di Francesco Cesare Casula
Quando
il gravido Boing 747 pestò la pista bordata di lumini arancioni del National Airport e fece a gara con gli
altri aerei per guadagnarsi finalmente il terminale telescopico, entrambi erano
stremati da nove ore di volo transoceanico, via New York. Lei, elegantissima,
dritta come un fuso, occhieggiò la fine del segnale di fasten seat belts e schizzò via veloce col suo beuaty case davanti a tutti per arrivare prima ai rulli del bagage claim. Lui, più anziano, le tenne
dietro faticosamente nella trachea oscura del lungo tunnel d’uscita, gravato
dal borsone, dal borsello e dalla macchina fotografica: e fu quarto. Le loro
valigie arrivarono per ultime. Si guardarono in cagnesco, colpevolizzandosi a
vicenda.
Superato
il bailamme di immigrati centramericani con scatoloni legati a spago, le
vacanziere coppie di raffinati diplomatici con le mazze da golf, i garruli
gruppi di tosati militari in licenza coi bauli d’ordinanza, si diressero
traballanti verso la chiassosa stazione dei taxi e scodellarono in faccia a un
lucido negrone al volante la frase in inglese preparata da giorni: «State Plaza Hotel, please». Dovettero
mostrare l’indirizzo scritto a stampatello su un foglio, per farsi capire.
Sebbene
fossero le dieci di sera (10 p.m.), Washington D.C. – quella del District of Colombia, of course, non una
Washington qualsiasi degli Stati Uniti – era un forno. L’aria afosa e umida di
mezzo agosto incombeva come un sudario sulla cimiteriale distesa cittadina,
tutta parchi e monumenti spettrali illuminati a giorno coi vapori di mercurio.
Non si
parlarono mai durante il tragitto. Tesi a sopravvivere, cercavano di non
toccarsi e di non appoggiarsi al caldo sedile di vilpelle. Boccheggiando sui
finestrini aperti intuirono scorrere le nere acque del Potomac sotto il George
Mason Mamorial Bridge; colsero con occhi appannati il giallo malato dei radi
lampioni specchiarsi nel placido bacino del Tidal Basin; guardarono abbacchiati
le flaccide bandiere a guardia della vasca della Reflectin poll. E si odiarono.
Non era
un odio d’amore, come quello sano di due amanti che hanno esaurito la loro
esperienza e si vogliono male, ma quello di due avversari ancestrali, di due
acerrimi nemici parati a combattersi, a distruggersi, a cancellarsi dalla
faccia della Terra fino all’orgasmo.
Erano
due mondi allo scontro: a lui, nato in riva al mare, piacevano le triglie al
cartoccio; a lei, montanara, andavano i funghi trifolati. Non poteva esserci
intesa; semmai, un temporaneo armistizio a base di neutri hot dogs. Il tassista si fermò al 2117 della ESR.N.W., quasi
all’angolo con la 20 St., davanti ad un edificio basso, anonimo, riservato, che
sembrava più un circolo ricreativo che un albergo; infatti, più in là, c’era il
“The City’s Top Concody Club”.
La
prima impressione fu di turlupinatura, ed il risentimento ruggì nei loro animi;
poi, con l’occhio esercitato dei viaggiatori di mondo apprezzarono il tono
civettuolo della piccola hall stile
impero; e si calmarono.
La
registrazione fu rapida, a base di grugniti. Alla fine, ci fu una bruciante
interrogazione: «... haw do you pay?,
come pagate?» Lui colse subito il senso perché aveva studiato più di lei, e
rispose avventato: «For cash, in
contanti». Un lampo di disperazione attraversò la pupilla fioca del consierge e
gli s’irradiò fino alle mani che presero a tremare. Gli americani, è noto, non
conoscono il pallottoliere e non sanno contare le banconote oltre il dieci.
Lei,
perspicace come tutte le donne in fatto di denaro, gli diede una forte botta
sotto la pozza sudata delle ascelle e ringhiò: «Usa la carta di credito –
aggiungendo amabile – honey (miele)».
Lui capì e tirò fuori, con ostentazione, la sua Eurocard da 1.500.000 di lire it. (pari a circa 1.000 dollari
U.S.A.) come a dire: «Cosa credi? Che non ce l’ho?».
Di
fronte al colorato cartoncino di plastica il sorriso tornò a stamparsi sulla
terrea faccia anglosassone dell’uomo del banco.
«Ok?»
«Ok!»
«Occhei!»
Erano
le magiche parole di chiusura, quelle che sanzionano qualsiasi accordo o
trattato statunitense, dalla compravendita di noccioline allo smantellamento
dei Cruiser a medio e corto raggio e,
forse, anche dei missili intercontinentali.
Seguirono,
taccheggianti, il facchino negro – nero come un negro di Harlem – lungo i
lunghi corridoi del Blocco A; attraversarono con aria schifata il puzzolente garage for guests; imboccarono i
corridoi del Blocco B e, infine, levitarono con un ascensore musicale fino al
sesto piano, l’ultimo, da dove si vedeva la «wanderfull Washington after dark» con sopra le stelle avanzate
all’Union Jack (l’ignota bandiera americana a stelle e strisce).
I
denti del facchino se n’andarono, con tre one
dollar in più nelle tasche (mancia esagerata).
Finalmente
soli, nella lovely alcova refrigerata
per pinguini.
Si
scrutarono, per un istante eterno, nel fondo degli occhi:
«Non
vorrai spegnere il condizionatore!?»
«Non
vorrai lasciarlo acceso, spero!»
«Sì!»
«No!»
«Sì!»
«No!»
Era
la guerra fredda.
L’odio
si caricava e la furia montava nei petti rispettivamente gonfi di floride
mammelle appenniniche e di lunghi peli mediterranei; ma vinse ancora per poco
la trattativa privata: lui ricordò le sue spiagge assolate, lei dimenticò le
sue cime innevate e, insieme, s’accordarono per lo slow, la tacca al “minimo”. Quindi, si posero chi da una parte chi
dall’altra del grande letto a due piazze per disfare le valigie: un’operazione
rischiosa, piena di incognite e d’insidie interpretative. Ce l’avrebbero fatta?
Sarebbero giunti a vedere il fondo delle Samsonyte
senza incidenti?
Cominciarono
con la biancheria intima: una mutanda lui, una mutandina lei. Attenzione! C’era
subito una sproporzione. Lui sopravanzava di una spanna lo slippino di lei! Digrignarono
i denti, rotearono le pupille. Erano entrati, ormai, nello stato di
pre-belligeranza. Un reggiseno di lei riequilibrò la situazione e l’opera di
pavoneggiamento riprese cauta, cautissima.
Facevano
finta di nulla ma, in realtà, si controllavano a vicenda guardandosi in
sottecchi, esaminando, soppesando, valutando ogni capo tirato fuori
dall’avversario: pigiama di seta lui, negligé
col pizzo lei; canottiera di cotone lui, maglietta di lana lei; calzine corte
lui, collant sfilati lei.
Così,
pezzo dopo pezzo, erano arrivati ai vestiti. Ce n’era per ogni occasione e
momento: mattina, pranzo, pomeriggio; sportivi, mezza sera, gran gala;
scollati, attillati, sgambati; seri, castigati, audaci; frivoli, buffi,
provocanti.
Il casus belli scoppiò al momento di
sistemarli.
L’armadio
a muro, nell’antibagno che immette nel bagno (il quale, sia detto per inciso,
NON ha il bidé), conteneva solo
undici appendiabiti, detti in gergo grucce o anche omìni (in Toscana): cinque
per ciascuno più uno d’avanzo.
A chi
spettava? Chi lo doveva prendere?
«Io,
perché ho più abiti di te», fece lei scoccandogli un’occhiata da incenerirlo.
«Io
– ribatté lui acre, uccidendola telepaticamente – perché i miei sono doppi,
avendo giacca e pantaloni».
Alla
menzione dei pantaloni il volto di lei sbiancò. Orribili immagini di antichi
affronti maschili le tornarono alla memoria. Rivisse il dramma della sua vita
angariata da uomini in calzoni, ed urlò: «Adesso, basta!». Era il punto del non
ritorno; era la GUERRA.
Scattò
la moviola, e tutto si svolse al ralenty
come per un goal di Maradona.
Afferrarono
entrambi il proprio cuscino: l’arma più terribile a portata di mano. Lo sollevarono
sopra la testa, lo puntarono e se lo scagliarono contro con una forza pari a 12
profiterols da 3.000 mega-calorie
l’uno.
Spaventoso!
I
cuscini s’innalzarono lenti, immensi, maestosi. S’incurvarono, descrissero un
ampio semiarco romanico, s’intercettarono al culmine della parabola e si
scontrarono.
Deflagarono
con discrezione, provocando un ppppppah!
ovattato.
Le
penne, liberate dalla fodera, fluttuarono lentamente, scoperchiarono il tetto
di cartone (i Russi non sanno che le case americane sono di carta pressata) e
volarono, volarono, volarono “nel blu dipinto di blù, felici di stare lassù”,
mentre l’onda d’urto dell’esplosione rotolava da uno spiraglio della finestra
nella strada sottostante e si dirigeva ad est, verso la Casa Bianca.
Nel suo
passaggio non risparmiò niente e nessuno: non salutò il guardiano notturno
dell’hotel, strappò con disprezzo l’insegna dell’attigua ambasciata
nicaraguense, buttò giù le bacheche della vicina Washington University,
scompaginò più in là gli atti del premio “B.A. Houssau” custoditi in una stanza
dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani, detta in americano OAS, Organization of American States), e si
sarebbe riversata con conseguenze incalcolabili nella White House’s Ellipse se
la mole massiccia dell’Executive Office Building (dove s’immolano TUTTI GLI
UOMINI DEL PRESIDENTE) non si fosse frapposta fra il mostruoso refolo d’aria e
la Culla dei destini dell’Umanità...
Esaurì
la sua carica nel Mall, visitando gli Smithsonian Instituts. (Alcuni mormorano
che si sia persa nella visione di Dream
is Alive al National Air and Space Museum).
Intanto
le penne, dopo essere arrivate “più in alto del sole ed ancora più su”,
cominciarono a ricadere dondolando sulla città addormentata (con un occhio solo
perché l’altro vigila sempre sulle continue sparate di Gheddafi e sugli
sproloqui di Bettino Craxi).
Le
prime a venir giù furono quelle di lei, più pesanti, più deleterie, perché
cercava da tempo un marito idoneo e voleva assolutamente riaccasarsi in vista
degli “anta”: erano penne all’arrabbiata.
Occultarono
alla vista dei turisti il frontone greco della Supreme Curt Building, essendo
ridicolo; scherzarono coi boriosi marmi della Statuary Hall of The Capitol;
imbrattarono di bianco i muri beige
della Casa Bianca; scarabocchiarono i disegni persiani dei tappeti dell’Oval
Office, dove il Presidente (THE PRESIDENT) riceve only on formal occasions le più alte personalità dell’Orbe,
compreso Andreotti e, con adeguati tacchi a spillo, Amintore Fanfani;
turbinarono attorno alla pensosa statua di Abramo Licoln, al Lincoln Memorial,
per convincerla ad alzare la testa e dare un giudizio spassionato su Reagan;
saltarono a piè pari il chiosco del Jefferson Memorial in quanto non valeva la
pena fermarvisi; tracciarono sull’Arlington National Cemetary la frase latina “sic transit gloria mundi” usando per il
puntino dell’ultima “i” la grande testa di bronzo di John F. Kennedy prelevata
dal Gran Foyer del Kennedy Center; e, infine, pietose, ricoprirono per sempre
le vergogne del Water Gate.
Le penne
di lui, invece, arrivarono dopo, con calma, essendo meno incalzate dallo stato
civile.
Si
adagiarono lievi su Ginevra de’ Benci della National Gallery sussurrandole
dolci parole e tentandola a spogliarsi (sempre donnaiolo!); s’intrufolarono con
grida goliardiche fra i gabbiani della Seagull State by Ernesto Begni del
Piatta; finirono la notte bevendo birra a Georgetown.
All’alba
la città era tutta nascosta sotto una coltre di penne. Spuntava soltanto, al
centro, come monito al mondo, il fallo eretto del Washington Monument, un
obelisco alto 555 piedi americani.
Dal
torpido fall aut si salvarono solo
lui e lei.
Al
momento dello scoppio, consci del pericolo, avevano innestato il replay ed erano retrocessi al National
Airport. Ripreso l’aereo, se n’erano tornati quatti quatti in Europa, via New
York.
Mitico, professore!
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