “Parco del Golfo dei fenici”, un sindaco, quello di Santa Giusta, Antonello Figus, ha dato l’alt! Per la verità, a quel che ufficialmente si sa, i motivi dello stop hanno poco a che fare con un doveroso no a questa operazione auto-colonializzante. Anzi, Figus, si dichiara d’accordo. Le ragioni sono di bassa bottega politica (la questione della “gestione” del Parco) e di sana diffidenza sul che cosa comporti quella parola, Parco.
Accontentiamoci di quel che passa il convento della politica. L’importante è che qualcuno inizi a porsi dei problemi sulla portata dell’operazione di un gruppo di feniciomani e di, spero, solo inconsapevoli amministratori che neppure si sono posti il problema se fosse giusto intitolare un intero golfo a un popolo che, arrivato pare in pace, ha poi figliato una bella genia di conquistatori e di dominatori.
Nessuno, credo, contesterà mai la creazione di un Parco archeologico fenicio e se questo fosse il nome scelto per l’impresa, nessuna questione. Certo, personalmente e data la presenza nel Sinis e dintorni, avrei preferito cominciare con un Parco dei Nuraghi, o un Parco di Arborea. Non so, mi pare che a sardi solo poco poco dotati di autostima, questa doveva essere la prima idea, pronti domani a fare un Parco dei fenici, dei Longobardi, dei Pisani, dei Genovesi, dei Catalano aragonesi e, to’, persino dei Bizantini. Anche loro ci hanno lasciato cose di pregio, insieme ad altre un tantino meno raccomandabili. Ma che c'entra cambiare la geografia chiamando quello di Oristano Golfo dei Fenici, o dei Longobardi o dei Catalani? Non è che gli archeologi di bizantinerie, longobarderie etc sono ancora troppo deboli, più sicuramente dei feniciomani, per imporre queste vie della denazionalizzazione della Sardegna?
Su forum e blog, questa operazione furbetta fatta per dar lustro a una confraternita religiosa di studiosi feniciomani è oggetto di severe critiche. Vi segnalo in proposito la raccolta di firme cominciata ieri con il titolo Giù le mani dalle nostre origini. Non sarebbe poi male se in molti segnalassimo a chi di dovere tutto il nostro disaccordo.
Accontentiamoci di quel che passa il convento della politica. L’importante è che qualcuno inizi a porsi dei problemi sulla portata dell’operazione di un gruppo di feniciomani e di, spero, solo inconsapevoli amministratori che neppure si sono posti il problema se fosse giusto intitolare un intero golfo a un popolo che, arrivato pare in pace, ha poi figliato una bella genia di conquistatori e di dominatori.
Nessuno, credo, contesterà mai la creazione di un Parco archeologico fenicio e se questo fosse il nome scelto per l’impresa, nessuna questione. Certo, personalmente e data la presenza nel Sinis e dintorni, avrei preferito cominciare con un Parco dei Nuraghi, o un Parco di Arborea. Non so, mi pare che a sardi solo poco poco dotati di autostima, questa doveva essere la prima idea, pronti domani a fare un Parco dei fenici, dei Longobardi, dei Pisani, dei Genovesi, dei Catalano aragonesi e, to’, persino dei Bizantini. Anche loro ci hanno lasciato cose di pregio, insieme ad altre un tantino meno raccomandabili. Ma che c'entra cambiare la geografia chiamando quello di Oristano Golfo dei Fenici, o dei Longobardi o dei Catalani? Non è che gli archeologi di bizantinerie, longobarderie etc sono ancora troppo deboli, più sicuramente dei feniciomani, per imporre queste vie della denazionalizzazione della Sardegna?
Su forum e blog, questa operazione furbetta fatta per dar lustro a una confraternita religiosa di studiosi feniciomani è oggetto di severe critiche. Vi segnalo in proposito la raccolta di firme cominciata ieri con il titolo Giù le mani dalle nostre origini. Non sarebbe poi male se in molti segnalassimo a chi di dovere tutto il nostro disaccordo.
Documenti nuragici: colleghi occupatevene
di Herbert Sauren
Caro Pintore,
mi ha detto una volta che più di 40 iscrizioni non ancora decifrate si trovano in Sardegna. Perché esitano i miei colleghi a discutere il contenuto dei documenti? Io vorrei dare volentieri un aiuto, e in quanto professore emerito non sono certo un concorrente.
Al momento della pubblicazione di una iscrizione, un collega aveva segnalato il luogo del ritrovamento, ma non ho mai ricevuto alcun commento sulla lettura che ne avevo fatto.
Lei ha segnalato nel suo blog che la stele di Nora è stata esposta a Parigi [nella foto, NdR]. Per me, questa iscrizione è un canto da cantare mentre si pigia l’uva per fare il vino nuovo. La parola della prima riga est “t r s”, *tirosh, “il mosto, il vino nuovo”.
Da dove vengono i Tartessiani? Apparentemente un popolo di ubiquità, in Sardegna, a Huelva, a Marsiglia, a Tarsus, etc. Un popolo dei miti o della storia?
Mi piacerebbe avere risposte serie dei colleghi. La sollecito a porre la questione nel suo blog.
Ecco fatto. Buona fortuna a lei, professor Sauren, e a tutti noi. [gfp]
Caro Pintore,
mi ha detto una volta che più di 40 iscrizioni non ancora decifrate si trovano in Sardegna. Perché esitano i miei colleghi a discutere il contenuto dei documenti? Io vorrei dare volentieri un aiuto, e in quanto professore emerito non sono certo un concorrente.
Al momento della pubblicazione di una iscrizione, un collega aveva segnalato il luogo del ritrovamento, ma non ho mai ricevuto alcun commento sulla lettura che ne avevo fatto.
Lei ha segnalato nel suo blog che la stele di Nora è stata esposta a Parigi [nella foto, NdR]. Per me, questa iscrizione è un canto da cantare mentre si pigia l’uva per fare il vino nuovo. La parola della prima riga est “t r s”, *tirosh, “il mosto, il vino nuovo”.
Da dove vengono i Tartessiani? Apparentemente un popolo di ubiquità, in Sardegna, a Huelva, a Marsiglia, a Tarsus, etc. Un popolo dei miti o della storia?
Mi piacerebbe avere risposte serie dei colleghi. La sollecito a porre la questione nel suo blog.
Ecco fatto. Buona fortuna a lei, professor Sauren, e a tutti noi. [gfp]
venerdì 21 novembre 2008
Sardegna “la più grande isola” del Mediterraneo
di Michele Zoroddu
Erodoto scrive nel V sec. a. C. le sue Storie ed ivi definisce per ben tre volte, forse copiando Ecateo, la Sardegna come la più grande di tutte le isole. Mirsilo di Metimna nel III secolo a.C. chiamò la Sardegna Ichnusa per la sua somiglianza con l’orma del piede. Pausania, nella seconda metà del II secolo d.C., chiamò la Sardegna Ichnoussa perché «la forma dell’isola è molto simile all’impronta del piede umano».
Ora, lettori e studiosi moderni che si sono imbattuti negli scritti di Erodoto e Pausania, hanno valutato con malcelata sufficienza quanto riportato dallo storico e dal periegeta, ritenendo che gli Antichi fossero stati vittime di un grosso errore di valutazione, dal momento che a noi risulta chiaro che è la Sicilia ad essere la più grande isola del Mediterraneo. Quindi, stimolati dalla presenza di questo mistero nella storia antica della Sardegna, abbiamo voluto verificare come sia stato possibile che gli Antichi, abbiano potuto coniare quella definizione.
Abbiamo fatto una ricerca sulle più antiche rappresentazioni grafiche dell’Isola, più precisamente fra quelle afferenti le discipline che ricostruiscono e studiano le mappe dei livelli marini, relative a varie migliaia di anni dal presente. Ebbene il livello del mare ha avuto la propria dimensione condizionata dagli accadimenti che nel tempo si sono succeduti. In modo più generale influirono su di esso quei fenomeni astronomici, geologici e climatici che hanno interessato l’ultima parte della vita della Terra che ci riguarda nello specifico.
(CONTINUA)
Erodoto scrive nel V sec. a. C. le sue Storie ed ivi definisce per ben tre volte, forse copiando Ecateo, la Sardegna come la più grande di tutte le isole. Mirsilo di Metimna nel III secolo a.C. chiamò la Sardegna Ichnusa per la sua somiglianza con l’orma del piede. Pausania, nella seconda metà del II secolo d.C., chiamò la Sardegna Ichnoussa perché «la forma dell’isola è molto simile all’impronta del piede umano».
Ora, lettori e studiosi moderni che si sono imbattuti negli scritti di Erodoto e Pausania, hanno valutato con malcelata sufficienza quanto riportato dallo storico e dal periegeta, ritenendo che gli Antichi fossero stati vittime di un grosso errore di valutazione, dal momento che a noi risulta chiaro che è la Sicilia ad essere la più grande isola del Mediterraneo. Quindi, stimolati dalla presenza di questo mistero nella storia antica della Sardegna, abbiamo voluto verificare come sia stato possibile che gli Antichi, abbiano potuto coniare quella definizione.
Abbiamo fatto una ricerca sulle più antiche rappresentazioni grafiche dell’Isola, più precisamente fra quelle afferenti le discipline che ricostruiscono e studiano le mappe dei livelli marini, relative a varie migliaia di anni dal presente. Ebbene il livello del mare ha avuto la propria dimensione condizionata dagli accadimenti che nel tempo si sono succeduti. In modo più generale influirono su di esso quei fenomeni astronomici, geologici e climatici che hanno interessato l’ultima parte della vita della Terra che ci riguarda nello specifico.
(CONTINUA)
giovedì 20 novembre 2008
I feniciomani all'attacco
Avete presente quel golfo che all’altezza di Oristano si apre verso la Spagna? Da lì, cinquemila anni fa partivano i battelli dei commercianti sardi di ossidiana del Monte Arci, poi intorno al XIV secolo partirono e approdarono le navi dei shardana. Di quel mare si servirono i costruttori dei nuraghi del Sinis che, intorno al 1000 avanti Cristo scolpirono le grandi statue di Monti Prama. Molti secoli dopo, ai tempi del Regno di Arborea, lo attraversarono i battelli dei Giudici per le loro missioni diplomatiche in Europa. Nel frattempo quel mare fu attraversato dai sardi che andavano in Etruria e degli etruschi che venivano a commerciare. Un golfo sardo, insomma, come fu sempre conosciuto.
Sapete come lo vogliono ribattezzare? “Golfo dei Fenici”. E non sono poi così sicuro che quel nome sia solo una idea pubblicitaria di quegli archeologi (il canonico Spanu non avrebbe esitato a chiamarli feniciomani) che da tempo si battono per la costituzione del “Parco archeologico del Golfo dei Fenici”. Temo che finirà come per Monti di Mola, l’antico e bel nome di quel che oggi è “Costa Smeralda”, come una classe dirigente insulsa (e un po’ bottegaia) consentì si ribattezzate un pezzo di terra sarda. Mi sono sempre chiesto se “Monti di Mola”, sponsorizzato da una potenza finanziaria come quella dell’Aga Khan, sarebbe stato un nome meno di richiamo.
Insomma, chi sa se il nome Golfo di Oristano non lascerà posto nelle carte future a quello di “Golfo dei Fenici”. Solo in Sardegna penso si può permettere, senza che ci sia alcuna costrizione geo-politica, che una civiltà di antichi conquistatori (grande civiltà, senza dubbio) faccia quel che non ebbe in mente di fare all’epoca del dominio: cambiare il nome di una intera regione geografica. Avrà, su questa violenza, una qualche influenza il fatto che a proporre e a dirigere questa operazione sono alcuni fra i maggiori studiosi di fenicerie? O è solo una malignità? Non parlo, per carità di patria, degli amministratori che questa violenza hanno accettato con grande gioia.
Voi, certamente, siate convinti che il crinale che divide le epoche sia la nascita di Gesù Cristo: si dice infatti che la tal cosa è successa in un certo anno avanti Cristo o dopo Cristo. E nel resto del mondo così è. Qui da noi c’è chi propone un diverso crinale: “Tra i 14 pezzi anche un magnifico arciere del periodo prefenicio” titola oggi La Nuova Sardegna la notizia della restituzione del bronzetto trafugato e ritrovato nel Museo di Cleveland. A Sant’Antioco, dunque, secondo quel titolista (non il cronista) le ere sono o avanti o dopo i Fenici. E sì che nel testo dell’articolo si riferisce della reazione del sindaco della cittadina al ritrovamento dell’arciere nuragico, simile a quello che si deve più sopra e trovato a Teti.
Dice Mario Corongiu: “Mi piace sottolineare che questo bronzetto è di eccezionale bellezza e ricorda che il nostro patrimonio culturale risale anche a prima dell’arrivo dei fenici nel nostro territorio e che nella nostra isola ci sono e sono davvero tanti, i segni della presenza dei nuragici. Basti ricordare che la densità di nuraghi nel nostro territorio è fra le più alte, se non la più alta, dell’intera Sardegna. Forse vorrà dire qualcosa". Già, ma che cosa? Forse che sarebbe l’ora di ridurre alla ragione i tanti baronetti dell’archeologia sarda che, sol perché studiosi della civiltà fenicia, ritengono che tutto il prima non vale nulla? O forse che la Regione sarda debba finalmente intervenire con forza per indurre la Soprintendenza e i suoi feniciomani a considerare la grande civiltà fenicia solo una delle civiltà che su questa terra si sono sviluppate, prima fra tutte – se non altro per anzianità – quella nuragica?
Non vorrei che, in preda ad un delirio di feniciomania, a qualcuno venisse in mente di ribattezzare S. Antioco come Phoinix o altro nome fenicio.
Sapete come lo vogliono ribattezzare? “Golfo dei Fenici”. E non sono poi così sicuro che quel nome sia solo una idea pubblicitaria di quegli archeologi (il canonico Spanu non avrebbe esitato a chiamarli feniciomani) che da tempo si battono per la costituzione del “Parco archeologico del Golfo dei Fenici”. Temo che finirà come per Monti di Mola, l’antico e bel nome di quel che oggi è “Costa Smeralda”, come una classe dirigente insulsa (e un po’ bottegaia) consentì si ribattezzate un pezzo di terra sarda. Mi sono sempre chiesto se “Monti di Mola”, sponsorizzato da una potenza finanziaria come quella dell’Aga Khan, sarebbe stato un nome meno di richiamo.
Insomma, chi sa se il nome Golfo di Oristano non lascerà posto nelle carte future a quello di “Golfo dei Fenici”. Solo in Sardegna penso si può permettere, senza che ci sia alcuna costrizione geo-politica, che una civiltà di antichi conquistatori (grande civiltà, senza dubbio) faccia quel che non ebbe in mente di fare all’epoca del dominio: cambiare il nome di una intera regione geografica. Avrà, su questa violenza, una qualche influenza il fatto che a proporre e a dirigere questa operazione sono alcuni fra i maggiori studiosi di fenicerie? O è solo una malignità? Non parlo, per carità di patria, degli amministratori che questa violenza hanno accettato con grande gioia.
Voi, certamente, siate convinti che il crinale che divide le epoche sia la nascita di Gesù Cristo: si dice infatti che la tal cosa è successa in un certo anno avanti Cristo o dopo Cristo. E nel resto del mondo così è. Qui da noi c’è chi propone un diverso crinale: “Tra i 14 pezzi anche un magnifico arciere del periodo prefenicio” titola oggi La Nuova Sardegna la notizia della restituzione del bronzetto trafugato e ritrovato nel Museo di Cleveland. A Sant’Antioco, dunque, secondo quel titolista (non il cronista) le ere sono o avanti o dopo i Fenici. E sì che nel testo dell’articolo si riferisce della reazione del sindaco della cittadina al ritrovamento dell’arciere nuragico, simile a quello che si deve più sopra e trovato a Teti.
Dice Mario Corongiu: “Mi piace sottolineare che questo bronzetto è di eccezionale bellezza e ricorda che il nostro patrimonio culturale risale anche a prima dell’arrivo dei fenici nel nostro territorio e che nella nostra isola ci sono e sono davvero tanti, i segni della presenza dei nuragici. Basti ricordare che la densità di nuraghi nel nostro territorio è fra le più alte, se non la più alta, dell’intera Sardegna. Forse vorrà dire qualcosa". Già, ma che cosa? Forse che sarebbe l’ora di ridurre alla ragione i tanti baronetti dell’archeologia sarda che, sol perché studiosi della civiltà fenicia, ritengono che tutto il prima non vale nulla? O forse che la Regione sarda debba finalmente intervenire con forza per indurre la Soprintendenza e i suoi feniciomani a considerare la grande civiltà fenicia solo una delle civiltà che su questa terra si sono sviluppate, prima fra tutte – se non altro per anzianità – quella nuragica?
Non vorrei che, in preda ad un delirio di feniciomania, a qualcuno venisse in mente di ribattezzare S. Antioco come Phoinix o altro nome fenicio.
mercoledì 19 novembre 2008
"Sottocultura" barbaricina alla sbarra
Sarebbe interessante sapere – per noi che al processo per il sequestro Pinna non eravamo presenti – che cosa effettivamente ha risposto il pubblico ministero Gilberto Ganassi alla richiesta di un imputato di avere un confronto faccia a faccia con il sequestrato.
Secondo il cronista di La Nuova Sardegna, il pm avrebbe detto: “La richiesta di parlare in aula guardando in faccia la parte offesa non trova nessun riscontro in campo giuridico, è una usanza del codice barbaricino, il cosiddetto s’accaramentu che si concretizza quando c’è il chiarimento faccia a faccia con una persona che non si teme”.
Più stringata la cronista di L’Unione sarda, secondo cui Ganassi avrebbe detto: “Questo nella sottocultura barbaricina si chiama accaramentu ed è estraneo alla giustizia”.
Uno dei due ha censurato le parole del magistrato: o l’uno per indorare con un eufemismo una espressione al limite del razzismo, quel “sottocultura barbaricina”, o l’altra per battezzare di suo spontanea volontà il “processo barbaricino” con un crudo e, ripeto, razzista “sottocultura barbaricina”. Entrambi, però, riferiscono di una incultura del pm che o bolla di “sottocultura” s’accaramentu o ne parla senza sapere di che cosa si tratti.
S’accaramentu, ben più che “barbaricino”, visto che Sedilo non è certamente in Barbagia (a meno che Barbagia non sia considerato non un luogo, ma una categoria dello spirito), è stato ed è un modo di risolvere contrasti davanti a sos òmines, a persone di provati equilibrio e equanimità. Non è estraneo, dunque, alla giustizia né al giusto, anzi, ma semplicemente al codice italiano. Ad un prodotto della storia e della politica, che ieri non c’era e domani potrebbe non esserci.
Non c’era fino alla metà dell’Ottocento, quando ancora vigeva La carta de Logu, e non è detto che debba necessariamente vigere in eterno. La giustizia esisteva anche con la Carta de Logu e continuerà ad esistere anche dopo che, faccio solo per esemplificare, o entrerà in vigore un codice europeo o uno sardo.
Resterebbe poi da dimostrare che quella che ha prodotto il codice sardo o barbaricino sia una “sottocultura” o, come io penso, una cultura giuridica cui è stato impedito di svilupparsi e modernizzarsi. Ed è da dimostrare anche che la cultura, quella a tutto tondo, sia approdata in Sardegna solo con i codici italiani.
Secondo il cronista di La Nuova Sardegna, il pm avrebbe detto: “La richiesta di parlare in aula guardando in faccia la parte offesa non trova nessun riscontro in campo giuridico, è una usanza del codice barbaricino, il cosiddetto s’accaramentu che si concretizza quando c’è il chiarimento faccia a faccia con una persona che non si teme”.
Più stringata la cronista di L’Unione sarda, secondo cui Ganassi avrebbe detto: “Questo nella sottocultura barbaricina si chiama accaramentu ed è estraneo alla giustizia”.
Uno dei due ha censurato le parole del magistrato: o l’uno per indorare con un eufemismo una espressione al limite del razzismo, quel “sottocultura barbaricina”, o l’altra per battezzare di suo spontanea volontà il “processo barbaricino” con un crudo e, ripeto, razzista “sottocultura barbaricina”. Entrambi, però, riferiscono di una incultura del pm che o bolla di “sottocultura” s’accaramentu o ne parla senza sapere di che cosa si tratti.
S’accaramentu, ben più che “barbaricino”, visto che Sedilo non è certamente in Barbagia (a meno che Barbagia non sia considerato non un luogo, ma una categoria dello spirito), è stato ed è un modo di risolvere contrasti davanti a sos òmines, a persone di provati equilibrio e equanimità. Non è estraneo, dunque, alla giustizia né al giusto, anzi, ma semplicemente al codice italiano. Ad un prodotto della storia e della politica, che ieri non c’era e domani potrebbe non esserci.
Non c’era fino alla metà dell’Ottocento, quando ancora vigeva La carta de Logu, e non è detto che debba necessariamente vigere in eterno. La giustizia esisteva anche con la Carta de Logu e continuerà ad esistere anche dopo che, faccio solo per esemplificare, o entrerà in vigore un codice europeo o uno sardo.
Resterebbe poi da dimostrare che quella che ha prodotto il codice sardo o barbaricino sia una “sottocultura” o, come io penso, una cultura giuridica cui è stato impedito di svilupparsi e modernizzarsi. Ed è da dimostrare anche che la cultura, quella a tutto tondo, sia approdata in Sardegna solo con i codici italiani.
martedì 18 novembre 2008
La superiorità antropologica della nouvelle vague
La discriminazione contro la letteratura in sardo attuata dalla Regione ha oramai raggiunto livelli vergognosi e su tutto aleggia il tanfo della consacrazione della superiorità antropologica degli autori in italiano su quelli in sardo. La Regione spende a favore di commercianti in linna pintada che allestiscono in Sardegna festival letterari, importando a volte solo i rimasugli di festival italofoni e sempre, comunque, linna pintada in tinta unita. La Regione che si fa vanto di voler valorizzare l’identità sarda, la lingua e la cultura, che innesca battaglie (a questo punto solo demagogiche) per l’autonomia, nel concreto finanzia un processo di inculturazione di cui immagino abbia grande bisogno.
L’ultima operazione ha per titolo “Paesaggi d'autore” e parte da una buona idea: quella – come riferisce L’Unione sarda di oggi – di pubblicare cinque guide turistiche per raccontare la nostra isola: guide ai luoghi della scrittura. Diciamo subito che non c’è un solo testo di uno scrittore in sardo: né Benvenuto Lobina, né Michelangelo Pira, né Lorenzo Pusceddu, né Nanni Falconi, né Franco Pilloni, né Antoni Maria Pala, nè alcuno delle altre decine e decine di autori in sardo.
E, invece, ma chi ne avrebbe potuto dubitare? vi sono a profusione due categorie che, a parte i grandi del passato, danno conto di un’altra superiorità antropologia: quelli della “nouvelle vague letteraria sarda” (i migliori perché ça va sans dire “stanno dalla parte giusta”) e quelli che la critica letteraria italiana ha scelto come rappresentanti della “letteratura sarda”. Non ci troverete Isalle di Michelangelo Pira, La piana di Chentomìnes di Natalino Piras, Capezzoli di Pietra di Eliseo Spiga, La stirpe de re perduti di Paola Alcioni, tanto per citare i primi che mi vengono a mente.
Ma, si dirà, non si voleva fare una antologia e le scelte forzatamente includono ma anche escludono. Verissimo, ma è curioso: a parte gli autori in sardo che proprio non esistono, gli altri sono tutti “dalla parte giusta” e in quanto tali eletti.
Chi sa negli autori di questa malinconica operazione di regime almeno un po’ si vergognano?
L’ultima operazione ha per titolo “Paesaggi d'autore” e parte da una buona idea: quella – come riferisce L’Unione sarda di oggi – di pubblicare cinque guide turistiche per raccontare la nostra isola: guide ai luoghi della scrittura. Diciamo subito che non c’è un solo testo di uno scrittore in sardo: né Benvenuto Lobina, né Michelangelo Pira, né Lorenzo Pusceddu, né Nanni Falconi, né Franco Pilloni, né Antoni Maria Pala, nè alcuno delle altre decine e decine di autori in sardo.
E, invece, ma chi ne avrebbe potuto dubitare? vi sono a profusione due categorie che, a parte i grandi del passato, danno conto di un’altra superiorità antropologia: quelli della “nouvelle vague letteraria sarda” (i migliori perché ça va sans dire “stanno dalla parte giusta”) e quelli che la critica letteraria italiana ha scelto come rappresentanti della “letteratura sarda”. Non ci troverete Isalle di Michelangelo Pira, La piana di Chentomìnes di Natalino Piras, Capezzoli di Pietra di Eliseo Spiga, La stirpe de re perduti di Paola Alcioni, tanto per citare i primi che mi vengono a mente.
Ma, si dirà, non si voleva fare una antologia e le scelte forzatamente includono ma anche escludono. Verissimo, ma è curioso: a parte gli autori in sardo che proprio non esistono, gli altri sono tutti “dalla parte giusta” e in quanto tali eletti.
Chi sa negli autori di questa malinconica operazione di regime almeno un po’ si vergognano?
venerdì 14 novembre 2008
L'unità d'Italia, una immane sciagura
di Franz Koren
Fa piacere leggere lettere come la sua, signor Pintore. E strano che il tuttologo gliel'abbia pubblicata. E' vero che, quando si parla di ex-nazioni, stati o patrie passate poi SOTTO l'IT, improvvisamente si scatenano isterie incontrollate, proprio da paventare possibili scenari da Kosovo, e perché no da ex-Cecoslovacchia?
Considero l'"unità" d'IT una immane sciagura causata da un grossolano errore della storia, alla quale bisognerà mettere mano, prima o poi, per restituire dignità alle varie componenti.
Qui da noi, in Friuli, c'è stata la magnifica PATRIE DAL FRIUL che tanto onore e lustro ha dato alla nostra macroregione. Il friulano è la quarta lingua ufficiale d'IT.
L'Italietta si vergogna non solo -e a ragione- della propria storia recente, ma anche della storia moderna sulla quale si basa tutto il patrimonio culturale che si ritrova.
Tanto delicati ed accondiscendenti verso una nazione straniera -Vaticano-, tanto passivi verso il Lombardo-veneto, la mitica Sardegna etc.
Sostengo che l'IT avrà una difficile durata, garantita ancora da un certo diffuso benessere economico. Appena dovesse scricchiolare qualcosa, certamente passerei dall'altra parte perché non ho intenzione di difendere alcun privilegio di altri (di questo si tratta).
Spero sia d'accordo con me (e di non averLa scandalizzata).
P.S. noi friulani ci consideriamo figli di un grosso incesto. I nostri pro-avi nel 1866 ci hanno sodomizzato con il referendum definito qui da noi "la grande truffa": urne per il sì a dx (con salsicciotti e polenta), urne per il no a sx con un addetto a prendere il nome. Risultato (dopo 6 giorni di scrutinio)? 97% sì, 1% no, 2% nulle.
Il pseudo-stato aveva già fatto i festeggiamenti dell'"unità" 2 giorni prima dell'esito del referendum!!!
Fa piacere leggere lettere come la sua, signor Pintore. E strano che il tuttologo gliel'abbia pubblicata. E' vero che, quando si parla di ex-nazioni, stati o patrie passate poi SOTTO l'IT, improvvisamente si scatenano isterie incontrollate, proprio da paventare possibili scenari da Kosovo, e perché no da ex-Cecoslovacchia?
Considero l'"unità" d'IT una immane sciagura causata da un grossolano errore della storia, alla quale bisognerà mettere mano, prima o poi, per restituire dignità alle varie componenti.
Qui da noi, in Friuli, c'è stata la magnifica PATRIE DAL FRIUL che tanto onore e lustro ha dato alla nostra macroregione. Il friulano è la quarta lingua ufficiale d'IT.
L'Italietta si vergogna non solo -e a ragione- della propria storia recente, ma anche della storia moderna sulla quale si basa tutto il patrimonio culturale che si ritrova.
Tanto delicati ed accondiscendenti verso una nazione straniera -Vaticano-, tanto passivi verso il Lombardo-veneto, la mitica Sardegna etc.
Sostengo che l'IT avrà una difficile durata, garantita ancora da un certo diffuso benessere economico. Appena dovesse scricchiolare qualcosa, certamente passerei dall'altra parte perché non ho intenzione di difendere alcun privilegio di altri (di questo si tratta).
Spero sia d'accordo con me (e di non averLa scandalizzata).
P.S. noi friulani ci consideriamo figli di un grosso incesto. I nostri pro-avi nel 1866 ci hanno sodomizzato con il referendum definito qui da noi "la grande truffa": urne per il sì a dx (con salsicciotti e polenta), urne per il no a sx con un addetto a prendere il nome. Risultato (dopo 6 giorni di scrutinio)? 97% sì, 1% no, 2% nulle.
Il pseudo-stato aveva già fatto i festeggiamenti dell'"unità" 2 giorni prima dell'esito del referendum!!!
Ai professionisti della limba
di Pablo Sole
Gentile Pintore,
chiedo venia per l’intrusione nell’Olimpo dei “Professionisti della Limba” (Senza tirare in ballo, per nobile assonanza, il grande Leonardo Sciascia che pure qualcosa sui “Professionisti” l’aveva scritta!). Piuttosto: da esponente della “Disinformatsija” (e non “Disinformatsia”, come Lei “giustamente” scrive), da birbantello, briccone ed estortore della buona fede dei miei lettori ho piacere nel constatare che “sarei” in buona compagnia: la Sua.
Il “sarei”, ovviamente, per mia parte è tutta da dimostrare. E per un semplice motivo. Di più: per una serie di “semplici” motivi. In questo post, Gentile Pintore, Lei omette un piccolo particolare: io non ho mai affermato, e men che meno scritto, che “l’orripilante e proto sinaitico ‘kontiphizzadore’” fosse contenuto nell’”Annuariu” in questione. Questa, infatti, è una Sua semplice constatazione che deriva da una Sua personalissima interpretazione.
In origine, infatti, la frase tanto oltraggiata avrebbe dovuto essere una palese e ironica chiusa. Detto questo: posto che Lei ha a cuore quella nobilissima creatura detta “Grammatica Italiana” – con annessa punteggiatura - vorrei farLe notare che il termine in oggetto ricade in un periodo compreso entro il virgolettato attribuito all’assessore regionale al Bilancio Eliseo Secci, cosa che Lei, da buon “Censore della Signora Grammatica” quanto della “Buona Critica Giornalistica” - della quale pretende di ergersi a sorvegliante - avrebbe per lo meno dovuto notare.
Una mancanza che da Professionista della matita rossa e blu si rivela quanto mai colpevolmente strumentale. Ma nella mia franca onestà, Le confesserò una cosa: la mancata chiusa delle virgolette è dovuta ad un banale refuso. Fatte queste precisazioni, quel che mi lascia basito è vedere come la critica all’impiego della “Limba” si risolva nell’approvazione di moti folklorici che nulla hanno a che vedere con la valorizzazione dei nostri Valori.
Si è creato – e questo volevo far intendere nel mio pezzo – un moto pseudo culturale a dir poco artificioso che crede, con certi canoni cari all’italianizzazione più ignorante, di promuovere la “Limba” e al contrario, non fa altro che ridicolizzare il suo infinito e profondo patrimonio. Per inciso, sull’origine ed esistenza del termine “kontiphizzadore”, e senza nulla togliere: più che a voi “Professionisti della Limba” io credo alla memoria di mia Nonna.
Che la “Limba”, appunto, non la studia e non la inventa alla bisogna: la parla. Per concludere: non posso che dirmi lusingato dall’editto bulgaro – in senso lato, ça va sans dire – che ha lanciato nei miei confronti, con la richiesta di un “delicatissimo” licenziamento in tronco, visto che sono stavolta sì, in nobilissima compagnia.
Le giuro che, d’ora in avanti, se mi dovesse capitare di leggere qualche Suo articolo, mi chiederò: “Ma le virgolette non le ha chiuse Lui di proposito o si tratta di un banale refuso?” Fino ad allora, Mi perdoni, mi fiderò di quanto è scritto. E, infine, Ella è sicura che Sua Nonna per dire contivizadore (o contipizadore o contibizadore) ricorresse alla “k” e al “ph”? O si tratta di una Sua personale vocazione a rendere illeggibile – e quindi inutilizzabile – il sardo? Consiglio, comunque, i lettori di leggere il Suo articolo, riprodotto in questo blog (gfp)
Gentile Pintore,
chiedo venia per l’intrusione nell’Olimpo dei “Professionisti della Limba” (Senza tirare in ballo, per nobile assonanza, il grande Leonardo Sciascia che pure qualcosa sui “Professionisti” l’aveva scritta!). Piuttosto: da esponente della “Disinformatsija” (e non “Disinformatsia”, come Lei “giustamente” scrive), da birbantello, briccone ed estortore della buona fede dei miei lettori ho piacere nel constatare che “sarei” in buona compagnia: la Sua.
Il “sarei”, ovviamente, per mia parte è tutta da dimostrare. E per un semplice motivo. Di più: per una serie di “semplici” motivi. In questo post, Gentile Pintore, Lei omette un piccolo particolare: io non ho mai affermato, e men che meno scritto, che “l’orripilante e proto sinaitico ‘kontiphizzadore’” fosse contenuto nell’”Annuariu” in questione. Questa, infatti, è una Sua semplice constatazione che deriva da una Sua personalissima interpretazione.
In origine, infatti, la frase tanto oltraggiata avrebbe dovuto essere una palese e ironica chiusa. Detto questo: posto che Lei ha a cuore quella nobilissima creatura detta “Grammatica Italiana” – con annessa punteggiatura - vorrei farLe notare che il termine in oggetto ricade in un periodo compreso entro il virgolettato attribuito all’assessore regionale al Bilancio Eliseo Secci, cosa che Lei, da buon “Censore della Signora Grammatica” quanto della “Buona Critica Giornalistica” - della quale pretende di ergersi a sorvegliante - avrebbe per lo meno dovuto notare.
Una mancanza che da Professionista della matita rossa e blu si rivela quanto mai colpevolmente strumentale. Ma nella mia franca onestà, Le confesserò una cosa: la mancata chiusa delle virgolette è dovuta ad un banale refuso. Fatte queste precisazioni, quel che mi lascia basito è vedere come la critica all’impiego della “Limba” si risolva nell’approvazione di moti folklorici che nulla hanno a che vedere con la valorizzazione dei nostri Valori.
Si è creato – e questo volevo far intendere nel mio pezzo – un moto pseudo culturale a dir poco artificioso che crede, con certi canoni cari all’italianizzazione più ignorante, di promuovere la “Limba” e al contrario, non fa altro che ridicolizzare il suo infinito e profondo patrimonio. Per inciso, sull’origine ed esistenza del termine “kontiphizzadore”, e senza nulla togliere: più che a voi “Professionisti della Limba” io credo alla memoria di mia Nonna.
Che la “Limba”, appunto, non la studia e non la inventa alla bisogna: la parla. Per concludere: non posso che dirmi lusingato dall’editto bulgaro – in senso lato, ça va sans dire – che ha lanciato nei miei confronti, con la richiesta di un “delicatissimo” licenziamento in tronco, visto che sono stavolta sì, in nobilissima compagnia.
Le giuro che, d’ora in avanti, se mi dovesse capitare di leggere qualche Suo articolo, mi chiederò: “Ma le virgolette non le ha chiuse Lui di proposito o si tratta di un banale refuso?” Fino ad allora, Mi perdoni, mi fiderò di quanto è scritto. E, infine, Ella è sicura che Sua Nonna per dire contivizadore (o contipizadore o contibizadore) ricorresse alla “k” e al “ph”? O si tratta di una Sua personale vocazione a rendere illeggibile – e quindi inutilizzabile – il sardo? Consiglio, comunque, i lettori di leggere il Suo articolo, riprodotto in questo blog (gfp)
giovedì 13 novembre 2008
Sergio Romano e la non-nazione sarda
L'editorialista Sergio Romano risponde oggi sul Corriere della Seraa una breve lettera che qualche giorno fa gli avevo mandato. Questa la mia domanda:
"Caro Romano,
c'è una ragione per cui lei cita [in un articolo del 28 Ottobre, NdR] le nazioni degli altri Stati, Regno Unito e Spagna per esempio, e non quelle interne alla Repubblica italiana?
Quella sarda ebbe uno Stato (anzi quattro) fra il X e il XV secolo e anche dopo la conquista catalano-aragonese continuò ad essere la nació sardesca.
Vedo in giro, non so se anche in lei, una sorta di imbarazzo nel riconoscere l'esistenza della Nazione sarda, quasi che tale riconoscimento apra scenari kosovari e abkazi."
E questa la sua risposta:
"Nel caso di «nazione sarda» la parola risale a un periodo storico in cui le nazioni erano comunità etniche e linguistiche, ma parti integranti di Stati più grandi. Le ricordo che Parigi esiste dalla seconda metà del Seicento, il «Collège des Quatre Nations». Fu voluto dal cardinale Mazzarino per gli studenti delle quattro nazioni (Artois, Alsazia, Pignerol e catalani del Rousillon e della Cerdagne) che erano state annesse alla Francia dopo la Guerra dei Trent’anni.
La parola nazione ha cambiato significato nel corso dell’Ottocento ed è diventata, in molti Paesi, sinonimo di Stato.
Parlare di «nazione sarda» in questo senso sarebbe oggi sbagliato."
"Caro Romano,
c'è una ragione per cui lei cita [in un articolo del 28 Ottobre, NdR] le nazioni degli altri Stati, Regno Unito e Spagna per esempio, e non quelle interne alla Repubblica italiana?
Quella sarda ebbe uno Stato (anzi quattro) fra il X e il XV secolo e anche dopo la conquista catalano-aragonese continuò ad essere la nació sardesca.
Vedo in giro, non so se anche in lei, una sorta di imbarazzo nel riconoscere l'esistenza della Nazione sarda, quasi che tale riconoscimento apra scenari kosovari e abkazi."
E questa la sua risposta:
"Nel caso di «nazione sarda» la parola risale a un periodo storico in cui le nazioni erano comunità etniche e linguistiche, ma parti integranti di Stati più grandi. Le ricordo che Parigi esiste dalla seconda metà del Seicento, il «Collège des Quatre Nations». Fu voluto dal cardinale Mazzarino per gli studenti delle quattro nazioni (Artois, Alsazia, Pignerol e catalani del Rousillon e della Cerdagne) che erano state annesse alla Francia dopo la Guerra dei Trent’anni.
La parola nazione ha cambiato significato nel corso dell’Ottocento ed è diventata, in molti Paesi, sinonimo di Stato.
Parlare di «nazione sarda» in questo senso sarebbe oggi sbagliato."
Persino un raffinato e molto colto politogo come Romano, non resiste alla tentazione di eludere il problema, quando si trova di fronte alla contraddizione palese fra il riconoscimento di nazioni in stati europei come l'Inghilterra o come la Spagna e la negazione delle nazioni interne allo stato italiano. Nel suo articolo che ho ricordato egli ha scritto che "la Gran Bretagna è Stato o Regno Unito, mentre le nazioni sono l’Inghilterra, la Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord" e che "nella penisola iberica esistono le Spagne, vale a dire la Castiglia, la Catalogna, l’Aragona, la Galizia, l’Andalusia".
Anche la Repubblica italiana è formata da alcune nazioni, fra cui Sud Tirolo, Friuli, Val d'Aosta, Sardegna, mentre è dubbio - sostiene Sergio Salvi nel suo molto scomodo "L'Italia non esiste" - che ci sia una nazione Italia. Esiste sì lo Stato Italia, dal 17 marzo 1861 visto che fino ad allora esisteva lo Stato Sardegna, ma questo è un altro paio di maniche. Alla stessa maniera, esistevano fino alla ribellione franchista le nazioni catalana, basca, etc; poi non ci furono più per tutto il tempo della dittatura di Francisco Franco e riemersero alla sua morte.
Voglio dire che una nazione esiste di per sé, può essere riconosciuta o non riconosciuta dallo stato nel quale è compresa, ma non smette di esistere. In una cosa, Romano ha ragione: se si accetta l'inaccettabile coincidenza di stato e nazione "parlare di «nazione sarda» in questo senso sarebbe oggi sbagliato". Il fatto è che ad essere sbagliato, nel Regno unito, in Spagna come in Italia, è il sinonimo di stato e di nazione.
Detto questo, mi pare importante che nel maggiore quotidiano italiano, sia pure di straforo si comincino ad ospitare dubbi sulle certezze granitiche granditaliane.
mercoledì 12 novembre 2008
Prepariamoci ad altre "fabbriche bugiarde"
E così, a quanto pare, la Regione si prepara a spendere ancora una volta i nostri soldi per riparare ai guasti della fallimentare industrializzazione della Sardegna centrale e, soprattutto, dei ceti dirigenti, politici e sindacali, che quel tipo di industrializzazione hanno voluto e coccolato. La faccenda è questa: il governo sardo, dietro pressione dei sindacati, si appresta ad acquistare i capannoni di quelle che Ciccitu Masala chiamò "le fabbriche bugiarde". Ci sarà poi da disinquinare terreni che per anni e anni i sindacati, e con loro la Provincia di Nuoro, hanno giurato non erano inquinati.
Ricordo a chi avesse dimenticato (o non saputo) gli improperi che ricevettero quei pochi coraggiosi che a Ottana e paesi vicini andarono denunciando i disastri ambientali prodotti dalla petrolchimica di Ottana. Ricordo amici ottanesi che in torride notti d'estate erano costretti a dormire a finestre chiuse per la puzza insopportabile. Ricordo i pesci uccisi dagli scarichi nel Tirso. E ricordo con un qualche imbarazzo che spesso alcuni sindacalisti si sostituivano ai dirigenti della fabbrica nel negare, con fumanti comunicati e accuse di "antindustrialismo", la veridicità di quanto un comitato spontaneo di cittadini denunciava. Mettendo in evidenza come lasciassero molto a desiderare i controlli che le centraline della Provincia dovevano, per istituto, fare.
Avviata a morte la petrolchimica, ci fu una rincorsa a popolare di altre "fabbriche bugiarde" la piana di Ottana. Soldi pubblici a profusione per imprese la cui massima attività fu quella di aprire una casella postale a Ottana cui arrivavano lettere di aspiranti occupati mai nemmeno aperte. Nessuno ha mai pagato, né gli amministratori che sopportarono tutto questo né i sindacati che chiusero un occhio, fidando in una crescita dell'occupazione che non aveva alcuna possibilità di esservi.
Qualcuno, con una certa dose di enfasi (ma mica poi tanta), calcolò che con i soldi pubblici spesi in questa folle corsa all'industrializzazione, si sarebbero potute campare a vita molte migliaia di famiglie nei 47 paesi interessati. Il disastro economico, sociale e ambientale ha padri e padrini. Nessuno è stato chiamato a risponderne non dico penalmente (anche se in materia di inquinamento le leggi appaiono severe), ma neppure politicamente e amministrativamente.
La trovata del governo sardo è ora questa: facciamo finta di nulla, compriamo i capannoni dismessi e apriamoli ad altre avventure industriali. La speranza di lavoro è una buona matrice di voti, si sa. Ed è l'ultima a morire, in questo deserto che è diventata la Sardegna centrale.
Ricordo a chi avesse dimenticato (o non saputo) gli improperi che ricevettero quei pochi coraggiosi che a Ottana e paesi vicini andarono denunciando i disastri ambientali prodotti dalla petrolchimica di Ottana. Ricordo amici ottanesi che in torride notti d'estate erano costretti a dormire a finestre chiuse per la puzza insopportabile. Ricordo i pesci uccisi dagli scarichi nel Tirso. E ricordo con un qualche imbarazzo che spesso alcuni sindacalisti si sostituivano ai dirigenti della fabbrica nel negare, con fumanti comunicati e accuse di "antindustrialismo", la veridicità di quanto un comitato spontaneo di cittadini denunciava. Mettendo in evidenza come lasciassero molto a desiderare i controlli che le centraline della Provincia dovevano, per istituto, fare.
Avviata a morte la petrolchimica, ci fu una rincorsa a popolare di altre "fabbriche bugiarde" la piana di Ottana. Soldi pubblici a profusione per imprese la cui massima attività fu quella di aprire una casella postale a Ottana cui arrivavano lettere di aspiranti occupati mai nemmeno aperte. Nessuno ha mai pagato, né gli amministratori che sopportarono tutto questo né i sindacati che chiusero un occhio, fidando in una crescita dell'occupazione che non aveva alcuna possibilità di esservi.
Qualcuno, con una certa dose di enfasi (ma mica poi tanta), calcolò che con i soldi pubblici spesi in questa folle corsa all'industrializzazione, si sarebbero potute campare a vita molte migliaia di famiglie nei 47 paesi interessati. Il disastro economico, sociale e ambientale ha padri e padrini. Nessuno è stato chiamato a risponderne non dico penalmente (anche se in materia di inquinamento le leggi appaiono severe), ma neppure politicamente e amministrativamente.
La trovata del governo sardo è ora questa: facciamo finta di nulla, compriamo i capannoni dismessi e apriamoli ad altre avventure industriali. La speranza di lavoro è una buona matrice di voti, si sa. Ed è l'ultima a morire, in questo deserto che è diventata la Sardegna centrale.
lunedì 10 novembre 2008
Passaparola alla Corte di Madrid
Un importatore sardo di linna pintada (in tinta unica), discreto scrittore con presunzione di essere il migliore, ha apparecchiato la Manifattura tabacchi di Cagliari per un incontro di teste d'uovo italiane, offerte all'ammirazione dei nativi. Nativi che, salvo l'importatore, non hanno avuto l'onore di essere protagonisti dell'incontro. A rappresentarli, la sera prima, una gara di poesia e un tenore, a significare che la Sardegna, se togli la poesia e il canto, entrambi tradizionali, non produce nient'altro in fatto di cultura, salvo l'importatore naturalmente.
Con un buon senso del marketing, ha messo nel cartellone due nomi di grande richiamo, pur sapendo che non avrebbero varcato il mare. Il coraggioso Roberto Saviano, esibito come primo difensore della legalità e quel gentiluomo di Andrea Camilleri che di una giovane signora, ministro pro tempore, ha detto che "non è un essere umano".
"Si pensi" ha detto al nostro importatore di linna pintada (in tinta unica) parlando della potenza della parola "alle parolacce e alle offese tra due persone. Un tempo avrebbero causato conseguenze enormi, oggi scivolano". Appunto. Il festival del nostro importatore non è l'unico in Sardegna a considerare i nativi semplici spettatori di incontri fra persone di cultura e, al più, fornitori di ottimo cannonau, buon formaggio, incapaci, però, di produrre cultura se non nel passato remoto. O al massimo, oggi, nella lingua dello Stato, quella che per l'appunto usano gli ospiti e gli importatori di linna pintada.
Finché fra gli sponsor continuerà ad esserci la Regione, che pure si proclama difensora della identità sarda, ci sarà ben poco da fare. E dovremo assistere al dialogo fra principi alla Corte di Madrid, con la facoltà concessaci di schierarci con questo o con quel don. Io sento un po' di vergogna, e voi?
Con un buon senso del marketing, ha messo nel cartellone due nomi di grande richiamo, pur sapendo che non avrebbero varcato il mare. Il coraggioso Roberto Saviano, esibito come primo difensore della legalità e quel gentiluomo di Andrea Camilleri che di una giovane signora, ministro pro tempore, ha detto che "non è un essere umano".
"Si pensi" ha detto al nostro importatore di linna pintada (in tinta unica) parlando della potenza della parola "alle parolacce e alle offese tra due persone. Un tempo avrebbero causato conseguenze enormi, oggi scivolano". Appunto. Il festival del nostro importatore non è l'unico in Sardegna a considerare i nativi semplici spettatori di incontri fra persone di cultura e, al più, fornitori di ottimo cannonau, buon formaggio, incapaci, però, di produrre cultura se non nel passato remoto. O al massimo, oggi, nella lingua dello Stato, quella che per l'appunto usano gli ospiti e gli importatori di linna pintada.
Finché fra gli sponsor continuerà ad esserci la Regione, che pure si proclama difensora della identità sarda, ci sarà ben poco da fare. E dovremo assistere al dialogo fra principi alla Corte di Madrid, con la facoltà concessaci di schierarci con questo o con quel don. Io sento un po' di vergogna, e voi?
domenica 9 novembre 2008
Crìticas eja, fàulas nono
A Francu Pilloni, iscritore dèghidu e de gabale e òmine meda mègius de su chi cumparit in s’artìculu suo. Francu, amigu meu, a ti torrare a nàrrere chi sa Lsc no est su mustangone chi tue imàginas est tempus pèrdidu. Tue ses cumbintu chi si tratat de una gasta de lege imperada cun su busile e pesso chi non t’at a cumbìnchere chi gasi no est mancu su fatu chi tue sighis a iscrìvere e a faveddare comente cheres. E chi in su Sàrrabus sighint a faveddare su sarrabesu, in Marmidda su marmiddesu, in Baronia su baroniesu.
Deus bardet, b’at a chie pessat chi su Sole girat a in ghìriu de sa Terra (chi est unu paris pratu, dae uve si nche podet rùghere a su bòidu nigheddu de su nudda) e nd’ant àsiu issentzidos e satellites a contare s’incontràriu: nemos los at a pòdere cumbìnchere. E però e però... Si podet mai contare fàulas che a sas chi ispartinas tue? Tue naras chi sa tancada de s’Ufìtziu de sa limba sarda de Aristanis no “est che su cumenzu de is cosas, poita a is cittadinus de Aristanis e de is biddas sa LSC no ddis est mai pracia, ca no ddis appartenit: dd'hanti supportada comenti si supportat una contravvenzioni, candu ddis arribat a domu, ca tanti, mancai grammonisti a boxi arta, nemus ti scurtat”.
Unu poeta che a tie podet finas bisare, ma devet ischire chi unu contu sunt sos bisos e àtera cupa sunt sas cosas reales. Tue pessas chi, essende beru su chi naras de “is cittadinus de Aristanis e de is biddas”, 88 comunas de 88 de sa Provìntzia aiant atzetadu de intrare a sos progetos de s’ufìtziu? E sunt contràrias finas sas biddas chi faveddant sa limba sarda isseberada comente comuna? Ajò. Cumprendo totu, ma chi unu che a tie fagat “disinformatsia” bastante de bastare s’obietivu suo, custu nono. E in prus, cale est s’obietivu tuo? De isciusciai totu?
Ma b’at una cosa prus infadosa puru in s’iscritu tuo: sa de pessare chi siat una cosa galana ca rughet sa Lsc cudda operatzione polìtica pagu crara, in uve unu pessu feu de s’Istadu si mesturat cun s’idea de su guvernu sardu chi prus una cosa est peius mègius l’andat politicamente. E Deus bardet si paris cun sa Lsc s’isperdent postos de traballu e est in pòntima sa prospetiva de una limba sarda non prus folclorica e tribale si non natzionale.
Ma non b’at de si pònnere parmos de lardu e de si la rìdere meda: Tore Cubeddu e Marinella Marras, paris cun sos àteros chi lis ant a pònnere fatu, ant pèrdidu su traballu, ma ne issos ne sos àteros (e si parva licet mancu deo) ant a pònnere in su cadassu s’idea de una limba sarda natzionale, in uve totu sos limbàgios tenent sa matessi dinnidade comente li deghet a sa limba de unu pòpulu, una e non 378.
Deus bardet, b’at a chie pessat chi su Sole girat a in ghìriu de sa Terra (chi est unu paris pratu, dae uve si nche podet rùghere a su bòidu nigheddu de su nudda) e nd’ant àsiu issentzidos e satellites a contare s’incontràriu: nemos los at a pòdere cumbìnchere. E però e però... Si podet mai contare fàulas che a sas chi ispartinas tue? Tue naras chi sa tancada de s’Ufìtziu de sa limba sarda de Aristanis no “est che su cumenzu de is cosas, poita a is cittadinus de Aristanis e de is biddas sa LSC no ddis est mai pracia, ca no ddis appartenit: dd'hanti supportada comenti si supportat una contravvenzioni, candu ddis arribat a domu, ca tanti, mancai grammonisti a boxi arta, nemus ti scurtat”.
Unu poeta che a tie podet finas bisare, ma devet ischire chi unu contu sunt sos bisos e àtera cupa sunt sas cosas reales. Tue pessas chi, essende beru su chi naras de “is cittadinus de Aristanis e de is biddas”, 88 comunas de 88 de sa Provìntzia aiant atzetadu de intrare a sos progetos de s’ufìtziu? E sunt contràrias finas sas biddas chi faveddant sa limba sarda isseberada comente comuna? Ajò. Cumprendo totu, ma chi unu che a tie fagat “disinformatsia” bastante de bastare s’obietivu suo, custu nono. E in prus, cale est s’obietivu tuo? De isciusciai totu?
Ma b’at una cosa prus infadosa puru in s’iscritu tuo: sa de pessare chi siat una cosa galana ca rughet sa Lsc cudda operatzione polìtica pagu crara, in uve unu pessu feu de s’Istadu si mesturat cun s’idea de su guvernu sardu chi prus una cosa est peius mègius l’andat politicamente. E Deus bardet si paris cun sa Lsc s’isperdent postos de traballu e est in pòntima sa prospetiva de una limba sarda non prus folclorica e tribale si non natzionale.
Ma non b’at de si pònnere parmos de lardu e de si la rìdere meda: Tore Cubeddu e Marinella Marras, paris cun sos àteros chi lis ant a pònnere fatu, ant pèrdidu su traballu, ma ne issos ne sos àteros (e si parva licet mancu deo) ant a pònnere in su cadassu s’idea de una limba sarda natzionale, in uve totu sos limbàgios tenent sa matessi dinnidade comente li deghet a sa limba de unu pòpulu, una e non 378.
venerdì 7 novembre 2008
Sa Lsc non mi pracit, ma mancu sa serrada de is Uls
de Francu Pilloni
Caru Zuannefranziscu,
ti scriu poita hapu liggiu su post tuu e cussu de Tore Cubeddu asuba de is Uffizius de sa Lingua Sarda chi funti serrendi apetotu.
Gei scis ca deu no seu po sa LSC; dd'hapu nau e scrittu in donnia occasioni chi hapu pozziu, ma custu no mi portat a essi cuntentu de sa serrada de is Uffizius.
Tore in particulari scrit in modu ammirevuli de custa situazioni, cun is accentus de tragedia grega, cun immaginis suggestivas de ominis chi s'appiccheddant a fatiga costa costa e punta a susu, accapiaus a pari in unu distinu cumunu.
M'hat fattu beni a conca is fueddus de un'amigu candu si fut sciusciada s'Unioni Sovietica: no si donàt paxi ca no sciat a chini ghettai sa curpa ( a parti s'imperialismu, si cumprendit!). A s'acabu hiat concludiu chi hiat sballiau sa Storia e no is cumandantis de sa revoluzioni proletaria.
E sballiànt puru is proletarius, diventaus de sa dì a s'atera cittadinus individualistas, de “massa” chi fuant istetius finzas a su merì primu, datu chi fuant andaus in prazza po acclamai sa controrivoluzioni.
Po mimi custu no est che su cumenzu de is cosas, poita a is cittadinus de Aristanis e de is biddas sa LSC no ddis est mai pracia, ca no ddis appartenit: dd'hanti supportada comenti si supportat una contravvenzioni, candu ddis arribat a domu, ca tanti, mancai grammonisti a boxi arta, nemus ti scurtat.
E Tore ind'hat intendiu de grammoris contras a custa LSC, finzas in Masuddas e in aterus logus, ma totus hanti fattu finta de no intendi, ca sa bia fut tallada de chini prus podiat e de chini ddi parriat chi cumprendiat prus de is aterus.
Est, fadendi is contus, un'imbrunchinu po sa lingua sarda. Asube de custu no inc'est duda peruna.
E un'atera cosa puru st segura: is talebanus de sa LSC no portant origas: no funti comente cuddu rei chi no fut “insensibilis a is prantus chi si pesant de su populu”, ma si cumpurtant cumente meurras chi hant ammascau su lazzu.
Caru Zuannefranziscu, si scit chi su lazzu, hoi o cras, ti cassat su zugu. No ddu podis ammascai in eternu.
Tenidì a contu.
Caru Zuannefranziscu,
ti scriu poita hapu liggiu su post tuu e cussu de Tore Cubeddu asuba de is Uffizius de sa Lingua Sarda chi funti serrendi apetotu.
Gei scis ca deu no seu po sa LSC; dd'hapu nau e scrittu in donnia occasioni chi hapu pozziu, ma custu no mi portat a essi cuntentu de sa serrada de is Uffizius.
Tore in particulari scrit in modu ammirevuli de custa situazioni, cun is accentus de tragedia grega, cun immaginis suggestivas de ominis chi s'appiccheddant a fatiga costa costa e punta a susu, accapiaus a pari in unu distinu cumunu.
M'hat fattu beni a conca is fueddus de un'amigu candu si fut sciusciada s'Unioni Sovietica: no si donàt paxi ca no sciat a chini ghettai sa curpa ( a parti s'imperialismu, si cumprendit!). A s'acabu hiat concludiu chi hiat sballiau sa Storia e no is cumandantis de sa revoluzioni proletaria.
E sballiànt puru is proletarius, diventaus de sa dì a s'atera cittadinus individualistas, de “massa” chi fuant istetius finzas a su merì primu, datu chi fuant andaus in prazza po acclamai sa controrivoluzioni.
Po mimi custu no est che su cumenzu de is cosas, poita a is cittadinus de Aristanis e de is biddas sa LSC no ddis est mai pracia, ca no ddis appartenit: dd'hanti supportada comenti si supportat una contravvenzioni, candu ddis arribat a domu, ca tanti, mancai grammonisti a boxi arta, nemus ti scurtat.
E Tore ind'hat intendiu de grammoris contras a custa LSC, finzas in Masuddas e in aterus logus, ma totus hanti fattu finta de no intendi, ca sa bia fut tallada de chini prus podiat e de chini ddi parriat chi cumprendiat prus de is aterus.
Est, fadendi is contus, un'imbrunchinu po sa lingua sarda. Asube de custu no inc'est duda peruna.
E un'atera cosa puru st segura: is talebanus de sa LSC no portant origas: no funti comente cuddu rei chi no fut “insensibilis a is prantus chi si pesant de su populu”, ma si cumpurtant cumente meurras chi hant ammascau su lazzu.
Caru Zuannefranziscu, si scit chi su lazzu, hoi o cras, ti cassat su zugu. No ddu podis ammascai in eternu.
Tenidì a contu.
giovedì 6 novembre 2008
Quelli che la Sardegna è "pane e pecora"
di Andrea Crisponi
Caro Gianfranco,
il tuo commento è quanto mai condivisibile. Noto che da un lato tante porte si stanno aprendo e dall'altro se ne chiudono altrettante. Risultato: siamo sempre punto e a capo. Da che mondo è mondo, al di là degli studi scientifici che stanno a monte, una lingua bisogna parlarla, per parlarla leggerla, come anche per capirla. La parola scritta poi, rafforza il pensiero perchè non si disperde ma, anzi, si conserva e si preserva evolvendosi.
Ciò che più mi porta a riflettere ora che sto fuori dalla nostra cara Sardegna, non è il rapporto che instauro con i ragazzi stranieri, con i docenti, ma sono le conversazioni che intavolo con altri ragazzi miei coetanei "continentali". Quella sorta di timore reverenziale, che qualche volta ci trasciniamo dietro come un pesante fardello, perde tutto il suo peso quando si ha a che fare con i luoghi comuni, con gli stereotipi. C'è chi, e sono tanti, pensa ancora che in Sardegna si cresca a "pane e pecora", che siamo tutti felici di essere leader nel Mediterraneo in quanto meta turistica (colonia direi io) di certi esponenti del mondo dello spettacolo o dello star system internazionale; c'è poi chi si rivolge ai "sardi" usando una retorica che si maschera di una mal celata ironia.
Ovviamente generalizzo, talvolta amo farlo contraddicendo chi, alla ricerca di spiegazioni specifiche e ineluttabili perde di vista una ipotetica quaestio, ma noto con rammarico che la subordinazione culturale è drammaticamente palese. Per contro, è sempre piacevole rispondere alle illazioni o alla spicciola ironia con la cultura: e noto con piacere ammutolire tanti "continentali" che forse si stupiscono del fatto che in Sardegna i libri circolino e qualcuno si appassioni e li capisca.
Forse, dirai, Andrea è permaloso e non comprende un certo umorismo campanilista; può darsi. Mi piacerebbe soltanto che la nostra lingua e la nostra cultura venissero considerati "altri", per tanti motivi, rispetto all'amalgama coatta riscontrabile in buona parte della penisola; mi piacerebbe che l'immagine della Sardegna non venisse accostata ai salumi, ai formaggi ed alle sagre paesane. Tutto questo è avvenuto sinora, nel recente passato, ma è bene rivendicare in qualche modo una nuova posizione che assumiamo in Europa e nel Mediterraneo grazie anche all'Università, alla ricerca (non è il momento migliore per chiamarle in causa, ne sono cosciente)che necessiterebbero una attenta revisione sia per quanto riguarda gli esuberi, sia per le discipline da insegnare in Sardegna, facendo attenzione a cosa possono offrire gli studenti sardi alla loro terra. Anche questo significherebbe dare un taglio a molti corsi che si tengono per formare nuovi migranti in fuga dalla propria terra.
E' solo una banale riflessione, confido nella tua accogliente ospitalità.
A menzus biere,
Caro Gianfranco,
il tuo commento è quanto mai condivisibile. Noto che da un lato tante porte si stanno aprendo e dall'altro se ne chiudono altrettante. Risultato: siamo sempre punto e a capo. Da che mondo è mondo, al di là degli studi scientifici che stanno a monte, una lingua bisogna parlarla, per parlarla leggerla, come anche per capirla. La parola scritta poi, rafforza il pensiero perchè non si disperde ma, anzi, si conserva e si preserva evolvendosi.
Ciò che più mi porta a riflettere ora che sto fuori dalla nostra cara Sardegna, non è il rapporto che instauro con i ragazzi stranieri, con i docenti, ma sono le conversazioni che intavolo con altri ragazzi miei coetanei "continentali". Quella sorta di timore reverenziale, che qualche volta ci trasciniamo dietro come un pesante fardello, perde tutto il suo peso quando si ha a che fare con i luoghi comuni, con gli stereotipi. C'è chi, e sono tanti, pensa ancora che in Sardegna si cresca a "pane e pecora", che siamo tutti felici di essere leader nel Mediterraneo in quanto meta turistica (colonia direi io) di certi esponenti del mondo dello spettacolo o dello star system internazionale; c'è poi chi si rivolge ai "sardi" usando una retorica che si maschera di una mal celata ironia.
Ovviamente generalizzo, talvolta amo farlo contraddicendo chi, alla ricerca di spiegazioni specifiche e ineluttabili perde di vista una ipotetica quaestio, ma noto con rammarico che la subordinazione culturale è drammaticamente palese. Per contro, è sempre piacevole rispondere alle illazioni o alla spicciola ironia con la cultura: e noto con piacere ammutolire tanti "continentali" che forse si stupiscono del fatto che in Sardegna i libri circolino e qualcuno si appassioni e li capisca.
Forse, dirai, Andrea è permaloso e non comprende un certo umorismo campanilista; può darsi. Mi piacerebbe soltanto che la nostra lingua e la nostra cultura venissero considerati "altri", per tanti motivi, rispetto all'amalgama coatta riscontrabile in buona parte della penisola; mi piacerebbe che l'immagine della Sardegna non venisse accostata ai salumi, ai formaggi ed alle sagre paesane. Tutto questo è avvenuto sinora, nel recente passato, ma è bene rivendicare in qualche modo una nuova posizione che assumiamo in Europa e nel Mediterraneo grazie anche all'Università, alla ricerca (non è il momento migliore per chiamarle in causa, ne sono cosciente)che necessiterebbero una attenta revisione sia per quanto riguarda gli esuberi, sia per le discipline da insegnare in Sardegna, facendo attenzione a cosa possono offrire gli studenti sardi alla loro terra. Anche questo significherebbe dare un taglio a molti corsi che si tengono per formare nuovi migranti in fuga dalla propria terra.
E' solo una banale riflessione, confido nella tua accogliente ospitalità.
A menzus biere,
mercoledì 5 novembre 2008
Lingua sarda e disinformatsia
Tal Pablo Sole, un birbantello che deve aver mangiato pane e disinformatsia fin dall'infanzia, scrive oggi un articolo contro l'iniziativa dell'Ufficio regionale della lingua sarda di diffondere s'Annuàriu de su contribuente 2008. Per vostro godimento, troverete l'articolo integrale della Nuova Sardegna qui sotto: vale la pena di leggerlo.
Liberissimo, il birbantello, di criticare, ci mancherebbe altro, l'iniziativa e persino di ritenere che i suoi risultati "risultino a volte grotteschi". Ma da briccone si trasforma in estortore della buona fede dei suoi lettori quando, non riuscendo a mostrare i risultati che risultano (non gli va bene il sardo, che almeno rispetti l'italiano) "grotteschi", se li inventa di sana pianta.
Scrive: "Se la lettura dell’annuario dovesse alimentare qualche dubbio, basta rivolgersi al proprio “kontiphizzadore”. Che in logudorese significa più o meno “commercialista”." Quell'orripilante e protosinaitico “kontiphizzadore” nel testo dell'annuario non esiste, come non esiste in sardo. Ai miei tempi, un giornalista che si fosse comportato in modo tanto truffaldino, sarebbe stato licenziato in tronco.
Liberissimo, il birbantello, di criticare, ci mancherebbe altro, l'iniziativa e persino di ritenere che i suoi risultati "risultino a volte grotteschi". Ma da briccone si trasforma in estortore della buona fede dei suoi lettori quando, non riuscendo a mostrare i risultati che risultano (non gli va bene il sardo, che almeno rispetti l'italiano) "grotteschi", se li inventa di sana pianta.
Scrive: "Se la lettura dell’annuario dovesse alimentare qualche dubbio, basta rivolgersi al proprio “kontiphizzadore”. Che in logudorese significa più o meno “commercialista”." Quell'orripilante e protosinaitico “kontiphizzadore” nel testo dell'annuario non esiste, come non esiste in sardo. Ai miei tempi, un giornalista che si fosse comportato in modo tanto truffaldino, sarebbe stato licenziato in tronco.
Ecco l'articolo:
Il fisco vuole diventare più umano e ora parla in sardo
L’Agenzia delle entrate pubblica il primo «Annuariu de su contribuente»
PABLO SOLE
CAGLIARI. Il fisco ‹‹dal volto più umano››, come l’ha definito il direttore regionale dell’Agenzia entrate Guglielmo Montone, passa da “su codighe Pin” e dal “calasciu fiscale”. Senza scordare la “prenotatzione telefonica pro essere torrados a cramare” - per gli addetti ai lavori: web e voice call back - o “su tzentru de assistentzia multicanale”. Tutte perle pescate nel mare della “Limba sarda comuna” e riversate nell’”Annuariu de su contribuente 2008”, presentato ieri e commissionato dall’Agenzia delle entrate. L’adattamento dal testo italiano è firmato da “S’ufitziu de sa limba sarda”, la creatura della Regione nata col compito di promuovere la conoscenza e l’uso della “lingua dei Padri”. Ma i tempi cambiano e bisogna adattarsi. Seppure i risultati risultino a volte grotteschi. In poco meno di 200 pagine, “S’annuariu” passa dal capitolo dedicato ai “Servitzios telematicos” fino alla “partida Iva e cumentzu atividade”, passando per “alicuotas e detratziones Irpef”, “tassatzione de sas rendas finantziarias”, “santziones tributarias penales e non penales”. Ma visto che si parla di uno strumento pensato per rendere tutto più chiaro e accessibile ‹‹anche allo strato più umile della popolazione››, come ricordato dallo stesso Montone, non mancano neppure le indicazioni dedicate ai più distratti su “comente ponnere remediu a faddinas e ismentigos”. In una parola: “Su ravedimentu”. ‹‹L’annuario - ha aggiunto Montone - concentra in 25 capitoli tutte le procedure, anche quelle più complicate, e le spiega all’utente in modo facile». Un esempio, tratto dalle disposizioni da osservare quando, contriti, si opta appunto per “su ravedimentu”: ‹‹Pro sos contribuentes Iva trimestrales chi depent majorare sas summas de versare de s’1 pro chentu, sos interessos legales e sa santzione reduida tocat de los calculare subra sa base de s’importu chi incluit cussas majoratzione››. Aggiunge Montone: ‹‹Da parte nostra, l’obiettivo è quello di essere vicini al contribuente, che nel contempo viene informato sui suoi diritti e doveri. Già da diverso tempo abbiamo attivato una serie di servizi che permette all’utenza di rapportarsi con i nostri uffici, e anche questa pubblicazione si inserisce in questa linea››. L’assessore al Bilancio Eliseo Secci spiega: ‹‹A partire dal boom economico, l’uso della lingua sarda è venuto sempre meno. Occorre recuperarlo, e in questo senso va anche la legge regionale che promuove l’utilizzo della “limba” nella pubblica amministrazione. Ma quale “limba”? Ogni territorio rivendica il suo primato. Se la lettura dell’annuario dovesse alimentare qualche dubbio, basta rivolgersi al proprio “kontiphizzadore”. Che in logudorese significa più o meno “commercialista”.
martedì 4 novembre 2008
Sunt tanchende sos Ufìtzios de sa limba
de Tore Cubeddu
dae Diariulimba
Dae su 2001 a oe, dae sa nàschida de s’Ufìtziu de sa Limba Sarda de sa Provìntzia de Nùgoro a sa nàschida de prus de 150 Ufìtzios comunales, de sos Ufìtzios provintziales e de s’Ufìtziu regionale, medas cosas sunt capitadas e fortzis pro unu momentu amus pentzadu, illudende•nos, ca fiat nàschida sa polìtica linguistica sarda; una polìtica linguìstica noa, mancari difìtzile, a bortas polèmica, ma forte, presente, fata dae pitzinnos e sustènnida dae sos polìticos e dae sa gente; amus pentzadu de èssere lòmpidos in pitzu a su monte, a pustis de annos chi fiamus camminende in pigada, acapiados a una fune, s’unu a s’àteru, comente sos alpinos, agiudende•nos.
Pagu tontos!
No nos semus acatados ca cussu giassu unu pagu iscamapiadu in logu pranu in ue nos fiamus frimados no fiat sa chima de cussu monte. No amus mai pesadu sos ogos a castiare, no nos semus acatados ca su camminu sighiat.
Sa chima fiat solu in sas bisiones nostras.
Est custa sa beridade. Ca si aiamus abadiadu bene, nos fiamus acatados ca sa chima fiat cuada dae sas nues. Nues, nèbide, solu custu. Su chelu asulu fiat una illusione e a pustis est sutzèdida sa peus cosa. Comente capitat a sos bios, s’illusione s’est mudada in seguresa, seguresa de unu traballu, seguresa chi sa Sardigna fiat cambiende, chi aiat pigadu cussèntzia de sa limba, de s’ìstoria, de sa richesa culturale sua.
Pagu tontos!
Amus pentzadu chi candu s’Istadu, chi in custos annos at bogadu prus de 11 miliones de Euros pro nos fàghere giogare a fàghere sos sardos “sardoparlanti”, aiat serradu sos grifones, sos polìticos nostros e sa gente aiant pretèndidu de sighire, de no si frimare. «Bravi, avanti così».
Invetzes, in s’annu 2008, calchi unu ingunis in artu at tzèdidu e issaras totu nois, chi fiamus acapiados a cussa fune (sos “alpinos”) semus rutos torra a badde. Oe pentzo chi fortzis cussa fune no fiat acapiada a nemos, a tirare no fiat unu òmine o una fèmina, fiat cussu bisu, cuss’illusione a nos tragare, faghende•nos pèrdere su cabodo, sa diretzione.
Dae su 2001 a oe medas cosas sunt capitadas. Sa lege regionale 26/97 est passada a sas Provìntzias e cussas pagas cosas chi si faghiant a primora pro su sardu in sas iscolas e sos comunes no si faghent prus, ca su dinare s’est pèrdidu “nella notte in cui tutte le vacche sono nere”. Sa Lege 482/99, isperimentale e pagu adata a chistire sa situatzione de una minoria chi est majoria, at finidu s’ispinta rivolutzionària sua. Sa lege 133/2008 e sos bisos nostros ant fatu su chi ancora mancada, ghetande•nos a terra, in cussa badde prena de gente cun meda bisos e paga isperàntzia.
Oe peroe est sutzèdida una cosa. Dae su logu prus ispèrdidu de sa badde in ue seo rutu, apu pesadu sos ogos e apu bistu ca sa chima de su monte est ancora atesu meda, ca est annuada, ma mi seo abadiadu sos chintzos e mi seo acatadu ca cussa fune chi m’acapiaiat a sos àteros chi ant divididu e ancora sunt dividende cun megus custu fadu no s’est segada. Issaras oe pentzo ca custa est s’ora de torrare a pigare a monte, cun cussèntzia, ischidende ca sa situatzione est custa, ca sa chima pro como est atesu meda, frita e annuada, ma tocat a nois a tirare, ca est su tempus nostru.
Depimus fàghere a cumprèndere a sa gente su chi semus faghende, depimus imparare a comunicare, depimus èssere nois a fàghere serrare su grifone a chie in custos annos at aprofitadu de nois e campadu in palas a sa limba in manera fascista («Oh, che bello il dialetto sardo. Ah, vedo che lo parla anche con suo figlio, e la capisce?»), faghende•dda isfilare dividida, catalogada e archiviada comente sos grupos folk in Sant’Efis. Depimus pretèndere una lege. Depimus èssere nois sos meres de su destinu nostru.
dae Diariulimba
Dae su 2001 a oe, dae sa nàschida de s’Ufìtziu de sa Limba Sarda de sa Provìntzia de Nùgoro a sa nàschida de prus de 150 Ufìtzios comunales, de sos Ufìtzios provintziales e de s’Ufìtziu regionale, medas cosas sunt capitadas e fortzis pro unu momentu amus pentzadu, illudende•nos, ca fiat nàschida sa polìtica linguistica sarda; una polìtica linguìstica noa, mancari difìtzile, a bortas polèmica, ma forte, presente, fata dae pitzinnos e sustènnida dae sos polìticos e dae sa gente; amus pentzadu de èssere lòmpidos in pitzu a su monte, a pustis de annos chi fiamus camminende in pigada, acapiados a una fune, s’unu a s’àteru, comente sos alpinos, agiudende•nos.
Pagu tontos!
No nos semus acatados ca cussu giassu unu pagu iscamapiadu in logu pranu in ue nos fiamus frimados no fiat sa chima de cussu monte. No amus mai pesadu sos ogos a castiare, no nos semus acatados ca su camminu sighiat.
Sa chima fiat solu in sas bisiones nostras.
Est custa sa beridade. Ca si aiamus abadiadu bene, nos fiamus acatados ca sa chima fiat cuada dae sas nues. Nues, nèbide, solu custu. Su chelu asulu fiat una illusione e a pustis est sutzèdida sa peus cosa. Comente capitat a sos bios, s’illusione s’est mudada in seguresa, seguresa de unu traballu, seguresa chi sa Sardigna fiat cambiende, chi aiat pigadu cussèntzia de sa limba, de s’ìstoria, de sa richesa culturale sua.
Pagu tontos!
Amus pentzadu chi candu s’Istadu, chi in custos annos at bogadu prus de 11 miliones de Euros pro nos fàghere giogare a fàghere sos sardos “sardoparlanti”, aiat serradu sos grifones, sos polìticos nostros e sa gente aiant pretèndidu de sighire, de no si frimare. «Bravi, avanti così».
Invetzes, in s’annu 2008, calchi unu ingunis in artu at tzèdidu e issaras totu nois, chi fiamus acapiados a cussa fune (sos “alpinos”) semus rutos torra a badde. Oe pentzo chi fortzis cussa fune no fiat acapiada a nemos, a tirare no fiat unu òmine o una fèmina, fiat cussu bisu, cuss’illusione a nos tragare, faghende•nos pèrdere su cabodo, sa diretzione.
Dae su 2001 a oe medas cosas sunt capitadas. Sa lege regionale 26/97 est passada a sas Provìntzias e cussas pagas cosas chi si faghiant a primora pro su sardu in sas iscolas e sos comunes no si faghent prus, ca su dinare s’est pèrdidu “nella notte in cui tutte le vacche sono nere”. Sa Lege 482/99, isperimentale e pagu adata a chistire sa situatzione de una minoria chi est majoria, at finidu s’ispinta rivolutzionària sua. Sa lege 133/2008 e sos bisos nostros ant fatu su chi ancora mancada, ghetande•nos a terra, in cussa badde prena de gente cun meda bisos e paga isperàntzia.
Oe peroe est sutzèdida una cosa. Dae su logu prus ispèrdidu de sa badde in ue seo rutu, apu pesadu sos ogos e apu bistu ca sa chima de su monte est ancora atesu meda, ca est annuada, ma mi seo abadiadu sos chintzos e mi seo acatadu ca cussa fune chi m’acapiaiat a sos àteros chi ant divididu e ancora sunt dividende cun megus custu fadu no s’est segada. Issaras oe pentzo ca custa est s’ora de torrare a pigare a monte, cun cussèntzia, ischidende ca sa situatzione est custa, ca sa chima pro como est atesu meda, frita e annuada, ma tocat a nois a tirare, ca est su tempus nostru.
Depimus fàghere a cumprèndere a sa gente su chi semus faghende, depimus imparare a comunicare, depimus èssere nois a fàghere serrare su grifone a chie in custos annos at aprofitadu de nois e campadu in palas a sa limba in manera fascista («Oh, che bello il dialetto sardo. Ah, vedo che lo parla anche con suo figlio, e la capisce?»), faghende•dda isfilare dividida, catalogada e archiviada comente sos grupos folk in Sant’Efis. Depimus pretèndere una lege. Depimus èssere nois sos meres de su destinu nostru.
A unu a unu sunt tanchende sos ufìtzios de sa limba sarda. E totu a in ghìriu unu mudore chi ispantat. Ant a èssere ditzosos, ponendesi unu parmu de lardu, sos inimigos de sa limba e sos chi, sos meses colados, ant pesadu iscàndalu ca sos ufìtzios integraiant carchi istupendieddu (pagos chentu euros) a chie los tentaiant e manigiaiant. Sa còntiga est chi una lege de s'Istadu, sa finantziària, at truncadu sos finantziamentos. Una cosa fea, sa disposta de s'Istadu. Ma in cue si cheriat sa regione: una ocasione manna pro pesare contra a su guvernu italianu sos giòvanos de sos ufìtzios e sos amantiosos de sa limba sarda. E in cue si cheriant sas provìntzias sardas chi, b'at de pessare, ant postu dinare pro sa limba petzi ca giraiant a sos ufìtzios su dinare de s'Istadu. Regione e Provìntzias podiant sarvare sos ufìtzios e no l'ant fatu. Una ocasione pèrdida chi cheret posta in contu. (gfp)
domenica 2 novembre 2008
Ci sono altri mini-bronzetti? Tirateli fuori
di Silvio Pulisci
Sono stato di recente alla presentazione del libro su Tharros di G. Nieddu, presentazione avvenuta nella Sala Verde della Cittadella dei Musei di Cagliari. Dopo il convegno si è parlato, come spesso capita, anche d'altro e inevitabilmente il discorso è scivolato sul recente ritrovamento dei piedini di Maimoni di Cabras. Non sto ora a parlare di chi li ha contestati come appartenenti ad un bronzetto perchè persona molto nota per improvvisazione (comunque, è tra i non pochi che purtroppo, anche in ambiente qualificato, parlano senza vedere non solo senza sapere) e per lingua esageratamente biforcuta. Comunque, fa parte della democrazia ascoltare i pareri di tutti, persino quelli astiosi e scorretti perchè, così mi sembra, dettati da malanimo e da spinte di 'intzulladoris', come si dice dalle mie parti.
Quello che però non ho capito è se lo scritto riguardasse solo il parere dell'articolista o invece, come spesso in questo Blog, quello di archeologi con cui il soggetto si mostra in perfetta sintonia, soprattutto lo Stiglitz. Se così fosse sarebbe bene che gli archeologi si mostrassero d'accordo non solo su che cosa si pensi in generale dei reperti (ad esempio su quelli di Tzricotu: bizantini, longobardi, turco- mongolici? Matrici per linguelle? Per puntali di spade? Per fibbie di cinturoni?) ma se essi rivestano straordinaria importanza perchè pezzi unici oppure siano 'pezzi' che rientrano nella pura normalità.
Infatti, durante la discussione di Cagliari alla quale ero presente (e dove dicevo modestamente anche la mia, in quanto scopritore dell'oggetto insieme a Gigi Sanna), la dott. Donatella Salvi, davanti ad altri archeologi, alcuni dei quali si erano già chiaramente pronunciati sulla singolarità e cioè sulla piccolezza del bronzetto di tre cm appena, ha tenuto a precisare che i piedini del bronzetto di Maimoni non costituivano una novità in quanto lei stessa aveva visto bronzetti così piccoli altre volte e, più precisamente, delle figurine rappresentanti delle donne, forse sacerdotesse.
Io personalmente sono cascato dalle nuvole perchè credo di aver seguito abbastanza, come editore che ha pubblicato decine e decine di libri scientifici sull'archeologia (da quelli di S.Moscati, a quelli di G. Lilliu, di R. Zucca, della prof. Pani Ermini, ecc.ecc.) ma anche come appassionato da tanto tempo di questa materia storica. Infatti mai, dico mai, gli archeologi ci avevano parlato di una materia così straordinaria che sicuramente avrebbe attratto l'attenzione di molti, il rinvenimento di bronzetti di piccolissime dimensioni. O forse mi sbaglio? Lo stesso amico Momo Zucca che è il primo che mi ha telefonato complimentandosi della scoperta ha mostrato di non saperne proprio niente. E se non ne sa niente lui...
Anche qualificati professori di storia dell'arte, che sono intervenuti prontamente a commentare l'arte straordinaria dei nuragici nel saper forgiare oggetti così piccoli, hanno fatto capire di non saperne nulla circa una bronzettistica miniaturistica, in Sardegna o altrove, con immagini di persone. Ho provveduto a chiedere ad altri, archeologi e non, per sapere se mai in musei o nella letteratura, anche in quella specialistica archeologica, sarda e non, avessero visto dei bronzettini con piedini millimetrici come quelli di Maimoni. Tutti mi hanno risposto negativamente, senza tentennamenti.
Pertanto, poiché io non ho la minima riserva sul fatto che il pronunciamento di Donatella Salvi sia stato corretto e dettato dalla certezza di aver visto reperti come quelli di Maimoni, gradirei che la stessa o altri al suo posto ci rispondessero su questi quesiti: questi oggetti dove sono stati trovati? Dove sono custoditi e dove, eventualmente, sono stati pubblicati? E ancora: perchè alla notizia del rinvenimento nessun archeologo o funzionario della Sovrintendenza si è preso la briga di smentire, quanto ad originalità, le 'incaute' affermazioni mie e dello studioso Gigi Sanna sulle pagine della Nuova Sardegna, dell'Unione Sarda e del Blog di Gianfranco Pintore? In ogni caso, vorrei concludere con due mie umili osservazioni.
La prima. Ammesso e concesso pure che la dott. Salvi abbia visto altre immagini di bronzetti così piccole, risulta evidente che uno o due, paragonate ai mille e forse più bronzetti 'normali', lascerebbero comunque i piedini di Maimoni nella singolarità e nell'anormalità. E sarebbero un gran vanto dell'arte sarda nuragica e dell'arte della bronzistica di ogni tempo.
La seconda. Come mai nessuno, da quanto io so ed altri sanno, ha pubblicato immagini di bronzetti minuscoli (siriani, ittiti, palestinesi, greci ecc.), così come i piedini di Maimoni fanno intuire e quelli stessi 'visti' dalla dott. Salvi? Se putacaso nel mondo antico non se ne trovassero di così piccoli, l'eccezionalità di essi (magari di due o di tre e non di un solo bronzettino del Sinis) non verrebbe forze rafforzata?
Sono stato di recente alla presentazione del libro su Tharros di G. Nieddu, presentazione avvenuta nella Sala Verde della Cittadella dei Musei di Cagliari. Dopo il convegno si è parlato, come spesso capita, anche d'altro e inevitabilmente il discorso è scivolato sul recente ritrovamento dei piedini di Maimoni di Cabras. Non sto ora a parlare di chi li ha contestati come appartenenti ad un bronzetto perchè persona molto nota per improvvisazione (comunque, è tra i non pochi che purtroppo, anche in ambiente qualificato, parlano senza vedere non solo senza sapere) e per lingua esageratamente biforcuta. Comunque, fa parte della democrazia ascoltare i pareri di tutti, persino quelli astiosi e scorretti perchè, così mi sembra, dettati da malanimo e da spinte di 'intzulladoris', come si dice dalle mie parti.
Quello che però non ho capito è se lo scritto riguardasse solo il parere dell'articolista o invece, come spesso in questo Blog, quello di archeologi con cui il soggetto si mostra in perfetta sintonia, soprattutto lo Stiglitz. Se così fosse sarebbe bene che gli archeologi si mostrassero d'accordo non solo su che cosa si pensi in generale dei reperti (ad esempio su quelli di Tzricotu: bizantini, longobardi, turco- mongolici? Matrici per linguelle? Per puntali di spade? Per fibbie di cinturoni?) ma se essi rivestano straordinaria importanza perchè pezzi unici oppure siano 'pezzi' che rientrano nella pura normalità.
Infatti, durante la discussione di Cagliari alla quale ero presente (e dove dicevo modestamente anche la mia, in quanto scopritore dell'oggetto insieme a Gigi Sanna), la dott. Donatella Salvi, davanti ad altri archeologi, alcuni dei quali si erano già chiaramente pronunciati sulla singolarità e cioè sulla piccolezza del bronzetto di tre cm appena, ha tenuto a precisare che i piedini del bronzetto di Maimoni non costituivano una novità in quanto lei stessa aveva visto bronzetti così piccoli altre volte e, più precisamente, delle figurine rappresentanti delle donne, forse sacerdotesse.
Io personalmente sono cascato dalle nuvole perchè credo di aver seguito abbastanza, come editore che ha pubblicato decine e decine di libri scientifici sull'archeologia (da quelli di S.Moscati, a quelli di G. Lilliu, di R. Zucca, della prof. Pani Ermini, ecc.ecc.) ma anche come appassionato da tanto tempo di questa materia storica. Infatti mai, dico mai, gli archeologi ci avevano parlato di una materia così straordinaria che sicuramente avrebbe attratto l'attenzione di molti, il rinvenimento di bronzetti di piccolissime dimensioni. O forse mi sbaglio? Lo stesso amico Momo Zucca che è il primo che mi ha telefonato complimentandosi della scoperta ha mostrato di non saperne proprio niente. E se non ne sa niente lui...
Anche qualificati professori di storia dell'arte, che sono intervenuti prontamente a commentare l'arte straordinaria dei nuragici nel saper forgiare oggetti così piccoli, hanno fatto capire di non saperne nulla circa una bronzettistica miniaturistica, in Sardegna o altrove, con immagini di persone. Ho provveduto a chiedere ad altri, archeologi e non, per sapere se mai in musei o nella letteratura, anche in quella specialistica archeologica, sarda e non, avessero visto dei bronzettini con piedini millimetrici come quelli di Maimoni. Tutti mi hanno risposto negativamente, senza tentennamenti.
Pertanto, poiché io non ho la minima riserva sul fatto che il pronunciamento di Donatella Salvi sia stato corretto e dettato dalla certezza di aver visto reperti come quelli di Maimoni, gradirei che la stessa o altri al suo posto ci rispondessero su questi quesiti: questi oggetti dove sono stati trovati? Dove sono custoditi e dove, eventualmente, sono stati pubblicati? E ancora: perchè alla notizia del rinvenimento nessun archeologo o funzionario della Sovrintendenza si è preso la briga di smentire, quanto ad originalità, le 'incaute' affermazioni mie e dello studioso Gigi Sanna sulle pagine della Nuova Sardegna, dell'Unione Sarda e del Blog di Gianfranco Pintore? In ogni caso, vorrei concludere con due mie umili osservazioni.
La prima. Ammesso e concesso pure che la dott. Salvi abbia visto altre immagini di bronzetti così piccole, risulta evidente che uno o due, paragonate ai mille e forse più bronzetti 'normali', lascerebbero comunque i piedini di Maimoni nella singolarità e nell'anormalità. E sarebbero un gran vanto dell'arte sarda nuragica e dell'arte della bronzistica di ogni tempo.
La seconda. Come mai nessuno, da quanto io so ed altri sanno, ha pubblicato immagini di bronzetti minuscoli (siriani, ittiti, palestinesi, greci ecc.), così come i piedini di Maimoni fanno intuire e quelli stessi 'visti' dalla dott. Salvi? Se putacaso nel mondo antico non se ne trovassero di così piccoli, l'eccezionalità di essi (magari di due o di tre e non di un solo bronzettino del Sinis) non verrebbe forze rafforzata?
Gasi s'amparat sa limba sarda: tancadu s'Uls de Aristanis
dae Diariulimba
Andat bene chi cando si chistionat de limba est de importu a dare atentu a sos faeddos ca de custu est fata sa limba sarda: faeddos, allegas, paràulas. Ma un’àtera cosa sunt cussos faeddos a pitzu de sa limba chi non lompent a logu perunu, bonos petzi pro prenare sa buca sena nde bogare mancu ispera de cosa cuncreta, bandera de bogare petzi in pratza, “feticcio” pro incantare sa gente. E duncas sa provìntzia de Aristanis, una chi si pensaiat ghiada dae unu presidente chi naraiat chi bi creiat de a beru in sa chistione de su sardu, serrat totu cantu. “A ghirare!” Si diat dèpere nàrrere in sardu.
A pustis de sa provìntzia de Casteddu chi no at gastadu s’annualidade 2003 cun unu presidente chi s’est semper impinnadu pro sa sardidade, tocat como a sa terra de Arborea; s’imbentu de sos polìticos chi faeddant de limba ma chi posca non la ponent in pràtica sighit ismanniende, làstima. E custu cheret nàrrere chi b’at duos postos de traballu truncados e chi ant a sessare bator annos e mesu de fainas atzivas fatas dae sas duas pessones chi bi traballaiant cun aficu.
S'Ufìtziu de sa limba de sa provìntzia de Aristanis ghiadu dae Tore Cubeddu e Marinella Marras est resessidu a nche sortire prus de 80 comunas e a ispàrghinare unu cuntzetu de limba comuna chi pertocaiat a realidades chi si naraiant diferentes e chi intames cun unu protzessu de polìtica linguìstica abbista ant cumpresu sa balia de sa chistione de s’aunimentu. Sa pòlìtica si nd’est ammentada petzi cando l’est torradu a contu, fortzis, ma cando b’at àpidu de fàghere cussos sèberos polìticos fortes de bogare dae bugiaca dinari pro sa limba etotu, custa est abarrada petzi unu faeddu, un’allega, una paràula.
Sa chistione no est petzi chi serrat un’Ufìtziu provintziale, no est petzi chi b’ant duos traballadores in mancu chi su traballu l’ant fatu fintzas bene; bastat a ammentare de totu sos adòbios fatos fintzas in sas biddas prus minores de sa provìntzia tzerriende a pessones famadas in su mundu de sas minorias linguìsticas non petzi in Sardigna ma in totu Itàlia. Sa chistione est chi serrat un’Ufìtziu provintziale e chi l’at a sighire s’efetu dòmino in provìntzia matessi, cun operadores cualificados chi giai si preguntant cale ghia dat sa provìntzia a sas amministratziones de sas biddas in ue traballant. Su murrùngiu est ismanniende, sas dudas sunt semper de prus.
Nois, semper serentes a chie at traballadu bene meda in ie, serramus duncas cun una pregunta a sa provìntzia de Aristanis: sa limba est faeddu, ma cando est a colare a cosas fintzas prus cuncretas?
Andat bene chi cando si chistionat de limba est de importu a dare atentu a sos faeddos ca de custu est fata sa limba sarda: faeddos, allegas, paràulas. Ma un’àtera cosa sunt cussos faeddos a pitzu de sa limba chi non lompent a logu perunu, bonos petzi pro prenare sa buca sena nde bogare mancu ispera de cosa cuncreta, bandera de bogare petzi in pratza, “feticcio” pro incantare sa gente. E duncas sa provìntzia de Aristanis, una chi si pensaiat ghiada dae unu presidente chi naraiat chi bi creiat de a beru in sa chistione de su sardu, serrat totu cantu. “A ghirare!” Si diat dèpere nàrrere in sardu.
A pustis de sa provìntzia de Casteddu chi no at gastadu s’annualidade 2003 cun unu presidente chi s’est semper impinnadu pro sa sardidade, tocat como a sa terra de Arborea; s’imbentu de sos polìticos chi faeddant de limba ma chi posca non la ponent in pràtica sighit ismanniende, làstima. E custu cheret nàrrere chi b’at duos postos de traballu truncados e chi ant a sessare bator annos e mesu de fainas atzivas fatas dae sas duas pessones chi bi traballaiant cun aficu.
S'Ufìtziu de sa limba de sa provìntzia de Aristanis ghiadu dae Tore Cubeddu e Marinella Marras est resessidu a nche sortire prus de 80 comunas e a ispàrghinare unu cuntzetu de limba comuna chi pertocaiat a realidades chi si naraiant diferentes e chi intames cun unu protzessu de polìtica linguìstica abbista ant cumpresu sa balia de sa chistione de s’aunimentu. Sa pòlìtica si nd’est ammentada petzi cando l’est torradu a contu, fortzis, ma cando b’at àpidu de fàghere cussos sèberos polìticos fortes de bogare dae bugiaca dinari pro sa limba etotu, custa est abarrada petzi unu faeddu, un’allega, una paràula.
Sa chistione no est petzi chi serrat un’Ufìtziu provintziale, no est petzi chi b’ant duos traballadores in mancu chi su traballu l’ant fatu fintzas bene; bastat a ammentare de totu sos adòbios fatos fintzas in sas biddas prus minores de sa provìntzia tzerriende a pessones famadas in su mundu de sas minorias linguìsticas non petzi in Sardigna ma in totu Itàlia. Sa chistione est chi serrat un’Ufìtziu provintziale e chi l’at a sighire s’efetu dòmino in provìntzia matessi, cun operadores cualificados chi giai si preguntant cale ghia dat sa provìntzia a sas amministratziones de sas biddas in ue traballant. Su murrùngiu est ismanniende, sas dudas sunt semper de prus.
Nois, semper serentes a chie at traballadu bene meda in ie, serramus duncas cun una pregunta a sa provìntzia de Aristanis: sa limba est faeddu, ma cando est a colare a cosas fintzas prus cuncretas?