sabato 30 giugno 2012

E adesso, poveri adoratori della "Sovranità Nazionale"?

L'Italia, e con essa la Spagna e persino l'iper unitarista Francia, si apprestano a cedere all'Europa altre quote di sovranità. È quel che comincia a risultare dall'incontro fra capi di stato e di governo, convocato per mettere un riparo alla crisi che rischia di portarsi via non solo la moneta unica ma la stessa unione europea. La questione – resa complicata dalla Santa Alleanza degli Adoratori degli Stati nazionali e della "Sovranità Nazionale" – a me sembra piuttosto semplice: l'Europa può salvare gli stati colti in difficoltà, ma in cambio pretende di guidare questo salvataggio. Un embrione di federalismo europeo, insomma, che non nasce dagli ideali ma dae s'apretu chi, narat su ditzu, ponet su betzu a cùrrere. So che gli spacca-capelli-in-quattro (nella mia lingua sos chi fàghent còrdula de musca) obietterebbero, ma al termine di lunghe acrobazie linguistiche lì cadrebbero.
Sono malignamente contento, immaginando gli equilibrismi di chi, sacerdote dell'unità e indivisibilità, dovrà spiegare perché sia una cosa buona spezzettare una delle qualità essenziali di quel dogma. Ma lo sono anche perché fin da giovinetto sono un convinto federalista europeo, così come ero sostenitore del federalismo italiano prima che i gattopardi dimostrassero di esser capaci di accettarlo per sputtanarlo.
Ma c'è un problema, che sicuramente prima o poi solleveranno quanti della sovranità della Sardegna farebbero volentieri un uso non proprio: “Com'è? Vorreste la sovranità della Sardegna, nel momento in cui l'Italia ne cede un'altra parte all'Europa?”. Un problema sollevato para fastidiar, chiaro. Noi vogliamo la nostra sovranità per contrattarne la cessione di quote se e quando sia utile e opportuno per noi. Proprio come si sta discutendo di fare o non fare fra stati grandi e possenti come la Germania e stati piccoli, e prosperi, come Malta. Che, per quel che sappiamo, non ha i problemi drammatici di Italia, Spagna, Francia, Grecia, che con la sua crisi sta inguaiando la “protetta” Cipro greca. La Sardegna – dicono gli Adoratori etc etc – è troppo piccola per reggere il peso economico della propria sovranità. Cavolate, se si ha la pazienza di vedere i dati economici dei “piccoli” a paragone di quelli dei “grandi”. La piccola Malta ha una disoccupazione al 5,7 per cento, la metà di quella italiana e di quella francese, e pari a quella tedesca. Ha avuto l'anno scorso una crescita del PIL del 2,1 per cento, cinque volte superiore a quella italiana. Ha quest'anno un rapporto tra debito e PIL del 74,8 per cento contro il 123,5% dell'Italia. Uno stato come l'Estonia, di grandezza simile alla Sardegna, ha più o meno la percentuale di disoccupati dell'Italia (10,8 contro il 10,2), ma il suo PIL è cresciuto del 7,6 per cento e un rapporto debito-PIL del 10,4 per cento.
Se aveste la pazienza di vedere i dati degli altri “piccoli” stati, vedreste come sia in mala fede chi dovesse insistere con quella baggianata. L'andamento dell'economia non ha alcun rapporto con la dimensione demografica o territoriale: ha rapporto con la politica dei governi. E, nel caso delle nazioni senza stato, ha rapporto con le quote di sovranità che i loro popoli sono riusciti a conquistare. La Spagna è, a quel che si dice, messa peggio dell'Italia, ma la Catalogna è assai più prospera della Sardegna oltre che della Spagna. La Catalogna non solo fa valere le sue quote di sovranità nello stato cui appartiene, ma anche in Europa. “Provinciali” anche i catalani? O, come sono sicuro, il provincialismo è il morbo che affligge quella parte – non piccola, purtroppo – della politica e della intellettualità isolane che mangiano e camminano in Sardegna con la testa altrove e in cuore il patema d'animo di apparire autonomi?
Lo capisco. Essere sovrani comporta qualche rischio, il più serio dei quali è di dover ragionare e agire senza il conforto degli stereotipi e di rassicuranti luoghi comuni. Come quello, appunto, che noi sardi saremmo destinati al disastro se a noi non pensasse l'Italia.

venerdì 29 giugno 2012

Colpire la nuora sardista perché compranda la suocera Pd


La parte più italianista del Pd in Sardegna si sta scagliando in questi giorni, apparentemente, contro gli indipendentisti e, in particolar modo, contro il Partito sardo. Lo hanno fatto Francesco Pigliaru e Giorgio Macciotta, in due articoli su La nuova Sardegna. Le loro tesi sono tutt’altro che nuove e ruotano intorno a due concetti: il Psd’az è corresponsabile del “malgoverno di Cappellacci”, la Sardegna da sola non ce la farebbe.
Il primo è ininfluente e con un progetto sovranista c’entra nulla, non perché falso ma perché non considera che cosa sarebbe capitato della loro ostilità al sovranismo nel caso in cui il Psd’az fosse alleato del Pd. Dell’altro concetto si parla, devo dire con noia, da decenni, ma se si vuole sentire, a proposito, la campana di un sovranista, consiglio la lettura del piccolo saggio (Oggi scende in campo Macciotta contro di noi, ma sbaglia i conti economici e politici) pubblicato da Paolo Maninchedda sul suo blog.
Ma, dicevo, il bersaglio a me sembra più apparente che reale. È probabile che i due esponenti della sinistra intendano imputare la battaglia sulla sovranità della Sardegna a uno scontro fra la destra (depositaria del sovranismo, insieme a quanti, come una parte della stessa sinistra, “fanno il gioco della destra”) e la sinistra, difensora della immutabilità della Costituzione italiana. O, in maniera meno schematica, che intendano ripetere, adeguandola ai tempi, la campagna che nell’immediato dopo guerra la sinistra in Sardegna condusse contro l’autonomia regionale, cavalcata – si disse allora – dalla destra per conservare i propri privilegi di classe. Allora, la sinistra del Pci e del Psi cambiarono rotta per il deciso e pesante intervento di Togliatti in appoggio ai comunisti e ai socialisti autonomisti.
Non mi pare che i sovranisti del Pd – contro cui mi paiono diretti principalmente gli strali di Pigliaru e di Macciotta – possano trovare una sponda romana per il progetto che, a quel che si sussurra, avrebbero in testa. Candidare alla presidenza della Regione la scrittrice in lingua italiana Michela Murgia che, come è noto, fa sfoggio del suo curioso indipendentismo: non-nazionalista, non-sardista, non-linguistico non-identitario ma solo economicista. Come dire: che male fa la nostra indipendenza? La nostra lingua è l’italiano, la nostra nazione è l’Italia, la nostra identità è quella che individualmente abbiamo e così e così.
Che questa sia la soluzione vagheggiata da una parte importante della sinistra è cosa che ha ormai smesso di rumoreggiare solamente: c’è – assicura chi sta dentro le cose – un trust di cervelli che sta preparando l’uovo pasquale per l’anno prossimo, se non addirittura uno spuntino di fine autunno. E se è vero che a destra non pullulano i candidati alla successione di Cappellacci, la sinistra non è meglio messa nella ricerca di un successore di Renato Soru. Di qui, l’idea che sta girando da tempo: candidare chi darebbe un brivido indipendentista senza pagare lo scotto del dover poi attuare una politica indipendentista

martedì 26 giugno 2012

Solo uno scherzo? Intanto sono senza mail

Un imbecille, ma non un imbecille qualunque, ha fatto uno scherzo a centinaia di miei amici e un altro pesantissimo a me. Agli indirizzi della mia rubrica elettronica ha inviato questo messaggio:
"Mi auguro di poterci trovare questa volta, Io ho fatto un viaggio a  Londra, UK e mi hanno rubato la mia borsa con il passaporto e gli affetti personali. L'ambasciata mi ha solo rilasciato un passaporto temporaneo ma Io devo pagare il biglietto e saldare le fatture alberghiere. Io ho fatto contattare la noia banca ma mi ci vorrebbero 5 giorni lavorativi per accedere ai fondi nel conto da Londra.
Western Union transfer è la migliore opzione per inviarmi denaro. Fammi sapere se hai bisogno dei miei dati (nome completo/località) per fare il trasferimento. Puoi raggiungermi via email o telefono Blue Island Hotel +447024030611". Alle decine di amici e parenti che mi hanno telefonato e che ringrazio, ho già detto che si è trattato o di uno scherzo idiota o di un tentativo di truffa.
Agli altri che so mi hanno scritto non posso rispondere: o lo stesso imbecille o qualche altro è riuscito, non so come, a cancellare tutte le mail di anni e anni e tutta la rubrica di indirizzi elettronici. Sciocco io a non averla duplicata.
Il vecchio indirizzo elettronico non spedisce e non riceve più. Prego, scongiuro, chi mi legge di inviarmi il suo indirizzo a questo mio nuovo: gianfranco.pintore@gmail.com in modo che possa ricostituirmi un indirizzario nuovo.

Passami la cipria: c'è Oppi da imbellettare

Non è che ora, dopo la sberla presa dai “centristi” ad Oristano (meritatamente conquistata dal centro sinistra), il principe democristiano Giorgio Oppi, diventerà improvvisamente buono? E che, come ritiene l'amico Vito Biolchini, sia ben accolto a casa dei migliori? Gli basterà un benefico lavacro democratico (nel senso del Pd) per far dimenticare le accuse di clientelismo mossegli fino ad ieri? Per quel poco che conta il mio giudizio, Oppi è un politico eccezionalmente rappresentativo della politica politicante, comunque e dovunque si schieri. E se il Pd vorrà imbarcarselo, buon pro gli faccia, ma per l'amordiddio risparmi cipria e cerone.
I consiglieri regionali del partito di Oppi, l'Udc, hanno condiviso e approvato l'ordine del giorno sardista che diceva: Il Consiglio regionale, preso atto delle ripetute violazioni dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione da parte del Governo e dello Stato italiano nei confronti della Regione Sardegna, delibera di avviare una sessione speciale di lavori, aperta ai rappresentanti della società sarda, per la verifica dei rapporti di lealtà istituzionale, sociale e civile con lo Stato, che dovrebbero essere a fondamento della presenza e della permanenza della Regione Sardegna nella Repubblica italiana”. Lo hanno fatto senza chiarire se sono insieme sovranisti sardi e militanti del “Partito della Nazione” in costruzione in quella Italia rispetto alla quale si vorrebbero sovrani. So che, se mai Oppi mi leggesse, la risposta sarebbe: “Puro nominalismo”.
Nel progetto sovranista di Paolo Maninchedda di cui quell'ordine del giorno rappresenta una sorta di incipit, c'è un aspetto che non mi era chiaro: la somma di Udc, Idv, Sel, Psd'az, Api e Fli. Come dire la somma di carciofi, carote, pomodori che – ci hanno insegnato fin dalle medie – non si possono sommare. Una sua intervista con l'Unione sarda, a me, chiarisce alcune cose. E mi rincuora in un antico mio sogno: una Sardegna, normale nazione senza stato, in cui le distinzioni e i contrasti avvengono non fra una sinistra e una destra italo-dipendenti, ma fra fautori della sovranità della Sardegna e suoi avversari. Entrambi, sia chiaro, portatori di legittime idee e prospettive politiche, ma non affogate in un minestrone preparato fuori dalla Sardegna da una compagnia di catering italiana. La sinistra e la destra, se mai avessero ancora diritto di cittadinanza nella politica, sono dislocazioni ideali rispetto a un punto di vista. Voglio dire, come situare l'insieme di quanti hanno votato quell'ordine del giorno, Psd'az, Udc, Sel, Idv, Api, Fli? C'è chi se l'è cavata con un anatema lanciato contro i vendoliani che “fanno il gioco della destra”. Appunto, un anatema.
Nella sua intervista, Paolo Maninchedda chiarisce. Prevede “un progetto credibile. Non fondato sull’eroismo indipendentista, di chi pensa più a perpetuare la sua immagine che a costruire uno Stato. Bisogna avere il coraggio di chiedere, in campagna elettorale, un mandato per fare cose dure: sacrifici per rendere la Sardegna più civile, colta, laboriosa. Serve un grande patto solidaristico: forse dovremo dire a chi ha uno stipendio buono che non si potrà creare occupazione senza rinunciare a qualcosa.” E, inoltre, immaginando una battaglia politica il cui “discrimine non sia centrodestra contro centrosinistra, ma Sardegna contro Italia. Federalisti europeisti contro unionisti”.
E fuga un dubbio, quello da cui ero partito: “Se si fa un accordo tra segreterie, la gente non lo capisce. Altro è se si crea qualcosa dal basso, anche con chi ha ruoli di partito ma fuori dalle liturgie partitiche.” Sarà così? Davvero chi altro non vede se non le liturgie partitiche si rassegnerebbe a partecipare ad un progetto sovranista che non lo veda come principale azionista? La politica che abbiamo conosciuto sconsiglierebbe di farci affidamento. Ma è anche vero che questa politica così praticata ha cominciato a prendere sberle terribili.

sabato 23 giugno 2012

Sos Zigantes stiano a Cabras. Giusto, e però...

Mettiamo che abbia ragione il dottor Marco Edoardo Minoja, soprintendente archeologico, quando lamenta di essere un incompreso e, soprattutto, di essere vittima di malevoli attacchi. Ma santo ragazzo, se mi posso permettere data la sua giovane età, se vuol essere compreso, si spieghi, dica cose chiare, comprensibili. Si da il fatto che circola in Internet una petizione, promossa da un gruppo di intellettuali fra cui Marcello Madau, Giulio Angioni, Carlo Tronchetti, Paolo Bernardini, Alberto Moravetti ed altri. Si tratta di una buona causa che personalmente sottoscrivo, pur se ha un retrogusto di lotta di potere: non si vuole che i Giganti di Monte Prama vengano smembrati, un po' a Cagliari, un po' a Cabras, un po' a Li Punti.
Questo sarebbe il disegno della Soprintendenza guidata da Minoja secondo i promotori della petizione ma è anche quel che si ricava da un contorto documento firmato dallo stesso Minoja che si può trovare nel sito della Soprintendenza e al quale rimando, chiedendo conforto ai lettori: non vorrei essermi perso nelle spire della irata risposta alla petizione. Questa chiede in sostanza che “il complesso di Monti Prama risieda nel territorio di Cabras, in una sede museale dedicata e adeguata a natura e importanza del ritrovamento” e che “tale allocazione sia da interfaccia alla ripresa delle ricerche nel sito, peraltro prevista”. No alla divisione delle statue, insomma.
Ma quando mai, risponde Marco Minoja, ma quale divisione. “La Soprintendenza per i Beni archeologici di Cagliari e Oristano, d’intesa con la Direzione Regionale, nell’imminenza della conclusione del restauro dell’eccezionale complesso archeologico di Mont’e Prama, ha presentato un progetto di valorizzazione del sistema museale articolato su più poli, a partire dal rinnovo degli spazi espositivi esistenti del Museo Nazionale di Cagliari, dalla destinazione del polo di S. Pancrazio a funzioni espositive e di servizi museali e aggiuntivi, dalla progettazione di un Sistema Museale per Mont’e Prama. Il Comitato, esaminata la documentazione e le relazioni che illustrano il progetto, esprime vivo apprezzamento per la scelta culturale e strategica che sottende questo Sistema museale diffuso che saprà contestualizzare il patrimonio archeologico nel territorio regionale, in modo organico e coerente, con attenzione tanto allo specifico contesto di rinvenimento, quanto al più ampio quadro archeologico della Sardegna, e avrà una positiva ricaduta sul piano culturale e turistico.
Che vuol dire? E che vuol dire, ancora che “la Soprintendenza ha valutato che la rinuncia alla visione integrale del complesso archeologico secondo il solo principio dell’unità di luogo sia una rinuncia ampiamente compensata dai benefici in termini di conoscenza, approfondimento, ricchezza espositiva, potenzialità narrativa, pluralità di approccio”? Qualcuno, esperto in arte della interpretazione potrebbe aiutarci a capire se, secondo Minoja, le statue di Monte Prama resteranno insieme o no?

PS – Mi è scappato di malignare circa la lotta di potere che potrebbe essere nascosta dietro il documento dei promotori della petizione. Perché lo suppongo? Intanto perché il soprintendente si è affrettato a rispondere pubblicamente, credo avendo letto le firme di archeologi come Tronchetti, Madau, Bernardini, Moravetti, Giuseppina Manca di Mores. Cosa che non ha fatto quando un'altra petizione popolare con migliaia di firme gli ha chiesto conto dei silenzi su quattro reperti iscritti e, pensa un po?, scomparsi. In secondo luogo perché è noto che Marco Minoja è stato nominato soprintendente sotto il governo Berlusconi e molti dei promotori della petizione sono noti per la loro passione anti-berlusconiana.
Io, comunque, l'ho firmata.

venerdì 22 giugno 2012

Toh, chi si rivede, S.E. l'intercettazione

Sembra passata un'era dal tempo in cui quotidianamente i giornali erano invasi da intercettazioni telefoniche. Ed è appena un anno fa. Pochissimi commentatori hanno avvertito, ai tempi di quelle scorrerie, il pericolo che non sarebbe finita con la messa in archivio di Berlusconi e dei suoi amici di avventura. Gran parte dei pochi erano politicamente interessati ed erano forse minoranza quanti lo facevano per timore che nel gioco della politica entrassero soggetti, come alcuni pm e/o loro collaboratori, che non hanno alcuna titolarità. “Ci dobbiamo render conto che questo modo di fare interessa oggi Berlusconi” era l'avvertimento “ma domani interesserà altri”.
Il pensiero unico – e comunque prevalente – era che la sconfitta del nemico valeva uno strappo alla democrazia, a quella bestiaccia che impone i cambi di governo attraverso il voto degli elettori e non i sospetti di reato, magari conditi di scene piccanti viste dal buco della serratura. Chi, come me, ha cercato di sottrarsi a questa unicità di ispirazione si è attirato su questo blog la critica di filo-berlusconismo e in altri blog accuse e diffamazioni variamente articolate. Soprattutto quando riflettevo sulla necessità che le intercettazioni restassero riservate e, se proprio dovevano finire sui giornali, fossero preventivamente purgate delle parti che niente a che fare avevano con i reati. Qualcuno ricorderà le bestialità circolanti all'epoca: “Voglio essere intercettato” et similia.
Capita ora quel che era immaginabile capitasse, dimesso(si) Berlusconi. O nessuno lo intercetta più o se lo si fa, le sue conversazioni non appaiono più sulla stampa. Adesso altri è nel mirino: niente meno che il presidente della Repubblica il quale, ovviamente e giustamente, invoca la regolamentazione delle intercettazioni e della loro diffusione. Confesso che ho per questo “scandalo” odierno lo stesso interesse che ho avuto nel passato per le paginate e paginate di colloqui carpiti ai tanti, e bipartisan, politici: nessuno. Mi interesserebbe, se mai se ne venisse a capo, sapere come e perché documenti di tanta importanza siano passati – oggi come nel passato – dall'ufficio di un pubblico ministero alle scrivanie dei cronisti giudiziari. I quali – non vorrei essere frainteso – fanno il loro mestiere pubblicando quanto arriva, più o meno clandestinamente, a loro conoscenza, senza chiedersi se davvero stanno partecipando, come si dice, al gioco al massacro del presidente del Consiglio, fortemente voluto da quello della Repubblica.

giovedì 21 giugno 2012

Il bronzetto nuragico di Othoca

Due belle notizie dalle campagne dell'Oristanese. La prima è che a Othoca, nei pressi di Santa Giusta, dalla terra un contadino, Mauro Patruno, ha tirato fuori uno dei bronzetti nuragici più grandi fra quelli rinvenuti. È alto 17 centimetri e rappresenta, forse, l'annuncio di un santuario esistente nella zona intorno – dicono gli archeologi – all'VIII-VII secolo. La seconda è che si comincerà a scavare a Cornus per capire, incidentelmente, se dalle rovine arriverà una risposta alla domanda se lì ci fosse davvero la città di Ampsicora. Dico incidentelmente, perché gli archeologi del Insitut für Klassische Archäologie di Berlino hanno per scopo principale quello di portare alla luce le strutture romane “per capire meglio la civiltà romana”, secondo quanto ha annunciato Salvatore De Vincenzo, l'archeologo che guiderà gli scavi.
Riferirò le notizie che ho letto su L'Unione sarda, lasciando ad altri di commentarle, come mi sa che sarà opportuno.
Il bronzetto - La figura è quella di un sacerdote, seduto e con in mano una foglia tenuta a mo' di ventaglio, che indossa veste e acconciatura riconducibili al mondo egizio”. La descrizione, secondo il quotidiano, è di Paolo Bernardini.
Il sito - “Si tratta ... con molta probabilità di un deposito votivo, un pezzo forse di una più ampia scultura rappresentante una vera e propria scena di celebrazioni”. Secondo Raimondo Zucca, riferisce il giornale, “tra il nono e l'ottavo secolo avanti Cristo le civiltà del Mediterraneo orientale (fenici, assiri, ciprioti, comunemente detti levantini) entrarono in contatto con l'antica Santa Giusta, la città di Othoca. Scambi commerciali e religiosi, che facevano del centro sardo un importante approdo per la presenza di un presunto ma ormai probabile santuario nuragico frequentato da tutti i popoli del Mediterraneo, un grande tempio a pozzo (nell'ipotesi più accreditata) oggi forse ancora rinvenibile nelle fondamenta del Ponte Romano dove l'equipe conduce gli scavi”.
Agli scavi a Cornus si è già accenato: si tratta di studiare l'insediamento romano e anche “strati precedenti a quelli romani e definire così la cronologia della fondazione della città”. E “per capire se, per esempio, è la Cornus di Ampsicora”. En passant, insomma.


mercoledì 20 giugno 2012

Custu zieddu mannu abberu


di Mikkelj Tzoroddu

Doveva essere il 25 di ottobre del 2008. Avevo portato il mio primo libro alla manifestazione annuale del Circolo Sardo dei Quattro Mori di Ostia, onde esporlo e farlo conoscere. Nel pomeriggio mi vidi venire incontro “custu zieddu, nieddu ke a maurreddinu”, con occhi anche nerissimi, vestito di tutto punto (come colui che tenga in un certo conto la propria persona e voglia conferire rispetto agli individui e i luoghi che intenda visitare), con cappello, giacca e cravatta vistosa (come spiccata e netta doveva sentire la propria personalità) e con un impermeabile per soprabito. Ci presentammo e chiestogli cosa facesse, seppi che era un “pensionato benestante”.
Mi narrò parte della sua vita movimentata, che lo vide recarsi in Australia, Russia, Inghilterra e Francia. Questo particolare, che mi riuscì di cogliere, me lo presentò come individuo assolutamente particolare. Noi sappiamo infatti come, i nostri corregionali, spinti dal fato a cercare altri lidi ove nidificare, si  recarono in Belgio, ove rimasero; approdarono in Germania, ove si crearono una famiglia; arrivarono in Francia, ove si ricostruirono una vita, ché tale è l’obiettivo dell’emigrante: trovare un posto, qualunque, ove poter dar fondo alle proprie capacità per mettere a punto, in terra, i propri sogni. Invece, “custu zieddu” aveva un animo inquieto, era sospinto da una vivacità sì dinamica, al punto che nessun luogo al mondo poteva appagare il suo infinito desiderio di scoprire cosa fosse più in là.
Credetti di capire l’origine di quella vigoria: era quell’intimo desiderio di conoscere se stessi, che aggredisce i puri d’animo, che devasta i pensieri dei buoni di spirito, i quali volano alto, non lambiti da terrene meschinità le quali non trovano aderenza sulla sfera, lustrata a specchio, che racchiude loro ideali, al tempo principio, modello e causa del divenire.  Da qualche decennio risiedeva ad Acilia, dopo essere stato dipendente “benestante” all’Italcable. In poche visite alla sua abitazione, mi resi conto che aveva raggiunto, da autodidatta, una qualche preparazione umanistica, trovandovisi testi in latino di alcuni autori classici. Mi resi anche conto essere il nostro zieddu, un cultore della narrativa francese, i cui testi conservava e leggeva nella prima lingua di edizione.
Aveva una sua idea politica. Era un comunista. Puro. Della prim’ora. Ammirevole, per esserlo ancora ad ottantacinque anni. Con un solo difetto: non si rendeva conto che il rosso d’oggi, era lontano anni luce dal suo puro idealismo. Da persona sola, aveva una maniacale attenzione verso la sistemazione di oggetti, all’interno dell’abitazione, ed attrezzi, nel piccolo, ma curatissimo orto e giardino, ove cresceva gli ortaggi di stagione e diversi alberi da frutto. Non potendovi mancare “sa ficu murisca”.  
Mi raccontò che, vivendo egli nel suo paese natìo, Orune, nel tempo stabilito, venne chiamato alla leva. Capitò, inconsapevole oggetto nelle mani dell’ala militare che gestiva i destini del Paese alla fine del 1944, nel capoluogo dell’altra isola maggiore. Il Fato stava per rendere chiaro allo stesso zieddu, la sua elevata struttura morale, quasi d’asceta votato all’Amore. Il Destino, o lo stesso Dio, stava per collocarlo in quell’Olimpo senza Stato, senza politicismi, privo di stupidismi umani, ove risiede il più puro amore, ma razionale, per il prossimo nostro.
La mattina del 19 di ottobre, fu caricato su camion, insieme ad altri 52 commilitoni (riforniti di due bombe e cinquanta proiettili ciascuno) e trasportato nelle vicinanze della prefettura, ove erano riuniti, certo esasperati, quattromila palermitani che “manifestavano contro il carovita che affamava il popolo”. L’obiettivo era categorico nella sua disgraziata crudezza: sedare “in tutti i modi” la manifestazione.
«Quando arrivammo (qualcuno dice fossero accolti da fitta sassaiola, ndr), vidi perfettamente che non era in corso alcun assalto. Quando la nostra colonna raggiunse alle spalle la folla, il tenente diede ordine di scendere e caricare i fucili. Fu un attimo. I soldati, a comando, cominciarono a sparare ad altezza d’uomo e a scagliare bombe. L’apocalisse. La gente scappava da tutte le parti La strada si riempì di morti e feriti».
158 feriti! 26 morti! La strage del pane!
Su zieddu, evidentemente provvisto d’un indipendente sistema analitico e freddo e rapido nel suo razionalismo, fu condotto (si pensi alla capacità d’astrazione del suo spirito eletto in quella sì terribile, complessa e coinvolgente evenienza) alla totale disobbedienza verso quello che ritenne un becero ordine.
Il fante Giovanni Pala, ventunenne, precursore di caratteri umani ancora lungi dal venire, era divenuto l’antesignano della non violenza. Al rientro alla caserma Scianna, restituì le due bombe e le cinquanta pallottole che gli erano state consegnate.


martedì 19 giugno 2012

Guardiamoci dai "giornalisti responsabili". Ma anche dai mistificatori

Una “stampa responsabile”, come piacerebbe a una parte della politica (sempre quella che pro tempore comanda), sarebbe insopportabile. E, tutto sommato, a rischio di servilismo. Dio ce ne scampi e liberi, dunque, da giornalisti e da editorialisti “responsabili”: volenti o nolenti rischiano di mettere a morte la libertà di stampa e con essa la democrazia. L'unica responsabilità che debbono assumersi, gli uni e gli altri, è di raccontare i fatti come sono o come a loro appaiono e, semmai, di commentarli dicendo con chiarezza che si tratta di un parere, non la obbiettiva realtà dei fatti.
Pistolotto necessario per non correre il rischio di essere messo fra coloro che addebitano alla stampa colpe altrui. I giornalisti, e i commentatori, non hanno colpe quando scrivono della corruzione di questo o quel politico, di questo o di quel giocatore di calcio, di questo o di quell'amministratore delegato. Ne hanno, e sono gigantesche, quando inventano fatti, o di proposito li travisano, in modo da poter sostenere una tesi. In questo modo di fare, l'informazione, la sostituzione del conosciuto allo sconosciuto, il certo all'incerto, è l'ultima delle preoccupazioni. E il fenomeno non riguarda solo la sfera della politica.
Due piccoli esempi di oggi. Su un quotidiano sardo, in prima pagina si trova questo titolo: “Terremoto al largo di Cagliari”. Vai a leggere e scopri che il sisma è avvenuto 234 chilometri dalla città sarda e a circa 200 dall'isola di Minorca nelle Baleari. Una misinformazione, insomma, in cui si bada più a fare sensazione che a dar una notizia. In altra parte, sempre oggi leggi di due rapinatori che avevano “l'inconfondibile accento baroniese-barbaricino”. Posto che questa definizione ha lo stesso valore di un “inconfondibile accento siculo-bergamasco”, che cosa c'entra questa sciocchezza con l'informazione? Comunque sia, si tratta di due episodi che vanno a sedimentarsi su altri e che giustificano la crescente perdita di credibilità dei giornalisti. Un giudizio qualunquista, naturalmente, che non fa distinzione fra quanti seriamente si sforzano di informare e chi no e che fa il paio con il qualunquismo nei confronti di chi fa politica. Politici tutti ladri è lo stesso di giornalisti tutti cialtroni.
Se nel campo della varia umanità la disinformazione è senza conseguenze se non per il fastidio che uno prova, nel campo della politica le conseguenze sono molto più gravi e sono tali da rendere più pesanti e quasi non emendabili le responsabilità dei politici che, in fatto di auto-delegittimazione, grazie a Dio, non si fanno mancare alcunché. Per giorni e giorni, siamo stati bombardati da notizie false sulla decisione dei Consiglieri regionali vuoi di aumentarsi le prebende vuoi di far finta di diminuirsele, mantenendole in realtà quel che era prima del referendum. Sappiamo che, in realtà, il Consiglio regionale ha provveduto a diminuire già nel passato gli emolumenti dei suoi membri e di aver deciso un ulteriore taglio del 30 per cento, dopo il referendum. Detto fra noi, a me di quanto prende un deputato del Parlamento sardo non importa un fico secco. Mi importa, e molto, che sappia fare un lavoro adeguato a quanto prende. Resta il fatto che gli emolumenti sono diminuiti e non aumentati e che gran parte della stampa ha raccontato frottole, alimentando il clima di populismo e di qualunquismo già di per sé pesante. Per colpa – non vorrei essere redarguito – dei politici, va da sé, ma non in questa occasione.
In questo clima sguazzano politici disinvolti che, chi sa perché?, si pensano tutelati come la moglie di Cesare. Nel suo sito, Renato Soru parla, fra l'altro, del “referendum che infatti aveva cancellato gli emolumenti dei consiglieri regionali”, ma “con l'improvviso voto notturno, tutto è tornato come prima”. Si sa, un politico non ha obbligo di rispettare la verità delle cose. In politica come in guerra tutto è permesso pur di sconfiggere il nemico, anzi, nel caso di Soru, i nemici che, a quel che pare sono molti, principalmente nel suo schieramento. Ho un dubbio: che questa licenza si possa estendere a giornalisti e commentatori, come Marcello Fois che, sempre nel sito di Soru, si lascia andare a una indignata invettiva contro i politici (immagino con l'esclusione di Renato Soru): “Avete guadagnato tanto che potreste permettervi di finirla gratis questa legislatura e invece, nottetempo, provate a riprendervi quanto un consultazione democratica vi ha tolto. Vergognatevi e tornatevene a casa”: Anche qui, la verità delle cose non ha alcuna importanza. Importante è partecipare al linciaggio e alla presa se non della Bastiglia almeno di La Pola. Vuoi che chi ha già salvato una volta la Sardegna non sia capace di farlo una seconda volta?

lunedì 18 giugno 2012

Gli Eroi di Monti ‘e Prama? sono gli archeologi

di Stella del Mattino e della Sera

“Il contadino che, nel marzo del 1974, arando ha smosso e sollevato dal terreno della Penisola del Sinis di Cabras una serie di statue di arenaria gessosa con cippi, colonne, capitelli, lastroni, conci e altre modanature in arenaria, e Giuseppe Atzori che ha dato subito notizia del rinvenimento sulla stampa, sono i personaggi dai quali è stato reso all’ archeologia ufficiale “disarmata”, il più straordinario e utile servizio che, da tempo, non offriva il contributo popolare degli “outsider””. Giovanni Lilliu ("Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica", in Studi Sardi, XXIV, 1975-77, pp. 73-144).  

In un processo di restyling della notizia che Atropa sintetizzerebbe con “girare la frittata” e “chi si loda s’imbroda” , l’archeologia si è invece oggi armata e rivendica per se stessa scoperta, diffusione capillare della notizia, valorizzazione delle statue del Sinis e loro accessori. Alcuni scambiano il brodo per alloro. Anzi per allora. Ora per allora la Soprintendenza ha infatti scoperto che le statue di Monti ‘e Prama sono un po’ importanti e se le è messe all’occhiello. Le mode vanno e tutti si infiorano. La guida ufficiale alla mostra si perita di non nominare neppure gli scopritori e i diffusori di notizia.
Tutti paiono aver dimenticato, grazie ad un benefico letargo neurale,  che nel lontano 1965 alla scoperta della testa di Narbolia il brodo fu differente: “ Data la grande presenza di reperti punici e la presunta assenza di una statuaria nuragica in pietra, il frammento di Banatou fu considerato in origine un reperto punico”.
Proviamo a traslare, su un brodo che ormai è stantio? “Data la grande presenza di scritte fenicio-puniche e la presunta assenza di una scrittura nuragica, tutte le epigrafi sarde della fine età del bronzo-inizio ferro furono considerate in origine reperti fenici”. La mangeremo presto questa frittata rivoltata? In quanti diranno “l’avevo pur detto io”? 

domenica 17 giugno 2012

Scusi, dov'è che si lincia il politico?

Paolo Maninchedda l'ha chiamata “estetica del linciaggio”: è quella innescata dagli apprendisti stregoni che dal di dentro della casta hanno promosso un referendum contro la casta. Hanno proposto (e noi votato) una norma che abolisce tout court gli emolumenti spacciandola per una che li avrebbe diminuiti. Si sono accorti che la cosa, oltre che idiota, era impossibile a realizzarsi senza il contemporaneo rivoluzionamento dello Statuto sardo che prevedesse il ritorno al tempo in cui i parlamentari dovevano camparsi con i propri mezzi. Il tempo, per essere chiari, in cui solo i ricchi e i benestanti potevano rappresentare i (pochi) cittadini ammessi al voto.
È chiaro che un giorno o l'altro, il Consiglio regionale avrebbe dovuto metter mano ad un norma che rimediasse alla sciocchezza dell'aver voluto abrogare l'articolo di legge secondo cui l'emolumento di un deputato sardo doveva essere l'80 per cento di quello percepito da un deputato italiano. I consiglieri avevano due strade praticabili: una era quella di stabilire uno stipendio inferiore a quello in uso, l'altra era quella di stabilirne uno più alto. La strada cara ai professionisti dell'anti-casta, quella del lavoro “a gratis” era preclusa, oltre che essere insopportabilmente populista e demagogica. Come spesso capita, il Consiglio ha trasformato un giusto provvedimento (stabilire l'entità del loro stipendio) in un bailamme: ancora oggi si sa che se lo sono diminuito, ma non di quanto. Il fatto che l'approvazione della norma sia avvenuta di notte, cosa in sé normalissima in tempi normali, non in questi propizi al linciaggio del politico, dà il segno di quanto la politica non abbia consapevolezza della pesantezza del clima creato, è vero da loro, i politici, ma anche dai professionisti dell'anti-casta.
In un commento “fuori post”, una lettrice e assidua commentatrice di questo blog, ha riferito che “a radio Capital, hanno detto che il governo Cappellacci, nonostante la crisi economica che sta attraversando la Sardegna, ha ottenuto, con l'appoggio del pd, l'aumento economico dei suoi parlamentari. E' un fatto gravissimo e mi chiedo se la popolazione sarda è stata informata di questa sconcezza.... sardi, italiani, mandiamo a casa questa gente immonda che pensa solo ai suoi sporchi interessi e non gliene importa niente del resto del popolo”. È su un simile concentrato di disinformazione e di mistificazione che è stata costruita l'indignazione di chi non cerca altro se non un conforto alla propria voglia di forca. È questa conserva di pessima informazione, impastata con un malessere sociale evidente, che produce anche il mostro delle lista di proscrizione, quella declamata ieri di fronte a due trecento persone: i nomi dei 63 consiglieri che hanno votato la norma sui nuovi emolumenti. Che sono diminuiti, ma chi se ne frega: il rogo è già stato acceso.
Vito Biolchini, commentando l'assalto al forno di ieri, parla di criptofascismo. Non solo questo articolo di Biolchini, lucido e fuori del coro come sempre, suggerisco di leggere, ma soprattutto i commenti, gran parte dei quali improntati al sostanzialismo, a quella mala piaga secondo cui quel che conta è la sostanza delle cose (la reità dei politici), non la loro attinenza alla realtà. La giustizia sommaria al potere, insomma. Non è un caso che qualcuno evochi il 1789 a Parigi.

PS – Ieri, fra gli altri atti rivoluzionari, i fischi al parlamentare dell'Idv Federico Palomba, noto anche come il Robespierre della Marina per la sua fama di politico incorruttibile. Non so a voi, a me quei fischi fanno correre un brivido lungo la schiena.

sabato 16 giugno 2012

L'inno di Mameli insegnato a scuola. E non è uno scherzo


Magari di Maria Coscia e di Paola Frassinetti, la prima del Pd, la seconda del Pdl, non resteranno grandi tracce negli annali del Parlamento italiano, ma una menzione sicuramente l’avranno. L’idea di far studiare a scuola l’inno di Mameli, insieme alla Divina Commedia, al Canto notturno del pastore errante e al Canzoniere, è loro. E niente meno che la Commissione cultura della Camera l’ha fatta propria, dopo che generazioni di parlamentari avevano anteposto il pudore alla tentazione di mostrare il proprio patriottismo con strumenti di retorica patriottarda.
Non è detto che la legge Coscia-Frassineti sia approvata prima della fine della legislatura, forse saranno individuate altre urgenze. Certo è che lo spettacolo di Roberto Chauvin Benigni, quello che aveva dato patria italiana a Scipione l’Africano, ricordate?, ha fatto scuola, anche grazie agli elogi sperticati fatti da gente che, pure, ha mostrato in altre occasioni di avere una cultura non banale. La sua esegesi di quei versi tronfi e ridondanti ampollosità sarà la guida alla lettura e allo studio a memoria della schiava di Roma che Iddio la creò? Credo – sono anzi sicuro – che gran parte degli insegnanti avranno quel po’ di decenza necessaria a insegnare ai loro discenti che versi come “I bimbi d'Italia /
Si chiaman Balillao “Stringiamci a coorte /
Siam pronti alla morte” è meglio dimenticarli che esaltarli.
I rappresentanti del Sud Tirolo hanno chiesto e ottenuto che gli studenti della loro nazionalità siano esentati dall’obbligo di studiare i versi dell’inno. Non mi pare di aver saputo che analoga richiesta sia stata fatta dai rappresentanti della Sardegna. C’è sempre tempo per rimediare a quel che pare una vendetta per aver, la Sardegna, dato i natali al padre di Goffredo.

venerdì 15 giugno 2012

Scrittura nuragica: gli Etruschi allievi dei Sardi (II)


Nella prima parte del suo articolo, Gigi Sanna descrive la stele trovata 28 anni fa nei pressi di Allai da Armando Saba e la definisce un reperto che sopporta un mix di scrittura romana, etrusca e nuragica
di Gigi Sanna

Cerchiamo ora di capire a fondo il dato dell'obliquità centrale che è chiaramente segnalata dal fatto che, come si è detto, le lettere iniziali della scritta in caratteri di tipologia romana si presentano tutte e tre sfalsate rispetto ad una linea teorica verticale. Se è vero che detta obliquità serve a notare il segmento che accostato agli altri due contribuisce a dare lo schema a zig-zag è vero anche che essa tende a segnalare, a mettere in una certa evidenza, i tre segni costituiti apparentemente da soli segni fonetici alfabetici. 
La parte etrusca dell'iscrizione
Infatti non è chi non capisca che lo scriba con i segni 'G' 'V' 'V' ha voluto realizzare anche dell'altro, ovvero degli ideogrammi nascosti così da comprendere nella scritta un dato ormai comune nelle lapidi mortuarie e cioè l'età del defunto. Ha scritto cioè il numero 110 (centodieci) approfittando del fatto che praenomen, nomen e cognomen di Giorre Utu Urridu ( il segno di C agglutinato a G e le due apparenti 'U' ) davano l'opportunità, grazie alla combinazione delle lettere iniziali, di rendere i simboli grafici numerici in uso nella numerazione convenzionale romana: C + V + V.
Si noti ancora che il dato numerico dell'età, ricavato con l'obliquità, consente ancora allo scriba di ottenere un esito davvero spettacolare: il fatto cioè che la lettera iniziale 'G' di GIORRE diventa organicamente di valore 'tre' (serpente, lettera alfabetica e lettera numerica); cosa questa che le consente di affiancare efficacemente il tre del serpentello a tre spire a sua volta affiancato dal tre della scritta etrusca in bustrofedico o, meglio, a serpente con tre spire.
Ora, l'età del defunto potrebbe sembrare sulle prime eccessiva, tale da inficiare l'ipotesi, se non osservassimo due aspetti ancora dell'iscrizione. Il primo è che lo scriba ha realizzato il manufatto sempre attento a rispettare ed esaltare il numero sacro e cioè il 'tre'. Quindi in ragione di ciò ha riportato sulla destra (con lettura destrorsa) il 'chi', ovvero l'identità del defunto a cui appartiene la lapide, il 'quando' (l'età della morte) e il 'come' o perché' di essa [sighi a lèghere].