di Giuseppe Corongiu
La presunta “ratifica” della Carta Europea delle Lingue
regionali e minoritarie di qualche settimana fa, nonostante qualche scivolone
di interpretazione procedurale e l’ottimismo ingiustificato dell’ufficio stampa
del Governo di Roma, ha scatenato una nuova ondata di interesse per la
questione mai sopita, e però mai esaltata, della nostra lingua
“regionale”. Tutto sommato, anche se la vicenda politico-giuridica è
ancora da definire, è stato un fatto positivo proprio per questo afflato di
nuovo affetto per la questione linguistica sarda. Quando si accendono i
riflettori su questa vecchia ferita che non vuole rimarginarsi, è sempre un
bene. Perché per il resto, poi, la vita quotidiana di chi si occupa di politica
linguistica in Sardegna, è grama tra polemiche inutili, indifferenza diffusa e
sufficienza di giudizio e di impegno.
Conoscendo la natura rispettosamente deferente del senso comune
dei sardi, anche della classe dirigente, nei confronti delle gerarchie e dei
profili istituzionali, soprattutto romani, non c’era dubbio sul fatto che una
presa di posizione, anche se minima, da parte del Consiglio dei Ministri,
avrebbe provocato una nuova e superiore sensibilità nei confronti della
politica linguistica della lingua sarda, tema solitamente ritenuto non
prioritario nell’agenda politico-giornalistico-sociale. Sensibilità, purtroppo,
a volte, effimera. A torto, secondo me, ma si sa il mio è un parere di parte di
una professionalità giudicata, e ritenuta da alcuni, troppo “militante”.
Qualsiasi cosa ciò voglia dire di un tecnico professionista in un settore
spesso poco scandagliato da quelli che contano veramente.
E’ così è stato. Il Governo Romano compie un piccolo e tardivo
passo in avanti nel riconoscimento di diritto (perché di fatto la questione è
molto controversa) per la lingua sarda (e quella catalana di Alghero) e ciò
provoca un moto di entusiasmo, un rinnovato interesse e la ripresa di infinite
discussioni. Speriamo che non segua il silenzio e l’inerzia, soprattutto degli
intellettuali, anche quelli solo italofoni e italografi, quelli che dovrebbero
denunciare i soprusi culturali, ma che sul rischio che la nostra lingua si
estingua spesso preferiscono tacere. In genere, infatti, sul merito della
politica linguistica non si parla. Si sbraita invece spesso per offendere gli operatori
che, come è noto, sono solo . Più
volte, in questi anni, abbiamo sentito questa accusa. Non suffragata da prove,
ma si sa, gli stereotipi viaggiano automuniti. In mezzo alle varie banalità da
“bar dello sport” colpisce però soprattutto il silenzio reiterato dei media, o
la sordina malcelata (che è lo stesso), di quelli che potrebbero dettare
l’agenda politica, ma che non ritengono la questione “rilevante”. Il più delle
volte.
Come sa chiunque la ratifica dei trattati sopranazionali è
competenza del Parlamento per cui, il Governo, anche volendolo e dichiarandolo
non avrebbe potuto mai ratificare la Carta, come annunciato in prima battuta da
un fallace comunicato stampa. In realtà l’esecutivo guidato da Mario Monti ha
semplicemente approvato un disegno di legge che sarà poi discusso, e forse
approvato, dalle Camere. Un avanzamento, certo, anche importante, ma non
la tanto strombazzata “ratifica” che è ancora di là da venire. E chissà se
verrà nell’ultimo scampolo di questa legislatura, condannando di fatto
l’Italia a essere, insieme alle ultranazionaliste Francia e Grecia
(leggere a questo proposito le opere del friulano William Cisilino), gli unici
stati nazionali dell’area europea occidentale a non garantire un minimo di
tutela reale alle proprie minoranze. Pessima compagnia.
E certo, per gli italiani e i sardi, questo atteggiamento
antiliberale della Repubblica, che nega nei fatti un diritto collettivo
riconosciuto mondialmente, quello alla difesa della propria lingua, non è un
qualcosa di cui vantarsi.
Anche il fatto che il Governo, nel comunicato del 9 marzo, abbia
messo le mani avanti, sostenendo che si trattava solo di una formalità, visto
che nel 1999 si era approvata la legge 482/99 che riconosceva dodici lingue
minoritarie, non è esattamente condivisibile. La legge 482, anche se è stata
uno strumento importantissimo, già da diversi anni langue nell’assenza, o nella
estrema leggerezza, per non dire inconsistenza, di dotazioni finanziarie
sufficienti. Per l’annualità 2012, il Dipartimento degli Affari Regionali, ha
stanziato per le 12 lingue riconosciute la “bellezza” di 1 milione e 700 mila
euro (più o meno il costo del contributo a un artigiano per la realizzazione di
un capannone in un’are industriale non troppo importante). Nel 2001, tempi
d’oro, si viaggiava sui 10 milioni di euro. Inoltre, il livello di protezione
delle lingue assicurato dalla legge non è certo quello massimo che ci si
aspetterebbe. Nessun obbligo, nessuna tutela reale, nessuna efficacia
pianificativa linguistica. Solamente, la possibilità di tutelare con azioni
limitate “a progetto” e mirate la lingua nella scuola, all’università, nelle
amministrazioni pubbliche, nei media. La Rai, per dirne una, si è sempre
rifiutata, nonostante la legge, di sostenere e produrre in proprio i programmi
radiotelevisivi. E questo nonostante obblighi precisi derivanti da norme del
Contratto di Servizio. Quel poco che si fa, viene a fatto a spese delle Regioni
e in orari quasi inaccessibili. E senza controlli sulla qualità e sugli
obiettivi reali di rivitalizzazione linguistica (che è cosa diversa dalla
folclorizzazione e museificazione della lingua).
In realtà, stante la tradizione italiana monolingue e avversa a
qualsiasi tipo di multilinguismo, le uniche lingue ”altre” realmente tutelate
in Italia sono quelle protette da trattati internazionali imposti alla
Repubblica all’indomani della sconfitta dell’ultimo conflitto mondiale. Tedesco
in provincia di Bolzano, francese in Valle d’Aosta e Sloveno in Friuli (anche
se gli sloveni hanno dovuto aspettare fino al 2001 per vedere approvata una
legge sull’istruzione bilingue). Ladini e francoprovenzali, in Trentino-Alto
Adige e Valle d’Aosta, hanno beneficiato di rimbalzo delle maggiori tutele di
queste lingue minoritarie “privilegiate” perché confinanti con grandi potenze.
Per gli altri, soprattutto per sardi e friulani, che parlano le
lingue più importanti e diffuse in un vasto territorio “regionale”, la vita è
sempre stata grama. La stessa 482 non distingue tra piccole lingue d’enclave e
lingue regionali-nazionali e parla indistintamente di minoranze linguistiche
storiche. Fino alla recente sentenza della Corte Costituzionale del 2009 che,
cassando alcune parti di una legge regionale friulana del 2007, ha ribadito
alcuni paletti limitativi alle Regioni, in particolare in materia di istruzione
scolastica in lingua minoritaria. Sostanzialmente lo Stato, riconosce che
l’istruzione “in lingua” si può fare, ma avoca a se la competenza di legiferare
in materia sull’ordinamento scolastico e blocca ogni iniziativa regionale sulla
questione. Allo stesso tempo però non legifera, e non interviene concretamente,
nel senso di migliorare la 482 (che sul tema è evasiva e barocca) e quindi di
fatto blocca le 12 lingue sul limite della soglia principale delle autonomie
scolastiche. Un piede è dentro, ma l’altro è fuori. Precarietà ed episodicità
sono la conseguenza.
Di fatto lo Stato ha un atteggiamento ipocrita. Fa finta di
preoccuparsi delle minoranze per non incorrere in sanzioni o censure europee,
ma vieta alle Regioni di legiferare sul proprio territorio con la scusa di
“difendere” l’autonomia sacrosanta delle istituzioni scolastiche. In assenza di
previsioni specifiche statutarie, le istituzioni regionali, anche ad autonomia
speciale, devono inchinarsi alla supremazia della potestà statale che nella
riforma del titolo V non ha incluso al devoluzione di tale competenza.
A questo impasse, il Consiglio Regionale sardo, facendo tesoro
dell’esperienza friulana, aveva reagito giustamente e intelligentemente con la
legge 3 del 2009, mai impugnata dal Governo, che ha introdotto la possibilità
di insegnare il sardo in orario curricolare. Una “furbizia” legislativa che
sfruttava l’unico spiraglio giuridico esistente. Sempre “a progetto”,
sempre con limiti ordinativi e finanziari, ma con il merito di aver fatto
entrare il sardo a scuola dalla porta principale, senza relegarlo ai
“laboratori” pomeridiani. Novanta scuole hanno usufruito di questa legge, ma
certo, una misura di questo genere è una buona trovata di amministrazione
creativa, riempie un vuoto momentaneo, ma non basta e non può essere
considerata un approdo definitivo.
Il vero traguardo per le 12 lingue riconosciute dalla 482/99
dovrebbe essere una nuova legge dello Stato, sul modello di quella slovena del
2001, che consenta l’educazione completa bilingue nei territori di riferimento
delimitati. Oppure una modifica Costituzionale, o dei rispettivi Statuti sardo
e friulano, che consenta di approvare una legge quadro regionale con effetti
concreti sulle autonomie scolastiche.
Nel frattempo, ci si chiede, la questione della Ratifica della
Carta è decisiva e rilevante? Alcuni pensano di no. Io credo di si, soprattutto
se il livello di protezione per il sardo fosse innalzato rispetto alla 482/99.
Cosa difficile, ma non impossibile.
Per capire bene il problema, facciamo un poco di cronistoria.
Certo è un po’ faticoso, ma la fatica aiuta a informarsi e a informare bene.
Uno dei problemi della politica linguistica è proprio l’annosa mancanza e
penuria di tecnici competenti, relegati quasi sempre al ruolo di comparse.
Pertanto prevalgono gli ideologismi e i pressapochismi. Se, infatti,
l’argomento non vale la pena, non è in agenda, perché coltivare figure
professionalmente significative e invece non fidarsi dei soliti filologi
museificatori bipolari, degli esperti di folclore o degli ultimi arrivati
pensionati e dopolavoristi? Già, perché?
Si è detto che Il Consiglio dei Ministri nella recente seduta
del 9 marzo scorso ha approvato un disegno di legge con il quale si intende
proporre al Parlamento il testo della Carta Europea delle lingue regionali o
Minoritarie del Consiglio d’Europa (adottata a Strasburgo il 05.11.1992,
entrata in vigore il 1° marzo 1998) che lo Stato italiano, dopo lunga attesa,
si appresta a ratificare dopo averla sottoscritta.
Il testo del disegno di legge, che ancora mentre si scrive non è
pubblico, andrà in visione e discussione alle due Camere per la definitiva
approvazione. Prima del passaggio alla Camere, il testo sarà visionato dal
Quirinale. Il 4 aprile alla Camera, cominceranno le audizioni della commissione
competente. Si parte da due proposte quelle di Zeller e Mecacci. Non essendo
pacifica la ratifica, e neppure il contenuto del provvedimento legislativo,
sarebbe opportuna una vigilanza costruttiva della Regione, e dei Parlamentari
sardi, al massimo livello istituzionale, sull’iter del provvedimento. Con
azioni concrete e incisive.
A questo proposito, a mio parere, il Presidente della Regione
Ugo Cappellacci, in quanto rappresentante istituzionale del popolo sardo, bene
ha fatto a sollecitare l’attenzione di deputati e senatori al fine di vigilare
sull’approvazione della Carta. E bene hanno fatto alcuni parlamentari sardi, a
rispondere all’appello e a dichiarasi disponibili. Cosi come si capisce che
altri sono sensibili al problema.
L’attuazione della Carta, infatti, potrebbe essere molto
importante per la Regione Autonoma della Sardegna, perché, dal momento in cui
il Parlamento la dovesse ratificare, lo Stato sarebbe obbligato a garantire il
livello di protezione minima delle lingue regionali o minoritarie, e garantire
obbligatoriamente, pena l’intervento sanzionatorio dell’Europa, tutta una serie
di misure di promozione e tutela a scuola, nella pubblica amministrazione, nei
media, nella RAI, nell’economia, nel sociale e nelle università.
Questo solleciterebbe anche, da parte dello Stato, un obbligo a
congrui interventi finanziari a sostegno delle politiche linguistiche della
Regione o degli Enti locali come già in parte si fa grazie alla legge statale
482/99.
Già in passato, il Parlamento con un disegno di legge, approvato
dalla Camera dei Deputati il 16 ottobre 2003, aveva previsto la ratifica della
Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie, dopo aver già effettuato
con la legge del 15 dicembre del 1999 n. 482 (art. 2) il riconoscimento delle
minoranze linguistiche storiche esistenti su tutto il territorio statale, dando
così attuazione all’art. 6 della Costituzione. Per la Sardegna, con la legge
citata, venivano individuate e legittimate due minoranze linguistiche storiche:
il sardo e il catalano di Alghero.
Nel 2007, l’identico iter veniva riproposto con una nuova
approvazione da parte della Camera dei Deputati, ma il provvedimento veniva
affossato al Senato in particolare per l’opposizione e la netta contrarietà
della Lega. Da allora, il disegno di legge non era stato più riproposto fino
alla riunione del Consiglio dei Ministri del 9 marzo u.s., in particolare per
le pressioni esercitate dalla CONFEMILI, organizzazione storica delle minoranze
linguistiche italiane, presieduta da Domenico Morelli.
Non vi è dubbio che l’adozione di questa Carta rappresenti un
passo molto importante nella tutela delle lingue minoritarie presenti su tutto
il territorio, ma la sua efficacia dipenderà dalle misure di salvaguardia che
il Parlamento indicherà al momento della ratifica. Per tale motivo si intende
richiamare l’attenzione sul meccanismo di attuazione previsto dalla stessa
Carta, la quale in considerazione delle condizioni specifiche e delle
tradizioni storiche proprie di ciascuna regione dei Paesi d’Europa, ha previsto
che gli Stati siano liberi, al momento della ratifica, di individuare, non solo
le lingue oggetto di tutela, ma anche le misure da adottare per la loro
salvaguardia.
L’unico vincolo per gli Stati ratificanti (art. 2 della Carta) è
quello di assicurare l’applicazione di almeno trentacinque paragrafi scelti tra
le disposizioni della Parte III della Convenzione. Nel testo finale, quindi, in
assenza di sorveglianza politica costruttiva potrebbe emergere la cruda realtà
di una lingua sarda che non solo non conferma o estende le sue norme di tutela,
e quindi i suoi ambiti di utilizzo, ma anzi rischia di perderne la gran parte.
Tutto ciò pensiamo non per cattiva volontà o insipienza, ma per una difficoltà
intrinseca del meccanismo previsto per la ratifica della Carta che può
sicuramente trarre in inganno più d’uno. Ed è utile dunque esserne informati.
Il documento approvato dall’Unione Europea prevede infatti, una
serie di livelli e ipotesi di protezione e garanzie per le lingue, lasciando
poi liberi gli Stati di scegliere il grado di tutela nei diversi settori
dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione, della giustizia, dell’economia
e della sanità. Va da sé che, per assicurare l’istruzione nella lingua
minoritaria o assicurare una parte rilevante dell’istruzione nella relativa
lingua, così come per assicurare la diffusione e l’uso della lingua minoritaria
nella vita pubblica ossia nei rapporti con la pubblica amministrazione, davanti
all’autorità giudiziaria o nello svolgimento di un’attività economica,
sia necessario che in legge venga scelto un livello di protezione “alto” e non
“basso”. Una scelta di protezione di livello “basso” potrebbe comportare anche
un arretramento rispetto alle conquiste fatte con la legge 482/99.
E ci sono voci a Roma, negli ambienti ben informati, che
sostengono, che per il sardo e friulano si sta preparando una “trappola” di
questo genere. Come del resto si era già tentato anche in passato, nel 2007.
Insomma, una beffa scontata dopo il prevedibile e spontaneo giubilo.
Certo, la legge 482 sarebbe comunque in vigore e sarebbero fatte
salve le norme più favorevoli, ma un abbassamento “ideale” del livello di
protezione del sardo (o del friulano o delle altre lingue) potrebbe rendere
inefficace l’uso della Carta quale strumento di diritto per richiamare l’Italia
ai suoi obblighi di tutela in sede europea. Anzi, ipocritamente l’Italia, in
questa sciagurata ipotesi, potrebbe anche sostenere la paradossale ipotesi di
tutelare le “sue” lingue anche oltre i limiti imposti della Carta.
Il solito fariseismo italico in materia di protezione
linguistica.
Innalzare il livello di protezione nella Carta, invece, potrebbe
creare le condizioni in un prossimo vicinissimo futuro per l’approvazione di
leggi più favorevoli per la tutela, in particolare per quella scolastica delle
lingue minoritarie. Vale la pena cogliere la palla al balzo? Sfruttare
l’occasione invece che lasciarla correre? Si convinceranno la classe dirigente
sarda, l’opinione pubblica, il ceto medio istruito della splendida risorsa che
ha la Sardegna nel possedere una lingua propria (insieme ad altre) e che
formidabile arma di identificazione comunitaria questa possa diventare?
La risposta a chi legge. Il parere di chi scrive credo sia noto.
Io credo che sia utile dunque vigilare a ogni livello
nella speranza di assecondare costruttivamente l’iter del Parlamento cercando
di far valere le proprie ragioni in materia di protezione linguistica, in
accordo con le altre minoranze. In ciò non ci aiuterà l’atteggiamento
antiliberale di fatto, se non di principio, della Repubblica, che ancora fino
al 15 dicembre 1999, non aveva fatto altro che proseguire la politica
linguistica di glotto-genocidio del Regime fascista e del Regno sabaudo. Del
resto, la protezione delle minoranze linguistiche interne riconosciute è una
questione di rispetto dei diritti civili e della diversità. L’Italia non può
sottrarsi, così come l’Europa dovrà pretendere, oltre che al rispetto
della regolarità dei bilanci, anche a quello delle salvaguardia delle
lingue riconosciute e presenti sul suo territorio.
Farsi “audire” dalle commissione competenti sarebbe utile. Anche
delle semplici interrogazioni o interpellanze parlamentari sul contenuto dei
disegno di legge e sul livello di protezione assegnato al sardo potrebbero
essere efficaci. Anche l’attenzione al e dal Parlamento Europeo.
Il riconoscimento effettivo di minoranza linguistico-nazionale
per la Sardegna, tutelato dal Consiglio d’Europa e dalla ratifica della Carta,
anche in considerazione dell’applicazione per la Sardegna della “Convenzione
quadro per la protezione delle minoranze nazionali”, potrebbe essere
propedeutico anche alla problematica dei seggi rappresentativi dedicati della
Sardegna al Parlamento Europeo, al di là dell’annosa questione della
ridefinizione dei collegi elettorali e di una legge statale, anche quella, che
potrebbe essere modificata per intervento europeo su violazione accertata dei
trattati.
Basta volerlo: la volontà
dei popoli, assecondata dalle élite che contano, muove la storia. E salva le
lingue che sono patrimonio di tutti. E salva la dignità di ognuno.
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