Rieccolo Brunetta con il suo pallino di abolire le regioni speciali, rendendo speciali tutte le 20 regioni della Repubblica e quindi nessuna speciale. Questa sua fissazione riemerge, come un fiume carsico, di tanto in tanto, ogni volta che si accorge che nel suo libro mastro di buon ragioniere, il dare e l’avere non tornano. Intendiamoci, dal punto di vista contabile ed economico, Renato Brunetta non ha torto.
“Le attuali Regioni a Statuto speciale” dice il ministro “sono istituzioni della Repubblica che per 50-60 anni hanno, chi bene, chi meno bene, goduto di un vantaggio finanziario. Molti l’hanno usato bene, altri meno bene. Con il federalismo e il federalismo fiscale che stiamo realizzando, avremo tutte regioni a statuto speciale. Si giocherà non più sui trasferimenti maggiori, ma sull’efficienza, la qualità, la trasparenza, la produttività.” Ci sarebbe, a questo punto, da chiedersi, come ha fatto Paolo Maninchedda nel suo blog, che cavolo ci sta a fare, allora, questa “Unità della Repubblica” cui molti, penso anche Brunetta, tanto tengono.
Le nazioni diverse dall’italiana (insieme alla sarda, la sudtirolese, la slovena, la friulana, la ladina, la valdostana) stanno nella Repubblica unitaria perché questa ha assicurato loro, in Costituzione, che avranno una tutela differenziata: altrimenti, perché dovrebbero? Perché non dovrebbero cercare e trovare casa o per proprio conto o in altri stati europei che almeno parlano la stessa lingua? Il fatto è che, non so con quale consapevolezza, Renato Brunetta mi pare figlio di una cultura vetero marxista, quella stessa che impose ai Costituenti italiani una visione economicista delle autonomie.
Si “concesse” l’autonomia alle regioni, definendole speciali, non per le loro peculiarità linguistiche, culturali, storiche, identitarie, ma per ragioni economiche o geopolitiche. O per obbligo internazionale, nel caso della Valle d’Aosta, della Venezia Giulia, del Sud Tirolo, o per paura della rinascita del separatismo siciliano o, nel caso della Sardegna, per colmare un deficit di sviluppo. Se davvero fossero questi i fondamenti della specialità, Brunetta avrebbe una qualche ragione nel pensare superati i motivi delle peculiarità economiche e geopolitiche. Del resto non è il solo a pensarla così. Ieri, sulla Nuova Sardegna, Andrea Pubusa ha confermato che “la posizione del ministro in realtà esiste in continente non solo nell’area della destra, ma anche negli ambienti giuridici democratici, con i quali ho spesso polemizzato. Dicono in sostanza che le ragioni della specialità sono venute meno, quindi tutti vanno trattati allo stesso modo perché la specialità si configura come una posizione corporativa. Ma non considerano, per quanto riguarda almeno la Sardegna e in parte la Sicilia, che la ragione della specialità non è superabile e che resta, per tutte le implicazioni che questo comporta, anche la necessità di difendere il patrimonio culturale e identitario, che esiste dappertutto ma che altrove non è paragonabile a quello delle Regioni speciali”.
Questo è, infatti, il punto. Le ragioni della specialità non sono solo economiche, forse non lo sono affatto se si pensa a terre come la Calabria regione non speciale, ma soprattutto nazionali, nel senso che la peculiarità attiene a nazioni diverse da quella italiana. Per quanto riguarda la Sardegna, neppure il riconosciuto svantaggio derivante dalla sua insularità è elemento primo della specialità. Mai capiti, ma se anche un domani a qualcuno venisse in mente di unire con ponti la Sardegna all’Italia, la sua specialità e unicità non verrebbe meno.
È necessario a questo punto, però, trasformare in norme di rango costituzionale quel che in Sardegna è ormai una visione maggioritaria dei fondamenti della nostra specialità. Sia nel programma di chi ha vinto sia di chi ha perso le elezioni di febbraio, la necessità di un nuovo statuto speciale è avvertita come prioritaria. In entrambi i programmi la questione della identità è centrale. L’insistenza di Brunetta potrebbe essere utilizzata per dare una accelerazione a questo processo di riscrittura.
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